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ALLA RICERCA DI NUOVE PROSPETTIVE : la frantumazione del Naturalismo

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ALLA RICERCA DI NUOVE PROSPETTIVE :

la frantumazione del Naturalismo

<<Oggi compio 28 anni. Il malcontento mio, di me e degli altri non potrebbe essere maggiore.>>1 L‟ultima decade dell‟Ottocento racchiude anni significativi per la produzione, soprattutto in ambito narrativo, sveviana. Sono anni durante il quale a livello biografico diversi avvenimenti si registrano nella vita di Svevo: il fidanzamento ed il matrimonio con Livia Veneziani, l‟ingresso nella fabbrica dei suoceri, i viaggi in Francia, Inghilterra ed Austria, ed ultimo, ma fortemente significativo, il fantomatico proposito di abbandonare la letteratura. Si tratta naturalmente di una promessa a cui Svevo non tiene fede, nonostante gli apparenti tentativi di auto-convincimento della futilità di <<quella cosa inutile che è la letteratura>>: tentativi di abbandono che ci ricordano così da vicino gli innumerevoli propositi di porre fine al vizio del fumo che costellano il carteggio tra Svevo e la moglie. È il Diario del fratello Elio a darci notizia della prima impresa narrativa di Italo Svevo: Una vita. Il nostro ambizioso autore, nonostante l‟incurabile disillusione, pubblica a proprie spese il romanzo nell‟autunno del 1892. Gli addetti ai lavori reagiscono in effetti in maniera relativamente fredda al romanzo dello scrittore triestino, con recensioni modeste e prive di particolari slanci lodativi.2 Una fra tutte, quella di Oliva, il quale a proposito del primo romanzo sveviano, scrive:

Tutto ciò non ha nulla di straordinario e non è una grande invenzione: ma, naturalmente, come vuole l‟indirizzo attuale dell‟arte, lo sforzo dell‟autore s‟è consumato nel fare un tipo, o meglio nel disegnare un carattere e nell‟analizzarlo con quella minuzia d‟analisi di cui oggi, forse, s‟abusa […] il romanzo in sostanza, non è del primo venuto.3

Il 1892 è anche l‟anno in cui, in occasione dei funerali del padre Francesco Schmitz, Svevo conosce Livia Veneziani, sua cugina di secondo grado, destinata a diventare, nel 1896, sua moglie. Il matrimonio viene celebrato con rito civile il 30 luglio, ed in chiesa l‟anno successivo, quando anche Svevo avrà ricevuto il sacramento del battesimo.

1 Lettere a Italo Svevo – Diario di Elio Schmitz, op. cit., p. 67. 2

Oltre a quella di Oliva, per cui cfr. nota 3, due recensioni anonime compaiono ne <<L‟ Indipendente>> e ne <<Il Piccolo>> del 27 novembre 1892.

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70 Passa un anno di vita insieme ed è tempo di bilanci per il nostro autore, che adempie a questa esigenza nella maniera prediletta: ricorrendo alla scrittura. Il resoconto si intitola Cronaca della famiglia:

Io, creato per la ribellione, l‟indifferenza, per la corruzione, sempre ammirato di quello che potrebbe essere e mai ossequiente a quello che è, mi sposai con la convinzione che si stava facendo un nuovissimo esperimento di sociologia, l‟unione di due uguali legati da un‟inclinazione che potrebbe essere stata anche momentanea, un‟unione da cui la gelosia doveva essere bandita dalla scienza cioè la rassegnazione alle cose e ai sentimenti esistenti, un‟unione che non imponeva a nessuno dei due un mutamento perché in fondo per stare insieme non si ha mica bisogno di somigliarsi! Mi sposai certo che se uno dei due avesse cambiato, quello non sarei stato io! Anzi volevo cambiare un po‟ mia moglie. Mi procurai alcuni libri di Schopenhauer, Marx, Bebel ( La donna) proponendomi non di imporli ma poco a poco di insinuarli. Invece dai nostri rapporti la letteratura, almeno quello che io specialmente, voleva, scomparve. Una volta sola si discussero le mie idee […] Poi mi si lasciarono le mie idee, e con abilissima, dolcissima politica si evitò di inquietarmi parlandomene. Già per quella borghese la cosa essenziale è di viver in buona pace con tutti e tenersi le proprie idee nella piccola testa difesa da tanti capelli, non le importa di convincere. Mentre noi siamo tutti apostoli di qualche idea o del nulla!4

Al di là della problematicità del rapporto matrimoniale (la gelosia, quasi morbosa è il sentimento predominante nelle lettere che Svevo indirizza alla moglie quando essa è lontana da lui, sottoponendo la donna quasi ad un interrogatorio, una richiesta di resoconto minuzioso e dettagliato delle attività svolte durante la propria giornata e della compagnia, il tutto infarcito di velate “ accuse”), quello che ci interessa dell‟epistolario sveviano a quest‟altezza cronologica è un frammento datato 26 maggio (1898) in cui Svevo accenna ad un primo marginale proposito di abbandonare la letteratura:

Assisto proprio alla fine dei miei sogni estetici e questo quando ci penso trovo che sia molto male. Forse se arrivo alla vecchiaia avrò tempo di pentirmene sentendo di avere offesa la mia intima natura mancando al compito a cui per 38 anni mi credetti nato.

Schwamm darüber. Il giorno in cui la vita pratica potrà esigere tale sacrificio non parlerò

mai più di sogni. Mentre allorché ci unimmo ti chiesi di sognare con me ora ti chiederò di aiutarmi a restare fisso nella vita reale con gli occhi spalancati attento ai ladri.5

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Cronaca di famiglia, in Italo Svevo. Epistolario, a cura di Bruno Maier, dell‟Oglio editore, Milano, 1966, pp. 65-69. Il proposito di cambiare la moglie non abbandonerà Svevo neanche nei mesi successivi alla redazione della Cronaca; tanto è vero che i propositi formulati si rinnoveranno in una lettera del maggio 1989 nella quale si legge << […] resto così come sono perché l‟unico mezzo per tenerti attaccata è di renderti più simile a me che m‟è possibile. Io credo che tu mi somigli già più di quanto credi e ogni qualvolta me ne accorgo ne gioisco; soffro intensamente quando mi scontro in te in idee che io non amo. Ne soffro come un artista che lasciandosi andare abbia messo nel proprio lavoro delle pennellate scolorite e volgari. Queste pennellate non possono farmi amare meno il mio caro quadro ma –se ne avrò il potere– queste pennellate le annullerò.>> Epistolario, op.cit., p. 110.

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71 La pubblicazione nel 1898, in 78 puntante (dal 15 giugno al 16 settembre) in appendice a L’Indipendente del secondo romanzo del nostro autore, Senilità, non deve intendersi come un‟incoerenza rispetto al precetto formulato nei mesi precedenti da Svevo. Il volume, edito ancora una volta a spese proprie, risponde più che altro alla segreta volontà di concessione di un‟ultima, decisiva, possibilità alla odiata-amata letteratura. Anche in questo caso il successo tarda ad arrivare. Le recensioni che accompagnano la pubblicazione del romanzo sono sporadiche e comunque molto modeste; tra queste troviamo quella di Silvio Benco su L’Indipendente, la stroncatura su Il sole di Cameroni, un articolo sul Marzocco, e pochi altri. È il colpo finale per Svevo: <<successo mancato equivale ad assoluzione negata>> dirà Saba qualche anno più tardi. Sono queste le premesse che lo spingono, quindi, a formulare il suo proposito di abbandono della letteratura :

Derivava la necessità della rinunzia. Il silenzio che aveva accolto l‟opera sua era troppo eloquente. La serietà della vita incombeva su di lui. Fu un proposito ferreo6.

La fine del decennio vede Svevo quindi impegnarsi nella <<vita pratica>> attraverso l‟ingresso nella ditta Veneziani, gestita dalla famiglia della moglie Livia: un‟industria di vernici sottomarine antivegetative e anticorrosive che andava estendendo il suo dominio commerciale in tutta Europa. Sono anni in cui Svevo cerca con tutto sé stesso di concentrare le sue energie in ambito lavorativo, sempre più convinto che la letteratura lo distolga dall‟esercizio della sua attività di commerciante. Tuttavia, sebbene Svevo riconosca che <<la letteratura evidentemente attenuava la mia capacità commerciale>> essa rimane la naturale predisposizione per il nostro autore, il quale, per non cedere ad essa, è costretto a dedicarsi al violino (<<pur d‟impedirmi il sogno letterario>>7 ammetterà). L‟idea che la letteratura lo disancorasse da quel mondo pratico e concreto cui, a dire la verità, l‟aveva spinto più la

6 Profilo autobiografico di Italo Svevo, in Italo Svevo scrittore. Italo Svevo nella sua nobile vita, op. cit., p. 11. 7 La passione per tale strumento musicale (che ricomparirà, neanche a dirlo, nella produzione sia narrativa che

teatrale), è resa nota dallo stesso autore, il quale, nell‟epistolario scrive: <<A Trieste potei organizzare un quartetto di dilettanti, dal violoncello di prim‟ordine, il primo violino un ottimo lettore, la viola un musicista di gusto. Il secondo violino (io) era il più laborioso e il più disgraziato. C‟era un grande affetto fra‟ quartettisti, tant‟è vero che quando io stonavo e perciò tutto il quartetto strideva come un‟adunanza di serpenti, nessuno guardava me. Io mi ripiegavo su me stesso e da vera serpe cercavo la mia coda per cacciarvi i denti e punirmi. Gran bella cosa l‟amicizia! Per essa anche quel quartetto diventava più letterario che musicale…[…]A Londra, nel sobborgo, la mia musica era più bassa. M‟ero associato ad un operaio del quartiere di Woolwich e a un bottegaio di Charlton. Ci trovavamo solo la domenica; eravamo tutt‟e tre dei violini e passammo ogni qualità di musica ridotta per tre violini. Io vi facevo il primo violino, e non per dire male dei miei cari vecchi compagni, meritavo quel posto. Figuratevi che cosa potessero essere gli altri. Per non parlare più di musica dirò che la guerra distrusse il nostro quartetto come tante altre cose. Era forse una cosa troppo vana per resistere nei nuovi tempi. Ve ne sono altre vanissime che nacquero ma le vecchie andarono via. Durante la guerra però se non avevo il quartetto, avevo la speranza di averlo a guerra finita e si può dire che io accompagnai tutta l‟orrenda tragedia dei miei suoni aritmici e stonati.>> Epistolario, op.cit., p. 869.

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72 cocente delusione che una ponderata presa di posizione, accompagnerà Svevo tutta la vita, se è vero che ancora negli ultimi anni prima della morte scriverà:

temevo che [le letteratura] m‟impedisse di fare il dovere che mi ero imposto a vantaggio mio, dei miei e anche dei miei soci. Era una questione d‟onestà, perché poco ci voleva ad accorgersi che se io leggevo o scrivevo una sola linea, il mio lavoro nella vita pratica era rovinato per una intera settimana.8

Si tratta comunque di un impegno gravoso, e, nonostante la fermezza dei propri propositi, mai Svevo riuscì veramente a << gettare la penna alle ortiche…religiosamente>>. È anzi forse per l‟auto-imposizione dell‟allontanamento dalla letteratura, che questa riprende ad esercitare il suo fascino magnetico nei confronti di Svevo:

Resto sempre dinanzi al nuovo oggetto l‟antico sognatore […] Deve esserci nel mio cervello qualche ruota che non sa cessare di fare quei romanzi che nessuno volle leggere si ribella e gira vertiginosamente te presente e assente 9.

La realtà è che la passione letteraria continua a sopravvivere negli appunti di diario, nelle bozze di commedie, nelle pagine dei racconti, nei saggi, nelle lettere redatte in questo periodo di fantomatica astinenza. D‟altro canto numerosi sono gli sforzi di sminuirne l‟essenzialità della sua passione, tenaci i tentativi di attenuare il proprio bisogno di “letteraturizzazione della vita”.

Noto questo diario della mia vita di questi ultimi anni senza propormi assolutamente di pubblicarlo. Io, a quest‟ora e definitivamente ho eliminata dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso queste pagine arrivare a capirmi meglio. L‟abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che con la penna in mano (come se il pensiero non fosse più utile e necessario al momento dell‟azione) mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m‟aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso del mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell‟attitudine stessa dell‟azione 10

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La letteratura diventa in questa prospettiva quindi una sorta di mezzo indagatore; l‟esercizio della pratica scrittoria si traduce in una modalità di reale conoscenza di sé stessi (alla maniera di Zeno Cosini, insomma).

La vita di Ettore Schmitz in questi anni si divide tra il tentativo di esorcizzare la propria naturale predisposizione letteraria ed i frequenti viaggi lavorativi in Francia e soprattutto in Inghilterra, dove si ferma per lunghi periodi. Qui è fortemente impegnato nel tentativo di

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Ivi, p. 789.

9 Ivi, p. 195. Lettera datata 6.6.1900. 10 Ivi, p. 75. Lettera datata 9.5.1898.

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73 impiantare una nuova fabbrica in terra inglese, ed i pochi momenti liberi li impiega andando a teatro. Lo spirito di attento indagatore di costumi ed usi sociali non esita a ritornare a galla tra le righe delle lettere che Svevo indirizza alla moglie Livia.

Per me un fatto era specialmente importante nel mio soggiorno nel sobborgo di Londra: l‟assenza di ogni e qualunque letteratura. Il cinematografo che ora a Londra in ogni più remoto cantuccio apporta se non letteratura la sua ombra integrata da musica, e linee e movimento che esprimono tragedia e farsa, non c‟era ancora. Le biblioteche anche popolari sono più ricche di buone opere economiche e legali che di buone opere letterarie.11

La scoperta dell‟Inghilterra, del costume e della mentalità inglesi, fu oggetto di spasmodica curiosità da parte di Svevo, come dimostra peraltro lo scambio epistolare con la moglie Livia. Poliedrico è l‟interesse che Svevo riserva alla cultura inglese: si appassiona alla politica, al teatro, al rugby, persino alla cronaca nera12; in questo senso perfettamente pertinente è la definizione di Maier il quale, nell‟Introduzione all‟ Epistolario di Svevo, scrive :

Non è forse perciò fuori luogo considerare l‟epistolario come un ricco e fecondo “ serbatoio” tematico per lo scrittore, o come una prima e iniziale maniera di dissodare e

disciplinare una materia psicologica oltremodo viva e incandescente, che potrà poi liberamente lievitare, in nuove misure inventive e fantastiche, nella prosa di romanzo e di racconto.13

Sono questi anche gli anni in cui, oltre ai viaggi di lavoro in Inghilterra, in Francia, occasionalmente in Austria, le evasioni musicali ed i primi tenui interessi verso la psicanalisi, si colloca un evento destinato a segnare decisamente le sorti della produzione (e della successiva promozione) di Italo Svevo: l‟incontro fortuito con James Joyce.

L‟autore irlandese, in seguito ai vari accidenti biografici che costellarono la sua vita, era capitato a Trieste nel 1904 insieme alla moglie Nora Barnacle, in cerca di un posto come insegnante di inglese presso la Berlitz School. I primi contatti tra i due intellettuali si

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Ivi, p. 609. Lettera datata 19.12.1911.

12<<Le distrazioni di Charlton, il sobborgo di Londra dove dimoravo per qualche mese all‟anno, non sono

grandi. Dopo una faticosa giornata avevo veramente il desiderio di correre in città. E passavo le serate a leggere alcuni giornali di Londra, specialmente i fattacci e i processi, la materia grezza per la mia cara letteratura che così mi perseguitava. Ricordo che nel 1903 fu ammazzata a Clapham Junction non lontano dal mio sobborgo in un treno la signorina Money il cui cadavere fu trovato in una galleria. Non se ne scoperse mai l‟assassino. Cominciò un‟indagine febbrile di tutta la vita della povera signorina e di tutti i suoi conoscenti dei luoghi dove essa aveva soggiornato o pei quali era passata. Io vissi intensamente quella caccia e sentivo l‟ansia ora del detective ed ora dell‟assassino. Un giorno si annunciava di aver scoperto una traccia, poi un‟altra, poi tutto si annullava per ricominciare l‟inchiesta su un‟altra via. E un giorno ne parlai con tanta vivacità ad un inglese ch‟egli per poco non corse alla vicina Police-station a denunziarmi. Io pensai con rancore: Quella benedetta letteratura. Non vuole lasciarmi. Finirà col condurmi alla forca.>> I. Svevo, [Soggiorno londinese] in M. Lavagetto, Italo Svevo. Teatro e Saggi, op.cit., p.899.

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74 stabilirono però non prima del 1906, quando Ettore, con la sua proverbiale coscienziosità, decide, in ottemperanza alla nuova politica espansiva adottata dalla ditta presso cui lavora, di migliorare il proprio inglese. Svevo l‟allievo; Joyce il maestro. Si tratta tuttavia di una gerarchizzazione di ruoli che lascia il tempo che trova, tanto profondi sono gli scambi intellettuali tra i due, e tanto evidenti i debiti letterari contratti vicendevolmente. L‟anomalia del rapporto tra Svevo e Joyce è peraltro evidenziata dalla signora Livia:

Fra il maestro oltremodo irregolare, ma d‟altissimo ingegno (conosceva diciotto lingue tra antiche e moderne) e lo scolaro d‟eccezione, le lezioni si svolgevano con un andamento fuori del comune. Non si faceva cenno della grammatica, si parlava di letteratura e si sorvolavano cento argomenti…Nonostante la differenza di età e di nazionalità l‟amicizia tra loro sorse immediata. L‟irlandese che non aveva mai parlato ad alcuno dei suoi lavori letterari, portò ben presto i suoi manoscritti a Villa Veneziani. Erano le poesie di Chamber Music e alcuni capitoli dei Dubliners .14

Il rapporto tra i due cresce in stima reciproca, culminando nella volontà da parte di Joyce di leggere i due romanzi del giovane scrittore triestino, passati per lo più sotto silenzio. Davanti al materiale letterario fornitogli dal suo giovane allievo, Joyce, come assicura Richard Ellmann, suo biografo:

con stupore scoprì che Schmitz era uno scrittore di notevole bravura. La garbata ironia della sua scrittura non era cosa a cui personalmente aspirasse, ma aveva un suo fascino. Il colore triestino – i nomi propri e certe frasi dialettali – lo attrasse quanto aveva disgustato i critici puristi italiani. Alla lezione successiva riportò i libri a Schmitz, e disse con la sua solita sicurezza: “ Lo sa che lei è uno scrittore ignorato? Ci sono dei passi, in Senilità, che neppure Anatole France avrebbe saputo scrivere meglio”. E ne citò alcuni a Schmitz che , sbalordito e confuso, dimenticò di andare a pranzo e riaccompagnò Joyce per un buon tratto, fino in centro, parlandogli tutto eccitato delle proprie ambizioni letterarie. Dopo quella discussione, Schmitz riprese a scrivere con maggiore serietà e impegno di quanto non avesse fatto anni prima .15

L‟illazione presente nel brano circa il presunto rinnovato impegno con cui Svevo tornò a rioccuparsi di letteratura, si presta certo ad essere accettata con la dovuta cautela: è vero che la letteratura, mutando forme, generi e vocazioni, non abbandonerà praticamente mai il nostro autore, tuttavia la mancanza di datazioni inequivocabili ci impedisce di pronunciarci con assoluta precisione in quest‟ambito. Sappiamo per certo, per esempio, che Un marito, indubbiamente la più impegnativa (almeno relativamente a questo periodo di composizione) ed atipica delle commedie di Svevo, fu terminata nel 1903, quindi qualche anno prima del presunto ritorno alla letteratura, ad ulteriore conferma del fatto che in realtà Svevo mai riuscì a divincolarsi dalla sua passione-ossessione, nonostante l‟apparente inattività letteraria. Ad

14 L. Veneziani Svevo, Vita di mio marito, op. cit., p. 84.

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75 ogni modo, sicuramente la gratificazione derivante dall‟apprezzamento dell‟irlandese sortì effetti positivi, se non altro sull‟autostima dell‟insicuro autore triestino:

L‟ammirazione ed il consenso di Joyce furono un balsamo miracoloso per la profonda ferita all‟amor proprio, sempre viva e bruciante. Appena allora cessò di guardare i suoi romanzi come degli errori giovanili. Prono sotto il verdetto negativo, il suo talento era rimasto sepolto nella <<tristezza del silenzio>>, come soleva dire. Ed ecco che l‟amico risvegliava in lui, e questa volta per sempre, lo scrittore.16

Riteniamo tuttavia interessante, in prospettiva della nostra indagine, soffermarci non tanto sul supposto effetto “ edificante” che il rapporto tra i due scrittori provocò in Svevo, quanto piuttosto sulla misura in cui due uomini così distanti, per personalità, lingua, biografia, età e formazione letteraria potessero influenzarsi vicendevolmente.

Al momento del loro incontro Joyce è infatti giovanissimo: ha poco più di venti anni ed è pieno di entusiasmo e creatività da esercitare in ambito letterario; Svevo, al contrario, è ormai un commerciante quarantacinquenne che combatte con la volontà di dimenticare il suo passato di scrittore.

La critica che si è occupata di studiare i rapporti e le influenze reciproche tra i due autori non è unanimemente concorde nel stabilirne i rapporti di interscambio culturale. Stanislaus Joyce, fratello del ben più noto James, ritiene infatti che negli scritti sveviani non sia presente nessunissima traccia dell‟ascendente letterario del fratello, e che solo in pochi brani di quest‟ultimo sia possibile rinvenire elementi riconducibili alla frequentazione con lo scrittore triestino. Dello stesso parere Bernard Wall, secondo il quale le motivazioni che spingono i due autori alla scrittura letteraria ne differenziano radicalmente gli esiti artistici, e la suggestione di influenza reciproca è dovuta semplicemente al fatto di far riferimento ad un comune Zeitgeist, (nello specifico la psicanalisi):

Mentre lo stile di Svevo scaturiva dalle profondità della sua coscienza, Joyce riteneva che il suo compito - come egli stesso afferma nelle ultime pagine del The portrait of the Artist

as a young man - fosse di esprimere la sepolta coscienza della razza irlandese. Con Ulysses e poi con Finnegans Wake, il suo strano e quasi indecifrabile capolavoro,

entriamo nel regno dell‟epica. Non c‟è niente di queste opere, nelle quali il temperamento appassionato dello scrittore irlandese è controllato ma non assente, che rassomigli all‟ironia che troviamo negli uomini spiritualmente vecchi di Italo Svevo.17

16 L. Veneziani, Vita di mio marito, op. cit. p. 87.

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76 D‟altro canto qualche anno prima, il critico inglese Harry Levin, studiando il carteggio tra i due autori non aveva potuto fare a meno di sottolineare, al contrario, le affinità artistiche tra <<questi due cittadini paradossali di Cosmopolis>> questi due <<scrittori senza patria, l‟universo dei quali rientrava nei confini di una sola città >>18

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Al di là delle influenze immediatamente percepibili nelle rispettive opere, è certo che l‟incontro con l‟autore irlandese si rivelò fondamentale per il nostro autore che, apparentemente risoluto e fermo nel proposito di non dedicare più tempo a <<quella cosa inutile che è la letteratura>>, in realtà continua, segretamente e quasi con un senso di vergogna, a dedicarsi alla sua passione: è proprio in questi anni infatti che, paradossalmente, Svevo scrive due delle commedie che sono state unanimemente definite dalla critica le più riuscite ( assieme alla più recente Rigenerazione) della produzione teatrale: L’avventura di Maria e Un marito. A questo punto della propria ricerca drammaturgica il teatro di Svevo si veste di un rinnovato spirito. Dai presupposti naturalistici di partenza ( seppur mediati dal filtro ironico-sarcastico che abbiamo discusso nel precedente capitolo) Svevo tende sempre più a distanziarsi, redigendo dei testi che, contaminati da un germinale processo di indagine psicologica dell‟oggetto narrativo, restituiscono un‟immagine variegata e sfaccettata della complessità della coscienza umana e che, pregni di tematiche che l‟autore svilupperà magistralmente nel capolavoro narrativo, La coscienza, ne anticipano gli esiti. E così, forti anche dell‟influenza dei grandi drammaturghi intimisti di inizio secolo, L’avventura di Maria ed Un marito, possono essere considerati come i punti di partenza per quel processo di maturazione teatrale del nostro autore, che porterà, passando attraverso Terzetto spezzato, Inferiorità e La verità, all‟incompiuto capolavoro teatrale sveviano: La rigenerazione.

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L’insofferenza dei personaggi nei propri ruoli: Maria, l’artista nel salotto

borghese

L’avventura di Maria, a differenza di altri inediti del nostro autore, viene pubblicata per la prima volta nel 1937 sulla rivista Il Convegno di Milano19. Riguardo al periodo di composizione della commedia, la critica ha formulato diverse ipotesi: Apollonio ha collocato il testo al decimo posto tra le commedie sveviane, spostando la redazione nel <<secondo ventennio>> del Novecento20. Giancarlo Vigorelli, otto anni più tardi, sottolineando la centralità del tema del violino e constatando la ripresa degli studi musicali di Svevo alla fine del 1917, ne condivide sostanzialmente l‟opinione21

(gli studi postumi di Ghidetti puntualizzano in realtà che già nel 1901 Svevo aveva ripreso gli studi del violino)22. Sulla stessa lunghezza d‟onda il Rimini, il quale addirittura parla di contemporaneità redazionale tra la Coscienza e l’Avventura, arrivando a considerare la protagonista della commedia, Maria, una <<proiezione femminile della figura di Cosini>>23. Sul versante opposto, Bruno Maier propone un deciso arretramento cronologico e considera la commedia redatta negli anni che vanno tra il 1892 ed il 1901.24 Lavagetto, salvo qualche precisazione in merito al termine post quem considerato dal Maier, essenzialmente sostiene la verosimiglianza dell‟ipotesi dello studioso: se Maier infatti motiva la scelta dell‟anno 1892 con la constatazione della presenza nel manoscritto dello pseudonimo Italo Svevo ( che ricordiamo essere stato utilizzato per la prima volta dallo scrittore proprio nello stesso anno, con la pubblicazione di Una vita), il Lavagetto, sulla scorta dell‟osservazione del motivo centrale del violino nella commedia e degli studi già citati di Ghidetti, tende ad avanzare di qualche anno la composizione della commedia, collocandola quindi proprio a cavallo tra i due secoli, e comunque prima del giugno 1903, quando Svevo porta a termine quello che è stato considerato il capolavoro tragico drammaturgico, Un marito. Il violino compare in effetti immancabilmente nelle lettere che Svevo indirizza alla moglie Livia durante il suo soggiorno londinese, configurandosi, tuttavia, come surrogato, una sorta di piacere sostitutivo della

19

XXIII, 5-6 (25 giugno 1937), pp. 173-238.

20 Italo Svevo. Commedie, a cura di U. Apollonio, Mondadori, Milano, 1960, pp. IX-XV.

21 G. Vigorelli, In atto la riscoperta del teatro di Svevo, <<Il Dramma>>, XLIV, 3, dicembre 1968. Altro avvallo

a tale proposta di datazione è fornito dall‟assenza di ogni influenza psicanalitica nello svolgimento e nella soluzione della commedia, non avendo ancora Svevo intrapreso in quegli anni la traduzione del saggio di Freud, Il sogno, eseguita poi nel 1918.

22 E. Ghidetti, Italo Svevo. La coscienza di un borghese triestino, op. cit, nota 30, p. 354,. 23

R. Rimini, La morte nel salotto, op. cit. p. 156.

24 B. Maier, Il teatro di Italo Svevo e la proposta di un’altra data per <<L’avventura di Maria>> in Saggi sulla

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78 letteratura. Si tratta certamente di una sostituzione non così efficace e rigorosa come Svevo sembra voler lasciar passare nel Profilo autobiografico : gli “anni del violino” sono anche in realtà anche gli anni dei diari, dei racconti, delle favole. E delle commedie. L’avventura di Maria, dunque, non solo si colloca proprio in questo contesto, ma anzi ne costituisce probabilmente una delle tappe fondamentali: nell‟aspro conflitto di Maria chiamata a scegliere tra la propria passione artistica e l‟adesione ai dettami di uno stile di vita borghese che non lascia spazi per questa, si evince a chiare lettere la trasposizione dell‟esperienza biografica di Svevo in relazione al complicato rapporto con la letteratura. Come Maria, Svevo, deluso dall‟insuccesso dei romanzi, è fortemente tentato di rinunciare alle proprie aspirazioni per immergersi completamene nel pacato e statico mondo borghese, accettandone convenzioni, apparenze e costumi e sacrificandogli la sua passione artistica. Si tratta insomma (e questa è una peculiarità dell‟attività letteraria sveviana) di uno dei casi emblematici di come l‟opera e l‟esperienza biografica di Svevo siano intrinsecamente legate l‟una all‟altra.

Molteplici sono gli elementi interni al testo che ci convincono della pertinenza dell‟ipotesi di collocazione della pièce teatrale a cavallo dei i due secoli. Il più evidente, senza ombra di dubbio risiede nella figura del critico Valzini, la quale conferisce alla commedia quella sfumatura biografica che aleggia nella quasi totalità della produzione teatrale sveviana. Egli, anomalo e bizzarro critico musicale, nonché << unico della città>>, è investito di un prestigio tale che <<leggono sempre le [sue] critiche >> gli stessi Verdi e Wagner. Di questa figura apprendiamo alla fine del primo atto dal vecchio possidente Cuppi, sedicente <<amico degli artisti>> che :

CUPPI – […] il nonno di Valzini è stato un grande musicista… per fargli piacere bisogna dirgli che lei lo conosce di fama, di nome. Anche suo padre ha scritto un‟opera che è stata data a Milano, capisce! Poi bisognerà che io le indichi i nomi delle romanze, tutte

per soprano, scritte dal nostro Valzini. Eccole: << L‟usignolo sul mandorlo>>… << Primavera campagnola>>…

Appare evidente che dietro il personaggio di Valzini si nasconde la malcerata delusione dello Svevo narratore, quello che non riesce a mandar giù quel silenzio assordante, quella assenza di interesse ed impassibilità che la critica ha rivolto ai propri romanzi. Del resto Svevo già in gioventù aveva affrontato la questione del ruolo assunto dal critico di professione, definendo il suo parere come determinante per il successo o meno di un‟opera presso il pubblico.25 Frustrazione, delusione e rabbia vengono quindi portati in scena da uno Svevo amareggiato

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79 che non esita a definire il pubblico annoiato e poco partecipe all‟esibizione di Maria, la violinista protagonista della commedia, una moltitudine di <<zucche vuote>>. A conferma di questo processo di trasposizione emotiva della rabbia e dell‟insoddisfazione del nostro misconosciuto autore, una battuta di Maria, enigmatica per la sua coincidenza quasi letterale con un‟autorecensione di Svevo tra le righe di una lettera inviata nel 1925 a Prezzolini26

:

MARIA – << [...] Fu un fiasco assoluto>>

Del resto già durante la collaborazione a L’ Indipendente, il quotidiano triestino cui partecipava in veste di critico letterario, Svevo aveva avuto modo di pronunciarsi riguardo alla situazione della critica italiana, alla quale imputava come maggiore colpa quella di aver impedito, con la sua rigidità ed inflessibilità, uno sviluppo dignitoso del teatro contemporaneo.27

Come nelle commedie precedenti, Svevo attinge al repertorio teatrale veristico-borghese di fine Ottocento ed inscrive la vicenda in un contesto ben noto ad autori come Giacosa, Torelli o Praga. Ancora una volta, però, l‟ironia di cui l‟autore si avvale nel dipingere un atmosfera siffatta, ci mette di fronte ad un castello borghese le cui fondamenta di cartone, palesemente instabili, vacillano pericolosamente ad ogni colpo assestatogli dalla pungente ironia sveviana.28 La maturazione tecnica e qualitativa delle commedie è percepibile man mano che si procede nel percorso cronologico del teatro sveviano. Se nelle commedie della “ prima fase” abbiamo imparato a riconoscere uno Svevo attento osservatore della realtà sociale, indagatore delle incoerenze e dei conflitti che la affliggono, in grado di captarne le contraddizioni e “restituirle” scenicamente, adesso siamo di fronte ad uno Svevo più consapevole e maturo anche tecnicamente. A questo livello egli non si accontenta più di

26

<<Dopo il fiasco assoluto di Senilità ( Una vita era stata lodata da Domenico Oliva) io gettai la penna alle ortiche...religiosamente, e per quindici anni nel mio tempo libero suonai rabbiosamente il violino>>. Epistolario, op. cit., p. 771. Lettera datata 2.12.1925.

27 Cfr. articolo Critica negativa, in Italo Svevo. Teatro e saggi, op, cit., pp. 1076. A questo proposito cfr. anche

Per un critico, p. 1045 e Il pubblico, p. 984.

28A proposito dell‟ironia in Svevo Guglielmi, scrive: << L‟ironia di Svevo non è bonaria, quanto dire non si

precisa in un atteggiamento del sentimento davanti alla condizione metafisica e pertanto immodificabile dell‟uomo, bensì un‟ironia conoscitiva che si applica a rivelare i processi mistificatori individuali e che penetra indagando nella trama problematica dell‟esistenza. Nella sua opera i processi individuali non sono isolati, se non per ragioni artistiche, dallo sfondo, Svevo non si pone mai su un piano di moralismo o di immoralismo scettico, ma sempre su un piano critico, cogliendo l‟insicurezza del mondo borghese in generale. Le impossibilità del personaggio sveviano non sono tanto individuali quanto sociali. Svevo si rende conto che l‟autonomia dell‟individuo è relativa, che c‟è un legame sintetico tra l‟individuo e la totalità e studia come quest‟ultima si disintegri. È proprio questa considerazione della totalità che gli permette di assumere dell‟individuo, con evidente simpatia, l‟esito patologico come via di uscita all‟interno di una determinata situazione>> ( G. Guglielmi, Letteratura come sistema e come finzione, Einaudi, Torino, 1967, pp. 122-3). In realtà Guglielmi si riferisce alle opere narrative di Svevo, ma indubbiamente questo tipo di discorso è applicabile in maniera coerente anche alla produzione drammatica dello scrittore triestino.

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80 indagare e rappresentare i conflitti della società borghese, ma, da attento conoscitore delle innovazioni letterarie in campo europeo, investe il proprio teatro della missione di andare oltre il realismo e la mera rappresentazione della “tesi” (sebbene tanto della propria produzione drammatica Svevo la debba proprio alla lezione naturalistica francese), e di inscenare il profondo conflitto tra percezione della realtà e desiderio di percepirne l‟essenza, di svelare i meccanismi che ne postulano l‟esistenza ed analizzarne le contraddizioni. Il “teatro del Novecento” di Svevo, per dirla con le parole di Ruggiero Rimini, <<risente della lezione di vari gruppi teatrali europei e dei discorsi delle avanguardie artistiche di inizio secolo>>: d‟altronde la crescita letteraria di Italo Svevo coincide con la maturazione dell‟esperienza biografica ( e quindi anche culturale) di Ettore Schmitz.

Ritornando al nostro testo, sarà interessante osservare che Apollonio, nel suo volume sul teatro sveviano del 1960, riporta il testo tale quale fu pubblicato nella rivista milanese nel 1937, con il titolo e la dizione << commedia in tre atti>>. Non si tratta tuttavia dell‟unico testo dell‟autore triestino che si interessi alla vicenda di Maria Tarelli: sono giunte a noi infatti una versione alternativa del primo atto ed un‟altra versione dell‟intera commedia che Svevo intitola Casa Galli. La decisione di cambiare il nome della commedia, mutuandolo da Casa Galli a L’avventura di Maria ci pare racchiuda tutto il senso del discorso portato avanti sino ad ora: Svevo ormai non è più solo interessato ad indagare le dinamiche economico-affettive del mondo borghese ( con la conseguente analisi di tutti i temi che a tale repertorio borghese pertengono, quindi matrimonio, triangolo adultero, ricatto economico ecc.) ; la sua attenzione ora si sposta su un personaggio in particolare. È di Maria, dell‟artista che vede la propria passione non appagata, del suo desiderio di realizzare le proprie aspirazioni e della delusione del rendersi conto dell‟utopia del suo progetto, che Svevo vuole parlare; del compromesso sociale cui è costretta a scendere, delle sue ambizioni di tranquillità; quella stessa tranquillità ed agiatezza che solo il mondo borghese può offrirle, sacrificando però a questo tutto il resto. Allo Svevo de Il Ladro in casa sarebbe forse bastato inscenare ironicamente la storia dell‟adulterio fallito tra Maria e Alberto Galli: questo nuovo e più consapevole Svevo è invece affascinato dalla possibilità di indagare introspettivamente la figura di Maria, le sue contraddizioni, la dialettica tra aspirazioni e compromessi che ne costituisce l‟essenza, le relazioni che si vengono a creare tra lei e l‟ambiente circostante.

Maria Tarelli, una violinista, è ospite in occasione di una tappa della sua tournée a Trento, a casa della sua amica di collegio Giulia. Tra Alberto, il marito di Giulia , e Maria, dopo una iniziale ritrosia da parte di quest‟ultima, si viene a instaurare una relazione, che culmina con

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81 la proposta di Alberto, preso da una fervente passione, di fuggire insieme per vivere altrove la loro storia apertamente. La fuga poi, grazie all‟intervento dello zio di lei, Carlo Tarelli, non si realizzerà e Maria , dopo il suo fugace tentativo di incursione nel borghese mondo dei Galli, tornerà alla sua vita artistica. Questo l‟andamento narrativo della commedia.

L’avventura di Maria, insomma, ha tutti i presupposti di una commedia borghese. Fedele ai dettami del teatro contemporaneo, Svevo inscena le vicende dell‟ambiziosa violinista su uno sfondo inequivocabilmente riconducibile alla borghesia: borghese è il perbenismo e la totale devozione alla famiglia di Giulia; borghese è l‟ipocrisia di Alberto; borghese è la cura delle

apparenze che porta Giulia ad intimare ad Alberto di vivere come fratello e sorella (sorvegliato dal figlio Piero) invece che cacciarlo di casa dopo la scoperta del tradimento.

D‟altronde il termine “borghese” è il vero protagonista della commedia e lo è, cosa ben più importante, in tutte le sue accezioni; dalla più nobile e dignitosa di Giulia alla più spregevole e disgustata della “prima Maria”. A prescindere dalle connotazioni negative, comunque, L’Avventura è la commedia che, nell‟ambito della produzione sveviana, più di tutte può essere considerata commedia “borghese”, coerentemente peraltro con le scelte biografiche del nostro autore.

Ad uno studio più preciso e puntuale del testo, tuttavia, ci si renderà conto dell‟assunto di fondo della presente trattazione, vale a dire l‟attitudine di Svevo di partire da presupposti tematici e contenutistici perfettamente ascrivibili all‟universo naturalista e verista per poi scomporli dall‟interno e mostrare le contraddizioni e le ipocrisie che animano i personaggi, giungendo ad un tipo di analisi caratteriale problematica ed minuziosa, più afferente alle istanze analitiche del teatro intimista di quel tanto ammirato Schnitzler. L’Avventura di Maria costituisce una sorta di spartiacque in questo senso: i germinali tentativi intrapresi in questa direzione nei testi teatrali precedenti si concretizzeranno infatti nell‟attività drammaturgica postuma, quella che vede protagonista questa tendenza allo svelamento dei conflitti e delle contraddizioni più interne di ogni singolo personaggio, quasi che ognuno di essi si dibattesse perennemente ed arduamente tra i due poli opposti eppure complementari che ne costituiscono l‟essenza caratteriale. Si tratta di un‟operazione che lo Svevo della Coscienza smorza in quell‟ironia tagliente che costituisce un po‟ la cifra del suo capolavoro narrativo, e che, a quest‟altezza cronologica, si traduce in una sorta di “rabbia” e delusione che, non ancora filtrata dal ricorso a toni apertamente sarcastici ed ironici, si concretizza nel fallimento delle aspirazioni dei loro personaggi (come nel caso di Maria), o nel trionfo dei loro tratti caratteriali peggiori (si pensi al Silvio Arcetri della successiva La verità).

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82 In maniera funzionale alla riproposizione fedele di quell‟universo borghese di cui si parlava poc‟anzi, la commedia si apre nel tinello di casa Galli e ci restituisce l‟immagine di una Giulia occupata a “ tutelare” il sonno del marito Alberto( che dorme sdraiato su un‟ottomana)29, di rientro da un viaggio di lavoro. Dalle parole di Giulia apprendiamo l‟imminente arrivo della sua vecchia amica di collegio Maria Tarelli, alla quale offrirà ospitalità assieme al suo zio Carlo Tarelli, nonostante la preoccupazione che Alberto non sia entusiasta della proposta di ospitalità che Giulia ha formulato all‟amica perché << Alberto è un buon borghese che ci tiene alla sua vita regolare e non ama la gente nomade come Maria e suo zio>>. Alla luce delle rivelazioni successive, questa prima battuta è, di fatto, una spia d‟allarme di non poco conto: presentandoci Alberto come <<buon borghese>> perfettamente inserito nel suo ruolo di marito, Giulia comincia sin dalle primissime scene a trincerarsi dietro quella patina di ottusa cecità che caratterizzerà il suo personaggio per tutta la pièce teatrale. In questo primo atto Svevo ci fornisce gli elementi fondamentali per inquadrare la famiglia Galli: così ci

troviamo di fronte ad una moglie ligia al dovere, premurosa, efficiente ed organizzata (mentre parla svolge le faccende domestiche, per risparmiare tempo); un marito abitudinario

e apparentemente impeccabile dal punto di vista morale; un cognato, Giorgio, fratello di Giulia, intellettuale e polemico, ed un bambino, Piero, il figlio della coppia Galli, irriverente ed incalzante, come del resto tutti i bambini portati in scena (e tra le pagine narrative) da Svevo.30 La percezione distorta di Giulia riguardo suo marito cui si accennava poc‟anzi, viene subito a palesarsi agli occhi dello spettatore, infatti, quando Alberto, contravvenendo ad una regola del rigido “ rituale borghese” dimentica di portare un dono per moglie e figlio dal viaggio. Si tratta di un sottile ed efficacissimo espediente drammaturgico per insinuare nel pubblico il dubbio che in effetti Alberto non sia il marito così attento e coscienzioso che Giulia descrive.

Il primo impatto con la commedia, insomma, restituisce un apparentemente idillico quadro familiare: solo adesso che tutto il “Mondo borghese” è ben riunito può dirsi pronto all‟arrivo della <<nomade>> che stravolgerà la tranquillità del caldo nido familiare di casa Galli: Maria,

29L‟ottomana diventa nelle commedie di Svevo quasi status symbol di una classe sociale in grado di potersi

concedere il lusso di possederne una. La ritroviamo, in effetti in Un marito ed in Inferiorità, ad ulteriore conferma della decisione sveviana di inscenare le proprie vicende teatrali su uno sfondo borghese.

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I bambini di Svevo sono personaggi sempre animati da una sorta di irriverenza che li distanzia nettamente dall‟idealizzazione romantica del candore e dell‟ingenuità infantile. Più che angeliche ed innocenti figure, i bambini sveviani sono maliziosi ed impertinenti. Si pensi all‟Ottavio de Il ladro in casa che all‟invocazione a Dio di Carlo, preoccupato dall‟ingente dote da dover tirar fuori per il matrimonio della sorella Carla, sfrontatamente ribatte:<<Quale Dio? (ridendo) Mostramelo!>>. Si tratta di una caratteristica che riscontriamo anche nelle opere narrative di Svevo: la piccola Anna, capricciosa e ben poco accondiscendente rispetto all‟ingresso nella famiglia Malfenti di Zeno Cosini, ne è un esempio concreto.

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83 la quale viene immediatamente introdotta, senza alcuna presentazione formale, indugi narrativi o introduzione da parte della cameriera della stessa.31 La giovane ed ambiziosa artista porta con sé tutta la sua carica eversiva sin dal primo ingresso in scena. Da sempre anticonformista e ribelle, non esita ad auto-contrapporsi già dalla prima battuta a Giulia:

MARIA – […rivolta a Giulia] Sei cambiata, molto cambiata! Sempre una bella persona ma non sei più quella! Che peccato! Io sperava di ritrovare in te quella mia antica dolce amica cui mi piaceva tanto di fare del male per vedere fin dove arrivasse la sua indulgenza. Chissà quanto cattiva sarai divenuta invecchiando.

Ponte di comunicazione tra Maria ed il mondo, unico in grado di àncorare, seppur a fatica, Maria alla realtà ed evitare il totale scollamento di questo dalla nipote artista, è Carlo Tarelli, zio e “mentore” di Maria. Il suo ruolo, fondamentale nella risoluzione della vicenda, si rivela imprescindibile: quasi come una voce narrante esterna atta a commentare la vicenda, esercitando la sua funzione scenica di “coscienza” di Maria, sarà proprio lui a pronunciare la condanna più totale ed irrimediabile della famiglia borghese all‟interno della quale Maria, abbagliata dalla parvenza di stabilità e concretezza, aspira ad entrare.

D‟altra parte Alberto, degno rappresentante dell‟ipocrisia e del perbenismo borghese, non tarda a manifestare la propria natura di marito fedifrago; dopo essere stato identificato da Maria quale l‟uomo che l‟ha corteggiata durante il viaggio in treno da Bologna ad Ancona32

, espone la propria personalissima teoria circa lo statuto del vincolo matrimoniale:

ALBERTO – […] la sua amica Giulia è più felice di quanto ella sembra di credere. Per darle tale prova mi basterà dirle che anche quando corro dietro ad altre donne, in quel medesimo istante , quando sono tutto intento a raggiungere il mio scopo e mi trovo in quello stato di esaltazione in cui Ella, per mia disgrazia, mi vide, anche allora amo

31In relazione a questo processo di “eliminazione” degli elementi narrativi “superflui” e non strettamente

pertinenti alla vicenda, il Rimini ha accostato questa commedia all‟ Ulisse di Joyce ( si ricordi che il Rimini fa risalire la commedia agli anni Venti del Novecento): <<Il rapporto con il Joyce è più profondo nella descrizione dei personaggi e nella impostazione della vicenda di base. […] Essi [ i personaggi ] infatti, oltre ad avere la duplice costante caratteristica sveviana dello svelarsi attraverso le azioni e dell‟investigarsi con il monologo interiore, ne hanno in questa commedia una terza che discende direttamente dall‟Irlandese. I personaggi della commedia nel salotto di casa Galli appaiono e scompaiono per assolvere le proprie funzioni interlocutrici, come evocati dalle sensazioni e dalle necessità momentanee dello spirito di Maria. Sono, come tutti gli antagonisti del signor Bloom, voci, corpose presenze, ma sempre appaiono in funzione delle reazioni e della vita di un personaggio: danno vita così all‟avventura terrestre di Maria, una non-borghese che viaggia tra i borghesi>>.( R. Rimini, La morte nel salotto, op. cit., p. 158). Naturalmente l‟aspetto a cui il critico si riferisce non è prettamente formale, infatti puntualizza: <<Ma L’avventura di Maria ha pur sempre uno svolgimento di logica narrativa e „conseguenziale‟ che fa apparire ben poca cosa i suoi accostamenti per analogia rispetto alla macroscopica operazione di eversione formale operata nell‟Ulisse e, termine massimo per Svevo, nello Zeno>> ( Ivi, p. 157).

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Riuscita e degna di nota la soluzione che permette a Svevo, nell‟ambito di una stessa battuta, di mettere in luce ben due tratti caratteriali di Alberto: la sua infedeltà e la sua attitudine alla menzogna (si ricordi che Alberto aveva riferito alla moglie Giulia di un viaggio in treno sulla tratta Bologna- Firenze e non Bologna- Ancona).

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84 mia moglie appassionatamente e le darei in quel medesimo istante il bacio affettuoso di ogni sera.

Con una straordinaria convinzione Alberto procede ad un ulteriore precisazione della propria teoria, operando i dovuti distinguo tra i sentimenti di passione e di affetto che animano le relazioni, e configurandosi, in questa prospettiva, come un autorevole antesignano del personaggio narrativo di Zeno Cosini.

ALBERTO – Perché, vede, mia moglie e le altre donne, quelle cui corro dietro io non sono le stesse donne. Che cosa può importare a Giulia di quei fuochi di paglia accesi da altre, di quei desiderii che non somigliano in nulla all‟affetto che porto a lei?

Ma la sentenza finale, pronunciata con foga ed istintività, svela le fondamenta di incoerenza ed opportunismo su cui regge tutta l‟impalcatura della borghesissima famiglia Galli:

ALBERTO – La mia casa è delle più borghesi : tutto vi è basato sulla cieca fiducia che portiamo uno all‟altra. La felicità di Giulia è formata dalla sua fede in me. Mi porta un affetto quasi esclusivo, cioè diviso tra me e Piero, nostro figlio. Vuole un po‟ di bene anche a Giorgio suo fratello il professore ch‟Ella ha conosciuto or ora, quel pedante. Il resto del mondo per ella non esiste. Ella è perciò tanto irragionevole da sembrarle naturale ch‟io l‟ami come essa ama me, esclusivamente.

Inconciliabili e quanto mai distanti, quindi, il mondo di Maria e quello di Alberto sembrano essere destinati a non venire mai a contatto: pura, incontaminata (ed incontaminabile) sembra essere la passione artistica di Maria per il suo violino; ipocrita, falso ed esclusivamente apparente sembra essere il sistema di valori nel quale si muove Alberto. Tuttavia non è tanto nella contrapposizione tra Maria ed Alberto che si plasma la denuncia sveviana sull‟inconsistenza morale della borghesia, quanto, piuttosto, sull‟incontro-scontro tra le due vecchie amiche, tra moglie ed amante, tra madre e donna, tra borghese ed artista: tra Giulia e Maria. Giulia, con la stessa cecità ingenua e quasi inconcepibile che caratterizza la Carla moglie del Ladro Ignazio, degna e fiera rappresentante del mondo borghese di cui orgogliosamente rivendica l‟appartenenza, è madre e moglie, completamente dedita alla cura della casa e del figlio, al punto da alienarsi quasi da se stessa. Giulia è il personaggio che forse più degli altri in questa commedia testimonia la nuova direzione verso cui va indirizzandosi la ricerca drammaturgica sveviana. Esente da qualsiasi tipo di connotazione rigida ed invalicabile, il suo personaggio si configura piuttosto come “ un ruolo”, un ibrido tra una figura naturalista ed una prettamente pirandelliana. Quantomeno limitante ci sembra allora la catalogazione della sua figura nei ranghi dei canoni naturalisti: priva di quello schematismo e di quella chiarezza con cui Svevo aveva tratteggiato i suoi primissimi

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85 personaggi, Giulia sembra affetta da una sorta di compulsività comportamentale che impedisce di focalizzare il suo personaggio fissandolo in coordinate di matrice naturalista. Quasi come se la sua iperattività fosse la spia di una profonda irrequietezza interiore, Giulia è incapace di stare ferma ad ascoltare l‟esercitazione al violino di Maria nella più gustosa ed eloquente scena della commedia, quella della prova di Maria per il concerto dell‟indomani. Instancabile e quasi impossibilitata alla contemplazione dell‟arte e della bravura dell‟amica artista, essa non solo si dedica al telaio mentre ascolta le prove33, ma riesce addirittura, nel contempo, ad ascoltare la lezione che Piero si accinge a ripassare. Questa simultaneità d‟azione, coniugata all‟ “ottusa” cecità che affligge il suo personaggio, ci sembra inscriva Maria in un‟atmosfera di ridicolizzazione e caricaturizzazione tali da intaccare la credibilità stessa del personaggio, allontanandolo irrimediabilmente da una classificazione di tipo naturalista. È, insomma, come se Svevo, restituendo un‟immagine di donna sicura di sé ed ostinatamente convinta delle proprie scelte (al punto quasi da rimanerne prigioniera e diventarne vittima) volesse suggerire allo spettatore la profonda insoddisfazione ed insicurezza che sottendono al personaggio stesso. Si tratta, d‟altronde, dello stesso procedimento che Svevo adopera per dipingere il mondo borghese: restituendo un‟immagine quanto più fedele possibile alla realtà, allo stesso tempo, scandagliandone i retroscena, ne palesa l‟amoralità e l‟inconsistenza.

In confronto all‟universo borghese di Giulia, nulla è più lontano della passione così disinteressata, alta e nobile che Maria alimenta nei confronti della propria arte:

MARIA – Il preludio [ del concerto di Beethoven] mi dà la disposizione occorrente per suonare. M‟influisce perfino sulle dita, mi sento le falangi più libere, più volenterose. Attendo che tocchi a me con impazienza, quasi con curiosità, curiosità di udire quello che farò, come fosse la prima volta che avessi a suonarlo…. (con asprezza).

Lo scontro tra queste due visioni antitetiche della vita si estrinseca nel dialogo tra le due vecchie amiche. Si tratta di uno scambio di battute che si riveste di un‟importanza fondamentale non soltanto dal punto di vista contenutistico, ma anche stilistico. All‟interno di tutta la commedia, infatti, questo dialogo si distingue per la centralità ed il peso che ciascuna delle due donne sembra attribuire alla parola in quanto strumento comunicativo ed indagatore della coscienza, anticipando, in questa prospettiva, la commedia successiva, Un marito, all‟interno della quale alla parola è affidato il compito di restituire scenicamente conflitti,

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La motivazione che Giulia apporta alla sua attività tessile è utile a comprendere ancora più globalmente il suo personaggio: << bisogna lavorare ogni giorno perché altrimenti in fine d‟anno ci si trova d‟aver perduto molto ma molto tempo>>.

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86 dinamiche e rivolgimenti interni di ardua decifrazione. Maria, interrogandosi sulla possibilità di proclamarsi felici pur conducendo un‟esistenza come quella di Giulia, ripetutamente rivendica la propria libertà:

MARIA – Io alla mia età ho conosciuto delle cose, dei piaceri, lo confesso anche, delle gioie, che tu neppure sai che esistano. Ho visto una città capitale per giorni e giorni non occuparsi d‟altro che di me, offrirmi tutte le soddisfazioni piccole o grandi, di vanità o di ambizione che un essere umano possa chiedere. [...] Questa è la vita, o almeno questa è la vita come la sentono le persone intelligenti. Ho goduto, sì, quando la musica passava per il mio cervello e di là nelle mie dita, senza resistenze. Allora l‟orgoglio soddisfatto mi fa godere. Disprezzo gli altri miei simili che non sentono come me e godo. È una gioia che dura per istanti però. Non so figurarmi uno stato di felicità per me.

Alla considerazione di Maria sulla sua presunta impossibilità di essere “stabilmente” felice, Giulia non può che controbattere additando nella mancanza di una famiglia la causa della mancata percezione di una felicità salda e duratura nel tempo di Maria:

GIULIA – Sai Maria a te cosa manchi per essere felice? La famiglia! Noi donne non siamo mica delle creature che bastino a se stesse, che possano vivere a parte, solitarie, nomadi. A noi occorrono le quattro mura e qualcuno a cui sacrificarci. Il nostro mondo deve essere piccolo ma tale che sia tutto nostro. […] il tuo violino? E‟ un bellissimo instrumento e farà passare qualche mezz‟ora aggradevole alla persona cui vorrai bene.

È a questo punto che le certezze di Maria cominciano a vacillare: la promessa di stabilità e sicurezza che il mondo borghese innalza a bandiera della propria istituzione funziona come uno specchietto per le allodole ai suoi occhi. La storia di Maria è la storia dell‟artista in cerca di quella stabilità che la sua arte non gli concede, della passione incapace di bastare a sé stessa, della ricerca di punti saldi e fermi su cui far perno per le proprie ambizioni, della delusione rispetto alle proprie aspettative artistiche: è la storia, insomma, di Ettore Schmitz dopo l‟ennesimo insuccesso di Senilità.

Dallo scambio di battute tra le due donne sembra uscire vincente Giulia, la quale addita nella mancanza di una famiglia la causa della mancata percezione di una felicità salda e costante nel tempo di Maria. Si tratta però, a nostro parere, di una vittoria apparente e, come spesso in Svevo, intrisa di sfumature e sfaccettature che ne compromettono la credibilità. Tutta concentrata nella celebrazione delle proprie scelte di vita al punto da non accorgersi della mancanza di autonomia individuale che connota la sua figura, Giulia, con un‟apparente tranquilla e rassegnata consapevolezza dell‟impossibilità di attingere ad una felicità piena, autentica, viva, annuncia all‟amica:

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87 GIULIA – Io non sento più il bisogno di affannarmi a cercare; ho la tranquillità della

persona che sa tutto quello che le ha da succedere, dunque da persona vecchia che dalla vita non chiede più nulla. Tu sei giovinetta invece! Cerchi ancora perché hai battuto una via che non fa per te.

Indubbiamente la caratterizzazione del personaggio di Giulia risente fatalmente delle letture schopenhaueriane del giovane Ettore Schmitz. Quest‟ultima, infatti, con la sua apparente disinvolta e pacata considerazione della felicità come <<tranquillità della persona che sa tutto quello che ha da succedergli>> (atteggiamento che, ripetiamo, secondo la nostra lettura sarebbe invece volto a dissimulare l‟inquietudine che si cela dietro una così aproblematica accettazione della felicità come cessazione del dolore) conserva in sé parte di quelle letture shopenhaueriane che tanto tennero compagnia all‟Ettore Schmitz adolescente nel collegio di Segnitz. Si legge infatti tra le pagine del filosofo tedesco :

per natura la vita è incapace di vera felicità ed è invece essenzialmente una sofferenza sotto mille forme, uno stato radicalmente infelice. 34

La felicità quindi, come << essenzialmente negativa >>, perché consistente appunto nella momentanea cessazione del dolore attraverso la <<soddisfazione di un desiderio>>. Del resto i desideri, come peraltro Maria ben sa, sono continui e si susseguono in una sequenza desiderio – soddisfazione – noia – nuovo desiderio, in un circolo vizioso destinato a non avere fine:

la vita di ogni uomo scorre tra il desiderio e la soddisfazione. Il desiderio è per sua natura dolore: la soddisfazione si traduce presto in sazietà. Il fine, in sostanza, è illusorio: col possesso svanisce ogni attrattiva; il desiderio rinasce in forma nuova e , con esso, il bisogno; altrimenti, ecco la monotonia, il vuoto, la noia, nemici altrettanto terribili quanto il bisogno.35

E se da una parte Giulia appare quindi la perfetta incarnazione della consapevolezza schopenhaueriana della condanna dell‟uomo ad un‟esistenza grigia e passiva, allietata da minime ed apparenti soddisfazioni che hanno il solo scopo di anestetizzare il male dell‟esistenza, Maria, musicista, artista, interprete <<della meravigliosa arte dei suoni>>36

in grado di fornire quella <<consolazione provvisoria nella vita>>37 (che , come essa stessa ammette, regala una <<gioia intensissima>> che però <<dura per istanti>>) si configura esattamente come il suo opposto.

34 A. Schopenhauer , Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano, Mondadori, 1989, p. 457 35

Ivi, p. 444.

36 Ivi, p. 372. 37 Ivi, p. 386.

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88 Con ciò non intendiamo di certo sostenere che Maria e Giulia incarnino i poli opposti della filosofia schopenhaueriana; ci preme, tuttavia, sottolineare il tipo di procedimento drammaturgico messo in atto dall‟autore triestino. Giulia, apparentemente sicura e salda nelle proprie posizioni, paradossalmente risulta essere la più instabile tra le due donne: è la sua figura che, pur proclamando il suo credo, sembra sottintendere tutt‟altro rispetto a quello che la sua voce proclama. Come se la razionalità (espressa attraverso la parola) e l‟effettiva realtà (espressa attraverso l‟iperattività comportamentale e l‟incoerenza in cui incapperà nella reazione alla scoperta della tresca tra Alberto e Giulia) fossero spia di un disagio ben più profondo e taciuto. L‟interesse a intercettare quel disagio e renderlo visibile su un palcoscenico crediamo sia la reale spia che qualcosa andava cambiando nelle intenzioni drammaturgiche del nostro autore triestino.

La stessa la concezione dell‟arte di Maria nasconde in sé implicazioni non strettamente riconducibili alla teoria shopenhaueriana: laddove per il filosofo tedesco il fine ultimo dell‟arte è provocare un <<atto di negazione del sé>>, un tentativo di oltrepassare i bisogni e gli interessi individuali per porsi al servizio della <<vera conoscenza>>, la protagonista sveviana ci sembra invece postporre l‟arte alle proprie ambizioni ed alla propria volontà. Quella di Maria è una visione strumentalizzata della materia artistica: tutto incentrato sulla soddisfazione dell‟ orgoglio, della vanità e della compiacenza di chi ne è portatore, il concetto estetico che ne viene fuori ci sembra fortemente riduttivo rispetto alla più ampia articolazione delle teorie filosofiche schopenhaueriane. È in questa prospettiva che Maria, in un certo senso, potrebbe piuttosto considerarsi alla stregua di quei molti personaggi che compaiono diverse volte nella produzione drammatica (Adolfo, lo scrittore <<verista>> di Una commedia inedita; Emilio Morfi, il pedante professore de Il ladro in casa; l‟amante de Il terzetto spezzato…) e narrativa (Alfonso Nitti, Mario Samigli) di Svevo: tutti interpreti di un‟arte narcisisticamente improntata alla valutazione del proprio ego, inscindibilmente legata ad un innaturale desiderio di soddisfazione del proprio bisogno di legittimazione sociale, o, per dirla ancora una volta con le parole di Schopenhauer:

per costruire castelli in aria destinati a lusingare l‟egoismo e il capriccio personale, a illuderli momentaneamente, a divertirli38.

Proprio in quanto interprete di un‟arte non finalizzata a sé stessa ma misurata in base al grado di successo che potrebbe restituirle, Maria non riesce a sottrarsi alla seduzione di una vita stabile, una felicità duratura e non intermittente che fatalmente la spinge a idealizzare la vita

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89 di Giulia e, non solo a desiderarne una simile, ma a invidiare addirittura quella stessa. Abbiamo già visto come tra le due donne è Maria quella che sembra uscire sconfitta dallo scontro con Giulia. Se già la scena delle prove aveva sancito la disfatta dell‟artista (disfatta concretizzatasi nella decisione di porre fine alle prove e riporre nella propria custodia il violino), il confronto con l‟amica finisce per scardinare qualsiasi residuale ed instabile punto fermo di Maria. Così Maria, inizialmente sprezzante e critica nei confronti dell‟universo borghese, finisce per desiderare non solo di prenderne parte, ma di farlo proprio con Alberto, nonostante la consapevolezza della sua natura fedifraga; Giulia, venuta a conoscenza della relazione adulterina del marito, lo ricatta promettendogli di farlo spiare niente di meno che dal figlio; Alberto, completamente perso dietro Maria, addirittura le promette la fuga insieme in cambio di un solo bacio. La famiglia borghese, con tutti i presupposti naturalistici che la connotavano nelle prime scene delle commedia, è completamente scardinata. Si tratta, ancora una volta, dell‟assunto di fondo di questo studio sul teatro sveviano: dalle premesse naturaliste e veriste da cui prende le mosse la vicenda narrativa, si giunge, nello svolgersi della trama, alla negazione delle stesse, attraverso un minuzioso e preciso lavoro di scavo interiore delle istanze psicologiche dei personaggi.

Il “sogno borghese” di Maria è destinato ad infrangersi malamente: nonostante i precipitosi preparativi di fuga, i due amanti vengono scoperti dallo zio Tarelli, il cui dialogo con Maria vede quest‟ultima, in un crescendo di drammaticità e tensione, rinnegare tutto quel sistema di valori e quell‟universo di cui faceva intrinsecamente parte prima di entrare in casa Galli ed abbracciare a piene mani i dettami dell‟ideologia borghese:

MARIA – […] Il desidero fare tutt‟altra vita di quella che feci fin qui! [...]Noi faremo una famiglia onestamente borghese laggiù in America, una famiglia che per non essere stata consacrata né dal prete, né dal codice, non sarà perciò meno felice.

Allo zio Tarelli, colui che abbiamo già definito “coscienza” di Maria, spetta l‟ingrato compito di riportare alla realtà la nipote; obiettivo che raggiunge prospettando alla nipote quella che potrebbe essere la sua “bella vita borghese” e restituendo un‟immagine non certo lusinghiera della classe entro la quale aspira entrare la nipote

TARELLI - Vi sarà una piccola contraddizione nella vostra famiglia. Onestamente borghese! Borghese, sì, ve lo concedo. Lui un bottegaio, dunque un borghese, tu una femmina che si innamorò di un bottegaio, dunque borghese. Ma onestamente! I borghesi non fondano così le famiglie. Essi scelgono il paio, l‟uniscono spesso per accomunare degl‟interessi, non si accontentano della legge ma vogliono anche la garanzia della chiesa, e fanno marciare insieme i due, legati solidamente ma presto volenterosi. Così si diventa onestamente borghesi, la famiglia dev‟essere stata fondata col consenso dei genitori, della legge e del prete. Voi due vi legate insieme con un

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90 delitto (Maria protesta) un delitto verso un‟altra donna e verso un fanciullo, e un delitto così non può fare le veci delle benedizioni.

[...] Lentamente tu ti sei presa di questa casa, di questi mobili, della biancheria da curare, del bambino da istruire… Tutte le donne hanno prima o poi hanno di questi affetti ma nella tua mente d‟artista il capriccio passerà presto e la casa ti sembrerà troppo ristretta, il bambino, se ne avrai, troppo stupido, la biancheria un imbarazzo. Come non intendi che tale vita non è fatta per te?

Del resto, saltata ogni coordinata caratteriale dei personaggi, rinnegati i presupposti naturalistici, postulata l‟impossibilità per Maria di venire inglobata con coerenza e cognizione di causa in quel modo borghese che tanto agogna, allo Svevo dell‟Avventura si prospettavano davanti tre possibili epiloghi per la vicenda: un finale comico che, debitore alla rovinosa caduta del Ladro Ignazio dal tetto, ne avrebbe duplicato l‟esito; un finale ragionato e meditato (alla stregua di Un Marito) in grado di restituire le singole percezioni di tutti i personaggi; per ultimo, un finale “drammatico”, o, per meglio dire, un unhappy ending che rendesse evidente l‟inadeguatezza di Maria. Quest‟ultima soluzione pare a Svevo più congeniale: in questo modo Maria, a differenza di Ignazio ( col quale pure condivide l‟esito fallace del tentativo di incursione nel mondo borghese) finisce per diventare vittima consapevole e cosciente delle proprie aspirazioni borghesi.

La vicenda ora rientra ed i tratti caratteriali dei personaggi, stravolti dall‟arrivo di Maria in casa Galli, si ripristinano: Giulia perdona prontamente il tradimento ad Alberto, riaderendo perfettamente al proprio ruolo di moglie e madre borghese; Maria lascia casa Galli; Alberto torna ad essere il marito “perfetto” agli occhi della moglie Giulia, ma verosimilmente ancora infedele ed ipocrita. Lo stesso Alberto, del resto, nonostante la personalissima teoria circa i rapporti extraconiugali, sfugge ad una categorizzazione del suo personaggio nelle fila dei personaggi libertini che animano il teatro borghese di fine Ottocento; egli si configura piuttosto come l‟antesignano di tutta una serie di personaggi maschili che troveranno il loro massimo esponente in Zeno Cosini. Egli ha il merito di portate in scena per la prima volta, seppur approssimativamente e in forma germinale, la plurinominata “malattia” sveviana, facendone oggetto di una vera e propria teatralizzazione; teatralizzazione che, passando attraverso gli esiti drammatici ed i toni cupi di Un marito, culminerà, in campo teatrale, nel Giovanni de La Rigenerazione.

Una serie di personaggi ruota poi intorno alle figure cardine della commedia, il più interessante dei quali, per la presenza quasi puntuale del proprio ruolo in molte delle commedie sveviane, è il cognato. La figura del cognato ci è davvero offerta in tutte la salse

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