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IL DANNO PSICHICO PERMANENTE NEI FAMILIARI DELLA VITTIMA DEL DANNO ILLECITO Giancarlo Bruno

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IL DANNO PSICHICO PERMANENTE NEI FAMILIARI DELLA VITTIMA DEL DANNO ILLECITO

Giancarlo Bruno*

L'analisi che sarà svolta, riguarderà esclusivamente il problema attinente al riconoscimento dell'esistenza di un danno psicologico risarcibile, nei parenti della vittima dell'evento lesivo, ciò in quanto emerge dalla Giurisprudenza in questi ultimi anni.

Dalla lettura della sentenza emessa, risulta come la giurisprudenza sia giunta alla conclusione che può essere riconosciuta l'esistenza di un danno biologico nei parenti di una vittima, definito come danno psicologico, risarcibile iure proprio alle seguenti condizioni:

- che vi sia stata la morte di un congiunto;

- che i parenti siano i genitori o i figli;

- che sussista una alterazione o una lezione dell'integrità psicofisica, identificabile nell'insorgenza o nell'aggravamento di una vera e propria malattia psichica;

- che l'onore della prova per la sussistenza di tale danno, incombe alla parte che assume di aver subito la lesione.

Ancorché l'attenzione sia stata soffermata esclusivamente sulla morte del congiunto, pare quantomeno opportuno ricordare altre situazioni che hanno caratteristiche tali da costituire una possibile noxa patogena, altrettanto importante della morte, per la evidenziazione di un disturbo mentale nei famigliari del soggetto.

Si tratta in particolare dei casi in cui la vittima primaria dell'illecito, ha subito lesioni tali da determinare una condizione di totale perdita della autosufficienza, quali: la tetraplegia e lo stato vegetativo persistente

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Ancorché il decesso di un genitore o di un figlio sia un evento indubbiamente molto traumatizzante, nella maggior parte dei casi però con il trascorrere del tempo, con l'attenuarsi del ricordo e con il subentrare delle capacità di adattamento, l'evento luttuoso tende a ridurre la propria azione negativa determinata dalla mancanza di un affetto o di un aiuto morale o di un valido supporto nella evoluzione formativa.

Per contro il vivere quotidianamente accanto ad una persona ridotta ad una condizione vegetativa, ed ancor più nel caso in cui il congiunto assolutamente conscio del proprio stato si trovi nella condizione di dover essere assistito in modo continuativo, anche per i più semplici atti della vita quotidiana, sono senza alcun dubbio delle condizioni molto stressanti in quanto il turbamento dell'animo per la violazione della sfera degli affetti, è quotidianamente presente e svolge in modo continuo la sua azione di noxa patogena.

Una conferma per questa interpretazione estensiva, si trova nella scala della gravità degli Eventi Psicosociali Stressanti proposto dal DSM III R che si articola in sei livelli: nessuna, lieve, moderato, grave, estremo, catastrofico.

Per gli adulti la morte del coniuge è classificata come “evento acuto estremo” e la morte del figlio come “evento acuto catastrofico”, mentre la malattia cronica con pericolo di vita in un genitore è classificata come “situazione duratura grave”.

Per i bambini e gli adolescenti solo la morte di entrambi i genitori è classificata come “evento acuto catastrofico”, mentre la malattia cronica con pericolo di vita in un genitore è classificata come “situazione duratura grave”.

Sostanzialmente condivisibile è la delimitazione della sfera d'influenza del danno biologico indotto, agli stretti congiunti della vittima, quali i genitori o i figli. Infatti sarebbe impensabile l'estensione del diritto al risarcimento a tutti coloro che potrebbero aver subito un risentimento emotivo, poiché in tal modo si aprirebbe un ventaglio talmente ampio, da dilatare in modo abnorme ed incontrollabile l'area degli aventi diritto, stimolando nel contempo pretestuose richieste basate non sulla esistenza di un nesso causale o concausale, ma sul semplice concetto di occasione.

Non vi è alcun dubbio che per il medico legale sussistono notevoli e talora insormontabili difficoltà nell'affrontare il problema, per l'individuazione e la

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valutazione di un eventuale danno psichico permanente conseguente trauma emotivo - doloroso.

Proprio per questo motivo, è indispensabile tentare di focalizzare una metodologia che quantomeno fissi i presupposti per un corretto approccio al problema finalizzata a ridurre, per quanto possibile, al minimo i margini della superficialità e dell'approssimativismo, affinché il medico legale non fornisca un ulteriore contributo a quell'anarchia giurisprudenziale che oggi esiste nelle aule giudiziarie.

Infatti il medico legale nel suo operato, non può venire meno al rigore metodologico, abbandonando definitivamente il criterio del "non si può escludere", che è stato definito dall'Introna come criterio assolutamente estraneo alla Medicina Legale, e dal Barni il nulla concettuale e soprattutto giuridico.

Il primo problema che si pone è del momento in cui debba essere eseguita l'indagine peritale, in quanto un accertamento troppo precoce potrebbe risultare viziato nelle sue conclusioni dalla non stabilizzazione del quadro clinico.

Come giustamente evidenziato dal Quadrio: "per poter parlare "di danno psicologico o compromissione di personalità indotta da fattori psicologici e relazionali occorre innanzitutto accertare la consistenza e la persistenza del disturbo distinguendolo da quelle manifestazioni, magari anche imponenti, che sono destinate a risolversi senza lasciare traccia. Il che non esclude, però, che possano identificarsi anche dei danni temporanei e reversibili ma consistenti riportabili ad una etiologia precisa e ad una credibile responsabilità".

Fermo restando il fatto che il momento della consulenza non dipende prioritariamente dalla decisione del medico legale, pare logico ritenere che l'indagine peritale non dovrebbe essere svolta prima che siano trascorsi almeno due anni dall'evento, lasso di tempo questo che ragionevolmente può essere ritenuto sufficientemente adeguato per considerare, nella maggior parte dei casi, il quadro clinico come stabilizzato. A questa schematizzazione sfuggono i minori, nei quali solo a distanza di molti anni si possono manifestare disturbi psichici, situazione questa che oggi può essere solo evidenziata, e per la quale sarà necessario individuare una opportuna metodologia.

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Il secondo problema è quello che riguarda l'inquadramento clinico della condizione psichica presentata dal soggetto esaminato. Si tratta quindi di appurare la reale esistenza di una vera e ben definita patologia psichica, comportante una compromissione obiettiva, durevole e quindi permanente della personalità dell'individuo, la quale incida sull'equilibrio e sulla efficienza del soggetto.

Trattandosi di materia altamente specialistica, dovrà essere affrontata dal medico legale in stretta collaborazione con uno specialista neuropsichiatra, e ciò anche in considerazione del fatto che l'analisi deve comprendere la diagnosi differenziale tra le autentiche forme morbose e la pura sofferenza soggettiva o una patologia simulata.

Secondo quanto indicato nel DSM 3 R, la simulazione si caratterizza con la produzione volontaria e controllata di sintomi fisici o psichici falsi o grossolanamente esagerati, finalizzata ad ottenere uno scopo, che può essere facilmente individuato tenendo conto delle circostanza. La diagnosi di simulazione deve essere avanzata quando viene notata una qualche combinazione dei seguenti elementi;

- contesto medico legale: per esempio la persona viene inviata dal suo avvocato al medico per l'esame;

- marcata discrepanza fra il disturbo o l'invalidità lamentata dalla persona ad il reperto obiettivo;

- mancanza di cooperazione durante la valutazione diagnostica e nel corso del trattamento prescritto;

- presenza di un disturbo antisociale di personalità.

La simulazione si differenzia dai Disturbi Fittizi, anch'essi non genuini né naturali, per il fatto che questi sono la conseguenza di un bisogno psicologico del soggetto ad assumere il ruolo di malato, e non sono mai determinati da incentivi esterni.

Il terzo problema è quello attinente al nesso causale, e cioè sui rapporti esistenti tra l'evento ed il quadro clinico obiettivato.

Si tratta cioè di esaminare il caso in riferimento ad alcune ipotesi interpretative, e cioè se l'evento traumatizzante, la psiche sia da considerare come causa efficiente

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o come conclusa, oppure come momento occasionale o acceleratore o aggravatore: secondo la definizioni del Canuto:

causa efficiente: è la causa senza la quale non può venire prodotto un determinato effetto;

concausa: un determinato affetto si può realizzare solo dalla azione comune di più cause, mentre ognuna da sola non avrebbe portato alcun effetto o ne avrebbe prodotto uno diverso;

causa occasionale: o momento liberatore della causa (Leoncini).

Ha minima importanza, è assolutamente inidoneo a produrre l'effetto, può essere sostituito con altri eventi simili.

momento acceleratore: è un evento concausale od occasionale che pur non modificando quantitativamente l'effetto di una causa, ne accelera l'effettuazione;

momento aggravatore: è una conclusa che modifica quantitativamente l'effetto che sarebbe derivato da una data causa.

Il primo quesito che il medico legale si deve porre è se, sempre ed in ogni caso, debba essere affermata la sussistenza di una causalità oppure se vi sono delle situazioni nelle quali la sua esistenza deve essere esclusa.

Non vi è alcun dubbio che in presenza di una simulazione o di disturbi fittizi, l'esistenza di un nesso causale tra evento e quadro clinico presentato viene ad essere escluso. Inoltre la reazione al lutto raramente insorge dopo 2-3 mesi dall'evento, per cui una patologia psichica che si evidenzi a distanza di 12 o più mesi verosimilmente non potrebbe essere ricollegabile causalmente con il fatto.

Per contro nella situazione conseguente alla totale perdita di autosufficienza del parente, proprio per la persistente presenza della condizione stressante, il criterio cronologico per l'esclusione del nesso causale non pare assumere una concreta dignità.

Il successivo problema interpretativo è se la condizione di lutto possa essere considerata una causa occasionale. Appare evidente che le condizioni individuate,

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quali la morte del congiunto o la perdita totale della sua autosufficienza, essendo eventi psicosociali estremi o catastrofici, non possono in quanto tali essere interpretati come fattori assolutamente inidonei o di minima importanza. Se però la condizione psichica evidenziata ha caratteristiche tali, come ad esempio la schizofrenia, da essere considerata come del tutto indipendente dalle esperienze di vita, ovviamente l'evento non potrà che essere considerato come momento rivelatore e di conseguenza come del tutto ininfluente nel determinismo del quadro psicopatologico presentato.

Entrando quindi nell'argomento del nesso causale, non vi è alcun dubbio che l'evento emotivo doloroso sia caratterizzato dalla probabilità scientifica di determinare una temporanea situazione di sofferenza psichica reattiva quale è quella del "lutto non complicato".

Con questa dizione viene indicata la normale reazione di adattamento alla morte di una persona cara, anche se caratterizzata da una completa sindrome depressiva, la quale si colloca tra le condizioni che pur potendo richiedere attenzione o trattamento, non sono considerati come veri disturbi mentali.

Inoltre la durata della reazione al lutto pur variando considerevolmente tra i diversi sottogruppi culturali, evolve sempre verso la completa risoluzione.

In base a questi presupposti, non sussiste alcun dubbio sul fatto che il passaggio da una situazione di temporanea sofferenza psichica a quella di un vero disturbo mentale, possa avvenire esclusivamente e solo se antecedentemente al fatto nel soggetto sussisteva una condizione patologica. Di conseguenza uno stress emotivo doloroso non potrà mai essere considerato come causa diretta ed esclusiva per il determinismo nell'adulto di un disturbo mentale permanente.

Proseguendo nell'analisi e quindi affrontando il capitolo delle concause, emerge una considerazione che in quanto tale, fornisce una utile chiave di lettura del problema. Ancorché non esistano dati statistici sulla evidenziazione di patologia psichiatriche permanenti a seguito dell'evento lutto, le esperienza quotidiana sino ad ora acquisiti sia nell'ambito psichiatrico che in quello medico legale, sono univoche nell'indicare come non frequente l'insorgenza di tale evenienza.

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Da questa inequivoca constatazione, inevitabilmente scaturisce la deduzione che il momento di stress emotivo doloroso, non possa essere considerato come concausa prevalente, definizione questa che meglio connota la condizione preesistente, in quanto di fondamentale ad indispensabile importanza per l'evidenziazione di una patologia neuropsichica.

L'unica situazione nella quale lo stress emotivo-doloroso potrebbe verosimilmente assumere maggiore rilevanza concausale, è quella del decesso di un figlio unico, sul quale un genitore aveva proiettato un impegno affettivo totalizzante. Si tratta in sostanza di una preesistente condizione psicologica che, pur non definibile come patologica si pone all’estremo limite della normalità, si caratterizza con una affettività estremamente elevata e proiettata in modo monosettoriale sulla figura del figlio senza possibilità di altri interessi affettivi sostitutivi.

Passando ad esaminare la condizione per la quale lo stress emotivo-doloroso può essere considerato come momento acceleratore, pare logico ritenere che la stessa si concretizzi nel caso in cui la patologia psichica nell'ambito della vita del soggetto, e ciò indipendentemente dall'evento, sicuramente in ogni caso si sarebbe evidenziata.

Il primo problema interpretativo che in questo caso si pone è di quanto tempo sia stata anticipata la manifestazione, per il quale la risposta, indubbiamente difficile, potrà essere espressa solo in termini orientativi prendendo come riferimento i dati forniti dalla clinica per quanto riguarda la prevedibile età di insorgenza di quella specifica patologia.

Un secondo problema riguarda la possibile concretizzazione di conseguenza negativa, non di ordine clinico ma nell'ambito del sociale e/o lavorativo, più pesanti rispetto a quanto in ogni caso si sarebbe verificato, nel caso in cui la manifestazione del disturbo psichico, sia stata anticipata di anni rispetto a quella che era la prevedibile età di insorgenza del disturbo.

L'evento stressante si può connotare come concausa di aggravamento, nel caso in cui una diagnosticata preesistente patologia si caratterizzi con un più importante

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quadro clinico e/o in modo non prevedibile evolva in senso peggiorativo e/o che richieda trattamenti terapeutici più consistenti.

L'ultimo argomento da affrontare è quello della valutazione medico legale e cioè della quantificazione del danno conseguente alla condizione peggiorativa rispetto allo stato anteriore.

Non vi è alcun dubbio che una valutazione del danno in termini numerici sia un percorso assolutamente impraticabile e ciò, sia in rapporto al concetto di danno biologico permanente, sia per quanto riguarda la sua proiezione negativa sull'attività lavorativa.

Infatti non è possibile in presenza di una patologia psichica, per la quale l'evento si può caratterizzare come concausa non prevalente o come momento acceleratore od aggravatore, esprimere con un perentorio valore numerico, la ridotta capacità di utilizzare il proprio corpo in tutto le sue possibili estrinsecazioni lavorative ed extralavorative comprese quelle attinenti alla sfera sociale.

Conseguentemente la valutazione del danno psicologico dovrà essere espressa in modo descrittivo tale che:

- delinei la preesistente condizione psicopatologica e la validità del soggetto;

- puntualizzi in modo chiaro e comprensivo la caratterizzazione dell'evento nell'ambito della causalità;

- definisca il quadro clinico riscontrato e quali delle sue componenti siano rapportabili all'evento;

- fornisca un'analisi accurata su come e su quali attività della vita lavorativa ed extralavorativa, il riscontrato peggioramento dello stato anteriore, svolga la sua influenza negativa.

Sicuramente questo tipo di conclusioni, non corrispondono alle semplicistiche richieste dei magistrati e degli avvocati, di avere una indicazione numerica, in base alla quale sviluppare i calcoli per la monetizzazione del danno.

A fronte di un problema di tale difficoltà e complessità, non è condividibile accedere ad una empirica soluzione valutativa, la quale in sostanza verrebbe ad addebitare al medico legale la responsabilità di una conclusione liquidativa, che nella maggior parte dei casi si rivelerebbe sicuramente non corretta ed ingiusta.

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Comportamento più logico e corretto è invece quello proposto, e cioè di una valutazione descrittiva, soluzione questa che come noto costituisce la prassi comunemente seguita in alcuni paesi tra cui l'Inghilterra.

Il problema quindi deve essere affrontato chiaramente ed in modo approfondito e nell'ambito delle rispettive competenze, e cioè quelle di carattere medico e quelle di carattere legali. Il medico legale dove impegnarsi a svolgere compiutamente un'analisi tecnica, evidenziando tutte le sfaccettatura che il caso presenta, mentre il magistrato e gli avvocati devono impegnarsi nella interpretazione sul piano del risarcimento di tutti i dati conoscitivi forniti dal medico, e ciò al fine di acquisire concreti elementi di ragione sulla reale entità del danno.

L'analisi sin qui condotta non può certo essere ritenuta come esaustiva di tutte le problematiche che l'argomento discusso pone, ma dove essere considerata semplicemente un primo approccio al problema per stimolare ulteriori riflessioni finalizzato a chiarire e definire in modo più completo ad approfondito il problema.

Non vi è alcun dubbio che sussistano oggettive e forse alcune insormontabili difficoltà sia tecniche che interpretative, a fronte delle quali però il medico legale, se tale vuole essere, deve seriamente impegnarsi al fine di non contribuire ad accrescere quell'incertezza che, così come ha recentemente ricordato il Loi, nei paesi di lingua anglosassone viene definita come forensic lottery.

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