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Capitolo 1 Il fenomeno migratorio

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Capitolo 1

Il fenomeno migratorio

“Tutte le società producono stranieri, ma ognuna ne produce un tipo particolare

secondo modalità uniche e irrepetibili.” da “La società dell’incertezza” Z. Bauman

Premessa

Gli spostamenti delle persone sono una realtà connaturata alla storia dell’umanità. Con l’interdipendenza economica accresciuta tra le Nazioni, sono divenute ormai un fenomeno strutturalmente stabile in ciascuna società. Arrivi e partenze di migranti avvengono contemporaneamente in tutti i Paesi del mondo, a prescindere dal fatto che essi siano prevalentemente aree d’emigrazione o d’immigrazione. I movimenti migratori, negli ultimi decenni, stanno coinvolgendo perciò in misura minore o maggiore notevoli fette di popolazioni, le quali si trovano ogni giorno a fronteggiare la presenza di persone provenienti da zone limitrofe o da altri continenti.

Le cause devono essere ricercate in una molteplicità di fattori e che vanno dalle profonde trasformazioni dell’economia mondiale alla grande rivoluzione tecnologica apportata dalla globalizzazione. A queste circostanze poi, si sono talvolta sovrapposti eventi eccezionali, come guerre, lotte tribali o catastrofi naturali (siccità, carestie, etc.). La complessità dell’analisi del fenomeno comprende poi la vastità di tipologie di migranti e la crescente multidirezionalità assunta da essi. I continui rimescolamenti di persone rimettono anche in discussione gli equilibri preesistenti, provocando nelle società interessate cambiamenti di carattere economico, demografico e culturale.

Occorre considerare, infine, che il carattere transitorio del soggiorno migratorio pone lo straniero in una posizione ambivalente di “vicinanza-lontananza” nei confronti della società di accoglienza. La diversità etnica, più che un’occasione di crescita personale e dell’intera comunità, è percepita come una minaccia alla propria identità culturale. Per tali ragioni, gli autoctoni hanno sempre avuto la tendenza ad assumere un atteggiamento verso l’“Altro” volto ad escluderlo, anziché accoglierlo.

La presenza dello straniero è quindi storicamente raffigurata come una portatrice di conflittualità sia economiche sia culturali, disponendo l’attuazione di politiche nazionali volte a rilegare in secondo piano la diversità in modo da “limitarne i danni”.

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1.1 Le migrazioni: caratteristica strutturale del mondo d’oggi

1.1.1 Le migrazioni nella storia

L’attitudine migratoria è sempre stata una caratteristica intrinseca della storia umana, il motore che ha spinto i nostri antenati a popolare l’intero pianeta. Carestie, invasioni o semplice desiderio di migliorare le condizioni di vita hanno da sempre determinato incroci di etnie e sincretismi culturali, di cui la comunità internazionale è l’ultimo risultato1

.

Le migrazioni internazionali così come le conosciamo oggi sono un fenomeno relativamente recente e che si può far risalire all’epoca in cui lo Stato-nazione ha preso corpo nel continente europeo diffondendosi poi nel resto del mondo2. L’inizio delle migrazioni in età moderna combacia con l’espansionismo europeo sul finire del XV°

secolo, terreno fecondo per le grandi scoperte geografiche e per il colonialismo, cui seguirono crescita demografica, processi di urbanizzazione e grandi collegamenti marittimi, interrompendo le barriere mentali e spaziali del vecchio mondo.

La prima fase della storia delle migrazioni è quella mercantilista (1500-1800), la quale individuando nella crescita di capitali e di popolazione la fonte di ricchezza e potere dello Stato, questi tendeva ad ostacolare l’emigrazione e incoraggiare l’immigrazione con specifici provvedimenti. I movimenti di persone che si registrarono in questo periodo furono essenzialmente due: i primi che coinvolsero gli europei verso la conquista dei nuovi continenti; i secondi erano gli schiavi portati forzatamente dall’Africa in direzione delle Americhe.

La seconda fase, quella liberale, comprensiva del periodo tra il 1840 e la Prima Guerra mondiale, trovava le sue fondamenta nell’ideologia liberista alla base del sistema produttivo capitalistico. Riconoscendo la libertà individuale e dei mercati, gli attori economici potevano decidere, senza alcun vincolo, come allocare al meglio le risorse materiali e/o umane. Durante tale periodo, coincidente con le principali fasi dello sviluppo industriale, si assistette alla realizzazione di grandi opere pubbliche, espansione urbana e crescita dell’industria. In seguito, con il moltiplicarsi di mezzi di trasporto, avvenne anche un incremento della richiesta di manodopera dando così vita al

1 P. DUSI, Flussi migratori e problematiche di vita sociale - verso una pedagogia dell’intercultura, in

“Vita e Pensiero”, Milano, 2000, pp. 6-9.

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primo grande fenomeno di “migrazione di massa”, in particolare in direzione delle Americhe3. A causa dell’enormità di dimensioni che assunsero questi movimenti, i quali ebbero un impatto non indifferente sotto l’aspetto economico, demografico e culturale dei vari Paesi interessati, presero il nome di «Grande Migrazione».

Il periodo tra le due guerre mondiali, invece, diede inizio ad una fase di migrazioni limitate per via dei progressivi provvedimenti emanati sia dagli Stati democratici con misure restrittive all’ingresso (in primis gli Stati Uniti), sia dalle dittature nazifasciste che ostacolarono le partenze dei propri cittadini, onde evitarne il contagio ideologico democratico4. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, le migrazioni persero del tutto il carattere economico divenendo migrazioni forzate di natura politica, poiché da esse scaturirono i primi movimenti di rifugiati5.

Il rilancio dei movimenti migratori caratterizzò la ricostruzione post bellica: molti Stati europei, per ovviare alle mancanze di forza lavoro interna, attuarono una serie di politiche tese a facilitare e/o a incoraggiare l’immigrazione6. Il periodo in questione, ovvero l’epoca storica compresa tra la fine del conflitto e la recessione economica degli anni ’70, prese il nome di “trent’anni gloriosi”. I flussi migratori coinvolsero i Paesi più ricchi dell’Europa Centrale e Settentrionale, America settentrionale, Argentina, Venezuela e Australia; la Francia e il Regno Unito aprirono le proprie frontiere ai migranti delle loro ex colonie. L’obiettivo delle politiche migratorie tra il 1950 e il 1970 sebbene fosse stato quello di massimizzare lo sfruttamento della manodopera straniera a basso costo, al tempo stesso si cercò di scoraggiarne la permanenza a lungo termine, con l’utilizzo sia di dispositivi di reclutamento dei lavoratori “a tempo e scopi definiti”7

, sia l’elaborazione di normative restrittive riguardo ai ricongiungimenti familiari.

3 M. AMBROSINI, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna, 2005, p. 24. 4

Le stime di allora avevano registrato un calo delle partenze dalle 2-300.000 persone intorno agli anni ’20 fino ai 100.000 negli anni ’30, considerando anche il fattore depressivo dell’economia mondiale in seguito alla grande crisi del ’29.

5 Per una maggiore trattazione vedere Paragrafo 1.2, p. 15.

6 R. CAGIANO DE AZEVEDO, Le Migrazioni interne in Europa, Atti del Convegno Internazionale

“Migrazioni Scenari per XXI° secolo”, Roma, 12-14 Luglio 2000. Disponibile al seguente indirizzo:

www.cestim.it.

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“Quasi tutti i Paesi europei industrializzati - Inghilterra, Belgio, Repubblica Federale di Germania,

Francia, Svizzera, Olanda, Lussemburgo e Svezia – fecero ricorso in questa fase espansiva, a manodopera importata, sia che si trattasse di persone giunte spontaneamente oppure di lavoratori appositamente ingaggiati attraverso programmi di lavoro temporaneo. Gli effettivi lavoratori stranieri in

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La storia più recente della migrazione europea, invece, ha conosciuto una decisiva inversione di tendenza, quando l’Europa da regione di emigrazione divenne fattore di attrazione per flussi migratori. In corrispondenza dei primi segnali di depressione economica mondiale degli anni ’60-’70, i Paesi europei misero fine alle politiche di reclutamento attivo8. Lo shock petrolifero del 1973 segnò il definitivo compimento della precedente fase: l’Europa attraversò un periodo di recessione che indusse le Nazioni più sviluppate a rivedere le loro strategie. Ebbe inizio così un periodo di ristrutturazione economica con espulsioni della manodopera dalle attività manifatturiere, determinando una maggiore produttività dei fattori ad alta intensità di capitale9.

Lo storico cambio di ruolo dell’Europa da esportatrice a importatrice di risorse umane proseguì anche nel decennio successivo, in modo particolare con il collasso del blocco sovietico e l’entrata dei Paesi del Patto di Varsavia nell’orbita occidentale. La creazione di nuovi Stati Indipendenti nell’Est Europa interruppe bruscamente gli scambi commerciali preesistenti all’interno del blocco orientale e causando una forte crisi economica, tale da spingere migliaia di persone provenienti da quest’area a cercare lavoro verso occidente. La fine del bipolarismo e delle tensioni mondiali determinò, inoltre, una decisa convergenza economica e culturale tra i vari Paesi del mondo, favorendo così la progressiva crescita delle relazioni e degli scambi commerciali a livello mondiale in diversi ambiti. Il fenomeno che ne scaturì fu “globalizzazione”, termine utilizzato dagli economisti per riferirsi prevalentemente agli aspetti economici delle relazioni instaurate fra diversi i popoli. Sebbene prevalentemente riferita al campo economico, la globalizzazione deve essere inquadrata anche nei cambiamenti sociali, tecnologici e politici avvenuti in quegli anni. Questa, difatti, permise il superamento delle barriere materiali e immateriali, con conseguente incremento sempre più rapido della circolazione di persone, beni, servizi, capitali, informazioni, conoscenze e idee su scala planetaria. Con il diffondersi della globalizzazione, anche le migrazioni hanno ben presto assunto i caratteri di un fenomeno tout court.

Europa occidentale erano 7,5 milioni nel 1974, mentre la popolazione straniera complessiva aveva contemporaneamente superato i 13 milioni”, in L. ZANFRINI, 2007, op. cit. p. 60.

8 Ivi, p. 62.

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Per una più esaustiva trattazione, occorre menzionare l’impatto che ha avuto la nascita dell’Unione Europea, l’apertura dei confini interni dell’area Schengen e l’allargamento progressivo ad altri Stati europei10

. Tutti questi elementi favorirono un maggiore stimolo agli scambi commerciali, permettendo al tempo stesso una maggiore circolazione di persone tra gli Stati europei.

Gli anni ’90 sono anche il periodo in cui si moltiplicarono situazioni destabilizzanti, aggiungendo al “regolare” flusso di migranti in cerca di un’occupazione anche un crescente numero di rifugiati11. Nel 1990 l’Iraq invase il Kuwait, evento che diede avvio alla prima Guerra del Golfo, mentre in Jugoslavia iniziava il più sanguinoso e crudele dei conflitti dal dopoguerra12. Nel 1991 scoppia la guerra civile in Somalia13 e il 1994 è l’anno del genocidio in Ruanda14

, conflitti che causarono migliaia spostamenti di massa in fuga dalle violenze e soprusi.

Purtroppo anche il nuovo millennio non si è aperto diversamente: l’attacco statunitense al regime Talebano in Afghanistan, in conseguenza all’attentato delle Torri Gemelle di New York (2001) e l’invasione dell’Iraq, in seguito alle accuse mosse verso il regime di Saddam Hussein, rivelatesi infondate, di possedere armi di distruzione di massa (2003).

10

Nel 2004 sono entrati a far parte dell’Unione Europea 10 nuovi Stati: Cipro, Malta, Ungheria, Polonia, Slovacchia, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovenia. Il 1° gennaio 2007 è stata la volta di Bulgaria, Romania e Lussemburgo; mentre dal 1° luglio 2013 si è aggiunta anche la Croazia raggiungendo così quota 28.

11 Negli anni ’90 si sono registrate 57 guerre in 45 Paesi, in massima parte deflagrazioni civili combattute

per il controllo del governo o del territorio. Per maggiori informazioni consultare il sito:

www.conflittidimenticati.it.

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Gli eventi bellici hanno riguardato una serie di conflitti armati, inquadrabili tra una guerra civile e conflitti secessionisti, che hanno coinvolto diversi territori appartenenti alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia tra il 1991 e il 1995, causandone la dissoluzione.

13 Nel 1969, un colpo di stato militare, ai danni del presidente della Repubblica Ali Scarmarke

Abdirashid, portò al potere il generale Siad Barre, ma alla fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 iniziarono a formarsi organizzazioni di guerriglia ostili al regime di Barre. Nel 1991 Barre fu estromesso; la lotta per il potere che ne seguì contrappose diversi gruppi tribali, in un nuovo crescendo di violenza accompagnato, peraltro, da una terribile carestia. Per maggiori informazioni storiche consultare il sito:

www.conflittidimenticati.it.

14 Il genocidio del Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo. Dal 6 aprile alla

metà di luglio del 1994, per circa 100 giorni, furono massacrate sistematicamente (a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati) tra le 800.000 e 1.000.000 di persone. Il conflitto aveva le proprie origini nelle tensioni etniche fra Hutu e Tutsi, che furono rafforzate in epoca coloniale in seguito alla scelta dell’amministrazione belga, occupante il territorio, di formalizzare e consolidare la contrapposizione fra i due gruppi. Il genocidio del 1994 s’aggiungeva in un contesto di rivalità etniche bilaterali e stermini di massa risalenti sin dal 1962.

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Al quadro storico appena descritto, occorre ricordare i cambiamenti che recentemente hanno scosso il mondo arabo: la cosiddetta Primavera Araba. Quest’ultima denominazione delinea una serie di proteste ed agitazioni a livello politico e culturale, diffusesi nell’inverno 2010/2011 nelle regioni del Nord Africa e del Medio Oriente15. La stagione, non ancora conclusa, del suddetto cambiamento politico ha portato a due principali conseguenze. “In primo luogo, il clima di incertezza in Tunisia, le violenze dello scontro politico in Egitto e, soprattutto il conflitto in Libia, hanno prodotto e continuano a produrre ingenti movimenti interni ai vari Paesi e fra i Paesi stessi, i quali interessano sia ampie fasce della popolazione autoctona, sia le comunità immigrate – per la maggior parte dell’Africa sub-sahariana – stabilitesi prima del 2010 nei tre Stati, soprattutto in Libia. In secondo luogo, il minore controllo sul territorio che si è accompagnato all’indebolimento delle istituzioni e delle strutture del potere nella fase dello scontro politico e dell’abbattimento dei regimi, ha innescato un incremento dei flussi di transito, generando ondate migratorie verso l’Europa meridionale, anche attraverso le rotte che collegano le coste nord-africane alle regioni del sud Italia”16.

Ultimo, in ordine cronologico, si registra il numero delle persone che, in questo periodo, si stanno spostando in seguito all’esplodere della recente crisi economica, la quale ha fatto impennare in quasi tutti gli Stati europei il tasso di disoccupazione, attuando un nuovo rimescolamento culturale e di manodopera17.

1.1.2 Le dimensioni del fenomeno in Europa…

Prima di procedere con l’analisi, è opportuno soffermarsi sull’aspetto quantitativo dei movimenti migratori, a sottolineare ancora una volta che la tematica trattata coinvolge sempre più ciascuna Nazione e le rispettive composizioni demografiche. Il numero totale dei migranti internazionali stimati è aumentato in un periodo decennale

15 Gli Stati maggiormente coinvolti dalle sommosse sono stati: l’Algeria, il Bahrein, l’Egitto, la Tunisia,

lo Yemen, la Giordania, il Gibuti, la Libia e la Siria; mentre ci sono stati scontri di dimensioni minori in Mauritania, Arabia Saudita, Oman, Sudan, Somalia, Iraq, Marocco e Kuwait.

16 M. ZUPI, M. MAZZALI, S. HASSAN, L’impatto delle primavere arabe sui flussi migratori regionali e

verso l’Italia, Osservatorio di politica internazionale in “Approfondimenti” n. 59 - luglio 2012, Centro

Studi di Politica Internazionale (CeSPI), Roma, p. 7.

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“Nell’Europa a 27 i disoccupati sono 19.071.000. Rispetto a gennaio 2013, le persone in cerca di

lavoro crescono di 76mila unità nell’Europa a 27 e di 33mila unità nell’area euro”, in G. GENTILI, Disoccupazione europea resta record (12%), l’indice Pmi Italia ai minimi da agosto, Il Sole 24 Ore, 2

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(2000-2010), da circa 150 a 214 milioni di persone, 69 milioni delle quali solo in Europa. Tra gli Stati con un’alta percentuale d’immigrati troviamo: Qatar (87%), Emirati Arabi Uniti (70%), la Giordania (46%), Singapore (41%) e l’Arabia Saudita (28%). Le Nazioni con una bassa percentuale d’immigrati invece sono: il Sud Africa (3,7%), Slovacchia (2,4%), la Turchia (1,9%), il Giappone (1,7%), la Nigeria (0,7%), la Romania (0,6%), l’India (0,4%) e l’Indonesia (0,1%)18.

Sulla base dei dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNCHR), il numero dei rifugiati nel 2010 si è attestato a 15,4 milioni rispetto ai 15,9 milioni del 200919, mentre le domande d’asilo presentate sono state circa 876 milioni20. L’Europa è rimasta la principale destinazione per i richiedenti asilo con 423 mila domande, seguita dall’Africa con 217 mila21. Dal 1998 al 2010, a causa di situazioni di conflitto e di violenze, il numero degli sfollati è passato da 17 a 27,5 milioni di persone22.

Qui di seguito sono riportati i dati statistici dell’Unione Europea (UE) aggiornati sulle migrazioni internazionali. Nel corso del 2011 sono stati registrati circa 1,7 milioni di immigrati verso l’Europa provenienti da Stati Terzi, mentre 1,3 milioni di persone già residenti all’interno di uno Stato membro UE sono migrati verso un altro Stato UE. Il Regno Unito nel 2011 ha registrato il maggior numero di immigrati (566.044), seguito da Germania (489.422), Spagna (457.649) e Italia (385.793). Sempre nello stesso anno la Spagna ha registrato il maggior numero di emigrati (507.742), seguita dal Regno Unito (350.703), Germania (249.045) e Francia (213.367). Infine, per quanto riguarda la

18 Trends in International Migrant Stock: The 2008 Revision, Department of Economic and Social Affairs

- Population Division, United Nations, 2009. Disponibile al seguente indirizzo: www.esa.un.org.

19 “A causa di un cambiamento di classificazione e della metodologia di stima in un certo numero di

Paesi le cifre a partire dal 2007 non sono del tutto confrontabili con i dati degli anni precedenti”. United Nations High Commissioner for Refugee’s UNHCR Global Trends 2010, Disponibile al seguente

indirizzo: www.unhcr.org.

20 Su un totale provvisorio delle 876.100 richieste di asilo, 738.200 sono state le richieste di prima istanza,

mentre il restante 137.900 sono state per il secondo grado. Per maggiori informazioni sugli andamenti delle richieste d’asilo nei Paesi industrializzati consultare: The Asylum Levels and Trends in

Industrialized Countries, 2011, UNHCR, Ginevra, Marzo 2012, disponibile al seguente indirizzo: www.unhcr.org/statistics.

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Ibidem.

22 Panoramica globale delle tendenze e sviluppo, Norwegian Refugee Council – Internal Displacement

Monitoring Center’s Internal Displacement, 2010. Disponibile al seguente indirizzo:

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distribuzione di genere degli immigrati, sempre nel 2011 si è avuta una disparità tra uomini (52,1%) rispetto alla presenza femminile (47,9%).

1.1.3 …e in Italia

I dati riportati qui di seguito si riferiscono al “15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni” elaborato dall’ISTAT23 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 209 del 18 dicembre 2012. La popolazione italiana alla data dell’ultimo censimento (9 ottobre 2011) ammontava a 59.433.744 unità.

Per quanto riguarda presenze straniere solo nell’ultimo decennio è passata da poco più di 1,3 milioni nel 2001 a oltre 4 milioni nel 2011. Circa la loro distribuzione sul territorio italiano, il 45,8% si colloca nell’Italia Settentrionale, il 19,5% in quella Centrale e, per il restante 34,7% nel Meridione e nelle Isole. La componente femminile rappresenta il 53,3% del totale degli stranieri, mentre l’età media degli immigrati è di 31,1 anni (29,7 anni per la parte maschile contro i 32,3 anni per quella femminile).

Secondo i dati degli archivi del Ministero degli Interni italiano, dal 1950 al 1989 le domande d’asilo presentate sono state 188 mila, mentre negli ultimi vent’anni sono salite a 326 mila. Solo nel 2011 il Ministero degli Affari Esteri ha rilasciato 231.750 visti per inserimento stabile, in prevalenza per motivi di lavoro e di famiglia24. Tra i soggiornanti europei non comunitari (1.171.163), gli albanesi sono i più numerosi (491.495)25. Seguono: 223.782 ucraini; 147.519 moldavi; 101.554 serbi e montenegrini; 82.209 macedoni; 37.090 russi; infine, tra i 20mila e i 30mila comprendono persone di nazionalità bosniaca, croata e turca.

Alla fine del 2011, su un totale di 1.105.826 di stranieri provenienti dal continente africano, i marocchini risultavano essere il numero maggiore presente in Italia (506.369). Le altre grandi collettività africane provenivano da: Tunisia (122.595), Egitto (117.145), Senegal (87.311), Nigeria (57.011), Ghana (51.924), Algeria (28.081) e Costa d’Avorio (24.235). Circa 15 mila soggiornanti, appartengono al Burkina Faso e altri 10 mila provengono complessivamente dal Camerun, Eritrea, Etiopia, Mauritius e

23 L’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) è un ente di ricerca pubblico italiano. 24

G. PEREGO, Gli immigrati - non sono numeri, Scheda di Sintesi del XXII Dossier Statistico sull’immigrazione – Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, Roma, 20 ottobre 2012, p. 2.

25 Secondo un recente studio dell’European Migration Network, l’Italia registra il più alto numero di

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Somalia. L’Italia è anche lo Stato membro che nell’Unione Europea accoglie le comunità più numerose di cinesi (277.570), filippini (152.382), bangladesi (106.671) e srilankesi (94.577). Infine, bisogna ricordare il forte impatto che la Primavera Araba ha avuto sulle coste mediterranee. Solo nei primi mesi dall’inizio delle agitazioni, gli sbarchi di barconi carichi di immigrati provenienti dal nord dell’Africa hanno coinvolto circa 70 mila persone, con principali partenze dalla Tunisia e poi dalla Libia.

1.2 Le dinamiche migratorie

1.2.1 I volti delle migrazioni

Dopo aver descritto l’evoluzione storica delle migrazioni e aver diffuso qualche informazione sul numero delle presenze, adesso è opportuno chiarire “chi” debba essere definito migrante. Per dare una definizione di campo, si deve essere consapevoli della complessità e fluidità dei processi migratori, nonché del fatto che la terminologia varia a seconda dei sistemi giuridici, delle vicende storiche e delle contingenze politiche degli Stati. Fatte queste dovute premesse, è utile riprendere l’enunciazione proposta dalle Nazioni Unite, dove per migrante s’intende: «Una persona che si è spostata in un Paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel Paese da più di un anno» (Ambrosini, 2005:17). In altre parole, è migrante colei o colui, il quale si è “spostato” in uno Stato diverso da quello in cui è nato o risiedeva abitualmente, con una permanenza fissata convenzionalmente almeno ad un anno. Secondo il punto di vista da cui si guardano, i movimenti migratori prendono due tipi di denominazioni: emigrazione quando ci si riferisce all’uscita dallo Stato di origine; immigrazione quando guardiamo a quello di arrivo. I soggetti che compiono questi spostamenti hanno il nome rispettivamente di emigranti e immigrati26.

Nella terminologia giornalistica è molto frequente l’utilizzo dell’appellativo (spesso in senso negativo) extra-comunitario, termine generalizzante con il quale è solito definire i cittadini non appartenenti alla Comunità europea. Bisogna, però, chiedersi se

26 “I termini immigrazione ed emigrazione indicano lo stesso fenomeno a seconda che sia esaminato dal

punto di vista del Paese di origine del migrante (emigrazione) o di quello di arrivo (immigrazione). Non si tratta solo di una questione terminologica, ma anche di un’inversione dei punti di vista che hanno conosciuto tutti gli Stati europei, passati da essere aree di origine di emigrazione a mete di destinazione di immigrazione negli ultimi anni”, in G. GIULIANO, S. TANAGLIA, S. TESTANA (a cura di), L’integrazione socio-economica degli immigrati. Strade percorribili, in “Osservatorio ISFOL”, Vol. I, n.

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in un’epoca di globalizzazione sia possibile poter riuscire a tracciare ancora un confine netto tra l’intra- e l’extra-, poiché i movimenti migratori hanno assunto ormai direzioni su scala planetaria.

Erroneamente si è soliti pensare che gli spostamenti di persone siano un fenomeno unitario e omogeneo, supponendo che i migranti siano diversi da “noi”, ma uguali tra “loro” in termini di motivazioni e di culture. È possibile sgonfiare questo preconcetto articolando una classificazione della tipologia dei migranti migratori che segue una determinata serie di criteri: i confini degli Stati, la durata del soggiorno, il numero delle persone, il carattere demografico, lo status giuridico e quello motivazionale.

1) Seguendo il criterio dei confini avremo una prima distinzione fra migrazioni interne e internazionali. Le prime sono spostamenti di persone da una parte all’altra dello stesso Stato senza che vi sia un attraversamento delle frontiere politiche, ma solo quelle amministrative. In quest’ultimo caso possono prendere il nome di migrazioni interregionali, intercomunali e intercircoscrizionali, dove gli stessi cittadini muovendosi sul territorio, condividono uguali diritti e doveri, lingua e cultura. In caso di superamento dei confini esterni avremo invece le migrazioni internazionali che possono assumere carattere intercontinentale o transoceanico. 2) Seguendo il criterio della durata del soggiorno avremo le migrazioni temporanee, da suddividere ulteriormente tra quelle di breve e di lunga durata, o le migrazioni definitive. Ciò non esclude che quelle a carattere inizialmente temporaneo non assumano alla fine un carattere definitivo, mentre altre programmate come permanenti sotto le influenze di fattori che, come li hanno spinti a partire, così li costringono anticipamene a ritornare nei Paesi di origine. In quest’ultimo caso, si può operare la distinzione fra: ritorni occasionali (di breve durata), stagionali (legati ad attività lavorative svolte come nel caso dell’agricoltura o turismo), o definitivi. Quando gli spostamenti assumono un carattere stabile, iniziano a concretare relazioni anche di tipo familiare, creando il fenomeno delle cosiddette “seconde generazioni”, ovvero i figli e i discendenti dei migranti. Quest’ultima tipologia può essere a sua volta suddivisa in:

“Seconda generazione nativa o primaria: chi è nato nel Paese di destinazione e, sin dalla nascita ha sviluppato rapporti con l’ambiente circostante;

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Seconda generazione impropria: chi è nato in un altro Stato, ma dal quale è emigrato in età fra 1 e 6 anni, iniziando il ciclo scolastico nella Nazione d’arrivo;

Seconda generazione spuria: chi è giunto nello Stato ospitante interrompendo o dopo aver completato il ciclo scolare tra gli 11 e i 15 anni, quando il meccanismo di socializzazione era già iniziato in un altro contesto multiculturale”27.

3) Seguendo il criterio del numero delle persone che si spostano, avremo migrazioni individuali o per gruppi; questi ultimi a loro volta possono essere composti sia da singoli individui, sia da nuclei familiari. Diverso è il caso dell’ “esodo”, dove si assiste alla partenza volontaria di una comunità o comunque di un gran numero di persone dalla propria Nazione per motivi di lavoro, religiosi, politici od etnici.

4) Seguendo il criterio demografico, si potranno avere delle diversificazioni dei flussi migratori in base al sesso o all’età. Sino pochi decenni fa gli spostamenti erano compiuti principalmente da uomini soli, di giovane età e in cerca di lavoro. Le donne, invece, arrivavano solo quando questi ultimi erano sufficientemente stabilizzati e integrati nello Stato di destinazione, in grado cioè di sostenere economicamente la propria famiglia. Recentemente le cose si sono alquanto modificate, poiché è stato possibile assistere a un coinvolgimento sempre più consistente di presenze femminili nel contesto migratorio, le quali non solo s’inseriscono immediatamente nel mercato del lavoro dopo il loro arrivo, ma anzi, spesso sono loro stesse le prime a partire in modo autonomo per cercare un lavoro ed effettuare successivamente eventuali ricongiungimenti con mariti, genitori e figli. Ovviamente, non si può non menzionare il carattere talvolta non volontario degli spostamenti femminili. Le donne sono le prime ad essere vittime di organizzazioni criminali, che ingannandole con fantasiose promesse tali da cambiare radicalmente le loro condizioni di vita, finiscono nel giro della prostituzione nel Paese di arrivo. Infine, vi è il fenomeno dei “minori stranieri non accompagnati”, cioè i minori stranieri che si trovano sul territorio dello Stato di

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destinazione, privi di assistenza e di rappresentanza da parte di genitori o di altri adulti legalmente responsabili per essi. Questa tipologia di migranti coinvolge generalmente giovani ragazzi di età compresa tra i 15 e 17 anni, i quali spinti dalle stesse ragioni degli adulti a muoversi dallo Stato d’origine, hanno la speranza che la loro giovane età offra maggiori opportunità di trovare un lavoro o comunque di migliorare le loro condizioni di vita o quelle dei familiari rimasti in patria.

5) Seguendo il criterio dello status giuridico avremo le migrazioni legali o illegali. Mentre nelle prime rientrano tutti gli ingressi avvenuti seguendo le leggi dello Stato di destinazione28, le seconde che non rispettano tali regole possono essere a loro volta suddivise in: irregolari se entrati in maniera regolare, rimanendovi nonostante la scadenza del titolo che gli aveva concesso il permesso a entrare; clandestini, se entrati fraudolentemente dopo aver attraversato la frontiera privi dei necessari documenti o in possesso degli stessi ma falsificati; e, infine, vittime di traffici illeciti, qualora costretti con l’inganno ad attraversare la frontiera29. La presenza regolare o no di un individuo non dipende da una sua scelta o da una sua caratteristica soggettiva, ma dalla definizione che di esso dà il quadro normativo vigente dello Stato di arrivo (Zanfrini, 2007:40).

6) Seguendo l’ultimo criterio, quello motivazionale, è possibile distinguere migrazioni volontarie o forzate. Come suggerisce la parola stessa, si hanno migrazioni forzate quando le persone sono costrette a lasciare la residenza abituale in seguito al verificarsi di fattori indipendenti dalla propria volontà e tali da non permettergli più la permanenza in un luogo30. La migrazione forzata può scaturire anche da misure di evacuazione quando vi è l’ordine, da parte di organi Statali, di svuotare un territorio dai suoi abitanti in seguito a persecuzioni politiche o razziali, eventi bellici o dietro minaccia di qualche cataclisma, come eruzioni vulcaniche,

28 Rientrano in questa tipologia: - i free migrantes, ossia le persone appartenenti a Nazioni con le quali lo

Stato di destinazione ha sottoscritto accordi di libera circolazione; - i residenti a titolo permanente, chi è in possesso di un titolo di soggiorno che conferisce loro il diritto a risiedere in uno Stato per un tempo illimitato; - i residenti a titolo temporaneo, ovvero chi, indipendentemente dal lavoro svolto, dispone di un titolo di soggiorno di durata limitata che prevede il rientro nel Paese di appartenenza al momento della sua data di scadenza.

29 I casi più tipici sono quelli della prostituzione forzata, sfruttamento della mendicità o organizzazione di

forme di lavoro coatto.

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terremoti o alluvioni. In questi casi, gli spostamenti umani assumono la denominazione di profughi31 o sfollati32. Un’altra categoria di migranti forzati è quella dei rifugiati. Il loro status giuridico è regolamentato dalla Convenzione di Ginevra del 1951, la quale riconosce come rifugiato colui che: «[...] temendo di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra»33. Nella sua accezione originaria, questa definizione riguardava essenzialmente il problema del rientro degli esuli nell’immediato dopoguerra o gli spostamenti di popolazione dovuti alla creazione degli Stati post-coloniali in Africa e in Asia. Negli ultimi anni, invece, il termine si è esteso anche al significato di “vittima della violazione dei diritti umani”34. “La suddetta tipologia di migranti è frutto del venir meno delle più elementari condizioni di sicurezza provocate dalle nuove guerre, contraddistinte dal collasso delle tradizionali autorità statali, dalla presenza di bande armate, dalla presa in ostaggio di popolazioni civili come strumento di pressione sulle organizzazioni internazionali e dal sovrapporsi di crisi di approvvigionamento e di sussistenza”35. Infine, le migrazioni sono definite volontarie quando, in presenza di forti differenziali nelle condizioni di vita tra uno Stato e l’altro in ambito economico, politico, sociale o ambientale, si sceglie deliberatamente di partire. Tali disomogeneità spingono una parte della popolazione residente nello Stato più

31 Dal latino “profugus”, derivato di “profugere” ovvero «fuggire», è un’espressione priva di un

contenuto giuridico e usata per definire in modo generico chi si allontana dal Paese di origine in seguito a persecuzioni, conflitti o violenze.

32

“Questa categoria di persone spesso conosciuta con il termine di sfollati interni o con il termine

internazionale ‘Internally Displaced Persons – IDPS’ si riferisce a tutti quelli che sono costretti a fuggire dalle proprie case in seguito a violazioni dei loro diritti, soprusi, violenze e conflitti armati, senza però oltrepassare i confini politici dello Stato di appartenenza, rimanendo quindi sotto la sua giurisdizione” in

E. CODINI, M. D’ODORICO, M. GIOIOSA (a cura di), Per una vita diversa. La nuova disciplina

italiana dell’asilo, Franco Angeli, Milano, 2009, p. 91.

33

Vedi art. 1, Capitolo 1 - “Definizione del termine di rifugiato”, Convenzione sullo status dei rifugiati, Ginevra, 28 luglio 1951.

34 G. GOZZINI, Le migrazioni di ieri e di oggi. Una storia comparata, Mondadori, Milano, 2012, pp.

47-48.

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16

povero a spostarsi verso quello che offre migliori opportunità in termini di condizioni di vita attuali e future.

Le varie distinzioni tra le diverse tipologie migratorie hanno perso oggi gran parte della sua rilevanza poiché spesso tendono a sovrapporsi. Per esempio, il verificarsi di fattori, spesso di natura economica, può trasformare una migrazione temporanea in permanente o viceversa. Stesso discorso può essere fatto per le migrazioni forzate e per quelle volontarie: episodi d’instabilità politica o il verificarsi di guerre possono impedire il ritorno di precedenti allontanamenti volontari, trasformandoli in soggiorni obbligati. “Talvolta, le migrazioni libere sono anch’esse in molti casi determinate da fattori espulsivi che agiscono in maniera selettiva su specifiche classi o ceti sociali, ad esempio la povertà è spesso il risultato di un’iniqua ripartizione delle risorse disponibili e di comportamenti discriminatori nei confronti di ceti deboli o etnie minoritarie. Allo stesso tempo, talune migrazioni forzate internazionali presentano un elemento volontario non trascurabile, se non nella decisione di espatriare, quantomeno nella scelta della Nazione verso la quale indirizzarsi. Infine, non si può disconoscere che talune migrazioni forzate, come quelle derivanti dalla presenza di conflitti interni, assumano una caratterizzazione prevalentemente interna, perché i migranti possono trovarsi nell’impossibilità di varcare i confini nazionali”36

.

1.2.2 I fattori di spinta e di attrazione

“La mobilità va diventando sempre più elemento di democrazia reale, dal momento che grazie ad essa, tutti possono essere messi in condizioni di sfruttare, in situazioni sempre più ampie e diverse, le proprie potenzialità, senza il vincolo, fortissimo e a volte paralizzante, costituito dalla situazione umana e ambientale nel quale ogni individuo necessariamente si trova a essere inserito”37. Fatta tale premessa è opportuno dunque domandarsi quali siano i meccanismi che spingono gli esseri umani a mettersi continuamente in movimento.

36

Ivi, p. 3.

37 M. BRESCHI, A. FORNASIN, I movimenti di popolazione nel mondo contemporaneo, in “Migrazioni

- Scenari per XXI° Secolo”, Atti del Convegno Internazionale, Roma, 12-14 Luglio 2000, disponibile al seguente indirizzo: www.cestim.it.

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Dai numerosi studi effettuati sui movimenti migratori, sono scaturiti due grandi gruppi di fattori motivazionali: quelli di spinta (push-factors), dati dalle condizioni negative presenti nel luogo di origine, e quelli di attrazione (pull-factors), dati dalle condizioni effettive o presumibili presenti nel luogo di destinazione (Ambrosini, 2005:34). Le motivazioni generalmente riscontrate sono di natura fisica (climatiche), demografica (densità della popolazione), economica (opportunità lavorative), socio-culturale (libertà individuale) o politica (richiesta di asilo politico)38.

Le spiegazioni delle migrazioni sono state oggetto di studio socio-economico, vedendo contrapporsi le “teorie macro-sociologiche o strutturaliste” alle “teorie micro-sociologiche o individualiste”.

1. Le teorie macrosociologiche o strutturaliste fanno riferimento alle disuguaglianze tra le diverse aree del mondo a causa di uno sviluppo economico ineguale che si è andato ad incrementare nel tempo. Una prima disuguaglianza è riscontrabile nell’analisi demografica dove, esaminando i massicci arrivi dal Nord Africa presso le coste europee del Mediterraneo, gli studi hanno registrato un forte squilibrio nelle popolazioni coinvolte: alti tassi di fecondità si sono registrate nelle aree del Terzo Mondo a scarso sviluppo economico, con conseguente crescita dell’inoccupazione; mentre si è avuto un invecchiamento degli abitanti e una riduzione dei tassi di crescita demografica negli Stati ad elevato progresso socio-economico. A causare movimenti migratori vi sono poi le disuguaglianze geografiche nei processi di sviluppo risalenti alle relazioni coloniali che continuano a determinare una situazione di sfruttamento dei Paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”, attraverso rapporti di scambi commerciali ineguali, favorendo l’accrescimento della ricchezza solo nelle Nazioni più sviluppate39

. Le suddette problematiche generano il fenomeno del brain drain, ossia quando le risorse umane più valide lasciano gli Stati d’origine, impoverendoli, per luoghi in cui le loro abilità

38 P. A. NEGRINI, Il fenomeno migratorio oggi, in “People on the move” n. 87, Pontifical Council for the

Pastoral Care of Migrants and Itinerant People. Disponibile al seguente indirizzo: www.vaticano.va.

39

La teoria della dipendenza, collocatasi in ambito neo marxista, è divenuta popolare negli anni ’60-’70 e rappresenta un insieme di contributi teorici delle scienze sociali accomunati da una tesi di fondo secondo la quale la relazione fra Paesi del Nord e del Sud del mondo è basata su un meccanismo di subordinazione economica in cui le Nazioni della periferia, più povere e sottosviluppate, sono sfruttate da quelle più ricche e sviluppate al fine di mantenere il loro elevato livello economico.

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sono maggiormente valutate. Nell’analisi dell’approccio strutturalista si trova anche la teoria sistemica delle migrazioni che mette tra le principali cause di migrazione la recente globalizzazione, poiché ha reso più facili le comunicazioni e gli spostamenti da una parte all’altra del pianeta. “All’interno di questa dottrina vi è la teoria del sistema-mondo, secondo cui la crescente globalizzazione delle comunicazioni e degli scambi incrementa i legami tra diverse aree del pianeta, il suo più noto esponente è I. Wallerstein (1982), il quale ha ripreso l’idea internazionale della divisione del lavoro e degli scambi ineguali, classificando gli Stati in base al grado di denominazione capitalistica occidentale40. Perciò le migrazioni sono un effetto della dominazione esercitata dai Paesi a più sviluppo capitalistico poiché attratte dalle economie più sviluppate” (Ambrosini, 2005:35). Tra queste spiegazioni rientra anche la cosiddetta attrazione della domanda di lavoro povero da parte dei sistemi economici sviluppati. Un sostenitore di questa teoria è Priore, secondo il quale partendo dalla necessità di mettere al riparo da fluttuazioni del mercato capitalista almeno quella parte dei lavoratori che possiedono un lavoro sicuro, tutelato sindacalmente e ben retribuito, i Governi hanno scaricato su altri lavoratori il peso di tali incertezze (teoria dualistica del lavoro). Attualmente, questi soggetti sono individuabili negli immigrati che essendo i più economicamente deboli e principalmente mossi dall’esigenza di avere un posto di lavoro, si trovano costretti ad accettare lavori precari, poco tutelati e mal retribuiti.

2. L’altro grande gruppo delle spiegazioni delle migrazioni, le teorie microsociologiche o individualiste, parte dall’analisi delle scelte individuali o familiari. Questa interpretazione è da ricollegarsi all’approccio della teoria neoclassica, secondo la quale i pull factors sono individuabili nelle differenze salariali e di opportunità occupazionali tra Stati diversi economicamente. Il

40 Il mondo moderno è suddiviso in Stati Centrali, Periferici e Semi-periferici. La Periferia del sistema

(coincidente generalmente con gli Stati del Terzo Mondo) fornisce al Centro (gli Stati più avanzati economicamente) materie prime, prodotti finiti e forza lavoro a basso costo. Quando le manifatture sono trasferite verso il Centro e immesse nel mercato, si realizza uno scambio ineguale per cui il Centro acquista dalla Periferia, a prezzi bassissimi, i materiali per la produzione di manufatti che verranno poi rivenduti agli stessi Paesi periferici a prezzi, chiaramente, superiori a quelli delle materie prime vendute e necessarie alla produzione. Da ciò si determina il sottosviluppo e la dipendenza della Periferia dal Centro. Gli Stati Semi-periferici, invece, sebbene più economicamente instabili tendono ad allontanarsi dalla periferia avvicinandosi al centro.

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presupposto è che l’individuo sia in grado di compiere delle scelte razionali in conformità a una gerarchia di preferenze, individuando il percorso tale da permettergli di massimizzare la sua utilità. Chi decide di partire dovrà tenere in considerazione nelle proprie valutazioni i costi da sostenere, confrontandoli con i vantaggi ottenibili dal trasferimento all’estero. Alle motivazioni individuali si affiancano anche quelle a carattere familiare (new economic of migration). Talvolta, la decisione di partire non ha una motivazione unicamente di benessere individuale, bensì lo scopo di dare un supporto finanziario ai congiunti rimasti in patria attraverso le rimesse41. In altri casi, invece, le motivazioni possono riguardare il trasferimento di tutto il nucleo familiare, dando così direttamente anche ad essi di usufruire di migliori opportunità di vita.

3. Fra le due visioni sopra descritte esistono anche delle spiegazioni “intermedie”. Le migrazioni non possono essere esaustivamente ricondotte a decisioni di natura economica, ma occorre anche leggerle come un fenomeno sociale. Possiamo così includere tra le cause le cosiddette teorie dei network, introdotte dal sociologo D. Massey (1988). Secondo quest’ultimo, i network migratori sono: «Complessi legami interpersonali che collegano i migranti, migranti precedenti, e non-migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine»42. Le migrazioni sono viste perciò come un “effetto delle reti di relazioni interpersonali tra immigrati e potenziali migranti”43. Il progresso tecnologico ha ridotto considerevolmente le distanze tra gli Stati, sia dal punto di vista dei trasporti sia dal punto di vista dell’informazione. I nuovi mezzi di comunicazione di massa rendono più facile e veloce l’acquisizione delle informazioni riguardanti lo Stato di destinazione, motivando altri alla partenza, e autoalimentando così i processi migratori44. Questi ponti sociali di relazioni, inoltre,

41 Le rimesse sono il rientro della ricchezza prodotta da generazioni di individui che svolgono un’attività

lavorativa all’estero, ma i cui costi di allevamento sono stati sostenuti dagli Stati di origine. Se le rimesse sono somme di denaro che rientrano in patria e se non sono sfruttate unicamente per un uso familiare, ma messe a disposizione delle casse statali del Paese di origine, il loro contribuito all’economia statale può essere significativo dato che possono essere utilizzate per fare investimenti.

42

G. POLLINI, G. SCIDÁ, Sociologia delle migrazioni e della società multietnica, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 18.

43 M. AMBROSINI, 2005, op. cit. p. 42.

44 Le informazioni trasmesse riguardano soprattutto le modalità per raggiungere lo Stato di destinazione,

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rientrano nelle valutazioni dei costi e dei benefici di chi decide di intraprendere un viaggio. È difficile scegliere di recarsi un Paese straniero senza aver alcun tipo di rapporti sociali con persone che vivono in quel determinato luogo. Un’evoluzione di questa teoria può essere definita transazionalismo, ovvero quando “i migranti appaiono coinvolti nei processi collettivi attraverso i quali tessono reti sociali o mantengono relazioni multiple che collegano tra loro la società di origine, quelle di approdo e, molto spesso altre località dove sono presenti altri gruppi di connazionali. Queste collettività sono oggi intese come comunità mobili di individui, le quali soggiornano all’estero senza un preciso termine temporale, circolando tra due o più territori appartenenti a Stati diversi e, alimentando circuiti tramite cui transitano informazioni, oggetti, idee, immagini, capitali oltre che persone, trasformandoli in identità culturali fluide”45.

Sebbene, le teorie intermedie offrano validi spunti per spiegare la persistenza delle migrazioni, esse non danno alcuna indicazione su come possano nascere, né quali siano le destinazioni scelte. Anche i due precedenti gruppi di spiegazioni non sono esenti da critiche.

Contrariamente a quanto sostenuto, cioè che i fattori di stimolo sono principalmente causati dalle differenze economiche fra uno Stato e l’altro, tuttavia, non si è mai registrato un movimento migratorio di grandi dimensioni da parte delle popolazioni provenienti dalle fasce più estremamente povere del mondo. “Infatti, non sempre condizioni di estrema povertà totale spingono verso una ricerca di condizioni diverse sia per ostacoli di natura economica sia per la consapevolezza che il loro livello di istruzione non sostiene la competizione con gli Stati più avanzati, e ciò li demotiva a partire. Si può constatare che generalmente chi decide di emigrare proviene dalle classi medie semmai impoverite” (Ambrosini, 2007:36). É prevedibile poi che una volta esauriti i fattori di attrazione in determinate società economiche, la domanda degli immigrati si rivolga verso nuove aree del mondo, rimettendo in moto il fattore migratorio.

Le teorie neoclassiche delle migrazioni, invece, sono criticabili perché riducono l’essere umano ad un attore razionale, il quale attua scelte esclusivamente legate alla

45 P. MEZZETTI, A. STOCCHIERO, Trasnazionalismo e catene migratorie tra contesti locali, in

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dimensione economica. Questo fattore può avere una certa influenza, sicuramente, dato che la natura umana è incline sempre a migliorare la propria condizione lavorativa, ma ciò vuol dire non prendere in considerazione anche altri fattori, come la possibilità di avere una migliore istruzione per figli, maggiori opportunità di cure mediche, etc.

Accanto alle spiegazioni economico-sociologico, vi sono anche quelle di natura politica. Nell’attrazione dei flussi migratori può ricoprire un ruolo rilevante la normativa. Quest’ultima influisce in modo non indifferente sulla densità, sulla composizione e sulla destinazione dei flussi migratori. Alcuni esempi possono essere gli ingressi autorizzati per motivi di lavoro, come nel caso degli Stati Uniti, del Regno Unito, del Canada e dell’Australia, attirando in questo modo lavoratori più istruiti e più qualificati professionalmente. Al crescere delle restrizioni d’ingresso, i flussi migratori si sono rivolti ai Paesi del bacino sud del Mediterraneo, dotati di legislazioni meno restrittive. La crescente contrazione occupazionale, a seguito della recente crisi economica, ha portato però anche in questi Stati ad inasprire la normativa sui visti d’ingresso, contribuendo ad incrementare l’immigrazione irregolare. A questo fenomeno distorsivo si è cercato di porre rimedio attraverso l’utilizzo delle cosiddette sanatorie. Quest’ultime sono provvedimenti normativi che, legalizzando a posteriori la presenza irregolare di alcuni soggetti, attuano una selezione implicita degli individui autorizzati a restare sul territorio nazionale.

Il ruolo di filtraggio degli arrivi svolto dalle norme sull’immigrazione non fornisce però una giustificazione alle cause dei movimenti migratori. Solo dove le norme nazionali riconoscono la cittadinanza ai discendenti degli immigrati, è possibile intravedere un rapporto di connessione tra regolamentazione e movimenti migratori46.

1.2.3 Le direzioni dei flussi migratori

L’importanza dei vincoli storici e geografici negli anni è andata attenuandosi, mentre le ondate migratorie hanno sempre più dilatato i propri confini ridisegnando relazioni e direttrici del sistema internazionale47. Le diaspore migratorie sono ormai una questione che abbraccia l’intero pianeta, coinvolgendo un crescente numero di Nazioni

46 M. AMBROSINI, 2005, op. cit. p. 50.

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interessate dagli arrivi e partenze di mobilità umane. Questo moltiplicarsi di canali e flussi, dalle caratteristiche diversificate e complesse, rendono praticamente impossibile dare una rappresentazione grafica ben delineata dagli spostamenti di popolazioni. Dall’analisi storica di questi ultimi è possibile però osservare in che modo essi si siano evoluti o individuare indirettamente quali siano le vecchie e le nuove aree d’immigrazione.

Se fino a un secolo fa, i movimenti migratori andavano da Nazioni con sovrabbondanza di forza lavoro e scarsità di capitali in direzione di territori scarsamente popolati e in fase d’industrializzazione, adesso la situazione è notevolmente invertita48. “Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, i flussi migratori hanno cessato di essere dominati da emigranti europei – lavoratori, soldati, coloni, detenuti, rifugiati – che uscivano dall’Europa per trasferirsi in altri territori, in genere alla ricerca di migliori condizioni di vita”49. La ripresa economica del dopoguerra aumentò la richiesta della manodopera interna all’Europa, facendo registrare così un incremento di lavoratori stranieri in Italia, Spagna, Portogallo e Francia. Quest’andamento perdurò sino agli anni ’70 quando il mondo, in seguito alle due crisi petrolifere, fu investito dalla recessione economica. Dal processo di decolonizzazione (anni ’60-’70), invece, scaturirono flussi in uscita dalle colonie verso i rispettivi Stati colonizzatori, riversandosi per lo più nelle loro città metropolitane.

Nell’Europa centrale, invece, si è iniziato ad assistere ad un massiccio aumento di arrivi dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989, il quale ha visto uno spostamento delle popolazioni dell’Europa dell’Est e Balcanica verso gli Stati dell’Europa occidentale, attirati dal tenore di ricchezza prodotto dal sistema capitalistico. Sempre in questi anni vi sono stati due flussi meno noti: verso i Paesi ricchi di petrolio del Medio Oriente e verso il sudest-asiatico che erano stati protagonisti di un intenso sviluppo industriale (Corea del Sud, Malesia, Hong Kong) fino alla fine degli anni ’90, prima di essere colpiti da una recessione economica50.

48

G. GOZZINI, 2005, op. cit. p. 45.

49

A. COLOMBO, G. SCIORTINO, Gli immigrati in Italia. Assimilati o esclusi: gli immigrati, gli

italiani, le politiche, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 12.

50 M. MACIOTTI, E. PUGLIESE, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Edizioni

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Negli anni del pieno boom della globalizzazione “i migranti potevano spostarsi avanti e indietro molto più facilmente e rapidamente, rimanendo in contatto regolare con i luoghi e le famiglie d’origine, anche se queste si trovano all’altro capo del mondo”51. Inoltre, quegli anni sono stati caratterizzati da una decentralizzazione dei processi produttivi dalle Nazioni più ricche verso quelle meno sviluppate (quindi con una manodopera a basso costo), implicando anche un aumento della mobilità lavorativa su scala mondiale.

Negli ultimi dieci anni si sono aggiunti agli Stati di destinazione quelli cosiddetti di “transito”, dai quali si originano flussi migratori di portata e direzioni diverse. Infatti, nei percorsi migratori talvolta l’approdo in alcuni Stati è solo la prima tappa verso altre direzioni. Esempi sono le Nazioni del bacino sud del Mar Mediterraneo, in particolare: l’Italia che vede molti dei nuovi arrivati spostarsi in direzione della Germania o Gran Bretagna; la Spagna che con la sua vicinanza alle coste Marocchine è un ponte di collegamento tra l’Africa e il resto dell’Europa.

Se negli ultimi cinquant’anni i flussi migratori abbiano riguardato prevalentemente movimenti dai Paesi poveri del Terzo Mondo verso le Nazioni più sviluppate, la recente crisi economica e l’incremento del tasso di disoccupazione che ne è seguito hanno provocato un ennesimo cambiamento nella tipologia di flussi: adesso si registrano spostamenti bidirezionali di popolazioni anche tra Stati economicamente più ricchi, spinti dalla necessità di trovare un lavoro.

1.2.4 Le implicazioni dei movimenti migratori

L’enormità e la complessità del fenomeno migratorio possono stravolgere il volto di una società: se in meglio o in peggio sta a noi stabilirlo. Questa realtà porta con sé notevoli implicazioni economiche, sociali, culturali e di ordine pubblico che possono essere visti come problemi o risorse per le società, secondo le loro capacità di gestione52. Nell’introduzione del loro libro, “The Age of Migration”, Stephen Castle e Mark J. Miller, sottolineano che «le implicazioni delle migrazioni internazionali non riguardano solo i diretti protagonisti dell’esperienza migratoria, ma anche altre

51

Cfr. P. STALKER, Workers without frontiers: the impact of globalization on international migration, International Labour Organization (ILO), 2000, p. 7.

52 G. MARTINO, Immigrazione: problema o risorsa? Come gestire un fenomeno complesso, in

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persone ad esse collegate e in generale il contesto sociale complessivo delle aree di arrivo e di provenienza»53.

I primi cambiamenti si rincontrano nella consistenza numerica della popolazione nelle zone interessate, con conseguenze sull’economia degli Stati di origine e di arrivo. Il fatto che la struttura per età dei migranti sia caratterizzata da una larga prevalenza di giovani contribuisce a modificare la dinamica naturale delle popolazioni coinvolte: provoca un abbassamento della natalità nello Stato di origine favorendone l’invecchiamento degli abitanti, mentre in quello di destinazione avviene l’opposto. Di riflesso alle modifiche demografiche vi sono gli effetti economici. Il trasferimento di giovani lavoratori in uno Stato economicamente più ricco, ma demograficamente invecchiato apporterà benefici all’assetto produttivo, il quale altrimenti non avrebbe potuto usufruire di giovane manodopera a livello locale. Gli Stati d’origine, invece, perdono la parte della loro popolazione più economicamente attiva e importante ai fini del processo di sviluppo, di contro però, possono trarne vantaggi dalle rimesse inviate in patria dai soggetti emigrati. Quest’ultime, essendo entrate di capitale di notevoli dimensioni, possono avere un effetto positivo sulla bilancia dei pagamenti dei Paesi d’origine. Tale effetto benefico si può solo avere nel caso in cui esse restano a disposizione dello Stato, il quale potrà usufruirne per attuare investimenti utili ai fini della crescita economica del territorio. Qualora siano destinate solo ad uso familiare, rischieranno di produrre conseguenze negative, poiché non venendo messe in circolo nel sistema finanziario dello Stato, nel lungo periodo favoriranno l’incremento dell’inflazione e, quindi un ulteriore depressione economica.

Quando si sente parlare dell’immigrato come potenziale risorsa per le attività economiche dei Paesi di destinazione, è perché egli consente di allentare eventuali tensioni o difficoltà di reperimento di manodopera in alcuni settori o comparti del tessuto produttivo nazionale54. Infatti, nei Paesi più economicamente sviluppati, dove è possibile raggiungere elevati livelli di qualificazione, esistono mestieri che “i cittadini di uno Stato non vogliono più fare”. Si parla di tutte quelle attività che richiedono una

53

I. MACIOTTI, E. PUGLIESE, 2003, op. cit. p. 3.

54 Agenzia Romana per la preparazione del Giubileo, Strumenti del credito internazionale, Atti IV del

Convegno Internazionale “Migrazioni Scenari per XXI° secolo”, Centro Europa Ricerche (CER), Roma, 12-14 Luglio 2000. Consultabile al seguente indirizzo: www.cestim.it.

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grande fatica, comportano rischi o sono mal pagati: badanti, operai non specializzati, braccianti agricoli, etc.

I movimenti migratori hanno ripercussioni anche nel settore delle prestazioni sociali delle Nazioni di accoglienza. Quando un immigrato è coinvolto “alla luce del sole” nell’economia del Paese ospitante, esso contribuisce ad arricchire le entrate pubbliche attraverso il pagamento delle imposte e contributi, senza dover ricorrere ad una elevata utilizzazione di servizi di welfare. La realtà si rivela però spesso ben diversa. In alcuni Stati, l’immigrato è generalmente più ricercato poiché il costo della manodopera straniera è notevolmente inferiore rispetto a quella locale e lo straniero, pur di lavorare, accetta anche compromessi lesivi per la persona umana. Nei casi di lavoratori sprovvisti di un visto regolare di soggiorno, le assunzioni avvengono in modo illegale, consentendo ai datori di lavoro di evadere le contribuzioni fiscali e previdenziali che vanno a danneggiare l’economia statale. Gli immigrati – a parte quelli temporanei (stagionali, per motivi di studio) – sono in larga parte persone che entrano in un altro Stato per costruirsi una nuova vita, stabilirvisi a lungo, in molti casi per sempre. Man mano che il fenomeno migratorio si consolida e cominciano ad assumere importanza i ricongiungimenti familiari. Questi sono generalmente costituiti principalmente da persone non attive sul mercato del lavoro (minori e persone anziane), aumenta la domanda di servizi sociali e sanitari, finanziati con programmi pubblici.

Cambiamenti vi sono anche nelle caratteristiche intrinseche delle popolazioni interessate dai movimenti migratori. Singolare è l’effetto che quest’ultime hanno sulla cultura della Nazione di origine e di destinazione quando le diversità si trovano a confronto: «Se non sono significativamente distanti, può avvenire una compenetrazione in cui prevalgono in genere gli elementi propri della cultura più evoluta»55. Effetti di rimescolamento culturale possono esserci anche nei Paesi di ritorno, dato che una permanenza in uno Stato di immigrazione, breve o lunga che sia, può far assumere gli stili di vita di quest’ultima e nel momento del rientro del migrante in patria saranno in qualche misura introdotti anche tra la popolazione di origine.

55 N. FEDERICI, Movimenti migratori, Enciclopedia delle Scienze Sociali, Traccani Editore, 1996.

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1.3 La percezione dello straniero

1.3.1 L’incontro con l’ “Altro”: ospitalità od ostilità?

Spesso si è portati a pensare che l’esperienza dell’ “estraneo” sia qualcosa di recente, tipica della nostra epoca e accentuata dall’esperienza della globalizzazione. In realtà, gli scambi tra società ed economie hanno da sempre messo in moto spostamenti di persone da una parte all’altra del pianeta, determinando incontri tra popoli e culture, spesso occasione di scontri e conflitti. Quello che separa passato e presente è che nel primo caso lo straniero era più facilmente identificabile con chi si trovava al di fuori di un determinato territorio, mentre oggi è sempre più difficile individuare un confine certo e stabile oltre il quale collocare quest’alterità56

.

La definizione moderna del termine «straniero», ovvero “colui che non ha la nostra medesima nazionalità”57, la si trova solo con la costituzione degli Stati-nazione. Già nell’antichità, lo stranierò era visto “come colui non appartenente alla propria comunità o gruppo sociale ben strutturato, formato invece da persone che erano solite indicarsi con il termine di uomini o popolo” (Dusi, 2000:21). Nell’epoca greca, per esempio, lo straniero era identificato come barbaros, termine con il quale si soleva indicare qualcuno che “non è un membro della propria comunità” e poteva, casualmente, ricordare la ripetizione onomatopeica del balbettio, cioè di un parlare farfugliato, confuso e incomprensibile58. “La caratteristica del mondo civile era individuata nel logos: i barbari sono coloro che non parlano la lingua, cioè che non accettano né usano le categorie mentali e comunicative della civiltà”59. Quello che separava quindi i barbari dalle “persone civili” era la mancanza di una socializzazione attraverso un linguaggio comune, non solo verbale, ma anche attraverso una condivisione di valori riconosciuti60. La lingua era, e lo è ancora oggi, uno dei limiti e dei primi segni di percezione della presenza dello straniero in una comunità compatta non solo dal punto di vista geografico o politico, ma anche etnico e culturale.

56 Cfr. V. CESAREO, La questione dell’altro, in V. CESAREO (a cura di), L’altro. Identità, dialogo e

conflitto nella società plurale, in “Vita e Pensiero”, Milano, 2004, p. 8.

57

J. KRISTEVA, Stranieri a se stessi, La Feltrinelli, Milano, 1990, p. 88.

58

P. DUSI, 2000, op. cit. p. 27.

59 M. PONZI, Topografia dell’estraneo, in F. BILANCIA, F. M. DI SCIULLO, F. RIMOLI (a cura di),

Paura dell’Altro. Identità occidentale e cittadinanza, Carrocci, Roma, 2008, p. 23.

(25)

27

L’interesse dello straniero come forma sociale inizia a prendere largo nello studio della sociologia all’inizio del ‘900, quando iniziò essere indentificato nella figura del mercante e/o imprenditore che, con il suo elevato grado di mobilità e spirito d’iniziativa, era in grado di originare consistenti processi di mutamento sociale61. Proprio l’analisi svolta da G. Simmel, racchiusa nel saggio “Excursus sullo straniero” (1908), ci offre un’interessante lettura sull’entità dello straniero all’interno della società: non un viandante o un nomade o come diremmo oggi un turista, ma “chi oggi viene e domani rimarrà”62.

Il saggista, inoltre, ha fatto notare per la prima volta l’interazione fra esso e la comunità ospitante in cui, riconoscendo nello straniero una posizione “precaria” all’interno delle società, diviene una figura ambivalente, caratterizzato da una sintesi di “vicinanza” e “lontananza”, di “presenza” e allo stesso tempo di “provvisorietà”63

. Quest’ambivalenza è un sunto anche dei sentimenti contrastanti che essa suscita nel gruppo integrato in cui entra in contatto: lo straniero è vicino per alcuni tratti generali, in quanto condivide con i nativi lo stesso spazio, anche se in modo non stabile, ma allo stesso tempo è lontano dagli elementi specifici della loro identità, poiché portatore di una cultura diversa rispetto a quella della comunità ospitante.

La dicotomia vicino-lontano non presenta termini oppositivi, ma piuttosto la configurazione dell’estraneità: «Estraneo è ciò che appare al di fuori di un ambito, ciò che appartiene agli altri, ciò che è di altro genere»64. Tale visione è ripresa anche da B. Waldenfels, secondo il quale l’«estraneità non significa che qualcosa è completamente diverso, ma che è in maniera originale altrove»65. Per tali ragioni, la parola “estraneità” di per sé, non ha un significato né positivo né negativo, ma tende ad assumere una delle due accezioni a seconda di come gli individui di una società reagiscono alla richiesta di accoglienza avanzata dallo straniero stesso. Se quest’ultima è percepita negativamente dalla popolazione autoctona, lo straniero è posto in una condizione di esclusione, dato che la prima reazione è quella di allontanarlo dalla propria comunità. Nel caso, invece,

61 R. CIPOLLINI, Lineamenti per una sociologia dello straniero, in R. CIPOLLINI (a cura di) Stranieri:

percezione dello straniero e pregiudizio etnico, Franco Angeli, Milano, 2004, p. 5.

62 G. SIMMEL (trad. it. 1908), Excursus sullo straniero, in “Soziologie”, Edizioni di Comunità, Milano,

1898, pp. 580-584.

63

R. CIPOLLINI, 2004, op. cit. p.5.

64 M. PONZI, 2008, op. cit. p. 25.

65 B. WALDENFELS, Estraneità, ospitalità e ostilità, in M. PONZI, V. BORSÓ (a cura di), Topografia

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