• Non ci sono risultati.

Le doti monastiche. Il caso delle monache romane nel Seicento

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "Le doti monastiche. Il caso delle monache romane nel Seicento"

Copied!
21
0
0

Testo completo

(1)

Le doti monastiche.

Il caso delle monache romane nel Seicento

Alessia Lirosi

Negli anni recenti diversi studiosi hanno collegato la crescita e l’espansione delle istituzioni monastiche femminili in età moderna all’incremento della natalità e all’aumento delle doti nuziali.1 In altre parole, la necessità di garantire al proprio casato un matrimonio prestigioso e di intessere relazioni e alleanze con famiglie di ceto uguale, o superiore, spingeva madri e padri a indirizzare alla vita coniugale una o due figlie, per le quali occorreva dunque approntare una dote consistente; di conseguenza le altre erano destinate al monastero, spesso contro la loro volontà.

Anche per entrare in convento, tuttavia, era previsto un versamento. Veniva definito elemosina dotale ed il suo ammontare era in genere molto più basso di quanto sborsato per maritare una fanciulla. Alcuni studiosi hanno calcolato che una dote monastica poteva variare tra il 10 e il 30 per cento – o anche meno – di una dote coniugale.2 Solo per citare un esempio tra i più eclatanti, il principe Mario Farnese sborsò 25.000 ducati per dare in sposa la primogenita Giulia al principe Albrizzi, e solo 1.000 scudi per monacare nel prestigioso chiostro di S. Lorenzo in Panisperna a Roma la figlia Isabella, poi nota come suor Francesca di Gesù.3 Se nessuno trovò mai da obiettare sulla necessità e l’importanza della dote coniugale, la consuetudine di dotare le monache rap- presentò per lungo tempo una questione spinosa, che non mancò di suscitare dubbi e perplessità all’interno della stessa compagine ecclesiastica.

La maggioranza delle Regole, che imponevano tutte il voto di povertà individuale, lasciava alla futura professa la libertà di devolvere i beni, posseduti nel secolo, al monastero oppure ai poveri.4 Come è noto, infatti, la monaca

1 Ad esempio, Gabriella Zarri: “esiste un rapporto diretto tra aumento delle doti patrimoniali e svi- luppo delle istituzioni monastiche femminili e quindi delle monacazioni coatte”: Gabriella Zarri, Monasteri femminili e città (secoli XV-XVIII). In: Giorgio Chittolini/Giovanni Miccoli (a cura di), La Chiesa e il potere politico (Storia d’Italia. Annali 9), Torino 1986, pp. 359–429, in partico- lare pp. 366–368.

2 Gaetano Greco, La Chiesa in Italia nell’età moderna, Roma/Bari 1999, p. 124.

3 Dei quali 250 erano per le spese di vestizione; l’informazione è tratta da Stefano Andretta, La venerabile superbia. Ortodossia e trasgressione nella vita di Suor Francesca Farnese (1593–1651), Torino 1994, p. 76 e p. 96 note 7 e 10. Un ducato ammontava a poco più di uno scudo (all’incirca a 1 scudo e 9 baiocchi). Sulle monete pontificie: Edoardo Martinori, La moneta. Vocabolario generale, Roma 1915; Papal Mint. In: Catholic Encyclopedia, New York 1917; Ridolfino Venuti, Numismata pontificum romanorum prœstantiora a Martino V ad Benedictum XIV, Roma 1744.

4 Così, ad esempio, le antiche Regole di Cesario di Arles, di Isidoro, la Regula Magistri, poi san Benedetto e anche sant’Agostino, il quale però esortava chi aveva beni nel secolo a metterli al servizio del monastero: Francesco Cubelli/Giancarlo Rocca, Dote. In: Dizionario degli Istituti di Perfezione (da ora in poi DIP), Roma 1962–2003, vol. III (1976), coll. 967–972. Cfr. ibidem, AA.VV., Povertà, vol. VII (2983), coll. 245–410; ibidem, Edmondo Zagano, Morte civile, vol.

VI (1980), coll. 168–170; ibidem, André Duval, Economia monastica femminile, vol III (1976), coll. 1042–1077.

(2)

doveva staccarsi da ogni cosa terrena, moriva al mondo e viveva solo per Dio, e di conseguenza non poteva possedere nulla in nome proprio; era però ammessa la proprietà collettiva o comunitaria di cui era titolare il monastero comples- sivamente.5 A partire dall’alto Medioevo, si diffuse sempre di più l’usanza di ammettere le postulanti dietro pagamento di una somma di denaro. Contro tale abuso si scagliò senza remore san Tommaso, e leggi severe furono dettate in vari Concili e nella legislazione pontificia.6 A lungo, infatti, durante l’età medievale, papi e teologi si interrogarono sull’eventualità che il versamento dotale potesse rischiare di configurare una delle fattispecie del reato di simo- nia, termine con cui veniva definito ogni lucro sulle cose sacre. Con l’andare del tempo, però, la dote venne ritenuta lecita quando richiesta allo scopo di sostenere le monache, soprattutto nelle comunità più povere; più precisamen- te, si proibì di esigere ex pacto del denaro al momento di qualsiasi professione religiosa, ma venne ammessa l’accettazione di donazioni volontarie.7

La materia era indubbiamente complessa e si intrecciava strettamente con la questione del rispetto della clausura osservata da alcuni monasteri: se le monache non fossero state dotate, avrebbero dovuto intrattenere frequenti rapporti con l’esterno per procurarsi il denaro necessario a mantenersi. Tut- tavia, l’istituto della clausura non era previsto né applicato in ogni monastero (ad esempio, non era obbligatorio per le benedettine o le agostiniane).

Alla fine del XIII secolo (1298), papa Bonifacio VIII Caetani tentò di esten- dere l’obbligo della clausura a tutte le religiose che proferivano voti solenni, ma, di fatto, la norma non ebbe attuazione uniforme e rimase sostanzialmente inapplicata.8 Allo stesso modo, anche la previsione dell’offerta dotale variò da monastero a monastero, si modulò da luogo a luogo, e si adeguò alle diverse

5 Numerosi e noti sono i casi di istituzioni monastiche che gestirono e furono titolari di vaste ren- dite, possedimenti e patrimoni. Così come celebre è la controversia relativa al “privilegium pau- pertatis” ardentemente richiesto da Chiara di Assisi al papato affinché la comunità da lei fondata fosse esentata dal possedere, anche collettivamente, qualsiasi tipo di reddito per mantenersi. Cfr.

tra gli altri: Maria Pia Alberzoni, Chiara e il papato, Milano 1995, pp. 105–106, 112–113 e pas- sim; Giulia Barone, Società e religiosità femminile (750–1450). In: Lucetta Scaraffia/Gabriella Zarri (a cura di), Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, Roma/Bari 1994, pp. 61–113;

Marie Colette Roussey/Marie Pascal Gounon, Nella tua tenda, per sempre. Storia delle clarisse, Assisi 2005, pp. 85–86, 148–150; Ignacio Omaechevarrìa, Economia. Le Clarisse. In: DIP, vol. VI (1980), coll. 1035–1041.

6 Cfr. le Decretali V, 3, c. 8, 19, 25, 30, 40. Si vedano anche il Concilio Niceno II del 787, il Lateranense II del 1179, e il Lateranense IV del 1215: Cubelli/Rocca, Dote, col. 969.

7 Tale prassi andò sempre più consolidandosi dopo che Innocenzo VIII Cybo (1432–1492) e Cle- mente VII Medici (1478–1534) emisero una legislazione speciale a favore delle misere e rigide comunità delle monache dell’Ordine dei Minori dichiarando che queste, in occasione dell’accet- tazione di una nuova professa, potevano stipulare veri e propri patti o convenzioni allo scopo di esigere un contributo per il suo sostentamento. Cfr. ancora Cubelli/Rocca, Dote, col. 969; e Francesca Medioli, Monache e monacazioni nel Seicento. In: Gabriella Zarri/Francesca Medio- li/Paola Vismara Chiappa, De Monialibus (secc. XVI-XVII-XVIII), Numero monografico di:

Rivista di Storia e Letteratura religiosa, XXIV (1998), pp. 670–693, in particolare p. 687.

8 Perciò la notevole varietà degli ordini monastici esistenti permetteva alle novizie di decidere, per quanto possibile, se perseguire un ideale di vita più o meno rigido, e quindi di scegliere in quale comunità entrare. Inoltre, la norma di Bonifacio non comprendeva le terziarie e le sanctimoniales.

(3)

situazioni contingenti. In generale, le monache ebbero soprattutto la tendenza ad intrattenere continui contatti con le proprie famiglie di origine per chiedere loro ripetuti sussidi, una situazione che favorì l’influenza e i giochi di potere di gruppi parentali potenti all’interno delle comunità claustrali; invece le terziarie – così come il più composito ed eterogeneo panorama di religiose e semireli- giose9 – continuarono a mantenersi con elemosine e ad uscire spesso da case e conventi.10

All’inizio dell’età moderna, proprio l’ingerenza delle grandi famiglie così come il fatto che alcune comunità vivessero di questua cominciarono ad essere considerate tra le principali cause del disordine che regnava in molti conventi e monasteri, nonché della corruzione di diverse religiose. Se tentativi di riforma vennero proposti per tutta la prima metà del XVI secolo, fu soltanto con il Concilio di Trento che le alte gerarchie ecclesiastiche riuscirono a mettere in atto una vera e propria opera di riordino e disciplinamento del mondo religio- so femminile.

Nel decreto sulla riforma dei regolari (Decretum de regularibus et moniali- bus, 1563), il Tridentino non fissò esplicitamente l’obbligatorietà della dote per tutte le monache, tuttavia impose che ogni monastero dovesse stabilire un numero massimo di professe che poteva ricevere e mantenere con le proprie risorse economiche.11 Ciò comportava, di fatto, la necessità del versamento dotale, soprattutto perché una delle principali decisioni del Concilio fu il rista- bilimento definitivo della clausura che venne irrevocabilmente estesa a tutte le monache di voti solenni, anche a quelle per cui non era mai stata prevista nella Regola originaria o nelle loro Costituzioni e Statuti fondativi; in seguito, papa Pio V Ghislieri la impose anche alle terziarie e al più variegato bacino delle sanctimoniales.12 In conseguenza di tale normativa, non fu più possibile per le religiose continuare ad uscire da chiostri, case e conventi allo scopo di racco- gliere elemosine per mantenersi, intrattenere più (teoricamente) rapporti con le famiglie di origine a cui chiedere sostentamento.

9 È difficile tracciare un quadro completo delle numerose forme in cui si espresse la religiosità femminile prima del Concilio di Trento (tra le più note, ad esempio, le mantellate, le beghine, le bizzocche, etc.) Per una breve panoramica e per la normativa che i pontefici rivolsero loro si veda, tra gli altri, il saggio di Francesca Medioli, La clausura delle monache nell’amministrazione della congregazione romana sopra i regolari. In: Gabriella Zarri (a cura di), Il monachesimo femminile in Italia dall’alto medioevo al secolo XVII, a confronto con l’oggi. Atti del 6. Convegno del Centro di studi farfensi: Santa Vittoria in Matenano, Negarine di San Pietro in Cariano (Verona) 1997, pp. 249–282; e ibidem, Mario Sensi, Monachesimo femminile nell’Italia centrale (sec. XV), pp. 135–160. Cfr. Giancarlo Rocca, Sanctimoniales. In: DIP, vol. X (2003), coll. 701–784.

10 Gabriella Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna 2000, pp. 70–84 sg. Cfr. Zarri (a cura di), Il monachesimo femminile in Italia.

11 Concilium Tridentinum, sessio XXV, caput III. Inoltre il Concilio ammise un’indennità per le spese di vitto e vestito durante il noviziato: Concilium Tridentinum, sessio XXV, caput XVI. Cfr.

anche Zaccaria da San Marco, Dote. In: Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1948–54, vol. 4 (1950), coll. 1898–1899.

12 Const. 8: Circa Pastoralis officii (29 maggio 1566), Bullar. Rom., t. 11, p. 183.

(4)

Un ulteriore e definitivo passo in avanti venne compiuto da Carlo Borro- meo, il quale, nel 1565, rese la dote monastica obbligatoria in tutta la diocesi milanese. Gradualmente, su esempio dell’illustre arcivescovo, l’obbligatorietà del versamento fu sancita in tutta la penisola, in forza di leggi particolari, Costituzioni o semplice consuetudine.13 A tale processo locale si affiancò, a livello centrale, l’operato della Curia romana ed in particolare della Congrega- zione dei Vescovi e Regolari, che non solo dettò norme precise per disciplinare la prassi dotale ma che, nella riunione del 17 luglio 1574, dichiarò lecita l’esa- zione della dote per tutte le monache, a titolo di sostentamento e senza alcuna distinzione tra monasteri ricchi o poveri.14

Dunque, nell’età della Controriforma il reclutamento delle nuove genera- zioni di professe dipese non solo dalla loro vocazione – reale o meno che fosse – ma anche dal possesso di determinate risorse economiche. Le giovani che disponevano di una dote modesta dovettero accontentarsi di prendere l’abito da semplice conversa piuttosto che da monaca corista15, mentre coloro che erano completamente prive di denaro furono costrette a rinunciarvi del tutto.

La difficoltà di reperire un ammontare dotale divenne quindi un problema particolarmente sentito, e l’idea di contribuire alla monacazione di una giovane stimolò la generosità sia di molti benefattori privati (perlopiù nella forma di lasciti esecutivi post mortem) sia del mondo laico associato e delle confraternite, come è stato ampiamente rilevato in diversi studi recenti.16 Un caso sui generis fu quello del monastero della Ss. Annunziata delle neofite, destinato alle ebree, musulmane e protestanti che, dopo essersi convertite al cattolicesimo, decide- vano di abbracciare la vita monastica: spesso esse furono ammesse in monaste-

13 Sull’esempio fondamentale svolto in tal senso da Carlo Borromeo si veda anche Zaccaria da San Marco, Dote, col. 1898; cfr. Cubelli/Rocca, Dote, col. 969.

14 Distinzione che, lo ricordiamo, era invece stata considerata rilevante nella legislazione di Inno- cenzo VIII e Clemente VII. Cfr. Zarri, Recinti, p. 109; Medioli, Monache e monacazioni nel Seicento, pp. 687–688; Cubelli/Rocca, Dote, col. 969. La questione della dote monastica si basò dunque, per lungo tempo, sulla giurisprudenza della Congregazione fino a quando Clemente XIII, il 13 febbraio 1759, diede all’istituto una vera e propria regolamentazione giuridica: ancora Cubelli/Rocca, Dote, col. 969. Invece, per l’attuale normativa in merito, si veda il moderno codice di diritto canonico.

15 Come è noto, le converse erano adibite a svolgere nel monastero i lavori quotidiani più umili, mentre le monache coriste avevano il compito di dedicare la propria giornata alla preghiera e a compiti considerati più di rilievo come quello di infermiera, campanara, segretaria, maestra delle novizie, portinaia, etc. Tuttavia, anche le converse dovettero versare un’elemosina dotale, seppure notevolmente inferiore a quella richiesta alle coriste: di conseguenza neppur esse non dovevano essere completamente sprovviste di denaro.

16 Si veda ad esempio: Domenico Rocciolo, Il costo della carità. In: Ugo Dovere (a cura di), Chiesa e denaro tra Cinquecento e Settecento: possesso, uso, immagine. Atti del 13° Convegno di studio dell’Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa (Aosta 9–13 settembre 2003), Cini- sello Balsamo 2004, pp. 305–326. Soprattutto le confraternite, che gestivano grandi patrimoni, si impegnarono per trovare le risorse da destinare alle fanciulle povere e desiderose di perfezione cristiana; e l’accumulo di capitali e rendite, oltre al rispetto degli obblighi derivanti dalle eredità, diedero linfa a questa attività benefica e permisero di rispondere alle urgenze provenienti dal mondo religioso femminile. Cfr. Rocciolo, Il costo della carità, pp. 325–326.

(5)

ro grazie alla dote offerta da fedeli e benefattori, dote che veniva elargita loro in qualità di “elemosina battesimale” al momento della conversione.17 Sono stati poi documentati casi di comunità – sembra piuttosto rari – in cui le monacan- de vennero ammesse, non tanto in base alla dote versata, quanto alla capacità di leggere e quindi recitare l’ufficio divino.18

In ambito ecclesiastico, tuttavia, non mancò chi continuò a interrogarsi sulla possibile simonia implicita nell’obbligo di elemosina dotale. Uno dei pareri più articolati venne fornito dal frate minore Ludovico Miranda nel suo De Sacris Monialibus Tractatus, edito nel 1630. Il frate spiegava che l’ingresso in religione, come il matrimonio, consisteva di due aspetti: uno attinente alla sfera spirituale (voti, ufficio divino, etc.) e l’altro a quella materiale (vitto, abito, sostentamento). Perciò, come la dote matrimoniale non inficiava l’aspet- to sacramentale dell’unione coniugale, così avveniva per le monache, spose di Cristo. In altre parole, si poteva configurare il reato di simonia solo se i monasteri avessero preteso un prezzo in cambio dei doni e privilegi spirituali connessi all’abito monastico; invece l’illecito non sussisteva se si prendeva in considerazione l’aspetto materiale della questione, soprattutto nelle comunità più indigenti e dunque più bisognose di elargizioni e donazioni di denaro per sopravvivere.19

Appare interessante confrontare il testo di Miranda con le considerazioni riportate da uno dei più noti giuristi del Seicento, Giambattista De Luca (poi anche cardinale), nel suo trattato Il Dottor Volgare e in particolare nel Libro VI dell’opera, espressamente dedicato al tema delle doti (1673).20 Il giurista riprendeva il paragone tra matrimonio carnale e spirituale, e aggiungeva che per dote monastica si intendeva: “tutto quel che si dia al monastero, per il sostentamento della monaca, et anche quel che bisogna darli per altre spese del monacaggio, e per una vitalizia sovvenzione”.21 Riguardo alla simonia, anche De Luca aggiungeva che la questione non sussisteva poiché il versamento non riguardava affatto la sfera spirituale della monacanda o l’acquisto di voti reli- giosi, tanto che una donna poteva essere ricevuta come religiosa professa anche senza dote; tuttavia quest’ultima era necessaria al monastero per far fronte al peso materiale del pagamento dei suoi alimenti e delle altre spese “a tal segno

17 Erano però accolte anche fanciulle senza dote, poiché il monastero era mantenuto dalla Congrega- zione dei Neofiti, come si dirà più avanti. Cfr. Archivio Segreto Vaticano (ASV), Congr. Visita Ap., 3, ff. 221r–222v, in particolare f. 222r. Sul tema della dotazione delle neofite si veda soprattutto il contributo di Marina Caffiero in questo volume.

18 Così è ad esempio segnalato in Claudio Catena, Le Carmelitane. Storia e spiritualità, Roma 1969, p. 271. Cfr. Cubelli/Rocca, Dote, col. 970.

19 Ludovico Miranda, De Sacris Monialibus Tractatus, Coloniae Agrippinae 1630, in particolare p. 98 (Quaestio VIII, Articulus VII, Prima Conclusio).

20 Giambattista De Luca, Il Dottor Volgare. Libro VI: Della Dote e de Lucri Dotali, Roma 1673.

21 Ibidem, pp. 14-15.

(6)

che, non solamente dalla Chiesa cattolica l’uso di queste doti spirituali è per- messo, ma viene stimato anco necessario”.22

In generale, l’elemosina dotale andava consegnata al monastero in denaro contante e non in altre “robbe”23, anche se non fu raro il caso di doti che, invece di essere pagate in contanti, vennero elargite in beni immobili o nel- l’attivazione di censi che garantivano annualmente al monastero un interesse pattuito.24 Dopo la morte della monaca l’importo versato restava al chiostro;

veniva invece restituito alla famiglia nel caso delle novizie che fossero decedute o che avessero deciso di rinunciare all’abito prima di fare la professione.25 Se poi una religiosa avesse lasciato la propria comunità – o perché trasferita in un’altra oppure in seguito alla vittoria di una causa di nullità di professione –, non esisteva una regola certa e spettava alla Congregazione dei Vescovi e Rego- lari decidere caso per caso a seconda delle circostanze.26

Il compito di stabilire l’ammontare della dote spettava teoricamente agli

“Ordinariis, et Monialium Superioribus”27. Infatti, proprio perché il rischio

22 De Luca, Il Dottor Volgare. Libro VI, p. 16, e Libro XIV, Parte I, pp. 426-427. Si veda anche quanto riportato dall’erudita ottocentesco Gaetano Moroni nel suo Dizionario alla voce Dote:

“dotazione religiosa è il denaro che una donzella dà al monistero per essere mantenuta nel mede- simo, e che deve essere impiegato al suo nutrimento, ed al suo mantenimento. Non è mai stato proibito, né stimato simoniaco il dare i suoi beni ai monasteri, in cui si fa professione religiosa, purché questa sorte di donazioni sieno libere e volontarie, e non si facciano né come prezzo, né in considerazione della vestizione o della professione”: Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro ai nostri giorni, 103 voll. Venezia 1840–1861, vol. XX (1843), pp. 230–233, in particolare p. 230.

23 De Luca, Il Dottor Volgare. Libro VI, p. 284.

24 Per citare un solo esempio, nel monastero romano di S. Cecilia in Trastevere, donna Maria Francesca Massari offrì come dote una casa di 1.000 scudi, mentre Maria Giacinta Verrucci versò 300 scudi in contanti più una “patente” di 6 Luoghi di Monte dove erano stati investiti oltre 600 scudi: Alessia Lirosi (a cura di), Le cronache di Santa Cecilia. Un monastero femminile a Roma in eta moderna, Roma 2009, pp. 189, 197. Cfr. Rocciolo, Il costo della carità, pp. 324–325;

Lucia Aiello, Monache e denaro a Milano nel XVII secolo. In: Alessandro Pastore/Marina Garbellotti (a cura di), L’uso del denaro: patrimoni e amministrazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia, secoli XV–XVIII, Bologna 2001, pp. 335–377, in particolare pp. 310–311, 337; Eadem, Aspetti demografici ed economici dei monasteri femminili di Milano nel Seicento.

In: Zarri (a cura di), Il monachesimo femminile in Italia, pp. 303–317; Helen Hills, The archi- tecture of devotion in Seventeenth century neapolitan convents, Oxford 2004, pp. 92–96.

25 Andrea Matteo Monaco, Instruttione per le Monache Claustrali. Cavata da’ Sacri Canoni, Constitutioni Apostoliche, Decreti della Sacra Congregatione e da Dottori approvati, Roma 1641, p. 67.

26 De Luca, Il Dottor Volgare. Libro VI, p. 283, e Libro XIV, Parte I, p. 428. Sorta alla fine del XVI secolo dalla fusione della Sacra Congregatio super consultationibus episcoporum (istituita nel 1576) e dalla Sacra Congregatio super consultationibus regularium (creata nel 1586), tale dica- stero ebbe competenza su qualsiasi materia e questione concernente i vescovi e i regolari di ambo i sessi. Inoltre, condivideva con la Congregazione del Concilio la giurisdizione sulle controversie tra ordini regolari e clero secolare, sulle cause di nullità della professione religiosa, sull’alienazione dei beni ecclesiastici, oltre alle questioni relative alla clausura. Cfr. Niccolò Del Re, La Curia romana, Città del Vaticano 1998, pp. 369–372. Si veda anche: Biblioteca Apostolica Vaticana, Borg. Lat. 71, Breve compendio di decreti et ordini fatti dalla S. Congr. De Regolari spettanti a monache (1604–1644), citato da Mario Rosa, La religiosa. In: Rosario Villari (a cura di), L’uomo barocco, Roma/Bari 1998, pp. 219–267, in particolare pp. 223–224 (non ho potuto consultare direttamente questo documento poiché la Biblioteca Apostolica Vaticana è stata chiusa per lavori di restauro).

27 Miranda, De Sacris Monialibus, p. 100.

(7)

di cadere nella simonia era sempre presente, la questione andava lasciata non all’arbitrio di chiunque né dei genitori delle aspiranti professe e tanto meno delle monache stesse, quanto piuttosto al “prudentis Praelati iuditio”.28 Ciò significava che l’importo poteva essere fissato, a seconda dei casi, dal vescovo locale, dal prelato e dagli ecclesiastici che avevano la cura specifica dei vari monasteri o anche dalle Costituzioni fondative degli stessi.29 Il valore veniva determinato considerando la consuetudine e le disposizioni del luogo e valu- tando anche quanto il monastero spendeva in genere per il vitto, il vestiario e il necessario di ciascuna monaca: “secundum personarum, locorum, ac tempo- rum varietatem, quanta in quarumvis Monialium monasteriis futura fit dos, pro cuius libet Monialis debita sustentatione”.30

Il denaro veniva promesso al momento della vestizione, ma versato soltanto quando la novizia emetteva i voti solenni, come stabiliva espressamente il Con- cilio di Trento.31 La Congregazione dei Vescovi e Regolari precisò poi (1594) che durante l’anno di noviziato la dote dovesse essere tenuta in una sorta di deposito cautelativo: le monache che l’avessero utilizzata o alienata durante quel periodo sarebbero incorse nelle stesse pene che venivano comminate a chi si permetteva di alienare beni ecclesiastici senza il relativo permesso.32 Con il passare del tempo, la Congregazione citata ampliò i suoi poteri di controllo sulle regole relative ai versamenti e, dopo numerose richieste di chiarimento, ne disciplinò la prassi con la Declaratio quomodo sint solvendae eleemosynae, del 6 settembre 1604.33 Questo atto precisò che il deposito doveva essere effettua- to sui Banchi pubblici, all’interno del monastero stesso o presso una persona scelta dal vescovo all’interno di un gruppo di persone proposte dalla famiglia della monacanda, fino al momento della professione solenne e quindi del suo versamento effettivo.34

28 Ibidem: “[…] potiori ratione, pro maritandis virginibus cum Christo Domino, earumdem dilectis- simo sponso in professione Regulari, matrimonio quodam spirituali, et mistico, expedientissimum etiam est, ut dotis quantitas, non ciuisuis arbitrio reliquarur, nec audiae Monialium quarumdam cupiditati, neque strictae adeo aliquorum parentum parsimoniae, qui filias suas omnino indotatas, si possent, etiam velle maritare, sed prudentis Prelatii iudicio, qui rebus omnibus pensatis, atque prospectis, supradictae dotis quantitatem pro temporum, ac personarum differentia, debeat defini- re, atque determinare”.

29 Così, ad esempio, avveniva per le monache Convertite del monastero di S. Giacomo alla Lun- gara di Roma; infatti, le Costituzioni stampate nel 1640 prevedevano l’ingresso con una dote di 450 scudi: Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele (BVECR), Constituzioni Delle Monache Convertite Riformate di Roma, Roma 1640, p. 252.

30 De Luca, Il Dottor Volgare. Libro VI, p. 283, e libro XIV, parte I, p. 428.

31 Concilium Tridentinum, sessio XXV, caput XVI.

32 Monaco, Instruttione, p. 68. Cfr. Miranda, De Sacris Monialibus, p. 102; e anche Francesco Pellizzari, Tractatio De Monialibus, Faventiae 1686, cap. III: De Professione Religiosa Monialium, sectio II: De Dote Monialium, p. 54 (la prima edizione del trattato risale al 1644; mentre nel 1693 il testo venne messo all’Indice).

33 Zarri, Recinti, p. 109.

34 De Luca, Il Dottor Volgare. Libro VI, p. 284, e Libro XIV, Parte I, p. 428; Miranda, De Sacris Monialibus, p. 101. Si vedano anche le riunioni della Congregazione dei Vescovi e Regolari del 15 settembre 1585, 15 marzo 1595, 6 giugno 1615. Tali riunioni sono citate in Monaco, Instrut- tione, pp. 68–69. Cfr. Aiello, Monache e denaro, p. 337.

(8)

Il denaro ricevuto costituiva una delle voci principali del bilancio monasti- co, e doveva essere impiegato in modo fruttifero acquistando beni immobili o investendo in censi e Luoghi di Monte, che assicuravano la riscossione di una rendita annua fissa e sicura. Molte doti furono anche utilizzate per finanziare lavori e ristrutturazioni degli edifici claustrali o per saldare i conti del fornaio, del gallinaro e dei vari fornitori e inservienti del monastero. Le monache però non potevano gestire direttamente queste operazioni economiche, ma dove- vano domandarne licenza ai superiori o ai sovrintendenti del monastero. In particolare, a Roma il permesso andava richiesto al cardinale vicario.35

Vorrei ora soffermarmi ad analizzare brevemente il panorama dotale romano tra la fine del Cinquecento e il Seicento. Dopo la fine del Concilio di Trento, i monasteri esistenti entro le mura della Città Eterna aumentarono notevolmente, superando il numero di 40.36 Si moltiplicarono le istituzioni claustrali rivolte alle giovani dell’aristocrazia e della ricca borghesia, ma sor- sero anche diversi monasteri/conservatori destinati ad accogliere e tutelare – e controllare – donne che vivevano al limite della marginalità, oppure orfane e fanciulle povere.37 A ciò si aggiunse il carattere particolare di Roma in quanto centro del mondo cattolico, per cui la presenza di numerosi chiostri femminili, disciplinati e ben ordinati, assunse anche un forte valore simbolico in funzio- ne antiprotestante, data la polemica antimonastica portata avanti dalle chiese riformate.

Nel territorio romano l’ammontare delle quote dotali veniva stabilito nelle congregazioni con i superiori, oppure era fissato dai cardinali protettori o più raramente dal cardinale vicario (che, come è noto, era il vescovo responsabile della diocesi romana). Si lasciava quindi ai vari chiostri una certa autonomia.

Ad esempio, nel caso di S. Maria Maddalena al Corso e di S. Giacomo alla Lungara delle Convertite, il compito spettava al protettore; mentre per le tur- chine della Ss. Annunziata “saranno a giudizio dell’ordinario, di tanta quantità che con li proventi di ciascuna di quelle si possa mantenere una monaca”.38 Inoltre, se il vicario non aveva il potere di ingerirsi nella fissazione della dote,

35 Antonio Cuggiò, Della giurisditione e prerogative del vicario di Roma. Opera del canonico Nic- colò Antonio Cuggiò, segretario del tribunale di sua Eminenza, a cura di Domenico Rocciolo, Roma 2004, p. 301. Cfr. Monaco, Instruttione, pp. 68–69, il quale ricorda, in merito, una deci- sione della Congregazione dei Vescovi e Regolari del 28 marzo 1588.

36 Il numero esatto può variare a seconda del fatto che si conteggino non solo i monasteri di esclusiva vita contemplativa, ma anche le comunità con annesso conservatorio o i conservatori veri e propri;

tra l’altro, il confine tra queste varie tipologie di istituzioni non è spesso chiaramente definibile.

Cfr. Marina Caffiero, Il sistema dei monasteri femminili nella Roma barocca. Insediamenti ter- ritoriali, distribuzione per ordini religiosi, vecchie e nuove fondazioni. In: Dimensioni e problemi della ricerca storica 2 (2008), pp. 69–102.

37 Lo sviluppo di queste istituzioni nel Cinquecento è stato collegato da alcuni studiosi agli effetti delle guerre e ai dissesti patrimoniali che colpirono la penisola italiana: Rocciolo, Il costo della carità, p. 320.

38 BVECR, Constitutioni per le Madri dell’Ordine della Santissima Annunziata dette le celesti. Fon- dato in Genova dalla Venerabile Maria Vittoria Strata l’anno MDCIV. Ristampate ad istanza delle Monache della Santissima Annunziata del medesimo Ordine fondato in Roma l’anno 1676, Roma 1695, p. 18. Cfr. ivi, Constituzioni Delle Monache Convertite, p. 252.

(9)

tuttavia egli aveva il compito precipuo di vigilare sul suo deposito, effettuato durante il periodo di noviziato; in particolare doveva assicurarsi che i denari fossero tenuti al sicuro presso il Monte di Pietà o il Banco di S. Spirito con la clausola che: “si debbano pagare al detto monastero con ordine del signor card.

Vicario, doppo che la novizia v’averà fatta la solenne professione”.39 Infine, teoricamente era sempre al vicario che a Roma si chiedeva licenza per utilizzare la dote allo scopo di pagare conti o debiti.40

L’entità del versamento variava notevolmente da monastero a monastero, e ciò sembra dovuto principalmente a due ragioni. In primo luogo l’apparte- nenza del chiostro a un certo ordine religioso piuttosto che a un altro41: in altre parole, per le religiose degli ordini mendicanti (francescane, clarisse e domeni- cane) la quota di denaro richiesta appare leggermente inferiore rispetto a quella fissata nelle altre comunità femminili di Roma; tuttavia occorre precisare che tale osservazione sembra valere soprattutto per il XVI secolo e non per il XVII, come si dirà oltre.

La seconda motivazione va ricercata in quella che si può definire la specializ- zazione cittadina dei diversi monasteri. Se, infatti, la maggior parte dei chiostri romani furono rivolti ad una fascia di popolazione femminile piuttosto ricca, tuttavia non mancarono istituti destinati a categorie di donne più svantaggia- te: così a S. Maria dei Sette Dolori si ammettevano le gravemente inferme, a S. Lucia alle Botteghe Oscure le donne di buona famiglia prive di dote e quindi non accettate in altre comunità, a S. Maria Maddalena al Corso e S. Giacomo alla Lungara le ex prostitute, a S. Caterina dei Funari le fanciulle “pericolanti”

dell’annesso conservatorio che sceglievano di abbracciare la vita monastica, etc.

Anche per entrare in tali istituzioni era previsto un versamento dotale, seppure di tono notevolmente inferiore a quello richiesto per l’ingresso nei monasteri nobiliari; in alcuni casi esso veniva fornito dalla famiglia della ragazza, più spesso dal mondo della beneficenza organizzata nelle confraternite. Nel caso di S. Caterina dei Funari, le zitelle pericolanti erano in genere figlie di meretrici ed erano quasi sempre fornite di una piccola dote che era stata raccolta dalle loro madri proprio attraverso la prostituzione. 42

39 Cuggiò, Della giurisditione, p. 301.

40 Ibidem.

41 Cfr. Cubelli/Rocca, Dote, col. 970.

42 Nel XVII secolo erano necessari 100 scudi a testa. Su questa istituzione: Angela Groppi, I con- servatori della virtù: donne recluse nella Roma dei papi, Roma/Bari 1994; Alessandra Camerano, Assistenza richiesta ed assistenza imposta: il Conservatorio di S. Caterina della Rosa. In: Dimen- sioni e problemi della ricerca storica 2 (1994), pp. 227–260. Tra le più note confraternite che elargivano doti alle giovani povere, la Confraternita della Ss. Annunziata, oggetto di numerosi studi, tra cui Marina D’Amelia, Economia familiare e sussidi dotali. La politica della Confraternita dell’Annunziata a Roma, secc. XVII–XVIII. In: Simonetta Cavaciocchi (a cura di), La donna nell’economia: secc. XIII–XVIII. Atti della “Ventunesima Settimana di Studi” (Prato, 10–15 aprile 1989), Firenze 1990, pp. 195–215; Eadem, La conquista di una dote. Regole del gioco e scambi femminili alla Confraternita dell’Annunziata (secc. XVII–XVIII). In: Lucia Ferrante/Maura Palazzi/Gianna Pomata (a cura di), Ragnatele di rapporti, patronage e reti di relazione nella storia delle donne, Torino 1988, pp. 305–343.

(10)

In un panorama tanto variegato, paragonare l’ammontare della dotazione richiesta nei diversi monasteri romani risulterebbe poco proficuo, anche perché le fonti disponibili sono molto eterogenee tra loro e spesso incomplete. In que- sta sede mi limiterò, quindi, ad operare un confronto tra alcuni dei chiostri che furono prettamente appannaggio dell’aristocrazia.

Nel chiostro delle domenicane dei SS. Domenico e Sisto, uno dei più pre- stigiosi di Roma, nel periodo immediatamente successivo alla fine del Concilio di Trento, la dote variava da circa 300 a 600 scudi.43 Ma alla fine del Cinque- cento si assistette a un fortissimo rialzo e l’elemosina dotale sembrò assestarsi addirittura sui 1.000 scudi. Tuttavia, ancora nel 1591 suor Ludovica Sigoncelli donò 400 scudi, mentre Lucrezia Leni e Silvia Mazziotto 500; la stessa cifra versarono anche Livia Capizzucchi, Emilia Bucceloni e Dianora Sigoncelli, tutte e tre professe nel 1593. In questa comunità, l’aumento delle doti alla fine del secolo fu probabilmente dovuto alla necessità di coprire le spese per i lavori di completamento della nuova struttura monastica realizzata nel rione Monti, dove le domenicane si trasferirono nel 1575 (ciò appare confermato anche dal fatto che la dote richiesta per le converse salì a 200 scudi, ma calò nuovamente dopo il completamento del monastero).44

A partire dal 1596 anche in un altro prestigioso monastero domenicano – quello di S. Caterina da Siena a Magnanapoli – la dote venne fissata a 1.000 scudi; e se si considera che a metà del Cinquecento ne servivano appena 150 per esservi ammesse, ben si comprende l’impennata che la richiesta dotale aveva subito in questa comunità nel giro di soli cinquant’anni.45

Ancora, nel 1629 per entrare tra le carmelitane di S. Teresa al Quirinale occorreva versare solo 750 scudi, saliti però a 1.000 nella seconda metà del secolo.46 Questa stessa cifra donavano all’incirca anche le carmelitane scalze di

43 Solo per citare qualche esempio: nel 1571 Vittoria Peruschi portò in dote 236 scudi; nel 1574 Terenzia Giustini ne versò 300; tre anni dopo, Ippolita Conti offrì 400 scudi, ai quali ne furono aggiunti altri 1.000 da uno zio abate; nel 1578 Felice Bonaventuri versò 100 scudi, Maria Giu- stiniani 300, mentre Olimpia Marinati e Marcella Maffei 500; ma nel 1585 il padre di Virginia e Anna Pinti offrì come dote complessiva per entrambe le figlie 2.034 scudi; invece nel 1589 Aurea Piroti ne versò 400: Raimondo Spiazzi (a cura di), Cronache e fioretti del monastero di San Sisto all’Appia, Bologna 1993, passim.

44 Spiazzi, Cronache, p. 526. Precedentemente queste domenicane risiedevano nel monastero di S. Sisto sulla via Appia.

45 Mario Bevilacqua, Santa Caterina da Siena a Magnanapoli. Arte e storia di una comunità reli- giosa romana nell’età della Controriforma, Roma 1993, p. 36. Bevilacqua cita i dati contenuti in Archivio Generale dell’Ordine dei Predicatori (AGOP), XII 9200/6, libro Ab Ingressu, e ivi, EU, 1, c. 68. Cfr. Archivio di Stato di Roma (ASR), S. Caterina da Siena a Magnanapoli, b. 4632, fasc. 3.

46 Così risulta da ASV, Congr. Visita Ap., 3, f. 289r–v. Cfr. poi la riunione della Congregazione della Visita Apostolica del 4 agosto 1667, in cui si esaminava la richiesta delle monache di S. Teresa di potere investire in censi 2.000 scudi provenienti dalla dote di due monache: ASV, Congr. Visita Ap, 7, f. 12r. Sempre nella seconda metà del Seicento i signori Pennagalli pagarono, invece, ben 1.400 scudi per l’ingresso di una loro sorella minore: ASV, Misc., Arm. VII, 37, f. 462r.

(11)

S. Giuseppe a Capo le Case47, le benedettine di S. Maria in Campo Marzio, le santucce di S. Anna dei Funari48, così come le religiose dei monasteri di matrice francescana più antichi e prestigiosi, ad esempio S. Lorenzo in Panisperna49 e S. Silvestro in Capite50. Per entrare in quest’ultimo, in particolare, la monacan- da Laura Evangelista Muti versò 500 scudi nel 159551, ma già nel 1602 la novi- zia Agata de Pomis ne diede 1.00052, come probabilmente fecero quasi tutte le professe che vennero dopo di lei (così appare, ad esempio, dalla copia dell’istro- mento di renuntia fatta nel 1664 da suor Angela Caterina Massimi a favore del padre Mario Massimi, della madre Laura e dei fratelli Gaspare e Leone53).

Tra le benedettine umiliate di S. Cecilia in Trastevere, nella prima metà del Cinquecento la dote ascendeva ad almeno 500 scudi. Tuttavia, sullo scorcio del secolo, il cardinale vicario Girolamo Rusticucci, in qualità di sovrinten- dente al monastero, ordinò che non si ricevesse più alcuna monaca senza un ammontare di almeno 700 scudi, da versare oltre alle spese per la cerimonia di professione e il corredo.54 Perciò, nel 1597 per ammettere la giovane Clemenza Fabbij le monache votarono in Capitolo di donarle 100 scudi, che si andassero ad aggiungere ai 600 che la famiglia della giovane aveva promesso di dare.55 Questo particolare appare di grande rilievo: le religiose ritennero opportuno utilizzare una quota del bilancio monastico per dotare un’aspirante professa e per permetterle di entrare nella loro comunità, dimostrando dunque una capacità di decisione notevole e una considerevole sensibilità verso una giovane che desiderava vestirsi e abbracciare la spiritualità da esse seguita.56 A partire

47 Così, infatti, appare da un istrumento del 1660 relativo ad alcuni affari economici del monastero;

tale documento cita, tra le altre cose, l’ammontare dell’elemosina dotale versata dalla monaca Clau- dia Baronia, nipote del celebre cardinale Baronio, e consistente in 1.000 scudi. Non sono ancora riuscita a trovare altre informazioni relative alle doti richieste per entrare a S. Giuseppe, in modo da poterle confrontare con quanto dato da suor Claudia. Cfr. ASR, S. Giuseppe a Capo le case, b. 4302: Instrumenta, ff. 342r–361v, in particolare f. 351r.

48 Suddivisi in 800 per la dote vera e propria e 200 per le “altre spese solite” (1652): ASV, Congr.

Visita Ap., 12, f. 188r.

49 Anche se qui sembra fossero suddivisi in 750 scudi di dote vera e propria e 250 per le spese di vestizione: Andretta, La venerabile superbia, p. 76.

50 ASR, S. Silvestro in Capite, b. 4995, Dichiarazione fatta..., ff. 70r–71r; ivi, Discorso sopra l’asse- gnazione..., ff. 247r–248r.

51 ASR, San Silvestro in capite, b. 4995, f. 38r.

52 ASR, San Silvestro in capite, b. 4995, f. 71r.

53 ASR, San Silvestro in capite, b. 4995, f. 349r–357v, in particolare 349v.

54 Girolamo Rusticucci fu vicario di Roma dal 1588 al 1603: Konrad Eubel/Guilelmus van Gulik (a cura di), Hierarchia catholica medii aevi, vol. III, Munich 1910, p. 49. Sui cardinali vicari e i loro poteri: Annibale Ilari, I cardinali vicari. Cronologia bio-bibliografica. In: Rivista diocesana di Roma III (1962), n. 4, pp. 273–295; Cuggiò, Della giurisditione; Jader Spizzichino, Magi- strature dello Stato pontificio (476–1870), Lanciano 1930, pp. 383–384; Domenico Rocciolo, La costruzione della città religiosa: strutture ecclesiastiche a Roma tra la metà del Cinquecento e l’Ottocento. In Luigi Fiorani/Adriano Prosperi (a cura di), Roma, città del papa. Vita civile e religiosa dal Giubileo di Bonifacio VIII al Giubileo di Papa Wojtyla (Storia d’Italia. Annali 16), Torino 2000, pp. 367–393. Cfr. Virgilio Caselli, Il Vicariato di Roma. Note storico-giuridiche, Roma 1957; Ambrogio Brambilla, L’origine e il primo sviluppo storico-giuridico dell’ufficio di cardinale Vicario. In: Rivista diocesana di Roma III (1962), n. 7–8, pp. 489–495.

55 Lirosi (a cura di), Le cronache di Santa Cecilia, pp. 129, 132.

56 Non risulta che nello stesso periodo vi fosse, nel chiostro di S. Cecilia, un’altra professa imparen- tata con la Fabbij, che potesse eventualmente spingere le altre monache alla decisione di offrire i 100 scudi per aumentare la dote di Clemenza.

(12)

dal secondo decennio del Seicento, la somma richiesta a S. Cecilia si assestò definitivamente sui 1.000 scudi, anche se ancora negli anni Trenta - Quaranta alcune benedettine ne versarono solo 80057, mentre alla fine del secolo l’unica eccezione riscontrata è quella delle sorelle Veronica Cecilia e Anna Flavia Pen- nagalli (di nuovo con 800 scudi ciascuna, nel 1698).

Dunque appare evidente come la quota dotale non fosse fissata in modo rigido all’interno dei diversi chiostri, permettendo frequenti variazioni nei versamenti. Infatti, anche se in teoria l’ammontare andava stabilito in modo uniforme per ciascun monastero “senza differenza di nobiltà, ò di ricchezza, ò di altra qualità”58, tuttavia vescovi e prelati potevano mutarne la consistenza e diminuirla se ciò avveniva per una giusta causa o in presenza di circostanze par- ticolari, dopo aver ottenuto però il consenso della Congregazione dei Vescovi e Regolari.

Nell’età della Controriforma, quindi, la quota che le famiglie altolocate dovettero pagare, per avere una figlia monaca in un prestigioso chiostro roma- no, registrò aumenti talmente consistenti da imporre una sempre più massiccia selezione delle professe e un livellamento delle differenze tra l’ammontare richiesto dai vari ordini nei decenni precedenti. Tale aumento appare un feno- meno che si riscontra in tutta Italia e non solo sul territorio romano, anche se a tutt’oggi si hanno in merito solo studi parziali.59 La crescita delle doti monasti- che sembra inoltre seguire l’innalzamento di quelle matrimoniali che si verifica costante per tutto il XVII secolo.

Scendendo nei dettagli, la nota-tipo di una dote aristocratica a Roma pre- vedeva, come si è detto, il versamento di circa 1.000 scudi, nei quali poteva essere compreso o meno il cosiddetto acconcio: con questo termine si defini- vano le spese dovute per gli apparati della cerimonia di professione, il corredo della monacanda (in genere alcuni indumenti e del tessuto per realizzare tona- che, lenzuola e biancheria) e infine un modesto arredo per la cella (solitamente un tavolino, un inginocchiatoio, uno scaldaletto, un lavamano, un crocefisso).

Così specificava anche il giurista De Luca: “Oltre alla suddetta dote, la quale si dice ordinaria, che si dà al monastero, occorrono dell’altre spese e provisioni, le quali legalmente vengono sotto il nome di dote, et hanno gli istessi privilegi,

57 Angelica Paola Lotteri nel 1637, Maria Francesca e Maria Angela Canobi nel 1639, Maria Candida Badinetti nel 1640 e Maria Pulcheria Buratti nel 1641: Lirosi (a cura di), Le cronache di Santa Cecilia, pp. 198–199, 202–203, 211, 268.

58 Così De Luca, Il Dottor Volgare. Libro VI, pp. 16, 282. Ancora il giurista nel Libro XIV, Parte I, p. 428: “Questa dote in ciascun monastero, secondo le diverse consuetudini ha la sua tassa unifor- me, la quale non si può alterare”.

59 Ad esempio, a Bologna “l’incremento del numero delle monache tra Cinquecento e Seicento [...]

è accompagnato da un aumento delle elemosine dotali in misura così alta che non trova giustifica- zione nel parallelo processo di inflazione”: Zarri, Monasteri femminili e città, p. 420. Cfr. Carla Russo, I monasteri femminili di clausura a Napoli, Napoli 1970. Ciò condusse all’aristocratizza- zione delle monache coriste, proprio perché l’aumento dell’elemosina dotale e la previsione del numero restrinsero sempre di più gli accessi: ancora Zarri, Monasteri femminili e città, p. 422.

(13)

cioè quei mobili, che volgarmente in Roma si dicono l’acconcio, et in altre parti si dicono l’arredo, overo il corredo, et alcune spese, le quali secondo le diverse usanze de’ monasteri si fanno nel tempo che si prende l’abito et in altre occasioni [...], essendovi difformità grande, secondo la diversa qualità delle persone per la nobiltà o la ricchezza”.60 Solo per citare un esempio, la lista delle spese per l’acconcio di suor Laudonia e suor Giulia, monacande a S. Silvestro in Capite, consistette in: un crocifisso e due quadri della Madonna con la cornice di noce, due torce di 5 libbra l’una e 6 candele per altare da 1 libbra cadauna, 80 candele per le monache, due breviari e due “diorni” e tre “fizioli della Madonna”, fazzoletti, 12 foderette, 6 “asuchatori”, 6 “zenali bianchi”, 6 paia di lenzuola, 12 camicie, 50 canne ditela grossa per le “tenne”, 6 canne per i pagliericci, “interlicio” per 2 materassi e 2 “chapezali”, tovaglioli, coper- te di lana, cortina per il convento (60 canne), saia cremonese per gli abiti, saia perrosina per abiti e mantelli e sottana e scapolare, panno “de douana”, saia bianca scotta, “cortinela per fare asucatori e fazzoletti”, 3 sedie di paglia, 2 lucerne, 2 scaldaletti, 2 “cucomi” di rame, 2 brocchette di “concoline”, 2 paia di calze, 2 paia di calze di lana, 2 lettiere, 2 altarini, 2 “scannele”, 3 casse, 4 paia di forbici, 2 coltelli, 1 canestra grande, 2 canestre piccole, 16 canne di tovaglie per il convento, 20 tovaglioli per il convento, altre 12 canne di tela grossa per il convento per “asucamani”, lana per materassi, paratini per l’altarino.61 A tale proposito appare interessante la questione che oppose la Domus delle oblate orsoline delle SS. Rufina e Seconda al cardinale vicario Gaspare Carpe- gna. Il conflitto risale ai primi anni del Settecento, tuttavia getta luce sulle abi- tudini tenute in questa comunità nel secolo precedente. Anche qui l’elemosina dotale aveva subito un incremento notevole, passando dai 600 scudi (escluso l’acconcio), previsti nelle Costituzioni fondative del 1602, ai 1.150 richiesti alla fine del Seicento, suddivisi in 1.000 per la dote vera e propria e 150 per le spese di acconcio o “appendice”.62 Nel 1704 le oblate indirizzarono alla Con- gregazione della Visita Apostolica un memoriale contro il vicario che, in occa- sione della vestizione di tre fanciulle, aveva loro trasmesso un Monitorio nel quale ricordava l’editto emanato da papa Clemente XI il 2 marzo 1702, con cui si vietavano fasto e spese superflue in occasione di vestizioni e professioni

60 De Luca, Il Dottor Volgare. Libro XIV, Parte I, p. 429.

61 ASR, San Silvestro in capite, b. 4995, f. 196r–v. Per esempi di altri elenchi di corredi e arredi richiesti alle monacande si vedano: l’elenco contenuto in Biblioteca Apostolica Vaticana, Archivio Barberini, Carte del monastero dell’Incarnazione, citato in Luigi Fiorani, Monache e monasteri romani nell’età del quietismo. In: Ricerche per la storia religiosa di Roma I (1977), pp. 63–111, in particolare p. 80; Rocciolo, Il costo della carità, p. 323; Andretta, La venerabile superbia, pp. 165–166 (per le monache farnesiane). Cfr. Archivio Storico del Vicariato di Roma, Atti della Segreteria, 18, ff. 168r–v.

62 Le stesse Costituzioni del 1602 comunque precisavano che la dote era di 600 scudi, ma “riservandosi però la facoltà dell’accressimento della dote […] secondo li tempi, che correranno”: ASR, Camerale III, b. 1890, SS. Rufina e Seconda, fasc. 4, f. 7r.

(14)

di monache (documento che oltretutto ribadiva le precedenti e similari Costi- tuzioni di Alessandro VII del 1657 e di Innocenzo XI del 1676 e del 1684).

Carpegna imponeva dunque alle orsoline che “non esigessero, né pigliassero il detto appendice di dote”63. Da parte loro, però, le monache protestarono che non solo ciò era contrario alle proprie Costituzioni, ma anche che l’editto non vietava affatto il versamento dell’acconcio quanto piuttosto le mance, i regali o le offerte varie che spesso i familiari delle neo religiose erano soliti fare alle altre professe in occasione delle cerimonie di ingresso nel chiostro della pro- pria parente. Ora, l’“appendice” richiesta a S. Rufina coincideva proprio con l’acconcio, e non con queste altre spese64; e che il documento pontificio non vietasse affatto “il detto appendice di dote si è, che doppo la promulgazione del medemo il Signor Cardinal Vicario hà permesso e permette nel Monastero di S. Francesco di Sales che oltre la dote, per non soccombere ad altra spesa, com’è nel caso nostro, ogni zitella che vuol monacarsi in detto Monastero paga scudi cinquecento d’augmento di dote, somma assai maggiore di quella dell’Oratrici, et il simile vien permesso nel Monastero de’ Sette Dolori, et in quello de Tor de Specchi, nel quale oltre la dote si dà scudi trecento d’appendice”.65 Per di più – precisavano le orsoline – rinunciare ai 150 scudi avrebbe comportato un notevole danno alla disciplina regolare, poiché quella somma serviva per la perfetta osservanza della vita comune di modo che, soprattutto quando le reli- giose ricoprivano qualche carica od officio nella comunità, non dovessero poi chiedere ulteriore denaro alle proprie famiglie. Dunque si nota, da una parte, il tentativo delle autorità ecclesiastiche centrali di porre un freno all’aumento spropositato degli importi dotali e, dall’altra, la determinazione delle religiose nel difendere le consuetudini economiche acquisite; le oblate manifestarono inoltre la volontà di ostacolare l’ingerenza delle famiglie all’interno della loro comunità e di garantire il rispetto delle regole, anche se non è del tutto chiaro se tale intenzione fosse completamente genuina oppure venisse accentuata allo scopo di supportare le loro argomentazioni in favore della dote.

Mance e offerte aggiuntive erano quindi teoricamente vietate, tuttavia era pacificamente ammesso che una religiosa potesse pagare di più allo scopo espresso di essere esentata dagli offici monastici. Se infatti ai lavori più umili e domestici erano in genere destinate le converse, ciononostante toccava alle

63 Ibidem, f. 22r.

64 ASR, Camerale III, b. 1890, SS. Rufina e Seconda, fasc. 4, f. 2r: “la dote solita con l’appendice, ò sia augumento della medesima secondo l’uso e Costituzioni di detta Casa consistente in scudi mille centocinquanta, de quali scudi cento cinquanta, come appendice di dote, et anco denominati con il vocabolo d’acconcio”. Che i 150 scudi consistessero nell’acconcio e non in altro, risulta anche dal fatto che le orsoline ammisero che nella loro comunità era stata per un certo tempo diffusa la consuetudine di dare “altri scudi quattrocento incirca tra mancie, regali et offerte, quali scudi quattrocento doppo la promulgazione di detto editto mai più sono stati da noi pretesi […]”:

Ivi, f. 2v e f. 23v.

65 ASR, Camerale III, b. 1890, SS. Rufina e Seconda, fasc. 4, f. 24.

(15)

monache coriste una serie di compiti necessari all’organizzazione interna del monastero: gli uffici di infermiera, refettoraria, ortolana, gallinara, vestiaria, oppure quelli più prestigiosi di segretaria o maestra delle novizie o delle edu- cande, o ancora quelli di portinaia, ascoltatrice o ruotara, che ricoprivano un ruolo importante nel rapporto con l’esterno del monastero. Ad esempio, a S. Cecilia nel 1655 Anna Luigia Dacci diede in più 100 scudi per evitare di fare la campanara; mentre nel 1631 Maria Clemenza Massa ne versò 1.000 di dote, altri 1.000 per essere esente da tutti gli uffici e ulteriori 200 per avere una cella tutta sua.66 A S. Caterina a Magnanapoli, nel 1617 la nobile Camilla Peretti versò complessivamente 6.000 scudi per dote, esenzione dagli uffici e per avere una cameriera personale; mentre nel 1623 per ottenere gli stessi benefici Camilla Orsini Sforza Caravaggio se la cavò con appena 3.000 scudi, e Cecilia Cesarini con 5.000 (e visse oltretutto con la madre nelle stanze da lei fatte fabbricare vicino alla chiesa).67

Al fine di garantire un adeguato tenore di vita alle sue abitanti, come si è detto, ogni monastero doveva stabilire il numero massimo di professe che poteva accogliere e mantenere tra le sue mura. Tuttavia, non di rado venivano ammesse anche monache “soprannumerarie” che portavano la popolazione complessiva della comunità oltre la quota fissata. Esse, comunque, dovevano ricevere l’autorizzazione della Congregazione dei Vescovi e Regolari68, paga- vano una dote maggiorata – di solito il doppio – e spesso versavano anche una quota mensile per il vitto, circostanza che portava in genere le famiglie di origine a provvederle di un vitalizio o di una piccola rendita temporanea o permanente.69 Secondo Giambattista De Luca, la dote richiesta alle soprannu- merarie doveva essere generalmente il doppio di quella ordinaria (ma poteva essere anche di più), e lo stesso doveva pagare chi era “vedova o in altro modo corrotta o per altro difetto simile”, e chi entrava in un monastero dove erano già professe due sue sorelle.70

66 Lirosi (a cura di), Le cronache di Santa Cecilia, pp. 193, 222–223.

67 Bevilacqua, Santa Caterina da Siena, pp. 36–37.

68 Decreto Quemadmodum Sacri olim Canones, 6 febbraio 1615. Cfr. Monaco, Instruttione, p. 66;

De Luca, Il Dottor Volgare. Libro XIV, Parte I, p. 428.

69 Per citare un esempio, nel 1662 la ventenne Francesca Califfi chiese di potersi monacare come soprannumeraria a S. Caterina dei Funari, nel cui conservatorio era stata alunna per ben tredici anni, essendo disposta a pagare il doppio della dote che normalmente vi era richiesta: ASV, Misc., Arm. VII, 36, f. 193r.

70 De Luca, Il Dottor Volgare. Libro VI, p. 282, e Libro XIV, Parte I, p. 428. Le terze sorelle erano solitamente ammesse previa licenza della Congregazione dei Vescovi e Regolari. Inoltre la quota dotale andava addirittura triplicata per l’ingresso di quarte sorelle; così aveva stabilito sempre la stessa Congregazione nella seduta del 5 settembre 1604 (e poi del 26 agosto 1616). Tra l’altro, il Concilio di Trento aveva cercato di ostacolare l’eccessiva presenza di consanguinee in uno stesso monastero per evitare la formazione di gruppi di potere dentro al chiostro. Cfr. anche ASV, Misc., Arm VII, n. 115 A, fasc. III, Decreti Generali fatti dalla Congregatione della Sacra Visita, d’ordine espresso di N. S. da osservarsi dalle Monache di Roma nelle loro Chiese, et Monasterij, oltre le proprie et particolari Constitutioni di ciascun luogo, Roma 1625. Cfr. Monaco, Instruttione, p. 67.

(16)

In realtà non erano solo le soprannumerarie ad usufruire di vitalizi; anche le altre monache potevano godere di una rendita che le tutelasse maggiormen- te sul piano economico e garantisse loro un più ampio benessere dentro al monastero, anche se ciò andava contro il voto di povertà individuale. Si ricorda inoltre che, al momento della professione solenne, quasi sempre le fanciulle nobili facevano la renuntia, ossia affermavano espressamente davanti ad un notaio di rinunciare, in favore dei fratelli, a tutte le proprietà che eventualmen- te sarebbero potute spettar loro per via ereditaria.71 Solo per citare un esempio tra i numerosi casi, a S. Cecilia in Trastevere nel 1597 Scolastica Massimo, rampolla di una delle più importanti famiglie di Roma, oltre che discendente dei Santacroce per parte materna, diede 700 scudi di dote piú l’acconcio e fu fornita anche di un vitalizio di 40 scudi.72 Tuttavia la concessione di denaro per vitalizi – utilizzato in genere dalle professe per spese personali di biancheria, alimenti preferiti o altro – era in contrasto con i dettami di abolizione della proprietà privata a favore di quella comunitaria stabiliti dalle Regole mona- stiche e ribadita dal Concilio di Trento; inoltre spesso accadeva che “in questa entrata, come nell’altre spese suddette [quelle per l’acconcio] non cammina quella egualità et uniformità, la quale si scorge nella dote ordinaria solita darsi al monastero, essendovi difformità grande, secondo la diversa qualità delle per- sone per la nobiltà o la ricchezza”.73 Di conseguenza le gerarchie ecclesiastiche cercarono, per quanto fu loro possibile, di limitare la prassi dei vitalizi.

Dunque il versamento dotale acquisì con il tempo carattere obbligatorio;

ma furono possibili strappi alla regola? Si può, senza dubbio, rispondere affer- mativamente. Così aveva puntualizzato anche la Congregazione dei Vescovi e Regolari nella seduta del 20 maggio 1596, specificando però che l’assenza di dote non doveva costituire un danno per il monastero ma andare, al contrario, a suo vantaggio. Era comunque necessaria una licenza ufficiale emanata dalla stessa Congregazione e le eccezioni erano ammesse soprattutto nel caso di fan- ciulle con particolari “virtù, e particolarmente nella musica, overo perché sia del sangue del fondatore o per altre circostanze simili”.74

Ad esempio, alla fine del XVII secolo (1698) le clarisse di S. Silvestro in Capite si rivolsero al cardinale vicario di Roma denunciando la scarsità di reli- giose nel loro monastero che tuttavia “ha entrate sufficienti da potervi mante- nere numero molto maggiore”.75 Per tale motivo, le monache non solo chiesero il permesso di vestire sei zitelle povere, che potevano offrire soltanto metà della

71 Concilium Tridentinum, sessio XXV, caput XVI. Ricordiamo che teoricamente le monache non potevano possedere nulla: Zagano, Morte civile, coll. 168–170.

72 Lirosi (a cura di), Le cronache di Santa Cecilia, p. 129.

73 De Luca, Il Dottor Volgare. Libro XIV, Parte I, p. 429.

74 Ibidem, Libro VI, p. 282, e Libro XIV, Parte I, p. 426.

75 ASR, S. Silvestro in Capite, b. 4995, f. 174r–v.

(17)

dote solitamente richiesta per entrare nella loro comunità, ma supplicarono anche di poter monacare addirittura senza alcuna dote Chiara Massimiliana Scanardi76, orfana dei genitori ed educanda a S. Silvestro fin dall’età di 4 anni.

La risposta del vicario fu, per entrambe le richieste, affermativa.77

Se, però, accogliere una fanciulla non dotata non rappresentava un pro- blema di gran rilievo per il ricco chiostro di S. Silvestro, per altri monasteri ricevere un versamento dotale in più costituiva un elemento fondamentale per la sopravvivenza dell’intera comunità.

Ad esempio, in una relazione del 1661, le monache di S. Croce a Monteci- torio chiesero il permesso di accogliere nuove vocazioni per beneficiare di altre doti e poter disporre di religiose più giovani, dato che “suor Barbara di 70 anni porta le stampelle, sor Lucia di anni 80 inabile per essere stroppiata, sor Cathe- rina di anni 65 cieca, sor Giulia di anni 70 con la goccia, sor Camilla di anni 70 stroppiata”: e solo tre converse rimanevano in salute.78

Nello stesso anno, le francescane di S. Bernardino sottolineavano che da cinque anni erano talmente povere che sarebbero morte di fame senza l’ele- mosina di 20 scudi al mese che faceva loro il vicegerente. Perciò supplicavano licenza di vestire tre o quattro monache per incamerare denari.79

Ancora, nel 1675 le agostiniane di S. Caterina dei Funari domandarono con insistenza la facoltà di monacare tre fanciulle per incassare 300 scudi e per usufruire, anche loro, di qualche braccia in più: nel loro chiostro, infatti, erano rimaste solo 13 monache “abili”, troppo poche per poter rispettare gli obblighi dell’ufficio divino previsti dalla Regola e badare nello stesso tempo alle ragazze dell’annesso conservatorio, che erano arrivate a centotrentacinque.80 Si noti la notevole differenza tra la dote richiesta nel Seicento a S. Caterina dei Funari (100 scudi a testa), destinata alle fanciulle pericolanti e di estrazione popola- re, con quella in uso nei monasteri riservati alla nobiltà (1.000 scudi in su).

Oltretutto, spesso le comunità che accoglievano le donne di origini modeste cercavano di arrotondare le entrate claustrali accettando piccoli lavori dal- l’esterno (bucato, cucito, etc.), sebbene questo potesse rischiare di minacciare la clausura.

76 La trascrizione del nome è dubbia.

77 ASR, S. Silvestro in Capite, b. 4995, f. 174r–v. La prosperità di questo chiostro è evidenziata anche negli Atti della visita apostolica che vi fu effettuata diversi anni prima (24 novembre 1661):

i visitatori sottolinearono che le religiose, in violazione della regola sulla vita comune, tendevano a comprarsi cibi particolari grazie alle loro rendite personali, ed erano inoltre sospettate di man- dare roba fuori del convento per mantenere parenti o amici poveri (ASV, Congr. Visita Ap., 5, ff. 263v–267v, in particolare f. 264v).

78 Dalla Relazione delle madri tanto velate quanto converse nel monastero di Monte Citorio, in ASV, Misc. Arm. VII, 36, f. 295, citato anche in Fiorani, Monache e monasteri, p. 79. In seguito, il monastero di S. Croce venne soppresso per i troppi debiti e le monache furono trasferite a S. Ber- nardino.

79 ASV, Congr. Visita Ap., 5, ff. 272v–273r.

80 ASV, Congr. Visita Ap., 7, f. 227r–v.

(18)

Occorre infine segnalare che, sul territorio romano, furono presenti anche monasteri in cui non era prevista una dote per l’ingresso, perché così era stato disposto nelle Costituzioni fondative. Ad esempio, le clarisse di S. Maria Puri- ficazione si mantenevano con il lascito del loro fondatore, Mario Ferri Orsini, che aveva espressamente previsto che la comunità fosse rivolta a donne povere, sebbene di buona famiglia81; lo stesso valeva per le domenicane di S. Maria dell’Umiltà, per volontà di Francesca Baglioni Orsini e per le carmelitane di S. Lucia alle Botteghe Oscure, per volontà del fondatore cardinale Domenico Ginnasi.82 Un caso a sé era poi rappresentato dalla Ss. Annunziata all’Arco dei Pantani, dove “la maggior parte delle monache come neofite si pigliano senza, e con pochissima dote se l’hanno, e le doti dell’altre non neofite sono molto poco”83; ciò era consentito dal fatto chesostentamento e vitto quotidiano veni- vano comunque garantiti dalla Congregazione dei Neofiti.

Tuttavia anche tali monasteri risentirono della crisi economica che colpì lo Stato pontificio e l’Europa intera nella seconda metà del XVII secolo. Così, nel 1687 le religiose di S. Maria della Purificazione si erano talmente impoverite che, pur continuando ad ammettere fanciulle non dotate per non violare la volontà del fondatore, supplicarono di poter almeno accogliere delle educande per farsi pagare una retta.84

La necessità di incamerare denari emerse con forza a partire dagli anni Ses- santa del Seicento e si fece sempre più sentire alla fine del secolo. Ad esserne colpite sembrano essere state soprattutto le comunità di francescane; tanto è vero che S. Croce a Montecitorio e S. Giacomo delle Muratte furono costretti a chiudere e le loro religiose furono unite, rispettivamente, alle consorelle di S. Bernardino e S. Apollonia.85 A questo proposito, appare interessante notare che a Roma, tra le comunità che si rifacevano alla spiritualità di san France- sco, i monasteri delle clarisse furono tra le più ricche (soprattutto quelle di

81 Tra l’altro, nel 1624 questo chiostro disponeva di 3.000 scudi annuali, una cifra notevole se si pensa che all’incirca nello stesso periodo il reddito annuale dei monasteri più ricchi della città – come S. Caterina a Magnanapoli, S. Lorenzo in Panisperna, S. Cecilia – superava all’incirca i 4.000 scudi (anche se un caso a sé era rappresentato da S. Domenico e Sisto con oltre 9.000 scudi):

ASV, Congr. Visita Ap., 3, ff. 204v, 212v, 215r, 239r.

82 In ASV, Misc., Arm. VII, 36, ff. 402r–408r, si trova la bolla di fondazione del monastero. Cfr. ivi, ai ff. 409r-415, anche gli “Statuti fatti dall’Em.mo e R.mo Cardinal Domenico Ginnasio, Decano del Sacro Collegio, fondatore del Venerabile Monasterio del Corpus Domini di Roma, con autorità Apostolica come per Bolla di N. Sig.re Urbano ottavo per il buon governo d’esso Monastero delle RR. Monache Carmelitane Scalze sotto la Regola di s. Teresa l’anno 1637”. Si veda anche ASV, Congr. Visita Ap., 5, ff. 238v–242r. Su questo monastero pure: Ridolfino Venuti, Accurata e succinta descrizione topografica e istorica di Roma moderna, Roma 1767, vol. 3, pp. 664–665;

Giuseppe Vasi, Delle magnificenze di Roma, Roma 1758, vol. 8, p. 20.

83 ASV, Misc., Arm. VII, 36, ff. 61r, 68v.

84 La questione fu sottoposta alla Sacra Congregazione della Visita Apostolica, ma nello stesso tempo le monache si rivolsero al loro cardinale protettore, affinché modificasse le regole del loro mona- stero che proibivano l’accettazione di educande a meno che esse non desiderassero prendere i voti religiosi: ASV, Congr. Visita Ap., 12, p. 173r-v. Invece le monache dell’Annunziata chiesero l’atte- nuazione della clausura per svolgere piccoli lavori manuali commissionati dall’estero: ASV, Misc.

Arm. VII, 36, f. 61r; cfr. Fiorani, Monache e monasteri, p. 81.

Riferimenti

Documenti correlati

The analysis of the way in which legal English is used in dialogues and the way the legal environment is represented from a gendered point of view will be discussed using examples

A March 4, 1932 memo, which reconstructs the entire negotiation between Caddo and the Hays Office, reads: “It was agreed that further scenes would be shot to change the idea of

Specifiche ente schedatore: Civico Archivio Fotografico - Milano Nome: Scala, Daniela. Referente scientifico: Paoli, Silvia Funzionario responsabile: Paoli,

2. per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo

rubescens living in Lake Ledro were represented by specific geno- types possessing gas vesicles less resistant to the hydro- static pressure compared to the populations living in

Mentre le sorelle venivano espulse dal monastero di Cuneo, un’altra comunità piemontese di clarisse – quella di Carignano – (28 sorelle presenti) viveva, sempre

I risultati sono stati molto confortanti e, nonostante una indubbia perdita dei dati relativi agli elevati e a gran parte delle stratificazioni bassomedievali, &possibile

Giorgio in Braida s’inserisce, pertanto, nell’instancabile e vivace attività edilizia di Bernardo che, dopo il terremoto, avrebbe contribuito a risa- nare il patrimonio