GIANPAOLO IMPAGNATIELLO
Crescita del Paese e funzionalità delle impugnazioni civili:
note a prima lettura del d.l. 83/2012.
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Un’altra riforma “a costo zero” delle impugnazioni civili. – 3. Inammissibilità degli appelli non ragionevolmente fondati. – 4. Gli appelli esentati dall’inammissibilità. – 5. Inammissibilità e definizione del giudizio di gravame. – 6. Regime dell’ordinanza di cui all’art. 348-bis c.p.c. e impugnazione della sentenza appellata. – 7. Vizio di motivazione e “doppia conforme”. – 8. La novella dell’art. 360, n. 5, c.p.c. – 9.
Una conclusione e una proposta. - Postilla.
1. Premessa. – Col d.l. 22 giugno 2012, n. 83, il governo “tecnico” ha introdotto un pacchetto di «misure per la crescita del Paese», alcune delle quali riguardano specificamente la giustizia civile.
Non v’è dubbio che tra efficienza dell’amministrazione della giustizia e rilancio del sistema economico esista una relazione diretta e strettissima, sicché, in linea di principio, l’idea d’intervenire in tale contesto anche sul processo civile non è certamente un fuor d’opera. Tutto sta a vedere su cosa s’interviene e come.
Le misure che qui interessano sono contenute negli artt. 54 a 56 del decreto. Il primo, sotto la rubrica «Appello», apporta in realtà alcune significative modifiche alla disciplina non solo dell’appello, ma anche del ricorso per cassazione; l’art. 55 interviene sulla c.d. legge Pinto, in tema d’indennizzo dei danni da irragionevole durata del processo; l’art. 56, infine, ritocca il d.lgs.
26/2006, istitutivo della Scuola superiore della magistratura, prevedendo, da un lato, che le sedi dalla Scuola possano essere (non più necessariamente tre, ma) fino a un massimo di tre e, dall’altro, che i magistrati che compongono il comitato direttivo possano, in alternativa al collocamento fuori ruolo e a loro richiesta, usufruire di un esonero parziale dall’attività giurisdizionale nella misura determinata dal Consiglio superiore della magistratura.
Quanto codeste misure siano in grado di produrre effetti salvifici sulla crescita del nostro Paese è difficile dire. Certo, il fatto che le sedi della Scuola superiore della magistratura possano essere meno di tre pare rilevare, a tutto voler concedere, sul piano della spending review piuttosto che su quello del rilancio del sistema economico1; analogamente, non c’è da attendersi miracoli dalla circostanza che i sette magistrati che fanno parte del consiglio direttivo (e che siano ancora in servizio, il che non è detto) possano usufruire, se lo vogliono, di un esonero temporaneo dalle funzioni giurisdizionali piuttosto che del collocamento fuori ruolo per tutta la durata dell’incarico.
Per non dire che il governo si è mostrato perfettamente consapevole del carattere non propriamente urgente sia degl’interventi sulle impugnazioni, sia di quelli sulla legge Pinto, tanto da averne differito l’operatività, incredibile dictu, al trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione.
Ma di tutto ciò, e dei disagi intuitivamente derivanti dalla frenesia con la quale si stanno succedendo riforme, controriforme e pseudoriforme del processo civile, preferiamo non occuparci, per concentrare invece l’attenzione sulle misure relative all’appello e alla cassazione.
2. Un’altra riforma “a costo zero” delle impugnazioni civili. – È da un po’ di tempo che le impugnazioni sono nel mirino del legislatore, il quale evidentemente coltiva la certezza che, se la giustizia civile non funziona, la causa va ricercata principalmente nel loro funzionamento e, forse, nella loro stessa esistenza. Va ricordato, infatti, che già il d.d.l. n. 2612, approvato dal Consiglio dei
1 È quanto emerge anche dalla relazione ministeriale al decreto legge.
ministri il 9 febbraio 2011, conteneva alcune misure dirette a deflazionare i giudizi di appello e di cassazione: una (la previsione dell’onere a carico delle parti di dichiarare la persistenza dell’interesse all’impugnazione, a pena di estinzione del giudizio) ha avuto vita breve e tormentata, essendo stata introdotta dalla l. 183/2011, modificata dal d.l. 212/2011 e infine soppressa dalla legge di conversione 10/2012; un’altra (la previsione della motivazione breve della sentenza di primo grado, accompagnata dal condizionamento del gravame alla richiesta di motivazione estesa) è stata abbandonata, invero senza rimpianti, durante l’iter parlamentare2. È invece giunta in porto, con la l. 183/2011, la modifica della disciplina dell’inibitoria in appello, tradottasi nell’introduzione di una pena pecuniaria per la parte che abbia proposto un’istanza di sospensione inammissibile o manifestamente infondata, nella precisazione che l’ordinanza non è impugnabile e nella previsione della possibilità di decidere immediatamente il merito: ossia, se si prescinde dall’ultimo dei profili richiamati, in un evidentissimo giro di vite sull’istituto dell’inibitoria, che ne ha vieppiù ridotto la capacità di garantire adeguatamente il diritto di difesa delle parti e l’equilibrio dei rapporti tra primo e secondo grado di giudizio3.
Ora, che l’appello – molto più della cassazione – viva da tempo una stagione di grande difficoltà costituisce indubbiamente un dato di comune esperienza. I tempi irragionevolmente lunghi con i quali sono definiti i giudizi di gravame nella maggior parte delle corti d’appello italiane ne sono la riprova più tangibile. Strutture, personale, risorse, snellimento e razionalizzazione delle competenze: di questo si avrebbe bisogno per porre rimedio alla congestione degli uffici, mentre invece la fantasia del legislatore non riesce a mettere in campo altro che misure rigorosamente a costo zero, le quali si risolvono invariabilmente nel limitare, direttamente o indirettamente, l’accesso al (e la fruizione del) giudizio d’appello. Quel che è peggio è che dietro il susseguirsi di questi interventi non si intravede una riflessione davvero consapevole e documentata sulle cause del dissesto, né tanto meno un disegno riformatore non dico di ampio respiro, ma almeno ordinato e razionale; si coglie piuttosto il prevalere di spinte settoriali, che riescono a farsi largo nei percorsi di formazione dei testi legislativi e s’impongono infine come diritto positivo.
L’intervento riformatore che stiamo per esaminare non fa eccezione. Le novità introdotte dall’art. 54 del d.l. 83/2012, infatti, si sostanziano, da una parte, in un filtro di ammissibilità dell’appello e, dall’altra, in una limitazione dell’accesso alla Corte di cassazione in presenza di vizi attinenti alla motivazione. Si tratta di riforme il cui impatto pratico e la cui capacità di decongestionamento sono tutte da verificare, ma che, senza dubbio, hanno un notevole rilievo sul piano dei valori e, dal punto di vista sistematico, sono foriere di non poche ripercussioni: basti riflettere sulla previsione, che non ha sostanzialmente precedenti nella nostra tradizione, per la quale la dichiarazione d’inammissibilità dell’appello rende autonomamente ricorribile per cassazione la sentenza appellata.
3. Inammissibilità degli appelli non ragionevolmente fondati. – Andiamo però con ordine. La prima novità della quale occorre dar conto consiste nella possibilità che il giudice d’appello, all’udienza di cui all’art. 350 c.p.c., prima di procedere alla trattazione, dichiari «con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi», l’inammissibilità dell’impugnazione che «non ha una ragionevole probabilità di essere accolta». Si tratta, con tutta evidenza, di un meccanismo (applicabile anche nel processo del lavoro e in quello delle locazioni) che consente la rapida definizione del gravame mediante una dichiarazione d’inammissibilità per motivi di merito, sulla falsariga di quanto prevede l’art. 360-bis c.p.c. con riguardo al giudizio di legittimità. Come in
2 Su questi conati di riforma, v. il mio Efficienza del sistema giudiziario e diritto all’impugnazione (a proposito di un recente disegno di legge), in Prev. forense, 2011, fasc. 1, p. 16 ss.
3 Rinvio alle considerazioni svolte in La nuovissima disciplina dell’inibitoria in appello, in Giusto proc. civ., 2012, p. 109 ss.
questo caso – ma l’analogia si ferma qui – la pronuncia d’inammissibilità si correla alla ricognizione del grado d’infondatezza dell’impugnazione, ossia a una valutazione che pertiene al merito piuttosto che ai profili formali del gravame.
Occorre però rilevare che il presupposto dell’inammissibilità, individuato dal nuovo art. 348- bis c.p.c. nella «ragionevole (im)probabilità» di accoglimento, è diverso da quello preso in considerazione da altre disposizioni del codice di rito. In particolare, assenza di ragionevole probabilità di accoglimento non significa manifesta infondatezza: questa presuppone che l’iniziativa impugnatoria mostri ictu oculi la propria inanità, quella può aversi ogni qual volta l’impugnazione non palesi ictu oculi la sua serietà, con una gamma di variabili ampia quanto è ampia e sfuggente la nozione di ragionevolezza. Piuttosto, la formula utilizzata dall’art. 348-bis evoca un parallelismo con il fumus boni iuris rilevante a tutt’altri fini, quasi che il giudice d’appello possa dichiarare inammissibile il gravame tutte le volte che questo, a una prima delibazione prognostica, pur non apparendo manifestamente infondato, non mostri ragionevoli (consistenti? evidenti? non trascurabili?) chances di successo. Il che, com’è facile comprendere, per un verso dischiude spazi pericolosamente ampi di applicazione della norma, destinati a dilatarsi o a restringersi in dipendenza di fattori esterni, quali i carichi di lavoro dell’ufficio, la maggiore o minore scopertura di organico, l’incidenza dei procedimenti ex legge Pinto etc.4; e, per l’altro, conduce a indebite sovrapposizioni con l’istituto dell’inibitoria, col quale la declaratoria d’inammissibilità di cui all’art.
348-bis tende a coincidere anche temporalmente.
L’inammissibilità, infatti, è dichiarata in limine dell’udienza di trattazione prevista dall’art.
350 c.p.c., la stessa nella quale in linea di principio (e cioè salvi i casi di decisione anticipata in camera di consiglio e di pronunzia con decreto presidenziale inaudita altera parte, ai sensi dell’art.
351, 2° e 3° comma, c.p.c.) il giudice d’appello decide sulla sospensione. Orbene, se non m’inganno decisione sull’inibitoria e dichiarazione d’inammissibilità si elidono a vicenda: se reputa il gravame immeritevole di considerazione, il giudice d’appello ne dichiara seduta stante l’inammissibilità, senza necessità di decidere sull’istanza di sospensione; viceversa, la decisione sull’istanza di sospensione, se contenga una delibazione positiva del fumus dell’appello, è incompatibile con l’applicazione dell’art. 348-bis. Non è invece esclusa l’eventualità che l’ordinanza di cui all’art.
348-bis si cumuli con la decisione (negativa, ça va sans dire) sull’inibitoria quando questa è adottata in camera di consiglio ai sensi dell’art. 351, 2° comma, c.p.c.; a meno che, con una piccola forzatura dell’art. 348-ter (purché con piena salvaguardia del contraddittorio), si ritenga che la dichiarazione d’inammissibilità dell’impugnazione possa essere emanata anche nell’udienza camerale.
Resta la sensazione che il nuovo art. 348-bis rappresenti – per lo meno dal punto di vista della deflazione del giudizio di gravame – un doppione degli altrettanto nuovi ultimi commi dell’art. 351 e dell’art. 352 c.p.c., introdotti appena pochi mesi fa, i quali danno al giudice d’appello la facoltà, rispettivamente in sede di pronunzia sull’inibitoria e in ogni altro caso, di decidere il merito con sentenza concisamente motivata nelle forme dell’art. 281-sexies c.p.c. Tali disposizioni non sono state certamente abrogate, il che lascia ai tribunali e alle corti d’appello la scelta tra svariate soluzioni, la differenza tra le quali non si apprezza tanto sul piano dell’economia interna del giudizio d’appello (un’ordinanza «succintamente motivata» non è poi così diversa da una sentenza
«concisamente motivata»), quanto piuttosto su quello delle ricadute sulla sentenza impugnata e sul successivo ricorso per cassazione. Infatti, mentre la sentenza resa nei modi dell’art. 281-sexies può essere sia di accoglimento, sia di rigetto del gravame e – salvi i casi di rimessione al primo giudice – sostituisce comunque la sentenza appellata, l’ordinanza di cui all’art. 348-bis la lascia in vita, rendendola impugnabile in sede di legittimità (art. 348-ter, 3° comma).
4 Avverte questo pericolo anche R. CAPONI, Contro il nuovo filtro in appello e per un filtro in cassazione nel processo civile, in www.judicium.it, (2012), § 6.
In questa situazione, non è facile immaginare come si regoleranno tribunali e corti d’appello;
ma, volendo azzardare una previsione, è lecito supporre che essi, di fronte a iniziative impugnatorie
“deboli”, propenderanno di preferenza per la decisione con ordinanza, ossia per l’adozione di un provvedimento che, non essendo autonomamente ricorribile in Cassazione5, possiede il fascino discreto dell’insindacabilità.
4. Gli appelli esentati dall’inammissibilità. – L’art. 348-bis, 1° comma, non si applica nei giudizi nei quali è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero e in quelli nei quali la decisione di primo grado è stata emanata nelle forme del procedimento sommario di cognizione, a norma degli artt. 702-bis e seg. c.p.c.
Come si evince dalla relazione ministeriale, i conditores hanno considerato decisivo, nel primo caso, l’interesse pubblico alla trattazione dell’appello e, nel secondo, la struttura sommaria del giudizio svoltosi dinanzi al giudice a quo. Resta pur sempre il fatto che un appello infondato è tale quale che sia l’oggetto del contendere e a prescindere dalla forma del provvedimento impugnato e dalla pienezza della cognizione nel precedente grado di giudizio; il che, se non altro, induce a dubitare della ragionevolezza delle esclusioni operate dal legislatore. Va da sé che, in tali casi, nulla osta a che l’appello sia rigettato con sentenza concisamente motivata a norma dell’art.
281-sexies c.p.c., così come previsto dagli artt. 351, ult. comma, e 352, ult. comma, c.p.c.
Occorre piuttosto prendere atto che, nelle aspettative di chi ha confezionato la norma, palesate nella più su richiamata relazione, l’assenza di filtri di ammissibilità dell’appello nel procedimento sommario di cognizione dovrebbe funzionare da incentivo all’utilizzo di questo strumento, allo stato – parrebbe – poco amato dalla classe forense. Il che è tutto dire, per poco che si consideri che l’idea di promuovere la diffusione di un meccanismo processuale connotato da un primo grado sommario e da un appello pieno, esauriente e finanche aperto ai nova è in chiarissima controtendenza con il proposito di “rivalutazione” del giudizio di primo grado così caro al legislatore del 1990 e in gran voga negli anni successivi. A ulteriore riprova della scarsa chiarezza d’intenti dei riformatori, si aggiunga che la riconosciuta necessità di un appello effettivo dopo un primo grado svoltosi nelle forme degli artt. 702-bis e ter c.p.c. contraddice anche le scelte compiute dal d.lgs. 150/2011, il quale ha previsto, in molti dei procedimenti sottoposti al rito sommario, che il giudizio si svolga in unico grado6.
5. Inammissibilità e definizione del giudizio di gravame. – L’inammissibilità ai sensi dell’art.
348-bis può essere dichiarata solo quando è idonea a definire il giudizio d’appello. Lo si desume non solo e non tanto dall’espresso richiamo dell’art. 91 c.p.c., ma anche e soprattutto dal 2° comma dell’art. 348-ter, che esclude la pronunzia dell’ordinanza quando il presupposto della ragionevole improbabilità di accoglimento ricorre solo per l’impugnazione principale o per quella incidentale (tempestiva, ché quella tardiva è destinata comunque a rimanere senza effetto se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile: art. 334, 2° comma, c.p.c.).
A fortiori, l’ordinanza non può essere pronunziata quando la ragionevole probabilità di rigetto riguarda singoli motivi di gravame: in tali casi, il giudice d’appello non può fare a meno di procedere alla trattazione di tutte le impugnazioni proposte contro la sentenza.
6. Regime dell’ordinanza di cui all’art. 348-bis c.p.c. e impugnazione della sentenza appellata.
– Come si è visto, l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348-bis
5 Ma sul punto, v. infra, § 6.
6 Lo nota già M. DE CRISTOFARO, Appello e cassazione alla prova dell’ennesima “riforma urgente”: quando i rimedi peggiorano il male (considerazioni di prima lettura del d.l. n. 83/2012), in www.judicium.it, (2012), § 2.2, il quale rimarca i dubbi di costituzionalità del d.lgs. 150/2011 derivanti dalla prospettiva ora improvvidamente privilegiata dal legislatore.
non è impugnabile in sede di legittimità. Per lo meno, l’art. 348-ter, assoggettando a ricorso in Cassazione la sentenza inutilmente appellata, parrebbe voler negare un’autonoma impugnazione dell’ordinanza. Sennonché, anche a non voler considerare che l’ordinanza provvede sulle spese del giudizio d’appello, ed è pertanto ricorribile in Cassazione per lo meno in questa parte, non si può escludere che essa presenti vizi formali e/o sostanziali: può, per esempio, esibire un error in procedendo, tale da incidere direttamente sul contraddittorio o sul diritto alla difesa delle parti, oppure un errore di fatto revocatorio.
In tutti tali casi, appare difficile sostenere che l’ordinanza che ha negato la trattazione dell’appello non sia autonomamente censurabile (nei due esempi testé fatti, con ricorso in Cassazione e con revocazione), se non altro per due ordini di ragioni. In primo luogo, la dichiarazione d’inammissibilità dell’appello incide sull’ampiezza dei motivi denunziabili alla Suprema Corte: questi, infatti, devono mantenersi «nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello» (art. 348-ter, 3° comma) e da essi è escluso il vizio di motivazione «quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata» (art. 348-ter, 4° comma). In secondo luogo, l’eventuale cassazione della sentenza di primo grado non assicura alla parte la celebrazione del giudizio d’appello ingiustamente negato, ma, per espressa previsione del nuovo ultimo comma dell’art. 383 c.p.c., mette capo a un normale giudizio di rinvio.
Naturalmente, se la si ammette – il che appare doveroso per non esporre la norma a evidenti profili d’incostituzionalità –, l’impugnazione dell’ordinanza è in grado di causare non poche complicazioni nei rapporti col ricorso in Cassazione avverso la sentenza appellata. Pur con la cautela necessaria in considerazione della situazione del tutto inedita con la quale abbiamo a che fare, si può immaginare che il ricorso per cassazione avverso la sentenza appellata sia condizionato dagli esiti dell’impugnazione avverso l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità; con la precisazione che, mentre l’assoggettamento a ricorso in Cassazione di entrambi i provvedimenti può essere gestito con relativa facilità, in caso di impugnazione per revocazione dell’ordinanza non pare possibile alcuna forma di coordinamento tra i due giudizi, ma solo tra le rispettive decisioni.
Al di là di questi inconvenienti, dei quali non si avvertiva invero alcun bisogno, c’è da dire che il meccanismo delineato dall’art. 348-ter rischia, per agevolare il compito dei giudici d’appello, di provocare un aggravio di lavoro per la Suprema corte. È infatti più che probabile che la mancata trattazione dell’appello, giustificata attraverso una motivazione stringata e sbrigativa, sortisca l’effetto d’invogliare la parte soccombente a tentare la strada della Cassazione, laddove magari una convincente sentenza d’appello l’avrebbe persuasa ad acquietarsi7. È difficile fare in proposito delle previsioni, ma non è escluso che, se la norma verrà confermata dalla legge di conversione, ci si ritrovi di qui a qualche tempo a dover prendere atto di un clamoroso autogol del legislatore8. Del resto, la storia recente e meno recente insegna che, tutte le volte in cui si è pensato di ridimensionare la garanzia del doppio grado di giurisdizione, ne è scaturito invariabilmente un incremento del numero dei ricorsi per cassazione9: segno, questo, che l’appello non risponde solo a
7 Non a caso, il § 522 della ZPO tedesca, specialmente dopo la riforma del 2011, impone particolari oneri di motivazione a carico del giudice d’appello che intenda dichiarare l’inammissibilità del gravame: sul punto, v. R.
CAPONI, Contro il nuovo filtro in appello, cit., § 5.
8 Si aggiunga che la ricorribilità in Cassazione della sentenza inutilmente appellata, essendo possibile in linea di principio per tutti i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., ancorché nei limiti dei motivi specifici d’appello (e salvo quanto previsto dall’art. 348-ter, 4° comma), non consente all’appello di contribuire alla selezione delle questioni da sottoporre alla Suprema Corte, rendendo ancor più evidente il rischio che questa sia travolta di ricorsi che ripropongono, sub specie di vizi di legittimità, le medesime censure poste a fondamento dell’appello.
9 G. BALENA, La garanzia del doppio grado di giurisdizione, in Stato di diritto e garanzie processuali, Atti delle II Giornate internazionali di diritto processuale civile (Bari, 8-9 giugno 2007), a cura di F. Cipriani, Napoli, 2008, p. 256.
un’insopprimibile bisogno di tutela delle parti, ma svolge anche un ruolo fondamentale nell’equilibrio complessivo del sistema delle impugnazioni.
7. Vizio di motivazione e “doppia conforme”. – La seconda novità introdotta dal d.l. n.
83/2012 riguarda il sindacato di legittimità sulla motivazione, il quale subisce due esclusioni e un ridimensionamento.
Cominciando dalle prime, il ricorso in Cassazione per vizio di motivazione non sarà possibile, da una parte, in caso d’inammissibilità dell’appello a norma dell’art. 348-bis c.p.c., quando questa
«è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata»; e, dall’altra parte, in caso di conferma in appello della sentenza di primo grado, purché non si tratti di una causa nella quale è obbligatorio l’intervento del pubblico ministero.
Com’è stato opportunamente notato dai primi commentatori della riforma, si tratta di una soluzione ispirata in maniera molto libera al principio canonistico della doppia conforme10. Ciò che sorprende, tuttavia, è che vengano poste sullo stesso piano due situazioni totalmente diverse, cioè quella dell’appello esaminato nel merito e rigettato (chissà poi perché, ciò non vale nei giudizi nei quali c’è il p.m.) e quello dell’appello dichiarato inammissibile con ordinanza succintamente motivata per ragioni inerenti alle questioni di fatto poste a base della decisione impugnata. Ora, mentre la prima fattispecie legittima con ogni probabilità a discorrere di doppia conforme, nel secondo caso si è in presenza di una situazione non poco diversa, per poco che si rifletta che, come si è visto, il presupposto dell’inammissibilità non consiste nella manifesta infondatezza del gravame e che l’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità può essere motivata anche solo per relationem, mediante rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa (art. 348-ter, 1° comma). In tali casi, nei quali il riesame del fatto in appello potrebbe rivelarsi meramente apparente, negare il controllo di legittimità sulla motivazione (quanto meno) della sentenza di primo grado appare inopportuno e fors’anche costituzionalmente illegittimo.
8. La novella dell’art. 360, n. 5, c.p.c. – Il ridimensionamento del controllo di legittimità sulla motivazione, al quale ho testé accennato, si è avuto invece attraverso la riformulazione dell’art. 360, n. 5, c.p.c.
È la terza volta che la norma viene novellata dall’entrata in vigore del codice e, curiosamente, quest’ultima riscrittura segna un ritorno pressoché perfetto alla sua versione originaria. Il legislatore del 1940, infatti, aveva inserito tra i motivi di ricorso l’«omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti» ed è bene tener presente che quella formula era il risultato di un compromesso: come si apprende dalla calamandreiana Relazione al Re, durante i lavori preparatori del codice si era manifestata una tendenza a sopprimere del tutto il vizio di motivazione, elaborato dalla Suprema Corte nei decenni precedenti nonostante il silenzio serbato sul punto dal c.p.c. del 1865; ma, piuttosto che eliminarlo, si era preferito conservarlo «ristretto e precisato nella nuova formula, che lo ammette non nella quasi illimitata ampiezza alla quale la pratica era arrivata nell’adattamento delle norme del codice del 1865, ma nei limiti precisi di un omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio del quale le parti avevano discusso». La disposizione ebbe però vita breve, poiché nel 1950, subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il legislatore vi sostituì la dizione «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio», con l’evidente obiettivo di sgombrare il campo da ogni possibile dubbio in ordine al potere della Cassazione di sindacare congruità e logicità della motivazione. La nuova stesura del n. 5 dell’art. 360 sarebbe rimasta immutata fino al 2006, quando il d.lgs. n. 40, allo
10 M. DE CRISTOFARO, Appello e cassazione, cit., § 1.2.
scopo di (tentare di) restringere l’accesso alla Suprema Corte, l’avrebbe cambiata in «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio».
La sostanziale incapacità della riforma del 2006 di conseguire un effettivo snellimento del flusso dei ricorsi11 ha oggi spinto il governo a intervenire sul punto con rinnovato vigore, nel dichiarato intento di restituire la Cassazione alla purezza dello ius constitutionis e di proteggerla dall’«abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione non strettamente necessitati dai precetti costituzionali»12: come dicevo, con la riforma del 2012 si è (quasi) tornati alle origini, poiché d’ora in poi – sempre che il decreto legge sia in parte qua confermato in sede di conversione – il ricorso in Cassazione sarà possibile solamente per «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».
Il cambiamento è netto, poiché dal testo della norma scompaiono tanto i riferimenti all’insufficienza e alla contraddittorietà, quanto la stessa parola motivazione. Ciò non di meno, è lecito dubitare che la riforma sia davvero in grado di produrre risultati di rilievo sul piano dei carichi di lavoro della Suprema Corte, vuoi perché ho l’impressione che non siano moltissimi i ricorsi con i quali l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione sono denunziate da sole, indipendentemente cioè dalla censura di un error in iudicando o in procedendo, vuoi perché, a differenza del testo coniato dal legislatore del 1940, il nuovo n. 5 dell’art. 360 consente di ricorrere in Cassazione per l’omesso esame circa (e non di) un fatto decisivo e controverso.
Parrebbe un’insignificante sfumatura, eppure è da ritenere che, per il modo in cui è formulata, la norma non sottragga alla Corte il sindacato sulle regole logico-giuridiche di accertamento del fatto, a cominciare da quelle relative alla valutazione delle prove13. Infatti, l’esame «circa» un fatto decisivo potrà dirsi omesso non solo qualora il giudice non abbia preso in considerazione tale fatto (nel qual caso, peraltro, si sconfinerebbe nel campo del vizio revocatorio), ma anche qualora il fatto non sia stato esaminato in tutte le articolazioni con le quali è emerso in sede istruttoria:
esemplificando, direi che gli estremi della censura ex art. 360, n. 5, continuino a sussistere sia nel caso siano violate le regole sull’interpretazione dei contratti o sia disattesa una prova legale (in tali fattispecie in accoppiata con il motivo di cui all’art. 360, n. 3), sia allorquando il giudice abbia reputato irrilevante un mezzo istruttorio oppure abbia valutato illogicamente e/o contraddittoriamente le deposizioni testimoniali o gli esiti della consulenza tecnica d’ufficio.
Beninteso, dell’inidoneità della riforma a operare un reale restringimento del sindacato della Suprema Corte non è il caso di dolersi più di tanto, non foss’altro perché oggi (a differenza che nel 1940) la motivazione è una garanzia costituzionale di buona amministrazione della giustizia e non par dubbio che, per soddisfare il suo scopo, la motivazione non possa essere apparente e neppure palesemente illogica. Com’è stato opportunamente osservato – ed è significativo che l’osservazione provenga da autorevoli settori della magistratura di legittimità – il sindacato sulla motivazione della sentenza sotto il profilo della sua adeguatezza al caso concreto rappresenta «uno strumento di controllo democratico della giurisdizione perché tutela la parte, garantendole la conoscenza delle ragioni per le quali il suo diritto è stato affermato o negato, nonché un concreto riscontro del principio costituzionale in tema di necessità della motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali»14.
11 Cfr. G. VERDE, In difesa dello jus litigatoris (sulla Cassazione come è e come si vorrebbe che fosse), in Riv.
dir. proc., 2008, p. 3 s.; A. CARRATO, I motivi di ricorso, in Il nuovo giudizio di cassazione, a cura di G. Ianniruberto e U. Morcavallo, Milano, 2007, p. 237 ss.; S. CARTUSO, in La riforma del giudizio di cassazione, a cura di F. Cipriani, Padova, 2009, p. 49.
12 Così la relazione al decreto legge.
13 In senso analogo, anche se sulla base di un ragionamento parzialmente diverso, M. BOVE, Giudizio di fatto della Corte di cassazione: riflessioni sul nuovo art. 360 n. 5 c.p.c., in www.judicium.it, (2012), spec. § 4; nonché M. DE CRISTOFARO, Appello e cassazione, cit., § 1.1.
14 C. DI IASI, Il vizio di motivazione, in La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, a cura di M. Acierno, P. Curzio e A. Giusti, Bari, 2010, p. 167.
9. Una conclusione e una proposta. – Come ho già ricordato, l’entrata in vigore delle misure contenute nell’art. 54 del d.l. 83/2012 è differita a data successiva alla conversione in legge. Più precisamente, le disposizioni in tema di ammissibilità dell’appello si applicheranno ai giudizi di gravame introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione; invece, il nuovo testo dell’art. 360, n. 5, c.p.c. si applicherà alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della stessa legge di conversione.
A parte l’anomalia costituzionale di siffatto modo di legiferare, l’impressione è che le novità passate in rassegna in queste pagine siano un work in progress, come tali aperte alla discussione ed emendabili in sede di approvazione definitiva-conversione. Ecco, è auspicabile che le misure in tema di appello e di cassazione siano oggetto di un radicale ripensamento. Le impugnazioni costituiscono un sistema, in molte parti innegabilmente obsoleto e altrettanto innegabilmente perfettibile, ma da trattare in ogni caso con grande ponderazione. In particolare, non si deve dimenticare che appello e ricorso in Cassazione sono essenziali l’uno all’altro: l’appello, riducendo il margine di errore del giudice e – soprattutto – favorendo la selezione delle questioni15, condiziona la funzionalità del giudizio di cassazione; dal canto suo, l’evoluzione ordinata della giurisprudenza di legittimità, nella misura in cui contribuisce a circoscrivere i contrasti interpretativi, rende prevedibile la decisione e, in ultima battuta, riduce il numero degli appelli.
E allora, in attesa di una riforma organica delle impugnazioni civili, mi permetto di suggerire di soprassedere per l’intanto da un nuovo intervento sull’appello e sulla cassazione, che non avrebbe altro effetto immediato che quello di destabilizzare un sistema di regole senza alcuna certezza della bontà dei risultati; e di mandare a regime, da una parte, la riforma delle circoscrizioni giudiziarie, già approvata dal Consiglio dei ministri lo scorso 6 luglio, la sola davvero in grado, allo stato, di arrecare benefici all’amministrazione della giustizia, e, dall’altro, di approvare la nuova legge professionale forense, rivedendo le regole per il patrocinio dinanzi alla Cassazione e alle altre giurisdizioni superiori16.
Postilla. - Lo scritto era pronto per essere licenziato quando, grazie alla cortesia di Giorgio Costantino, si è avuta notizia di due emendamenti al d.d.l. di conversione AC 5312. L’uno, presentato dal Governo, propone di precisare, nell’art. 348-ter, 1° comma, che la dichiarazione d’inammissibilità deve essere pronunziata «sentite le parti» e di sopprimere, nel successivo 3°
comma, le parole «nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello». L’emendamento, inoltre, propone di modificare gli artt. 342, 1° comma, e 434, 1° comma, c.p.c., con la previsione di ulteriori oneri di forma-contenuto dell’atto di appello, da osservare a pena d’inammissibilità.
Prescindendo da quest’ultimo intervento, le proposte di modifica dell’art. 348-ter c.p.c. incidono su aspetti del tutto marginali delle novità contenute nell’art. 54 del d.l. n. 83, delle quali lasciano sostanzialmente intatto l’impianto, sì da esporsi alle medesime perplessità formulate sin qui.
Il secondo emendamento reca invece la firma degli on.li Capano, Contento, Napoli e Ria e va decisamente nella direzione qui auspicata. Viene infatti proposta la soppressione di tutte le misure in tema di appello e cassazione esaminate nelle pagine precedenti e, contestualmente, l’introduzione di alcuni piccoli ritocchi degli artt. 343, 350, 351 e 352 c.p.c., tesi a rendere possibile fin dalla prima udienza la decisione dell’appello con sentenza concisamente motivata. In particolare, allo scopo di evitare istanze di differimento dell’udienza, i rinvii all’art. 281-sexies c.p.c. contenuti negli artt. 351 e 352 c.p.c., frutto della l. 183/2011, sarebbero sostituiti dalla previsione per la quale il giudice d’appello pronunzia sentenza «dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione
15 Rimarca quest’ultimo aspetto soprattutto G. BALENA, La garanzia del doppio grado di giurisdizione, cit., spec.
p. 255.
16 Per uno spunto in tal senso, v. M. BOVE, Giudizio di fatto, cit., § 5.
delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi».