• Non ci sono risultati.

353/2012 Il coraggio della filosofia

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "353/2012 Il coraggio della filosofia"

Copied!
55
0
0

Testo completo

(1)

Il coraggio della filosofia

Premessa

MATERIALI

Pier Aldo Rovatti Il coraggio della filosofia Rosella Prezzo Su “aut aut” e il fare filosofia.

Ripensare l’“essere-al-mondo”

Alessandro Dal Lago Coraggio?

Fabio Polidori Tirare dritto

Graziella Berto La responsabilità della scrittura Antonello Sciacchitano A partire da “aut aut”

Edoardo Greblo Il plurilinguismo della filosofia Giovanni Leghissa La morte del trascendentale Davide Zoletto Una rivista “di servizio”

Raoul Kirchmayr Vegliare, da capo

Giovanni Scibilia Fare “vuoto” per poter pensare Paulo Barone Organizzare il disorientamento Silvana Borutti Che cos’è il sapere, oggi?

Damiano Cantone Resistere alla barbarie e rispondere alla paura

Ilaria Papandrea La studentessa

Mario Colucci La curiosità dello psichiatra Massimiliano Nicoli Il coraggio di un mestiere

impossibile

Massimiliano Roveretto Una vocazione all’inattualità

Pier Aldo Rovatti Pudore, pazienza (e dunque ascolto)

INTERVENTI

Pierangelo Di Vittorio Carismi del reale. L’opera d’arte nell’epoca del marketing e dello spettacolo

Lorenzo Chiesa Umano, inumano e umanesimo nella “Critica della ragion dialettica”

353

gennaio marzo 2012

3

5

19 24 29 34 38 42 48 55 58 65 69 76

81 88 95

102

107

112

115

135

(2)

rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Sergia Adamo, Paulo Barone, Graziella Berto, Deborah Borca (editing, [email protected]),

Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Giovanna Gallio, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni, Massimiliano Nicoli, Ilaria Papandrea,

Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Massimiliano Roveretto, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

direzione: c/o il Saggiatore, via Melzo 9, 20129 Milano sito web: autaut.saggiatore.it

collaborano tra gli altri ad “aut aut”: G. Agamben, H.-D. Bahr, R. Bodei, L. Boella, J. Butler, M. Cacciari, A. Cavarero, R. De Biasi, G. Dorfles, M. Ferraris, U. Galimberti, P. Gambazzi, S. Givone, A. Heller, F. Jullien, J.-L. Nancy, A. Prete, M. Serres, G.C. Spivak, G. Vattimo, M. Vegetti, P. Veyne, V. Vitiello, S. Žižek

per proposte di pubblicazione: [email protected]

Si fa presente che “aut aut” non pubblica recensioni e non accetta testi di ampiezza superiore a 40.000 battute (note e spazi compresi).

il Saggiatore S.p.A.

via Melzo 9, 20129 Milano www.saggiatore.it ufficio stampa: [email protected]

abbonamento 2012: Italia € 60,00, estero € 76,00 L’Editore ha affidato a Picomax s.r.l. la gestione degli abbonamenti della rivista “aut aut”.

L’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiedere gratuitamente la rettifica o la cancellazione scrivendo a: Picomax s.r.l.

responsabile dati, viale Sondrio 7, 20124 Milano (ai sensi della L. 675/96).

servizio abbonamenti e fascicoli arretrati:

Picomax s.r.l., viale Sondrio 7, 20124 Milano telefono: 02 77428040 fax: 02 76340836

e-mail: [email protected] www.picomax.it

Registrazione del Tribunale di Milano n. 2232 in data 13.1.1951 Proprietà: Francesca Romana Paci

Stampa: Lego S.p.A., Lavis (

TN

)

Spedizione in abbonamento postale 45% art. 1, comma 1, decreto legge 353/03 convertito in legge 46/04 – Filiale di Milano.

Finito di stampare nel febbraio 2012

(3)

Premessa

I l coraggio della filosofia è il titolo che abbia-

mo scelto per il volume antologico sui ses-

sant’anni di “aut aut” (appena pubblicato

dal Saggiatore). Questo fascicolo ne è la prosecuzione in chiave

di bilancio critico e di programmi futuri: una prosecuzione nel-

la quale, attraverso brevi interventi, tutte le voci che compongo-

no l’attuale redazione della rivista sono state chiamate a espri-

mersi, con il massimo di chiarezza e non senza toni autocritici,

sul destino di quello speciale lavoro filosofico che “aut aut” è

andato costruendo fino a oggi. Da questi interventi il lettore avrà

anche modo di farsi un’idea più precisa della pluralità e delle

differenze di tali voci, e di ciò che comunque le lega in un impe-

gno culturale comune.

(4)

Materiali

Riproduciamo qui l’introduzione storico-critica al volume

Il coraggio della filosofia. aut aut, 1951-2011 (a cura di

Pier Aldo Rovatti, il Saggiatore, Milano 2011).

(5)

Il coraggio della filosofia

PIER ALDO ROVATTI

M i ha sempre colpito che sul breve edi- toriale del primo fascicolo di “aut aut”

(gennaio 1951) Enzo Paci insistesse so- prattutto sulla parola barbarie, declinandola in un modo molto preciso: questa “barbarie” veniva da lui intesa filosoficamente come l’assolutismo nel pensiero, ogni forma di simile assoluti- smo. Così, la piccola rivista messa in piedi in maniera del tutto artigianale nella casa di un professore di filosofia, a Milano, quan- do ancora gli effetti della guerra si facevano sentire e continua- va a soffiare il vento maligno del ventennio fascista (e l’Italia era un paese in ginocchio che cercava le forze per rialzarsi affidan- dosi all’eredità esaltante ma anche tormentata della Resistenza), sceglieva la battaglia culturale contro la malattia di quel totalita- rismo delle menti che era pur sempre capace di soffocare e uc- cidere le idee. Una battaglia di civiltà, impugnando le armi del- la critica, appunto una critica radicale contro tale barbarie che aveva bloccato i cervelli e avrebbe potuto seguitare a paralizzar- li anche in tempi di democrazia.

Dobbiamo considerare con attenzione questo inizio per com-

prendere tutto il resto. Sessant’anni, dal 1951 a oggi, sono un’e-

normità: fiumi di acque diverse sono passati sotto i ponti e molti

altri ponti, allora impensabili, sono stati costruiti. È perfino cam-

biata l’antropologia degli abitatori del nostro occidente, trasfor-

mazioni nette, epocali, e non sempre dotate di un segno positivo,

basta pensare a cosa sarebbe accaduto nel mondo della comuni-

(6)

cazione, messo letteralmente a soqquadro dalle nuove tecnologie.

Eppure, quel programma di battaglia filosofica contro l’astrat- tezza e la violenza dei pregiudizi, delle Idee con la “I” maiuscola, e di tutti gli “ismi” che hanno continuato a proliferare, resta at- tuale. Non solo è sopravvissuto nei tanti decenni trascorsi e nelle migliaia e migliaia di pagine pubblicate dalla rivista, ma sembra adesso ancora più vivo e urgente, e inoltre assai meno facile da realizzare.

Un messaggio nella bottiglia nell’epoca di Internet e del mon- do globalizzato? Esitiamo un momento, per favore, prima di sor- ridere. E, per di più, un messaggio affidato alla filosofia, cioè al più disarmato dei saperi, quello più esposto all’inerzia della sua vicenda disciplinare, quello più compromesso con l’università e insieme il più emarginato in essa. Sembra un paradosso, appunto, ma lo era fin dall’inizio, e Paci lo sapeva perfettamente. E se nel 1951 era già una maniera alquanto eretica, e all’apparenza impro- pria, per avviare una battaglia “politica” (come chiamarla diver- samente?) nella cultura polarizzata e divisa in due di quegli anni, nel 2011 l’operazione è diventata molto più difficile perché le pa- role si sono ulteriormente usurate, a cominciare dalla parola stes- sa “filosofia”.

Paci voleva re-inventarla contro ogni piattezza accademica e di- sciplinare: per farlo doveva isolarsi dall’establishment, cercare di non farsi risucchiare neppure dal conformismo di quella sinistra sulla cui strada pure decisamente si metteva. Ma isolarsi, e lancia- re così i suoi messaggi contro la barbarie del pensiero, significava anche per la rivista rompere le strettoie di un dibattito troppo lo- cale, immettere nelle sue pagine una quantità di aperture, tentare di sfondare recinti e forzare incasellamenti. Barbarie era, per Paci, anche quest’aria di luoghi chiusi senza alcun respiro internazio- nale, bloccati nella propria disciplinarità.

Re-inventare la filosofia voleva dire farla diventare uno stru-

mento efficace per abbattere paratie e aprire linee di fuga. Signi-

ficava scombussolare l’ordine dei saperi, il loro gioco fasullo di ge-

rarchie e privilegi. I tempi erano favorevoli, indubbiamente, an-

che dentro l’università stessa, ma era chiaro che questa idea di fi-

(7)

Su “aut aut” e il fare filosofia.

Ripensare l’“essere-al-mondo”

ROSELLA PREZZO

P arlare di “aut aut” come luogo di filosofia è per me richiamare inevitabilmente una parte della mia storia (del resto, per chi crede alle congiunture astrali, il mio anno di nascita corrisponde a quello della rivista...). “aut aut” ha rappresentato infatti uno dei miei iniziali legami e a lungo uno dei principali tramiti, più che col sapere filosofico, col fare filosofia. Sul cui significato, nel segno di questo anniversario, ci stiamo oggi reinterrogando in una situazione anche di disagio e disorientamento, almeno per alcuni di noi. Prima quindi di indicare qualcosa nel presente su cui varrebbe forse la pena appuntare la nostra attenzione come a questioni aperte o da riformulare, riconsiderando insieme i nodi tematici che Pier Aldo Rovatti ha ben focalizzato nella storia del- la rivista sotto la formula “il coraggio della filosofia”, ecco il mio personale sguardo all’indietro. Uno sguardo che non vuol essere di semplice amarcord, bensì un tentativo di uscire dalle secche teoriche, dalla miseria simbolica e dalla frantumazione del pen- sare che mi paiono il tratto dominante del momento attuale.

Nella prima metà degli anni settanta, all’Università di Milano,

ho avuto la fortuna di incontrare dei bravi maestri tra cui Enzo

Paci: uno straordinario Socrate “corruttore” di giovani che co-

municava soprattutto il “piacere del pensare”, che era anche una

scuola di libertà e laicità. E nelle cui appassionanti lezioni Kierke-

gaard andava a braccetto con Kafka, Sartre con Antonioni, la Fe-

nomenologia dello spirito hegeliana era letta attraverso il Bildungs-

(8)

roman, o la musica veniva a volte intonata per far sentire il pas- saggio logico di un discorso. Tutto ciò in un periodo pieno di ef- fervescenza e di comunicazione, appunto di movimento. Ma, pa- radossalmente, proprio negli anni in cui mi laureavo con una tesi su Marx e Hegel si sputava su Hegel. Circolava infatti l’ingiunzio- ne femminista irriverente di Carla Lonzi Sputiamo su Hegel, in cui si leggeva, tra l’altro: “Non riconoscendosi nella cultura maschi- le, la donna le toglie l’illusione dell’universalità”. Cosa che mi pro- vocò un certo imbarazzo ma anche un forte turbamento perché mi metteva in gioco nella mia identità di giovane filosofa (anzi, fi- losofo) in formazione. L’effetto di contraccolpo, anche comico e di autoironia, lo percepii solo più tardi nel mio fare filosofia.

Allora, i “luoghi delle donne” non corrispondevano per nulla ai “luoghi della filosofia”. Anzi, per dirla tutta, la filosofia non era molto gradita né granché considerata dalle donne che andavano movimentando non solo la vita pubblica e privata ma anche quel- la del pensiero e delle sue modalità. E in quei luoghi, che pur mi attiravano e mi coinvolgevano, mi sentivo impoverita perché il sa- pere che stavo acquisendo, accumulandolo con passione sembra- va moneta fuori corso. Mi ritraevo perciò un po’ turbata da quel pieno di pratiche collettive, e un po’ diffidente nei confronti di quel che di “militare” ho sempre sentito in ogni “militanza”. Ep- pure, tornando a casa tra i testi dei filosofi, nel tempo della rifles- sione – un tempo sempre differito ma che non può mai essere astra- zione dal tempo comune – avvertivo una profonda comprensione per alcune di quelle obiezioni di fondo. E nella mia testa echeg- giavano come interrogativi ineludibili quelle verità di “fuori”, per- ché mi riguardavano intimamente, consentendo l’ascolto del mio interrogare interiore e aprendomi ad altre fonti di senso.

Questa libertà e questa paradossalità, lezione che i miei mae-

stri e la mia presenza al mondo mi avevano dato, hanno potuto

trovare ospitalità in “aut aut” (ormai passata sotto l’abile regia di

Rovatti). Un luogo, almeno per me, dove il pensiero filosofico non

tendeva a raggiungere un “inquadramento” disciplinare, né si li-

mitava a opere che parlano solo di se stesse o di altre opere, e nem-

meno era inteso come “argomento” cui dedicare il proprio lavo-

(9)

Coraggio?

ALESSANDRO DAL LAGO

P artecipo al dibattito più che altro per mo- tivi di affezione a questa vecchia e glorio- sa rivista. Per quanto mi capiti di dissenti- re su alcuni aspetti, che qui non è il caso di richiamare, ammetto con piacere che sono onorato di comparirvi, mi pare da trenta- due anni, come redattore at large e scrittore erratico. Non so qua- li altri periodici permettano una simile libertà – per cui a un nu- mero abbastanza favorevole sulla consulenza filosofica segue uno sfottò da parte di uno come me, allergico a qualsiasi tipo di con- sulenza, pedagogia e didattica. E dunque, lunga vita ad “aut aut”, al suo pluralismo e alla sua funzione di bussola più che cinquan- tennale in quello che si suol chiamare il dibattito culturale.

Quanto al coraggio dei filosofi, la mia perplessità è ovviamen-

te di tipo sociologico. Chi sono i filosofi? Non necessariamente

quelli che insegnano filosofia, va da sé. E nemmeno quelli che si

dichiarano tali e discettano con supponenza del loro ruolo nel

mondo. Costoro mi fanno un po’ sorridere, più che altro perché

non si avvedono di quanto sono patetici. Rimestano i classici, a

partire da Parmenide o Platone, e cavano dall’interpretazione del-

le antiche opere giudizi sulla crisi dell’Occidente, e fin qui passi,

oppure sulle ragioni metafisiche del crollo delle borse, il che mi fa

sghignazzare. Direi che il loro coraggio, quando non è mera posa,

è quello del vecchio attore imbellettato che declama il monologo

di Amleto in un teatrino di provincia, davanti a qualche ragazzi-

no annoiato.

(10)

Oggi, mi sembra che filosofo sia chiunque il quale, operando o no in territori ufficialmente filosofici, produca qualche idea nuo- va su Dio, uomo e mondo (naturale, storico, sociale ecc.). E dun- que sto parlando di intellettuali. Ma chi sono costoro, e quando si può dire che sono coraggiosi? Oggi, la questione è complicata dal- la straordinaria intellettualizzazione della società. La manipola- zione dei simboli – come qualche anno fa un economista ameri- cano definiva il complesso delle attività intellettuali – coinvolge oggi un enorme numero di soggetti, dagli studenti e insegnanti di ogni ordine e grado, ai giornalisti, agli artisti e agli intellettuali tra- dizionali (quelli che aspirano a un posto all’università o a pubbli- care recensioni sulle pagine culturali dei quotidiani). Ma non esclu- derei nemmeno gli analisti finanziari o i formatori, per quanto le loro attività siano discutibili o perniciose. Tutti gli intellettuali ci- tati hanno in comune, per fare un esempio evidente, lo strumen- to principe della nostra epoca, il computer, il quale, a differenza delle vecchie macchine da scrivere, non è una cosa muta e inerte a nostra disposizione, ma una protesi attiva che condiziona il no- stro modo di pensare e di esprimere pubblicamente le nostre idee.

Pensando al computer non posso non arruolare tra gli intellettuali, per quanto la cosa suoni strana, il cittadino che dice la sua, in mo- do più o meno articolato, sui blog e sui social network. Per farla breve, il lavoro intellettuale è oggi così diffuso che non corrisponde a ceti o classi particolari. È una funzione a cavallo di tecnologia, identità individuale (o di gruppo), pensiero e libertà di espressio- ne. In ogni modo, è in questa dimensione ubiqua che dovremmo cercare qualcosa di simile al coraggio.

In uno degli ultimi corsi pubblicati, Foucault identifica nei ci-

nici di ogni tempo i pensatori, ufficiali e no, capaci di esercitare

la parresia, ovvero la libertà di parola. Ma, come dicevo prima,

c’è libertà e libertà. Il tizio che a Hyde Park Corner sale sulla cas-

setta o sulla panchina per arringare quattro sfaccendati sulla fine

del mondo o sul sicuro avvento di un’età dell’oro, fa senz’altro

uso della libertà di parola, ma il suo atto non mostra particolare

coraggio perché non è efficace. Nessun potere, tranne eventual-

mente il poliziotto che lo invita blandamente a circolare, se la

(11)

Tirare dritto

FABIO POLIDORI

A ssumerei, a titolo di premessa, che parla- re di coraggio della filosofia può suonare ridondante. Non credo si possa ricono- scere, nella storia o nelle storie della filosofia, qualcosa che non contenga e conservi in sé i tratti di una mossa audace, di un’a- pertura rischiosa, di un percorso a una certa altezza e senza rete di protezione. Già solo in questo senso, “aut aut” (tra virgolet- te, nella sua materialità di contenitore) è non solo l’indice di ine- luttabili alternative e, conseguentemente, di necessarie e ovvia- mente coraggiose scelte, ma anche l’apertura di uno spazio nel quale alternative e scelte vengono pubblicamente esposte, esa- minate, dibattute. Uno spazio insomma di assunzione di re- sponsabilità, per definizione quindi non accessibile o praticabi- le senza una certa dose di coraggio, indispensabile sia sul piano sincronico – quello delle scelte di campo, dei conflitti tra saperi, delle battaglie culturali a carattere più o meno (ma sempre e ne- cessariamente anche) politico – sia lungo un asse diacroni- co – quello delle rotture o declinazioni dei percorsi, dei cambia- menti di stile, di programmi o di impostazione, giù giù sino al reclutamento e alla cooptazione all’interno della redazione.

In breve, liquiderei la faccenda del coraggio semplicemente os-

servando che la rivista è nata appunto come contenitore o insom-

ma luogo di atteggiamenti politico-culturali, quindi per definizio-

ne coraggiosi, con in più la scelta (a questo punto più geniale

che ardita) di un nome che non lascia scampo, di un significan-

(12)

te che non può (aprioristicamente e in linea di principio) ritro- varsi finalmente riempito da alcun “significato” permanente, da alcuna scelta di campo definitiva. Un significante che, soprattut- to, non può essere aggirato, scansato, ignorato da alcun tema o ar- gomento, da alcun fascicolo più o meno monografico, forse nem- meno da un singolo saggio o articolo. Nel senso, intendo, che nes- sun testo sfugge a una certa impronta, a una certa sagomatura che viene a ricevere dal collocarsi entro lo spazio definito da “aut aut”.

Questo non esile peso dell’assai esigente significante “aut aut”

segna e ha costantemente segnato la storia (i vari presenti) e il pre-

sente della rivista (intesa globalmente, come totalità di testi e te-

ste). Ma nella sua selettiva funzione di contenitore si è costante-

mente avvalso, nel corso dei suoi anni, di alcuni nomi, di alcuni

punti di riferimento che definirei in termini di significanti ausi-

liari, che hanno svolto un indispensabile lavoro di orientamento

nel (e insieme di definizione del) presente; un lavoro in altri ter-

mini politico, soprattutto in relazione a epoche che, pur cronolo-

gicamente vicinissime, per uno sguardo retrospettivo metodologi-

camente astratto potrebbero anche collocarsi a distanze ragguar-

devoli. E l’elemento il quale, storicamente e in concreto (ossia po-

liticamente), ha consentito che ci fossero delle tangenze, che gli

estremi di un’epoca si rilanciassero negli inizi dell’altra, che a trat-

ti si tenessero insieme in un gioco di (parziali) inclusioni, è senz’al-

tro, secondo me, quella base filosofica in cui alcuni pensatori di ri-

ferimento, con funzione di significanti ausiliari, trovano il senso e

le radici della loro collocazione rispetto ad “aut aut”. Intendo, in-

somma, il luogo in cui quei significanti che sono Husserl, Marx,

Heidegger, Derrida, Foucault (per snocciolarli secondo il corso

della rivista) hanno avuto la possibilità di essere cercati e trovati,

il loro terreno comune, ancorché mai troppo stabile e sempre in

trasformazione, da cui è stato possibile trarre materiali e sugge-

stioni in grado di consentire la costruzione di istanze concettuali

e di operazioni critiche. E, di rimando, in cui è anche stato possi-

bile far confluire e risuonare le istanze del presente, quelle che, di

volta in volta o di epoca in epoca, meglio si riconoscevano nell’u-

no piuttosto che nell’altro. (Forse un discorso e un’analisi a parte

(13)

La responsabilità della scrittura

GRAZIELLA BERTO

L a mia partecipazione alla redazione di “aut aut” è iniziata nei primi anni novanta, mentre, dopo essermi laureata a Trieste, stavo preparando la tesi di dottorato in filosofia sull’Unheim - lichkeit. Ero allora completamente immersa, a tempo pieno, nei miei studi e nelle mie ricerche, e le riunioni milanesi della reda- zione rappresentavano per me un luogo in cui il lavoro filosofico prendeva vita al di fuori di un contesto strettamente universita- rio, attraverso una pluralità di voci e di esperienze in cui si attua- lizzava un “fare” filosofia che assumeva una tonalità più concre- ta. Ciò che si tentava di leggere erano dei testi più dispersi e più difficili da decifrare di quelli disponibili nei libri, lo sforzo era quello di cimentarsi con un mondo che già allora cominciava ra- dicalmente a cambiare; anche se sempre assicurati, certo, ad ag- ganci teorici capaci di evitare le cadute più rovinose.

Il fascino e la sfida del fare filosofia provenivano in primo luo-

go dallo stimolo ad affrontare tematiche che non si lasciano do-

minare con sicurezza attraverso la competenza teorica o lo studio

specialistico. Argomenti come la “rete”, l’università, o la guerra

nella ex Jugoslavia costringevano a esporsi su terreni che il mio

bagaglio di letture ma anche la mia esperienza non mi permette-

vano di dominare, a cercare un rigore che non può essere quello

dell’esaustività dei riferimenti bibliografici. Il senso di inadegua-

tezza e insieme il pudore di fronte a questioni così complesse e de-

licate mi hanno spinto a modificare il mio atteggiamento rispetto

(14)

alla produzione di un testo filosofico: l’attenzione si è spostata dal- la ricchezza e dall’adeguatezza dei riferimenti, o dalla ricerca del- l’originalità, al tentativo di dire qualcosa, magari di laterale o di marginale, che vada però a toccare un nodo irrisolto, un aspetto aporetico, a far vedere qualcosa che nel discorso comune nor- malmente rimane nascosto, inesplicitato, e che invece può inter- romperlo, complicarlo.

In questa trasformazione ciò che è venuto in primo piano è sta- ta l’operazione stessa della scrittura, come ciò che davvero quali- fica il fare filosofia. Il mio primo incontro con la redazione della rivista è avvenuto in occasione della preparazione di un numero su Ernst Bloch – pensatore su cui avevo scritto la tesi di laurea e poi un libretto intitolato L’attimo oscuro –, focalizzato sul tema del

“pensare e narrare”. Quello che sembrava un semplice oggetto da trattare – il tema della scrittura filosofica – è diventato un eserci- zio fondamentale e imprescindibile: scrivere un testo per “aut aut”

vuol dire per me innanzitutto interrogarmi su “come” scriverlo. E questo cambia anche il senso di ciò che lì viene detto, poiché, di qualsiasi argomento si tratti, non può essere pensato come un sem- plice contenuto di sapere da trasmettere o da comunicare. È que- sto esercizio che forse dà senso al cimentarsi anche con argomen- ti di cui non ci si può dire specialisti, rispetto a cui non si è legit- timati da un particolare bagaglio di sapere. La preoccupazione non è tanto quella di fornire nuove informazioni – pur non escluden- do che anche questo possa accadere – ma di modificare, anche con piccoli spostamenti, lo sguardo sulle cose. Di farne emergere, per citare proprio Bloch, delle prospettive oblique, laterali, insolite.

Questo vale per un testo sull’università, sull’Europa, sulle migra- zioni, ma anche per un testo, apparentemente più specialistico, che si occupi di leggere un autore, sia Heidegger, Levinas, Lacan, Butler o Sloterdijk.

Negli ultimi anni la mia partecipazione agli incontri della re-

dazione di “aut aut” si è rarefatta, così come i miei testi sulla rivi-

sta. Posso ormai dedicare solo un resto del mio tempo a questa at-

tività, le mie giornate non sono più riempite fondamentalmente

dalla ricerca e dalla scrittura ma sono affollate dalle ore di inse-

(15)

A partire da “aut aut”

ANTONELLO SCIACCHITANO

T rent’anni dopo. Trent’anni non sono mol- ti oggettivamente. Soggettivamente sono una generazione e mezza.

Trent’anni fa, con il numero su Lacan (A partire da Lacan), en- trai nel laboratorio di “aut aut”. Seguirono collaborazioni spora- diche. Le più significative: il numero sull’epoca della psicanalisi e il numero sull’uno. Per tanto tempo sono rimasto collaborato- re esterno alla rivista. Con la redazione ci siamo annusati a lun- go. Mi chiedevo che bestie fossero i redattori. Loro si chiedeva- no che bestia fossi io. Dopo tutto collaboravo ad “aut aut” senza coperture né accademiche né istituzionali. Chi garantiva il mio discorso? Ero solo uno psicanalista free-lance non troppo ostile alla filosofia. Io, invece, ero attratto da una peculiarità della re- dazione. Avevo davanti a me dei filosofi che si interessavano alla psicanalisi. Come era possibile interessarsi alla psicanalisi, mi chie- devo, senza avere alle spalle un retroterra scientifico? (Oggi, a trent’anni di distanza, questa domanda non si pone, avendo la psicanalisi espulso da sé ogni riferimento scientifico.) Non sape- vo ancora bene – lo sapevo sì, ma in modo libresco – che la fe- nomenologia, soprattutto quella di marca husserliana, ruota in- torno alla questione del soggetto, nel tentativo di liberarlo dalla presa metafisica – di indebolirlo, si diceva. Forse il soggetto fe- nomenologico era lo stesso soggetto del desiderio inconscio? Un’i- potesi da controllare.

Soggetto, scienza, soggetto della scienza. Credo che siano sta-

(16)

ti questi i significanti che hanno giocato tra me e la redazione di

“aut aut”, segnando la mia collaborazione. Una collaborazione che non è stata mai sul piede dello scambio paritario, come al merca- to, con qualcuno che offre una merce e qualcun altro che la rice- ve, uno che compra e l’altro che vende in cambio di denaro. Lo dico per me. Io mi sono trasformato durante la transazione. Ho rivisto, e profondamente, le mie posizioni freudiane e lacaniane di partenza alla luce del dibattito che andava configurandosi in re- dazione, contemporaneamente recuperando le esperienze pri- mordiali della mia formazione, che sono state scientifiche – ana- tomia normale, immunologia, statistica medica.

Se il punto di partenza della mia vicenda redazionale è stato in- certo e confuso, il punto di arrivo è “chiaro e distinto”. La cita- zione cartesiana, scontata, è voluta. In redazione ho scoperto Car- tesio. Non il Cartesio delle Meditazioni cartesiane di Husserl, ma il Cartesio di Derrida in “Cogito” e storia della follia, suggeritomi da Rovatti, che qui pubblicamente ringrazio. Quel Cartesio, de- purato dai luoghi comuni accademici – dualismo, teologia, razio- nalismo, idealismo –, si inseriva nei miei interessi di ricerca, che vertevano allora e vertono tuttora, intorno alla logica intuizionista di Brouwer e alla possibilità di derivare dalla sospensione del prin- cipio del terzo escluso una logica adatta all’inconscio freudiano.

Non vel, ma neppure aut aut. Di questo percorso sono rimaste al- cune tracce in saggi comparsi sulla rivista. Cito uno dei primi, che ho riletto con piacere: Credere, supporre, ammettere, scritto in oc- casione dell’uscita del libro di Gianni Vattimo Credere di credere.

In redazione mi fa comodo – mi ha fatto comodo – la masche-

ra cartesiana. Larvatus prodeo, come Cartesio. Dietro la maschera

di una filosofia epistemica – all’inizio c’è il dubbio – ho potuto

compiere un percorso che in questi ultimi tempi si va concluden-

do con una certezza: non c’è soggetto senza oggetto. “On pense

avec son objet”, diceva Lacan nel 1964. Ancora una volta non si

tratta di un oggetto del mercato, uno di quelli che si trovano sul-

le bancarelle dell’ontologia rionale o allo spaccio del nuovo reali-

smo. Intendo l’oggetto della modernità: l’infinito. Si pensa con

l’infinito, altrimenti non si pensa. Sulla base di questa intuizione

(17)

Il plurilinguismo della filosofia

EDOARDO GREBLO

C onfesso subito che quando ho comincia- to a scrivere queste righe sul “coraggio”

della filosofia ho provato un senso inizia-

le di disorientamento. Il “coraggio” mi è sempre sembrato un

tratto della “personalità” – una caratteristica che si può (o non si

può) ascrivere al carattere di qualcuno, concepito come persona

inconfondibile. A ripensarci meglio, mi è però sembrato che que-

sta formulazione linguistica presenti anche alcuni vantaggi. An-

zitutto lascia trasparire l’idea che la filosofia sia un esercizio di

pensiero che non dispone della sicurezza garantita da un qual-

che principio o presupposto teorico che pretenda di condiziona-

re dall’esterno le operazioni del pensiero. Ma che, invece, deve

impegnarsi nelle proprie procedure argomentative assumendo

una riserva di fallibilità che richiama ogni slancio noetico verso

l’alto al carattere impuro, complesso e imprevedibile dell’espe-

rienza che alimenta la teoria e la spinge a riformularsi. In secon-

do luogo, costringe la filosofia a tornare nuovamente a interro-

garsi sul “che fare?”, ovvero sulla domanda a cui il “pensiero de-

bole” aveva cercato, a suo tempo, di dare una risposta. Perché il

coraggio, in questo caso, vuol dire in sostanza chiedersi: qual è il

ruolo della filosofia rispetto all’agire collettivo e individuale nel-

l’epoca in cui nessuno crede più che da qualche parte vi sia il de-

stinatario disponibile a lasciarsi orientare alla prassi liberatrice

grazie alle sue prospettive critiche, come in Marx, oppure ad ac-

collarsi il compito eroico di accelerare l’attesa salvazione del-

(18)

l’Occidente, come in Heidegger, e prende atto, piuttosto, che siamo immersi in uno scenario (non solo) culturale denso di in- dicazioni e messaggi, di segni e prospettive che nessuno può pre- tendere di ricomporre nella cornice teorica di una sintesi ultima e conclusiva. E infine lascia intendere che la “pratica” filosofica non può essere interamente risolta nelle forme specialistico-ac- cademiche di un sapere che è soltanto scienza, che dispone di istituzioni o apparati, si serve di canoni e linguaggi istituiti e si ir- rigidisce in ortodossie, perché, in fondo, il gesto filosofico pri- mario consiste nell’esteriorità rispetto a ogni risposta già predi- sposta nelle categorie del sapere istituzionalizzato.

Un’esteriorità che richiama, immediatamente, la questione del- l’alterità, un tema che attraversa, come un filo rosso, la storia della rivista. Alterità non solo dal punto di vista disciplinare, come te- stimonia l’attenzione di “aut aut” per autori e temi non specifica- mente “filosofici”, dall’interesse per la psicanalisi e la psichiatria o per i problemi che si intrecciano intorno ai motivi del gioco, del- l’umorismo e del paradosso sino all’attenzione per autori come Ba- teson e Goffman. Ma anche da un punto extradisciplinare, come dimostra il continuo sporgersi verso il mondo reale delle condot- te ordinarie, delle pratiche culturali, degli orientamenti politici – basti pensare agli interventi e ai fascicoli sul multiculturalismo, sul- le pratiche e le ideologie della medicalizzazione, sullo stato pena- le, sulle “Afriche” e il colonialismo o sulla figura dell’immigrato o sui “nuovi fascismi”. Se c’è del “coraggio” nella filosofia, questo è testimoniato proprio dalla storia di “aut aut”, che ha sistemati- camente corso tutti i rischi che derivano dalla decisione di non ri- durre la filosofia a disciplina solo accademica e di non ri(con)dur- la a criteri di sola scientificità. Parlare del “coraggio” della filoso- fia serve così a tagliare i ponti con l’idea che siano soltanto i di- scorsi filosofici, nel corso del loro sviluppo e della loro tradizio- ne, a generare e a imporre quelli che sono o sono stati i suoi stes- si problemi.

È ovvio che vi è un modo scientifico di pensare, ma non è det-

to che lo scopo del sapere filosofico sia, e soprattutto sia ancora,

quello di rintracciare fondamenti nascosti, principi ultimi, Verità

(19)

La morte del trascendentale

GIOVANNI LEGHISSA

M embro della redazione di “aut aut” dal 1998, eccomi dunque qui a raccontare cosa penso di “aut aut”. Non avrò cer- to la possibilità di giungere al 2051 (posto che nel 2051 la rivista esista ancora) per dire la mia. Lo faccio ora, assieme agli altri membri della redazione. Al lettore che storcesse il naso di fron- te a questa sorta di delirio collettivo (“chi si credono di essere?”) anticipo subito una cosa: è mia intenzione dire non ciò che mi soddisfa nel programma editoriale della rivista, bensì ciò che non mi soddisfa. Vorrei usare le celebrazioni legate all’anniversario per enunciare la mia versione di quello che vorrei fosse il piano di lavoro futuro. Un futuro che però va radicato nella preesi- stente tradizione della rivista: ciò che rende sensata la presenza di una rivista come “aut aut” nel panorama editoriale italiano at- tuale assomiglia molto a ciò che ne rese opportuna la fondazio- ne negli anni cinquanta, ovvero in un periodo in cui era urgente contaminare la filosofia con altre forme di sapere. Più precisa- mente, credo che “aut aut” giustifichi la propria presenza, ieri come oggi, in quanto tenta di incarnare quella che Paci, verso la fine del proprio percorso filosofico, ha chiamato enciclopedia fenomenologica.

1

Qui va subito chiarito il rimando alla fenomenologia. Da pa- recchio tempo, “aut aut” non pubblica saggi legati alla tradizione

1. Cfr. E. Paci, Idee per una enciclopedia fenomenologica, Bompiani, Milano 1973.

(20)

fenomenologica. Un bene, per alcuni – altri forse se ne rammari- cano. Certo, vivo Paci, la situazione era diversa in quanto la feno- menologia in Italia aveva un peso che oggi sembra aver perduto.

Del resto, pubblicare saggi, poniamo, su Husserl o Merleau-Ponty, in cui si dà conto delle ultime novità emerse nel dibattito storio- grafico, avrebbe poco senso – per questo ci sono le riviste di sto- ria della filosofia. Ma non si perda di vista il punto chiave: sto par- lando di “enciclopedia fenomenologica”, non di fenomenologia e basta. La dimensione enciclopedica contiene il rimando non tan- to a tutto ciò che c’è, quanto ai discorsi che si fanno o si possono fare su ciò che c’è. Il nostro rapporto al mondo non è immediato, ma passa attraverso un insieme di pratiche comunicative varia- mente istituzionalizzate. Ci potrà essere più o meno rigidità nel modo in cui l’istituzione regola il gioco comunicativo, ma non si può prescindere dal fatto che il comunicare il proprio rapporto con il mondo sia una componente non indipendente di una serie di pratiche sociali governate da interessi di varia natura, uno dei quali (ma non certo l’unico) mira a dire la verità.

Un’enciclopedia fenomenologica serve a evidenziare quale nes-

so vi sia tra pratiche sociali e discorsi, e rende così la filosofia quel

discorso che mostra come i soggetti si organizzino per abitare un

mondo comune tanto in assenza di credenze vere giustificate, quan-

to in presenza di queste ultime. Alla loro assenza si può sempre

supplire facendo ricorso a miti, o a discorsi persuasivi di varia na-

tura; quando invece sono disponibili credenze vere giustificate, si

costruiscono quegli edifici concettuali chiamati discipline, le qua-

li costituiscono il deposito del sapere riconosciuto come vero in

una data epoca. Ma se ciò che conta è il modo in cui i soggetti abi-

tano il mondo comune a partire da un insieme di discorsi che com-

prende tanto i discorsi veri quanto quelli che non sono né veri né

falsi (come i miti, o i racconti letterari), allora c’è bisogno di una

struttura che connetta i due sottoinsiemi, al fine di indicare che

l’uno non sta mai senza l’altro, che i discorsi sui fatti si mescola-

no sempre ai discorsi sui valori, che quando descriviamo qualco-

sa vogliamo anche convincere qualcuno che la nostra descrizione

non solo è più vera di altre, ma è anche tale da autorizzarci a se-

(21)

Una rivista “di servizio”

DAVIDE ZOLETTO

V orrei portare un esempio. Ho incontrato la rivista durante la stesura della tesi di laurea verso la metà degli anni novanta.

Cercavo allora letteratura critica sull’autore su cui lavoravo – Gre- gory Bateson – e su cui faticavo a trovare a quel tempo un dibat- tito italiano. C’erano i testi critici in inglese, c’erano le traduzio- ni italiane, ma non c’era ancora, nel nostro paese, una ricezione di Bateson in ambito non tecnico, nel senso che non trovavo mol- ti tentativi di usare strumenti come quelli batesoniani per lavora- re intorno a questioni non immediatamente disciplinari.

Nella rivista avevo trovato, all’epoca, gli interventi di Alessan- dro Dal Lago (Gli algoritmi del cuore che risaliva addirittura al 1990, ed era un invito alla lettura dell’allora appena uscita tradu- zione italiana di Dove gli angeli esitano), di Reiner Schürmann (I doppi vincoli ultimi del 1991, tradotto da Gianfranco Gabetta sul- la rivista nel 1992), di Rocco De Biasi (due saggi, fra gli altri, usci- ti entrambi nel 1994: uno sul “metalogo” e uno sui Sentieri di Ba- teson). E poi un intero numero monografico (il 251, del 1992) co- struito a partire e intorno a Dove gli angeli esitano (appoggiato a testi dello stesso Bateson e della figlia Mary Catherine, con à côté saggi di Dal Lago, De Biasi, Gabetta, Rovatti).

Non porto questo esempio per dire che “aut aut” abbia af-

frontato (o debba affrontare) autori o temi più o meno “filosofi-

ci”. Che Bateson sia o meno un filosofo non è il punto che vorrei

sottolineare. Si potrebbero fare altri esempi – fra i molti possibi-

(22)

li, e non potendo che seguire il filo di un personale percorso di let- tura/ricerca: si potrebbero citare saggi o fascicoli costruiti a par- tire e intorno ad autori più esplicitamente filosofici (Derrida, Fou- cault, Deleuze), ma si potrebbero anche selezionare autori nei qua- li è meno forte il riferimento ai confini disciplinari e istituzionali della filosofia (Warburg, Goffman, Sayad o – più di recente – quan- ti rappresentano a diverso titolo la variegata galassia degli studi culturali e postcoloniali).

Un ragionamento non dissimile si potrebbe proporre per quan- to riguarda saggi e fascicoli costruiti a partire e intorno non ad au- tori ma a temi: ancora una volta più o meno esplicitamente filo- sofici (dall’ermeneutica alle cornici, dalla scrittura al gioco o all’u- morismo, e così via). E credo che altri lettori potrebbero portare – sempre attingendo alla storia della rivista – anche esempi com- pletamente diversi: per epoca, per interessi di ricerca, per sinto- nie teoriche o metodologiche.

Quello che vorrei suggerire, con l’esempio dell’utilità che la ri- vista ha avuto per il mio lavoro di tesi di laurea, è che per me es- sa ha svolto sempre e prima di tutto una funzione – preziosa – “di servizio”. Nel senso che mi ha aiutato, e vorrei continuasse ad aiu- tarmi, a situare entro i contesti in cui lavoro – accademici (come quelli, per esempio, di una Facoltà di scienze della formazione) ma anche non accademici – riflessioni e dibattiti che altrimenti po- trebbero essere poco presenti entro il contesto italiano, o comun- que potrebbero esserlo in modo a volte molto settoriale.

Non si tratta di “tradurre” (in un senso semplicistico del termi-

ne) in italiano riflessioni o dibattiti stranieri. Immagino che oggi

molti possano accedere autonomamente a queste riflessioni e a que-

sti dibattiti, nella lingua originale o nelle traduzioni italiane che co-

munque si continuano a pubblicare. Si tratta piuttosto – e mi sem-

bra questo uno dei compiti più interessanti (e forse anche più “po-

litici”) della rivista – di far circolare riflessioni e dibattiti tra il con-

testo internazionale e quello nazionale, tra le diverse discipline, tra

i diversi ambiti istituzionali: “lavorando” in questo modo anche l’i-

dea stessa del confine (e i modi effettivi di muoversi) tra contesti

internazionali e nazionali, tra discipline, tra ambiti istituzionali.

(23)

Vegliare, da capo

RAOUL KIRCHMAYR

1. Dopo avere collaborato con “aut aut” a partire dall’ultimo an- no dell’università, entrai nel gruppo redazionale nel gennaio del 2002. A oggi sono dunque trascorsi dieci anni. Nel periodo in cui cominciai a partecipare alle riunioni l’emozione per l’attentato dell’11 settembre era ancora viva e l’Occidente aveva da poco in- trapreso la guerra in Afghanistan, quella che venne battezzata la

“guerra al terrore”. Forse per bisogno di misurare questi dieci an- ni, con una certa frequenza mi sono guardato indietro, in verità senza riuscire bene a farlo, un tanto per la rapidità con cui sono trascorsi, un tanto per i cambiamenti nel considerare la “realtà”

del nostro tempo. La storia ci fa e noi procediamo in essa muo- vendoci a tentoni, provando a illuminare il percorso alla debole luce di lanterne. Crediamo di poter comprendere meglio il per- corso dopo averlo compiuto, invece ci accorgiamo che l’oscurità si richiude su di esso e che tutto è da ricominciare. Teniamo in ma- no una lanterna accesa e confidiamo nel chiarore che diffonde.

Però dalla fine del secolo scorso un vento freddo si è alzato e ha preso a spirare, minacciando di spegnerla. Più che in passato ho l’impressione che il chiarore dei nostri lumi accompagni una ve- glia inquieta.

L’ingresso ad “aut aut” è stato per me uno spartiacque, mi pa-

re di comprendere oggi. Avevo scoperto la storia alla metà degli

anni novanta, forse tardi, con la guerra della ex Jugoslavia e la pros-

simità di Trieste al confine: i vecchi torpedoni avevano smesso di

portare acquirenti di merci a basso costo, e preso a depositare pro-

(24)

fughi. Gli anni precedenti, studente, ero troppo giovane per avver- tire il peso della prima guerra del Golfo, provavo un’angoscia che era comune. Certo, all’università discutevamo di Baudrillard, che parlava di una guerra che “non aveva avuto luogo”, ma lo fa- cevamo da spettatori ciechi. Solo più tardi sarebbero state per me altre immagini, quelle di Srebrenica, a lacerare la veste di intellet- tualismo con cui mi proteggevo per identificarmi. Stavo appren- dendo indirettamente che talvolta è la storia a stanarti, e che in una presa di posizione si può concentrare il senso di una vita. Ri- tirarsi, combattere, resistere era un lessico bellico di cui ora co- minciavo ad avvertire la violenza. Provai disgusto e rabbia a ve- dere le immagini dei caschi blu olandesi brindare prima della ri- tirata dall’enclave. Capii che testimoniare non è solo raccontare ciò che si è visto. Avevo riflettuto su che cosa fosse un campo: ai

“seminari del mercoledì” commentavamo Agamben. Esperienza del limite, avevo anche letto. Ignaro del vissuto, provavo a ragio- nare, ma mi feriva di più ascoltare le storie degli esiliati volontari che si raccoglievano nel campo allestito nel paese del Friuli in cui avevo trascorso i miei anni di scuola. Sono le piccole storie quel- le che mostrano il risvolto patetico della grande storia. Altri strap- pi in seguito avrebbero tagliato la mia veste, ed è forse questo tes- suto scucito ciò che si chiama una biografia.

2. Il secolo è poi tramontato veloce e si è portato via le speranze

di rinnovamento e di presunte “terze vie”. Ho sentito ancora più

forte l’esigenza di un pensiero filosofico che riuscisse a farsi cari-

co delle contraddizioni del tempo e di quelle che chiudevano un

periodo della mia vita. Già nelle mie letture degli anni dopo l’u-

niversità e in quelle del dottorato la fenomenologia si era accom-

pagnata a Foucault, a Derrida, a Lacan, a Deleuze, era ritornata

attraversando Basaglia, aveva costeggiato le scienze umane e la so-

ciologia. Ho provato a usare queste lenti per osservare ciò che mi

accadeva, e ciò che accadeva attorno a me. “aut aut” aveva smes-

so di essere la rivista dei miei anni di studente – quella pubblica-

zione che a me e ai miei compagni di corso forniva l’orientamen-

to – ed era diventato un modo di stare nel campo della filosofia.

(25)

Una pratica pubblica, insomma. Da quando iniziai a insegnare al- le superiori e, al contempo, all’università – fu lo stesso anno del mio esordio in redazione – credo di non aver abbandonato que- sto approccio un po’ nomadico. Per certi versi mi corrisponde:

non riesco a restare più di tanto tempo all’interno di qualcosa co- me un gruppo organizzato, soffro le porte chiuse, arriva sempre il momento di salutare, spesso è avvenuto presto.

In “aut aut” ho trovato un luogo ospitale in cui la mia incapa- cità, forse perfino impossibilità, ad appartenere non mi spinges- se, com’è accaduto, a pormi al margine, pronto a prendere la por- ta alla prima mancanza di respiro. Mi sono spesso chiesto se que- sto atteggiamento con cui prendo le distanze non nascondesse una pretesa di “visione di sorvolo”, l’impulso alla padronanza teoreti- ca e all’intellettualismo, non ne fosse il riflesso diretto: staccarsi per poter osservare e dissecare. Può essere che lo sia ancora, ma penso di avere compreso così, a forza di strappi, quale fosse il sen- so dell’espressione “ritornare alle cose stesse”. Un passo indietro per l’osservazione, uno dentro l’esperienza, per quanto quotidia- na e banale questa possa apparentemente essere. Come, per esem- pio, varcare la soglia di una classe di liceo o di un’aula di univer- sità. Non voglio fare un elogio delle piccole cose, che sa subito di stantio, ma indicare una resistenza che si gioca sulla presenza. Per quanto decostruita, pur sempre un minimo di presenza e, sì, di corpo. Ecco quello che riesco a scorgere ora, dopo dieci anni, lun- go il crinale dello spartiacque biografico: entrato in “aut aut” ho avuto la conferma che possono esistere delle pratiche non orto- dosse di pensiero. E che ciò poteva entrare in fase con i miei de- sideri, anzi tutto un desiderio non utopico di “altrove” e di “al- trimenti” che diversamente, immagino, non so quale strada avreb- be imboccato. Non smetto di provare a fabbricare questo “altro- ve” e questo “altrimenti”, e così riprendo da capo. Perché le con- traddizioni del mio tempo sono ancora tutte lì, acuminate, e si in- trecciano con quelle della mia biografia.

Nella nostra epoca di vento freddo è diventato necessario ri-

prendere il discorso da capo, con pazienza. Se c’è qualcosa che

questi anni mi hanno lasciato è forse l’essere pazienti, per quanto

(26)

Fare “vuoto” per poter pensare

GIOVANNI SCIBILIA

H o incontrato “aut aut” nel contesto ac- cademico pavese. Che tanto accademi- co evidentemente non era, negli anni ot- tanta, o non solo. Un numero, Metafore d’infanzia, occupava il centro del corso di Storia della pedagogia del 1982, tenuto da Egle Becchi, curatrice del fascicolo. In quel volumetto niente era come potevo fino a quel momento immaginare: l’Edipo non solo si rovesciava nel suo “anti” deleuziano, ma diventava la stra- da per pensare l’impossibile e controversa scena di un “amore dei bambini” (Schérer e Hocquenghem); il bambino veniva li- berato dal costrutto “infantile” che gli aveva storicamente im- pedito di parlare attraverso una certa lettura di Foucault; Emi- lio proponeva l’enigma di un modello educativo e un pensiero mediato dal letterario. Per un ventenne problematico ce n’era abbastanza per allargare di un po’ la propria mitologia persona- le e sottoscrivere (con grande sacrificio economico) un abbona- mento!

Da quella scena a oggi moltissimo è cambiato. Ma certe fedeltà

sono rimaste, perché la necessità del pensiero non è una moda e

nemmeno un mood. È proprio questo che mi sembra ancora og-

gi, più che mai, al centro del lavoro di “aut aut”: una “volontà di

pensiero” che prescinde i limiti delle scuole, le cordate accade-

miche e gli interessi mediatici ma che non esita, attraverso un ascol-

to attivo, a guardare altrove per trovare stimoli e provocazioni e

riarticolare le domande. La mia entrata in redazione mi sembra a

(27)

questo proposito emblematica. Avviene a ridosso dell’uscita del numero su Desiderio e godimento (2003) che utilizzava la “pub- blicità” come ambito a partire da cui pensare il tema. Da una quin- dicina d’anni, infatti, avevo iniziato a lavorare nell’ambito delle ricerche e della consulenza per il marketing, fatto che mi trasfor- mava in “esperto” con un background filosofico. In realtà, pro- prio il fatto che la mia expertise mercantile fosse dell’ordine del- le “pratiche” mi metteva in una situazione particolarmente inte- ressante per la rivista: non uno sguardo oggettivante sul mercato ma una voce che da dentro fa emergere aspetti inediti, piccole pie- ghe a partire da cui riflettere, decostruire e magari continuare a pensare.

Uno spazio di questo tipo richiede una scissione in chi scrive,

“Giovanni Scibilia”, tra un sé “filosofo” e un “altro” marketeer – e viceversa – cercando non tanto di sciogliere o, peggio ancora, di comporre la tensione ma di esasperarla, facendo delirare ciascuna delle due figure. È una posizione schizo difficile e, probabilmente, intenibile. Ma quello che, alla fine, mi ha sempre colpito, e per cer- ti aspetti stupito, è che la rivista mi abbia offerto uno spazio per tentare un’operazione di questo tipo. Quale migliore segnale di reale apertura rispetto a un’alterità anche “esterna” (o presunta ta- le)? Che enorme distanza tra un filosofo e un consulente di marke- ting! Anche questa, certo, è una forma di coraggio (di “aut aut”).

Ma il rapporto con l’alterità nella rivista, a mio parere, non si limita certo solo alla gestione redazionale, se così possiamo chia- marla. Io credo si tratti, in realtà, di uno dei suoi aspetti fonda- mentali e fondativi (ma è una fondazione “debole” e paradossale, non a caso). Nelle sue uscite migliori, “aut aut” mi sembra fare della filosofia un esercizio del pensiero che accetta di guardarsi in quanto altro da sé. Lo strabismo del pensiero, la sua deviazione

“indecidibile”, riguarda sempre il pensiero, lo sappiamo. Eppure

non sempre il pensiero ne è cosciente, più spesso è vittima di una

cecità più o meno volontaria: meglio non saperlo, meglio rivolge-

re lo sguardo altrove (De Man diceva: “Blindness and insight”). È

quanto mi sembra accada ancora oggi, per esempio, in certe rilet-

ture ontologiche di Derrida: meglio ridurre la scrittura a pratica

(28)

Organizzare il disorientamento

PAULO BARONE

A ripensarci, ciò che segna il mio rapporto con “aut aut” è un’immagine friabile, quasi senza margini, gassosa. Sin dalle prime volte in cui mi ci imbattei – verso la fine degli anni set- tanta –, essa mi apparve simile a una piccola galassia in espan- sione, o, come recita il titolo di un componimento di un celebre poeta indiano, un “nuvolo messaggero”.

Al di là della singola confezione dei numeri – più o meno riu- scita, a seconda dei casi – quel certo “taglio” che la rivista incar- nava attraverso i temi, le figure, gli autori, i testi prescelti aveva ai miei occhi la forza di un magnete: invece che stabilizzarla in una posizione definita, le depositava attorno un materiale etero- geneo, disparato, inclassificabile, frutto di combinazioni non convenzionali e incroci non accademici. In tal senso, il profilo di

“aut aut” dipendeva dalla capacità che la sua parte tematica- mente tangibile possedeva nell’attirare e nel trattenere questa massa “amorfa”, anomala e sfuggente. Una simile “densità at- mosferica” – solitamente tralasciata – costituiva, dunque, il suo charme, la sua attrattiva.

Preferisco lasciare nel vago di una “nube” tale caratteristica, perché –indipendentemente dal fatto che a riguardo si possa con- cordare o meno – una cosa sembra invece incontestabile: “aut aut”

appariva senz’altro uno dei luoghi tramite il quale la scena della

realtà perdeva la faccia levigata e compatta entro cui viene (sem-

pre o quasi) presentata, non solo dal senso comune, ma anche dal-

(29)

le singole inquadrature, più o meno critiche, delle varie discipline del sapere. Non era perciò sufficiente allineare il proprio sguardo a una di queste prospettive per trovare la corretta messa a fuoco sulle cose, o quantomeno un orientamento di massima rispetto a esse, perché la “realtà”, sfigurandosi, non era più “nulla”: non un

“oggetto”, né un dato, non un punto virtuale di convergenza, né una struttura sociale o un’illusione soggettiva. Piuttosto un’evi- denza enigmatica, una rete di vapore, un castello di fumo. E, di per sé, non bastava nemmeno, “dinnanzi” a una simile emergen- za, associare semplicemente due prospettive – per esempio marxi- smo e psicanalisi o linguistica e letteratura o scienza e filosofia – per superare quella certa unilateralità di fondo (e quel certo, con- seguente, effetto allucinatorio di presumere di afferrare le cose del- la vita per il giusto o più autentico verso) che la pratica usuale di ciascuna comportava. (Io stesso non sono mai riuscito ad accu- mulare le mie materie di studio – teatro, medicina, psichiatria, psi- canalisi, filosofia, e poi India e Oriente – come fossero stadi di un percorso coerente e progressivo. Il ciclo che esse descrivono è al- quanto aleatorio, come una sorta di bozzetto in costante rifaci- mento, un giro di ballo, in cui le singole componenti acquistano valore soltanto perdendo o sospendendo il proprio vischioso vo- cabolario ufficiale di partenza.)

L’idea che – collegando due o più punti di vista, due o più lin-

guaggi, aumentando così la potenza di illuminazione, il raggio di

dicibilità a disposizione – almeno un lembo di quella realtà sfug-

gente sarebbe rimasto preso in mezzo presupponeva ancora che

quest’ultima fosse un che di esterno, di indipendente (sfuggente

a modi di concepire ormai inadeguati, ma non a nuove forme di

sapere). E invece la caratteristica precipua della sua dimensione

nebulizzata consisteva nel non poter essere disgiunta dalle vicissi-

tudini di chi la abitava, la conosceva, la viveva. Tanto più estranea

e “altra” quanto più radicalmente inseparabile dal nostro coin-

volgimento soggettivo – quello di noi cosiddetti soggetti empiri-

ci, della classe e del genere di appartenenza, ma soprattutto del

nostro patrimonio storico-culturale, della “nostra” soggettività in-

conscia collettiva. La realtà si trovava certamente “tra”, “nel mez-

(30)

Che cos’è il sapere, oggi?

SILVANA BORUTTI

L a mia storia con “aut aut” ha attraversato momenti di diverso significato e di diver- sa intensità.

1. Immaginazione produttiva ed estetica per le scienze umane.

Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, noi del-

la scuola pavese di Fulvio Papi eravamo impegnati nella redazio-

ne di “Materiali filosofici”. “aut aut” era per noi una rivista pre-

stigiosa, che pubblicava saggi importanti dei nostri colleghi e ami-

ci Mario Vegetti, Egle Becchi, Silvia Vegetti Finzi, Marcella Po-

gatschnig. Della rivista, era percepito e ammirato da tutti, più o

meno esplicitamente, il carattere di – come scrive Rovatti – “la-

boratorio critico assai aperto”. Lui stesso era venuto a Pavia all’i-

nizio degli anni ottanta a parlare della fenomenologia dei bisogni

e della questione del soggetto. Questo carattere aperto, e quel cer-

to strabismo della ricerca filosofica, capace di guardare a lato del

campo disciplinare della filosofia, interessava soprattutto me, che

in quegli anni mi occupavo sostanzialmente di epistemologia del-

le scienze umane, cioè di saperi del soggetto: una filosofia alla ri-

cerca di categorie e concetti non chiusi, ma prodotti in terreni li-

mitrofi alla filosofia, come antropologia e psicanalisi. Saperi in-

quieti, che io interpretavo cercando quelle pieghe produttive del

pensiero in cui si formano i concetti. Studiavo il campo dell’im-

maginazione e il carattere conoscitivo, di pensiero, dell’immagi-

nazione e delle metafore, facendo riferimento sia alla nuova reto-

rica e alle teorie della metafora, sia alle ricerche epistemologiche

(31)

sulla logica della scoperta. L’interesse per l’elemento poietico che presiede alla formazione dei saperi, e che Kant chiama immagi- nazione produttiva, e l’interesse per il linguaggio come condizio- ne della filosofia e per le retoriche filosofiche sono sullo sfondo dei primi articoli da me proposti e pubblicati nella rivista, uno nel 1987 e uno nel 1989. Ancora al tema della scrittura della filosofia appartiene un mio articolo del 1989 sul Tractatus di Wittgenstein.

Collaborazioni dall’esterno, le mie, che diventano più strette e coinvolgenti, anche se non più assidue, alla fine degli anni no- vanta, nel nome di Wittgenstein.

2. Il Wittgenstein estetico. Wittgenstein, o meglio, il Wittgen- stein ufficiale della filosofia analitica del linguaggio non è un filo- sofo di “aut aut”. Lo è di più (mi sembra di poterlo dire) il Witt- genstein che io ho proposto in quegli anni: il Wittgenstein del ca- pitolo Philosophie del Big Typescript, di cui “aut aut” pubblica bra- ni inediti nel 1996; il Wittgenstein della filosofia come una forma di askesis, come esercizio di risveglio e di ascesi intramondana che produce un cambiamento dello sguardo; il Wittgenstein degli scrit- ti tardi, che dà un insieme di strumenti concettuali per interrogarsi sul soggetto del sapere nelle scienze umane: come conosciamo i significati linguistici e culturali? E soprattutto: come si articolano estetico e concettuale, percezione e forma nella nostra compren- sione dei significati? Il Wittgenstein che concepisce la filosofia co- me forma di attività a base estetica ha presieduto al mio ingresso nella redazione, avvenuto nel 2004.

3. Il non sapere. Nel frattempo, il mio interesse per la piega pro-

duttiva del pensiero si è trasformato e arricchito, anche per effet-

to delle discussioni di redazione, come quella, intensissima, su “de-

siderio e godimento”, e per le frequentazioni psicanalitiche, e in

particolare lacaniane, all’interno della redazione. Sempre interes-

sata all’uomo come soggetto di sapere, ho cercato in quel periodo

un modello della radice immaginativa della comprensione del sen-

so che tenesse conto sia dell’aspetto per cui l’immagine è antici-

pazione e produzione di senso, sia dell’aspetto per cui nell’imma-

gine agisce un non sapere, un senso che si sottrae. Lo stile di pen-

siero e di scrittura della rivista mi confermava come una ricostru-

(32)

Resistere alla barbarie e rispondere alla paura

DAMIANO CANTONE

H o sempre pensato che la filosofia sia co- raggiosa per natura o, il che è più o me- no lo stesso, che un’azione coraggiosa abbia comunque in sé qualcosa di filosofico. Aristotele sostene- va che il coraggio è la virtù mediana tra la viltà e l’incoscienza.

Queste ultime ne sono delle degenerazioni, per difetto o per ec- cesso. Eppure tutte e tre sono in rapporto con la stessa emozio- ne fondamentale dell’essere umano, la paura. Dobbiamo molto alla paura. Non c’è niente di più naturale dell’avere paura, pau- ra di quello che non si conosce e che può ferirci. Il sapere stesso nasce dalla paura: dell’uomo primitivo di fronte agli elementi, del bambino che si aggrappa alla mano della madre quando in casa arriva qualcuno che non conosce. Per paura delle intempe- rie abbiamo inventato l’architettura, per quella delle malattie la medicina, per la morte la religione. Al fondo di ogni sapere uma- no c’è una paura, che possiamo tradurre anche in un bisogno di sicurezza. Il sapere, la conoscenza ci permettono di controllare ciò che ci minaccia, di depotenziarlo, di costruirci ininterrotta- mente un nostro habitat.

Tuttavia, come l’animale in La tana di Kafka, le difese che co-

struiamo contro ciò che può arrivare dall’esterno (e, ancora più

pericolosamente, dall’interno) non ci lasciano tranquilli. Al fondo

di ogni sapere umano c’è anche un qualcosa che ci fa mettere in

discussione il sapere stesso, che ci spinge a non accontentarci del-

le risposte che abbiamo ricevuto, che ci fa lasciare, da piccoli, la

(33)

mano di nostra madre per andare incontro all’ignoto. Non si trat- ta di smettere di avere paura, ma di intrattenere con essa un rap- porto diverso. Le persone coraggiose non sono incoscienti: vedo- no i pericoli, lasciano la tana di malavoglia, ma pensano che sia più razionale correre il rischio di avventurarsi fuori.

Intendiamoci: credo che nella filosofia, qualunque cosa questo termine indichi oggi, non ci sia alcuna nobile spinta alla verità e al sapere incontrovertibile. Semplicemente, è caratterizzata da una certa irrequietezza. Il suo coraggio non consiste tanto nel forzare i limiti della conoscenza e dell’espressione umana, compito cui so- no deputate altre forme di pensiero, quanto nel mettere costante- mente in discussione i saperi consolidati, tranquillizzanti. Come mi fanno notare i miei studenti, è impressionante di quante poche cose, in fin dei conti, si sia occupata la filosofia. Un giorno mi so- no sentito dire che mentre Heidegger continuava a occuparsi del- la “cosa” del pensiero, esattamente come aveva fatto più di due- mila anni prima di lui Parmenide, l’uomo era sbarcato sulla Luna.

Lo studente voleva evidentemente sottolineare l’inutilità e l’inat- tualità della filosofia, ma mi è sembrato che avesse in questo mo- do toccato un punto importante.

Uno dei filosofi che nel corso della mia vita ho amato di più,

Gilles Deleuze, aveva una concezione della filosofia che sento mol-

to vicina alla mia sensibilità, e che ha a che fare con il suo corag-

gio. Diceva che fare filosofia vuol dire resistere. Spesso nel corso

della vita si smarrisce la propria dimensione filosofica, ci si ag-

grappa alle proprie paure e alle risposte tranquillizzanti che of-

frono altri saperi consolidati e assai ricchi di buon senso. Si smet-

te così di essere coraggiosi, senza però diventare del tutto vili: pre-

feriamo essere considerati prudenti. Al massimo la filosofia di-

venta un gioco intellettuale, che tiene in allenamento la nostra in-

telligenza, ma non scuote la nostra vita. Resistere è resistere ai di-

scorsi correnti, resistere a chi ti dice che stai sprecando il tuo tem-

po e il tuo talento, mettersi di traverso rispetto al buon senso. È

creare, è un atto di creazione, una trasformazione della realtà, al-

meno della propria. Anche l’arte e la scienza resistono, ma la filo-

sofia lo fa a suo modo, creando continuamente nuovi concetti per

(34)

La studentessa

ILARIA PAPANDREA

Ambientazione. Ultimo scorcio dello scorso millennio. Una pic- cola aula universitaria in una città al confine orientale della pe- nisola. La studentessa si è trasferita dalla capitale per studiare lingue germaniche, ma forse no, chissà, il suo piano di studi è definito sui generis da chi ne verifica la correttezza. “Tanti esami di filosofia. Ma in cosa si vuole laureare?” Non lo sapeva anco- ra, lo avrebbe saputo col tempo, dopo un passaggio da un corso di laurea all’altro, passaggio interno a quell’ambito delle lettere che si compongono di lingue antiche, moderne, italiane e stra- niere, di filosofia e di storia.

L’incontro. Un professore tiene il suo corso di Storia della filoso- fia contemporanea. Si siede, lei, fra altri studenti. Le sembrano distanti, eppure in qualche modo più intimamente prossimi di quelli che circolano per le strade della capitale. Saranno gli abi- ti? La moda in provincia arriva dopo, sta di fatto che a lei, quel- l’assenza di marche omologanti fa subito un’ottima impressione.

La lezione inizia. C’è tutta la tensione di un film ad alta suspen-

se. Un solo protagonista, il soggetto, non uno qualsiasi, di quelli

che non ti mollano più, neanche a schermo spento. Ti seguono,

ti assillano con la loro storia, entrano in ogni piega della tua vi-

ta. Chi la racconta, questa storia, sa come lasciarti con il fiato so-

speso, come se tutta la filosofia non fosse altro che la scena alle-

stita per raccontare le peripezie del soggetto. Prima lezione. Ave-

va incontrato qualcuno che avrebbe aperto per lei una pista che

(35)

non si poteva più smettere di battere. La filosofia come pratica, esercizio, scrittura, come montaggio filmico. La filosofia come messa in gioco radicale di ogni certezza, come vertigine di un’i- dentità che non si solidifica se non nel momento del click spit- zeriano della morte, o nella follia paranoica dell’io uguale io.

Dallo sguardo di sorvolo alla gola di Irma. Non è mai stata brava, la studentessa, in storia della filosofia. Della filosofia come sto- ria, almeno di una storia trasformata in erbario, non si è mai del tutto innamorata. Avrebbe scoperto con il tempo che per lei sa- pere coincide con un certo essere segnati da qualcosa che lascia una qualche marca incisa nella carne.

Continua a frequentare le lezioni del professore. Un giorno, come per Freud era capitato in sogno una notte, a lezione, l’im- patto con una gola spalancata. Un’intima cavità esposta: il corpo, vivo-morto, pulsante di desiderio, inerte di godimento, l’orrore di un interno già sempre esterno, fatto di quella materia che ci pesa addosso come un ingombro, ma che a volte amiamo lascia- re in balia dell’altro. La Filosofia declinava il suo sguardo, silen- ziava il potere del padroneggiamento assoluto. Non era il grande racconto di chi pretende di dotare di un senso totalitario le pic- cole scene degli altri saperi, ma una sequenza di storie di corpi, pesantezza, opacità, di verità che, con Lacan, avrebbe scoperto si semi-dicono fra le pieghe di una parola che occorre faccia molti giri per bordeggiare niente, per ospitare la faglia del soggetto.

Nelle lezioni e nei seminari si lavorano e si leggono insieme le pa-

gine di una piccola folla di autori. Ognuno, col suo stile, è impe-

gnato a fare del proprio testo un corpo esposto all’espropriazio-

ne: la parola si lascia incurvare per accogliere l’eccedenza e lo

scarto che ogni dire comporta. La studentessa si accorge che quel-

le letture producono un effetto, formano una specie di zona ex-

time nel cuore stesso dell’università, la bucano dall’interno ser-

vendosene, rivelano la logica del discorso universitario, e di quel-

lo filosofico, destinato a perdere la sua posta in gioco etica nel

momento in cui fa sistema, in cui punta e scommette sull’Uno im-

maginario. L’apertura di quell’istituzione dall’interno verso l’e-

(36)

La curiosità dello psichiatra

MARIO COLUCCI

P erché ho atteso più di dieci anni prima di diventare redattore di “aut aut”? Pier Al- do Rovatti me lo aveva proposto già nel 1998, dopo che avevo attivamente collaborato alla composizio- ne di un numero della rivista dedicato a Michel Foucault e inti- tolato Pensare la follia. Ma all’epoca, dopo qualche esitazione, decisi di rifiutare. Giustificai la scelta con l’impossibilità di par- tecipare assiduamente alle riunioni milanesi e di impegnarmi in un lavoro redazionale. In realtà, mi sembra di poter dire oggi,

“non mi autorizzai” ad accettare: “aut aut” mi pareva impresa troppo seria per me, giovane psichiatra che studiava filosofia all’Università di Trieste, capitato quasi per caso in una storia culturale così importante. Allora non avevo capito nulla del sen- so di “aut aut”: il fatto di astenermi in quanto non-professioni- sta della filosofia significava attribuire alla rivista un’etichetta che non le apparteneva, ossia quella di una pubblicazione di settore, specialistica, per approcciarsi alla quale fosse necessa- rio esibire un robusto curriculum culturale.

Eppure, sarebbe bastato ricordare il modo in cui ero stato ac-

colto in redazione durante la costruzione del fascicolo a cui accen-

navo, il clima informale e amichevole che avevo respirato nelle

poche riunioni alle quali avevo preso parte, la curiosità verso la

mia provenienza dal cosiddetto “mondo delle pratiche”, per ren-

dermi conto che “aut aut” stava cercando di affrontare, senza

snobismo o supponenza, esattamente alcuni fra i temi che già al-

Riferimenti

Documenti correlati

I glicosidi appaiono come una delle classi più versatili di intermedi sintetici utili per ottenere 2-desossiglicosidi, una importante categoria di carboidrati a

The COAPT (Cardiovascular Outcomes Assessment of the MitraClip Percutaneous Therapy for Heart Failure Patients with Functional Mitral Regurgitation) trial ( NCT01626079 ) (13)

Mario Grimaldi - Maria Luigia Fatibene - Luana Pisano - Alessandro Russo ● Nuovi scavi nel giardino della casa di Marco Fabio Rufo a Pompei VII, 16, Insula occidentalis 22..

Comparison between the results obtained by the two models shows that the algorithmic model is able to describe the structural behaviour of stellar masonry

The position of the superior oblique tendon, attached to the orbital roof by a cartilaginous trochlea, is marked by osteologic landmarks like the trochlear spine and/or fovea,

The LIDAR is a one-wavelength near-infrared CHM15K- Jenoptik ceilometer, that operates continuously in automatic mode and produces vertical profiles in the range 0-15 km with

The bottom plot shows the magnitude of the Shapiro Delay as a function of orbital phase, derived with the same Keplerian orbital parameters from the DDGR ephemeris in Table 2..