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THE LIMIT OF THE CARES AND THE END OF THE LIFE IL LIMITE DELLE CURE E LA FINE DELLA VITA

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TAGETE 4-2007 Year XIII

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THE LIMIT OF THE CARES AND THE END OF THE LIFE IL LIMITE DELLE CURE E LA FINE DELLA VITA

Prof. Gerardo Martinelli*

Disquisire sulla fine della vita non è problematico, se essa viene considerata come un evento fisiologico universalmente accettato: si nasce – si vive – si muore. E’ il termine

“morte” che nel singolo accende paure ancestrali, rifiuto istintivo, inaccettazione soggettiva e collettiva.

*Professore Ordinario di Anestesia e Rianimazione Università di Bologna

ABSTRACT

Disserting about the end of the life is not problematic, if it is universally considered as a physiological event: he is born, he lives, he dies. The term "death" remembers ancestral fears, instinctive refusal, subjective and collective inability to accept it.

Whatever physician’s position may be in front of the end of the life and the event death, his behaviour must follow his own deontological code.

In this paper the author reports his experience during forty years of work in an intensive care unit.

In this centers acute and serious patient are admitted, affected by the most varied pathologies and with one or more dysfunction (cardiovascular, respiratory, cerebral, renal and metabolic), often they are patient in imminent danger of life. The outcome of a good percentage of these patients depends upon the technological equipmernt, the intensive cares, the cultural level and experience of the physicians and nurses, the organization’s level.

About the 10%-15% of the admitted patients die.

Finally there is another group of patients who stay in the intensive care unit for a long time, and for whom a bad prognosis is expected: the most of them have a quality of life judged insufficient or unsatisfactory. This is the category of patients connected to the problem of the "limit of the cares", to the "therapeutic abandonment", to the “therapeutic fury”. For these last patients, also in our country, the euthanasia is object of discussion and debate.

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2 Qual’ è la posizione del medico di fronte alla fine della vita e all’evento morte? Il medico agisce e risponde secondo i principi sanciti nel proprio codice deontologico professionale: curare, combattere la sofferenza, sottrarre il paziente alla morte

“evitabile”, assistere il paziente sino alla fine della vita, quando l’exitus è inevitabile ed ineludibile.

Partendo da queste brevissime considerazioni iniziali, e senza pretendere di essere esaustivi nel trattare il duplice e delicato argomento – limite delle cure, fine della vita, - si vuol riportare al riguardo l’esperienza maturata in oltre 40 anni di professione prestata presso la Rianimazione.

E’ in questo particolare e speciale Reparto che ci si imbatte nel duplice problema – limite delle cure, fine della vita, - in maniera più pregnante per la gravità delle patologie ed in maniera più evidente ed a volte stressante per l’impatto improvviso dei familiari di fronte all’evento acuto e grave del proprio congiunto.

Come è noto, nei Centri di Rianimazione vengono accolti d’urgenza pazienti acuti e gravi, affetti dalle più svariate patologie e con una o più funzioni vitali (cardiocircolatoria, respiratoria, cerebrale renale e metabolica) deficitarie, pazienti in imminente pericolo di vita. V’è un’alta percentuale di tale tipologia di pazienti per i quali le tecnologie, le cure intensive e le conoscenze in tema di fisiopatologia, l’organizzazione e l’impegno costante del personale, rappresentano un baluardo

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3 (l’unico) all’arresto della gravità clinica, al ripristino delle funzioni vitali deficitarie, in una parola, ci si può avviare o si addiviene alla guarigione.

Per un’altra aliquota, intorno al 10%-15% dei Rianimandi, l’esito è infausto a più o meno breve scadenza dal ricovero, percentuale considerata più che accettabile dal mondo scientifico internazionale.

Infine, è da considerare il gruppo di pazienti che restano degenti in Rianimazione per più lungo tempo e per i quali si prospetta una prognosi infausta a distanza, ovverossia una qualità di vita giudicata insufficiente od insoddisfacente. E’ proprio, questa, la categoria di pazienti per i quali entra in gioco la problematica del “limite delle cure”; è qui che si insinua la possibilità dell’ ”abbandono terapeutico”, e qui che può innescarsi, al contrario, la problematica dell’accanimento terapeutico, e qui che affiora il “progetto dell’eutanasia”, che, anche nel nostro Paese, è sempre più oggetto di discussione e di dibattito. E allora, affrontando in concreto tali delicate tematiche, si espone il punto di vista del Rianimatore, riguardo appunto la “gestione” di questa tipologia di paziente, sulla base di punti fermi scientifici, etici, deontologici e giuridici, ai quali si fa costante riferimento nelle Terapie intensive, come si dirà oltre.

Entrando nel merito, si può affermare che il Rianimatore, quando accoglie in Reparto un paziente acuto e grave, pone in atto tutti i presidi terapeutici tesi a conservare la vita:

l’intubazione tracheale e la ventilazione artificiale con il respiratore automatico per combattere l’insufficienza respiratoria acuta; il monitoraggio delle funzioni vitali;

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4 l’emodialisi per l’insufficienza renale; la somministrazione di farmaci vasoattivi e cardioattivi ed altri mezzi invasivi (come la contropulsazione aortica) per sostenere la funzione circolatoria.

Come si può arguire, si pongono in essere terapie “eroiche” che, il più delle volte, sortiscono effetti positivi e possono favorire la ripresa del paziente. Altre volte, però, non si ottengono risultati sperati e attesi: insistere “ad libitum” con tali mezzi che possono definirsi eccezionali, “straordinari” pur di “tenere in vita” il paziente, nonostante una prognosi sicuramente infausta, si cade nell’accanimento terapeutico. Per non varcare il quale, ci si pone l’interrogativo: “siamo certi che il massimo impegno terapeutico, che esercitiamo per quel paziente, equivalga sempre al miglior bene per lo stesso?” Ed in questa domanda insiste il contrasto nel quale sovente ci si dibatte, fra l’attesa di risultati positivi (dilatati nel tempo) e il rischio di scivolare nell’accanimento terapeutico. Al riguardo, si riportano alcuni “punti fermi” ai quali il Rianimatore, come si è detto, si ispira. Nel 1995, il Comitato Nazionale per la Bioetica “auspica che si diffonda sempre più nella coscienza civile ed in particolare in quella dei medici la consapevolezza che l’astensione dall’accanimento terapeutico assume un carattere doveroso”. Ciò è ribadito nelle conclusioni della Congregazione per la Dottrina della Fede, quando viene proposto che “nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero un

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5 prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi”.

Quindi, evitare l’accanimento terapeutico, non attuare l’abbandono terapeutico!

Ed allora, nell’accogliere il paziente acuto e grave, lo si ribadisce, si pongono in atto tutti i mezzi ed i presidi terapeutici (“cure straordinarie”) tesi alla salvaguardia della vita;

le cure intensive “straordinarie” debbono continuare finchè non si addivenga alla stabilizzazione delle funzioni vitali, ma debbono essere sospese se ciò non si realizza.

Così non si rischia di cadere nell’accanimento terapeutico. Ma, nel limitare o nel sospendere le cure intensive, non si deve realizzare “l’abbandono terapeutico”; si deve passare quindi all’attuazione di “cure ordinarie o proporzionate”, rappresentate dalla sedazione, dall’analgesia, dalla nutrizione ed idratazione, dalle cure igieniche, dalla prevenzione delle piaghe da decubito, sì da elidere la sofferenza fisica e psicologica del paziente.

In linea di massima, ci si attiene, per l’attuazione e la graduazione delle cure intensive, a criteri proposti dal mondo scientifico internazionale ed accettati e condivisi dai Rianimatori, criteri che identificano delle classi di pazienti. Sicchè per la classe A (pazienti acuti e gravi appena accolti in Rianimazione) si pone in atto il massimo impegno terapeutico (“cure straordinarie”); per la classe B (degenti da più giorni in Rianimazione), si mantiene il massimo impegno, ma con rivalutazione clinica giornaliera; per la classe C (scarsa o negativa risposta alle “cure straordinarie”) si

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6 proporzionano le cure intraprese e si attua una loro limitazione selettiva; per la classe D (prognosi infausta) possono essere sospese le “cure straordinarie”, ma vengono mantenute le “cure ordinarie” tese al sollievo fisico e psicologico.

Nonostante tali riferimenti, a volte la decisione di non applicare o di sospendere una terapia è resa difficile dall’incertezza della prognosi, dalle speranze offerte da terapie innovative ed anche dall’incapacità del paziente ad esprimere il consenso.

Quest’ultimo punto è da tenersi in massima considerazione, perché nell’art.34 del Codice di Deontologia medica è previsto che “ il medico deve attenersi nel rispetto della dignità e della libertà individuale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dal paziente”. In Rianimazione si deve tener conto della volontà del paziente nella graduazione delle cure; ma, quando egli è in stato di incoscienza, ci si avvale del coinvolgimento dei familiari, ovverossia si debbono rispettare le eventuali direttive anticipate espresse dal paziente stesso (attraverso la carta di autodeterminazione, il living will o testamento di vita, la biocard), così come enunciato dal Consiglio d’Europa nel 1996 nella convenzione sui Diritti dell’Uomo e la Biomedicina.

Ma, poiché la persona può modificare le sue opinioni e le proprie volontà in base all’evoluzione della malattia e agli adattamenti psicologici a questa, tali “ volontà anticipate” non sembrano essere vincolanti, almeno sotto l’aspetto giuridico, poiché

“esse non possono estendersi ad atti implicitamente dispositivi della vita, in quanto l’atto medico non può trovare la sua legittimazione unicamente nel consenso, in quanto le

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7 direttive anticipate non assicurano il requisito di persistenza della volontà del paziente“

(Iadecola, 1999).

Da quest’ultimo assunto giuridico si evince che, nel nostro Paese, non è ammessa l’eutanasia, atto medico attivo o passivo che ”accelera” la fine della vita, atto non contemplato nel codice deontologico, atto certamente vietato sotto l’aspetto religioso.

Negli ultimi anni, in alcuni Paesi, si sono diffuse campagne a favore dell’eutanasia intesa come azione o omissione che, di natura sua o nelle intenzioni, provoca l’interruzione della vita del malato grave.

Nel cosiddetto “mondo occidentale” il suicidio assistito è stato legalizzato, negli Stati Uniti d’America solo nello stato dell’Oregon, ed in Europa, in Belgio e Olanda.

Il principio di autonomia del soggetto, il quale avrebbe diritto di disporre in maniera assoluta della propria vita e la convinzione della insopportabilità e inutilità del dolore che può talora accompagnare la morte hanno verosimilmente guidato i legislatori di questi Paesi.

Attualmente la convinzione dominante è che il principio di autonomia non può giustificare la soppressione della vita propria ed altrui e che il concetto di libertà dell’individuo ha come presupposto imprescindibile la vita dello stesso, anche se appare lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero, come si è detto, soltanto un prolungamento precario e penoso della

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8 vita. Vi è grande differenza etica tra “procurare la morte” e “permettere la morte”: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento della stessa.

V’è un ultimo punto da trattare e riguarda la morte nei pazienti colpiti da lesioni encefaliche (a genesi emorragica o traumatica) e sottoposti a terapie rianimatorie.

Quando queste lesioni sono tali da determinare la “distruzione” anatomica totale dell’encefalo, con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni cerebrali, solo allora si deve interrompere la ventilazione meccanica, come da decreto del Ministero della Sanità. La certificazione di morte cerebrale è demandata ad una Commissione (rianimatore, neurologo, medico-legale) che, durante il periodo di osservazione, accerta l’avvenuta morte attraverso specifiche ed accurate modalità clinico-strumentali, tese a dare assoluta certezza dell’exitus. E se prima di “staccare la spina” (del respiratore) si registrano condizioni per addivenire alla donazione degli organi (idoneità del donatore, mancata opposizione al prelievo da parte degli aventi diritto), è l’unica situazione nella quale dalla morte si può dare vita ai pazienti in lista di attesa di un trapianto.

RIASSUNTO: Proprio nei Centri di Rianimazione sono quotidianamente evidenti le problematiche inerenti la qualità e la quantità delle cure da erogare ai pazienti acuti e gravi in imminente pericolo di vita.

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9 Cure “straordinarie” vengono poste in atto nell’immediatezza del ricovero onde salvaguardare la vita del paziente; le stesse, poi, debbono essere “graduate” in rapporto ai risultati conseguiti ed alla prognosi.

Insistere nelle cure straordinarie in maniera ostinata, si rischia di attuare “accanimento terapeutico”; sostituirle invece con le “cure ordinarie” e proporzionate evita

“l’abbandono terapeutico”.

A base e a sostegno di tali comportamenti assistenziali sono riportate le motivazioni di ordine morale, etico, deontologico, ed anche religioso e giuridico, motivazioni vieppiù stressate per non ammettere un atto medico, attivo o passivo, che acceleri la fine della vita, qual è l’eutanasia.

In Rianimazione è legittimato l’atto di “staccare la spina “solo di fronte alla morte cerebrale; atto sublimato dalla possibilità di attuare la donazione ed il prelievo degli organi, rendendo non vana la morte della persona perché si dà vita a tanti in attesa di un trapianto.

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