Mailing list tutelata al pari della corrispondenza privata ... pag 2 La Cassazione ai giornali online: la cronaca “scade” ... pag 3 Locazione di un immobile pignorato ... pag 5 Il burden sharing non viola il diritto dell’Unione... pag 7 Pubblicazione abusiva di programmi tv: condannata Megavideo ... pag 10 AGCOM: il 50% dei siti oggetto di ordini di disabilitazione sfruttano i servizi di
anonimato in rete ... pag 11 Brexit: l’impatto sulle operazioni di M&A ... pag 13
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PRIVACY Avv. Flaviano Sanzari
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AILING LIST TUTELATA AL PARI DELLA CORRISPONDENZA PRIVATAI messaggi di posta elettronica scambiati tra dipendenti nell’ambito di una mailing list riservata agli aderenti al sindacato costituiscono corrispondenza privata e, in quanto tali, vanno tutelati al pari delle comunicazioni di natura personale.
È questo il principio affermato dalla Corte d’appello di Milano con sentenza 439/2016, secondo cui la pluralità dei destinatari della mailing list non fa venir meno il carattere di corrispondenza chiusa e inviolabile delle comunicazioni scambiate tra gli aderenti al gruppo, in quanto i messaggi diffusi grazie alla rete informatica non sono inoltrati a una moltitudine indistinta di destinatari.
Da queste premesse, ad avviso della Corte d’appello, deriva che anche tali comunicazioni telematiche ricadono nello stretto regime di tutela previsto, tra l’altro, dall’articolo 15 della Costituzione, a norma del quale la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
A ulteriore conforto di questa tesi, la Corte meneghina si rifà a precedenti prese di posizione del Garante della privacy, secondo cui i messaggi che circolano attraverso mailing list e newsgroup protetti da una password di accesso o, comunque, delimitati agli aderenti a una community devono considerarsi corrispondenza privata.
Il caso affrontato dalla Corte d’appello ha riguardato il licenziamento per giusta causa irrogato nei confronti di un pilota per aver istigato i colleghi ad assumere forme di lotta sindacale in contrasto con gli obblighi di lavoro e per avere, in questo modo, arrecato turbativa al regolare svolgimento dell’attività di volo, nonché per aver scritto affermazioni denigratorie e minacciose nei confronti di altri piloti.
A sostegno delle ragioni fondanti il licenziamento, la compagnia aerea ha prodotto i messaggi scambiati sulla mailing list degli aderenti al sindacato dei piloti, affermando che non è stata violata la riservatezza del gruppo e che, quindi, tali documenti erano pienamente utilizzabili nell’ambito del processo per essere stati consegnati da un altro pilota iscritto alla medesima “chat”.
Sulla scorta delle considerazioni sulla natura dei messaggi scambiati, i giudici hanno ritenuto che la maggior parte delle comunicazioni provenienti dalla mailing list ristretta agli aderenti del sindacato non potesse essere utilizzata per valutare la validità del licenziamento. Potevano, invece, essere esaminati nell’ambito del giudizio solo due messaggi con specifici apprezzamenti negativi nei confronti di un altro pilota inserito nella mailing list, in quanto quest’ultimo ha a sua volta promosso una causa risarcitoria per mobbing nei confronti della compagnia aerea.
La Corte d’appello ha quindi confermato l’illegittimità del licenziamento già stabilita dal tribunale, sia per la inidoneità a giustificare tale sanzione delle affermazioni contestate al pilota (esse sono intervenute, infatti, in un periodo di forte contrapposizione tra il management aziendale e i lavoratori), ma anche sulla base della considerazione che la mailing list nella quale sono stati diffusi i messaggi costituiva un gruppo di
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discussione chiuso e riservato agli aderenti in un contesto prettamente sindacale e, pertanto, rappresentava corrispondenza di natura personale ed inviolabile.
DIRITTI DELLA PERSONALITA’
Avv. Flaviano Sanzari
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ASSAZIONE AI GIORNALI ONLINE:
LA CRONACA“
SCADE”
È questo, in sintesi, quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 13161/16, depositata lo scorso 24 giugno, con cui è stata confermata la legittimità di una decisione resa nel 2013 dal Tribunale di Chieti, Sezione distaccata di Ortona, il quale aveva condannato una testata giornalistica online a risarcire il danno procurato ad un ristorante per la permanenza, sul proprio portale, di un articolo relativo ad una vicenda di natura penale avvenuta nel 2008 e non ancora definita in sede giudiziaria.
Il Tribunale aveva riconosciuto il pregiudizio alla reputazione personale e professionale del ristorante e del gestore dello stesso, derivante dalla permanenza dell’articolo sul web, atteso che il trattamento dei dati personali da parte della testata giornalistica si era protratto per un periodo di tempo (dal 2008 al 2011) superiore a quello necessario agli scopi – esercizio del diritto di cronaca giornalistica – per i quali i dati erano stati raccolti e trattati.
A nulla rilevando la liceità della pubblicazione iniziale, il semplice mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico (solo nelle more del giudizio rimosso dall’editore) e la sua diffusione sul web attraverso l’indicizzazione sui motori di ricerca – quanto meno a far tempo dal ricevimento della diffida da parte di chi se ne assumeva leso – è stata ritenuta attività esorbitante “il mero ambito del lecito trattamento d’archiviazione o memorizzazione online dei dati giornalistici per scopi storici o redazionali”, così da giustificare l’accoglimento della pretesa risarcitoria.
Evidente la rilevanza di questa decisione ed il peso che la giurisprudenza di legittimità pare volere attribuire al diritto alla privacy nel bilanciamento con il diritto di cronaca e con il diritto ad essere informati.
La motivazione dei Giudici sul punto, peraltro, è di disarmante semplicità: la grande accessibilità di un pezzo pubblicato online consentirebbe di ritenere che, in due anni e mezzo, l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia sia stato soddisfatto e, dunque, il diritto alla privacy del singolo deve tornare a prevalere su quello della collettività ad informarsi e di un giornale ad informare.
NEWS
PER I VIDEO CONTROLLI IN UN NEGOZIO SERVE L’INFORMATIVA
Con sentenza 5 luglio 2016, n. 13663, la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, ha chiarito che l’installazione di un impianto di videosorveglianza all’interno di un esercizio commerciale, nella specie una farmacia, costituisce trattamento dei dati personali e deve formare oggetto di informativa a tutte le persone
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che facciano accesso nell’area sorvegliata, mediante avviso da collocare fuori e, quindi, prima del raggio di azione delle telecamere.
TRATTAMENTO DI DATI SENSIBILI CONCERNENTI LA SALUTE
Con sentenza 20 maggio 2016 n. 10510, la Corte di Cassazione, prima sezione civile, ha stabilito che, in tema di trattamento dei dati sensibili, deve ritenersi illecita la pubblicazione, su un sito internet liberamente accessibile, di un provvedimento giurisdizionale che indichi lo stato di salute del ricorrente e le sue invalidità, atteso che si tratta di dati la cui tutela è posta a protezione del diritto alla riservatezza della sfera privata dell'individuo.
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Avv. Daniele Franzini
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OCAZIONE DI UN IMMOBILE PIGNORATOAnche se la locazione di un bene sottoposto a pignoramento senza l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione, in violazione della legge, non comporta l’invalidità del contratto ma solo la sua inopponibilità ai creditori e all’assegnatario, il contratto così concluso non pertiene al locatore- proprietario esecutato, ma al locatore-custode, nominato dal Giudice dell’esecuzione, e le azioni che da esso scaturiscono – nella specie per il pagamento dei canoni – devono essere esercitate, anche in caso di locazione non autorizzata, dal custode.
Lo ha stabilito la sentenza n. 13216/2016 del 27.6.2016 della Corte di Cassazione.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso avverso la sentenza del 22 febbraio 2012 della Corte d'Appello di Roma che, a sua volta, aveva invece ritenuto che, in forza di contratto di locazione dell’immobile oggetto di esecuzione forzata stipulato in data successiva al pignoramento dell'immobile stesso ed in difetto della prescritta autorizzazione del giudice dell'esecuzione, il locatore proprietario avesse diritto al pagamento dei canoni afferenti l'immobile locato.
Tale principio è stato invece ribaltato dalla sentenza oggetto di commento.
Per effetto dello spossessamento conseguente al pignoramento e dell'effetto estensivo previsto dall'art. 2912 c.c. (a mente del quale “il pignoramento comprende gli accessori, le pertinenze e i frutti della cosa pignorata”), il debitore esecutato perde vuoi il diritto di gestire e amministrare (se non in quanto custode) il bene pignorato, vuoi il diritto di far propri i relativi frutti civili.
Fermo restando che, ai sensi dell’art. 559 c.p.c, col pignoramento il debitore è costituito custode dei beni pignorati e che, su istanza del creditore, può essere nominato custode un terzo, anche nell’ipotesi in cui il locatore-proprietario resti custode, lo stesso comunque "dopo il pignoramento, perde la legittimazione sostanziale sia a richiedere al locatario il pagamento dei canoni... sia per ogni altra azione, perchè, pur permanendo l'identità del soggetto, muta il titolo del possesso da parte sua, in quanto ogni sua attività costituisce conseguenza del potere di amministrazione e gestione del bene pignorato, di cui egli continua ad avere il possesso come organo ausiliario del giudice dell'esecuzione.... E ciò per la semplice ragione che il bene è a lui sottratto per tutelare le ragioni creditorie del terzo, il quale con il pignoramento mostra tutto l'interesse di vedere soddisfatto il suo credito e non vedersi sottratte le somme ricavate".
Il proprietario-locatore di bene pignorato non è quindi legittimato ad esercitare le azioni derivanti dal contratto di locazione concluso senza l'autorizzazione del giudice dell'esecuzione, ivi compresa quella di pagamento dei canoni, poichè la titolarità di tali azioni non è correlata ad un titolo convenzionale o unilaterale (il contratto di locazione o la proprietà) ma spetta al custode, in ragione dei poteri di gestione e
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amministrazione a lui attribuiti e della relazione qualificata con il bene pignorato derivante dall'investitura del giudice.
D’altra parte l’art. 560 c.p.c. prevede che solamente il giudice dell'esecuzione possa autorizzare il contratto di affitto di un bene pignorato, dato che i canoni, ossia i frutti del bene immobile locato, andranno ridivisi fra tutti i creditori procedenti.
NEWS
NOTIFICA VIA PEC DEL TITOLO ESECUTIVO
Il Tribunale di Roma, con ordinanza del 3 giugno 2016, ha rilevato la nullità della notifica telematica del titolo esecutivo effettuata nei confronti dell’ente debitore a causa della mancata indicazione nella relata di notifica del pubblico elenco dal quale era stato tratto l’indirizzo PEC del destinatario.
La questione è stata ritenuta rilevabile d’ufficio considerando che la nullità della notifica del titolo incide sul decorso del termine dilatorio ex art. 14 d.l. 31 dicembre 1996, n. 669, a mente del quale “le amministrazioni dello Stato e gli enti pubblici non economici completano le procedure per l'esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali e dei lodi arbitrali aventi efficacia esecutiva e comportanti l'obbligo di pagamento di somme di danaro entro il termine di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo. Prima di tale termine il creditore non può procedere ad esecuzione forzata né alla notifica di atto di precetto”.
Per questi motivi, il Giudice ha disposto il rinvio dell’udienza invitando il creditore procedente a dedurre sulla questione della nullità così come rilevata nel provvedimento.
CALCOLO DELL’USURA
Banca d’Italia ha pubblicato i tassi di interesse effettivi globali medi (TEGM) ai sensi della legge sull’usura n. 108 del 1996 in vigore per il periodo dal 1° luglio al 30 settembre 2016.
Per quanto riguarda le principali variazioni ai TEGM rispetto al primo trimestre del 2016: sono in diminuzione i tassi del leasing autoveicoli e aeronavali fino a 25.000 euro e del leasing immobiliare a tasso fisso (-70 bp); risultano invece in aumento i tassi del credito revolving oltre 5.000 euro.
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DIRITTO BANCARIO
Avv. Daniele Franzini
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L BURDEN SHARING NON VIOLA IL DIRITTO DELL’U
NIONELa Corte Europea di Giustizia dà ragione alla Commissione europea quando impone perdite agli azionisti e agli obbligazionisti subordinati, in occasione di un salvataggio pubblico di un istituto di credito.
Non viola il diritto dell’Unione la ripartizione degli oneri tra azionisti e creditori subordinati in vista dell’autorizzazione, da parte della Commissione, degli aiuti di Stato a favore di una banca sottocapitalizzata.
La sentenza del 9 luglio 2016 (Causa C-526/14) riguarda il salvataggio pubblico nel 2013 di cinque banche slovene, con il contributo degli investitori, come previsto dalle regole comunitarie.
La presa di posizione giunge mentre il governo italiano sta negoziando con Bruxelles un delicato pacchetto di aiuti al settore creditizio.
Nell’agosto del 2013, una comunicazione della Commissione europea ha introdotto il principio del Burden sharing, che impone perdite agli azionisti e agli obbligazionisti subordinati, in occasione di un salvataggio pubblico di un istituto di credito.
Con la sentenza in commento, la Corte di Giustizia europea ha deciso sul primo ricorso sollevato dalla Corte Costituzionale Slovena, in tema di salvataggi bancari da parte di azionisti e obbligazionisti subordinati, esprimendosi di fatto sulla validità e l’interpretazione delle disposizioni contenute nella comunicazione della Commissione e le misure previste dal bail in, che subordinano la concessione degli aiuti di Stato alla condivisione degli oneri di azionisti, obbligazionisti e correntisti oltre 100 mila euro.
La Corte non lascia dubbi a interpretazioni poiché afferma che la comunicazione della Commissione sugli aiuti al settore bancario è valida, precisando che le linee-guida comunitarie non vincolano il paese membro, bensì la Commissione europea; il paese membro non è quindi di per sé obbligato a imporre un contributo agli investitori prima della concessione di un aiuto pubblico, ma si espone al rischio di vedersi opporre una decisione della Commissione che dichiari l’incompatibilità di tali aiuti con il mercato interno.
Infatti le misure di burden sharing, secondo la sentenza, devono servire a ridurre l’aiuto pubblico per quanto possibile. Sempre secondo la Corte, una diversa soluzione rischierebbe di provocare distorsioni della concorrenza, in quanto le banche, i cui azionisti e creditori subordinati non avessero contribuito alla riduzione del deficit di capitale, riceverebbero un aiuto di Stato maggiore rispetto a quanto sarebbe stato sufficiente per colmare il residuale deficit di capitale.
Inoltre, secondo la Corte, la circostanza che, nel corso delle prime fasi della crisi finanziaria internazionale, i creditori subordinati non siano stati invitati a contribuire al salvataggio degli istituti di credito, non consente ai creditori medesimi di avvalersi del principio di tutela del legittimo affidamento.
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Ciò in quanto gli operatori economici non possono fare legittimamente affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle istituzioni dell’Unione, specialmente in un settore come quello degli aiuti di Stato, il cui oggetto implica un costante adattamento in funzione dei mutamenti della situazione economica.
Peraltro, poiché gli azionisti sono responsabili per le passività della banca fino a concorrenza del capitale sociale della stessa, il fatto che la comunicazione sul settore bancario richieda che, per rimediare alla sottocapitalizzazione di una banca, prima della concessione di un aiuto di Stato, detti azionisti contribuiscano a coprire le perdite subite della stessa nella medesima misura che si proporrebbe in assenza di un simile aiuto, non si può considerare una compromissione del loro diritto di proprietà.
Le regole europee prevedono delle eccezioni alla regola del burden sharing, in caso di impatto sproporzionato o rischi finanziari: anche se “valida” - spiega la Corte - la comunicazione della Commissione Ue sui salvataggi bancari, "non dispensa la Commissione dall'obbligo di esaminare le specifiche circostanze eccezionali che uno stato membro invoca".
Gli stati membri, quindi, conservano la facoltà di notificare a Bruxelles progetti di aiuti di stato che non soddisfano i criteri e la Commissione può autorizzarli in circostanze eccezionali.
In particolare, uno stato membro non è obbligato ad imporre alle banche in difficoltà, prima della concessione di un aiuto di stato, di convertire in capitale i titoli subordinati o di svalutarli, né di impiegare integralmente tali titoli per assorbire le perdite. Tuttavia, in tal caso, non si potrà ritenere che l'aiuto di stato sia stato limitato al minimo necessario e lo stato membro, come le banche beneficiarie degli aiuti pubblici, si assume il rischio di vedersi opporre una decisione della commissione che dichiari l'incompatibilità di tali aiuti con il mercato interno.
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CONTRATTO BANCARIO
Il contratto bancario è valido anche in assenza della sottoscrizione da parte della banca proponente, qualora abbia avuto regolare esecuzione negli anni, come risulta, a titolo esemplificativo, dal periodico invio degli estratti conto al cliente.
Lo ha stabilito il Tribunale di Ravenna, con la sentenza n. 519/2016, chiarendo che in questi casi il requisito della forma scritta deve ritenersi comunque integrato, non potendosi accordare tutela al contraente che
«maliziosamente abusando di una posizione di vantaggio conferita dalla legge e della buona fede contrattuale, censura come nullo un contratto bancario eseguito per anni senza contestazioni da entrambe le parti».
La pronuncia si riferisce alla domanda di una società che lamentava l'illegittima applicazione di interessi ultralegali, anatocistici e commissioni di massimo scoperto in assenza di un valido contratto scritto, chiedendo la rideterminazione del saldo finale e la condanna della banca alla restituzione di quanto dovuto.
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Per il giudice, al contrario, la richiesta non può essere accolta in quanto le disposizioni richiamate vanno lette in combinato disposto con l'articolo 127, comma 2 T.U.B., che qualifica la nullità per carenza di forma scritta come relativa, potendo essere fatta valere solo dal cliente, in quanto la sanzione di nullità è prevista a protezione del correntista e non anche della banca.
Ciò vuol dire, argomenta la sentenza, che «l'introduzione di tali stringenti requisiti formali discende dell'esigenza di protezione del contraente debole nei confronti della banca». Se, dunque, prosegue il tribunale, «il fine della norma è la protezione del correntista contraente debole, qualora risulti, come nella specie, la predisposizione del contratto da parte della banca stessa, la firma del correntista e la consegna del contratto al cliente, allora la sottoscrizione della Banca non sarebbe nemmeno necessaria» (Corte di Appello di Torino, n. 595/2012). L'approvazione scritta da parte del cliente rende infatti non necessaria l'ulteriore approvazione del proponente, «dal momento che la volontà negoziale è già espressa nel documento da lui predisposto» e «la mera carenza formale di firma non potrebbe in ogni caso legittimare la banca né ad impugnare il contratto né a sottrarsi alle regole in esso sancite» (Tribunale Milano, n. 14268/2013).
CENTRALE RISCHI
Pubblicato il 15° aggiornamento del giugno 2016, con ristampa integrale, della Circolare Banca d’Italia n.
139 dell’11 febbraio 1991 sulla “Centrale dei rischi. Istruzioni per gli intermediari creditizi”.
Con l’aggiornamento, viene realizzato un intervento di semplificazione delle fonti normative che regolano il funzionamento della Centrale dei rischi ed è operata una parziale riorganizzazione della struttura della Circolare.
Nella disciplina sono pertanto confluite le disposizioni del Provvedimento della Banca d’Italia del 3 aprile 2015 - “Intermediari finanziari tenuti alla partecipazione al servizio di centralizzazione dei rischi gestito dalla Banca d’Italia”, che viene conseguentemente abrogato.
Vengono inoltre inserite nella Circolare le istruzioni per la segnalazione mensile e inframensile dei crediti passati a perdita e delle operazioni di cessione tra intermediari e fornite alcune precisazioni, in materia, tra l’altro, di maturity factoring, operazioni di apertura di credito documentario all’importazione e crediti contestati e comunicazione preventiva destinata al cliente consumatore.
In particolare, gli aggiornamenti al modello di rilevazione interessano:
- le modalità segnaletiche relative alle operazioni di factoring o di cessione tra banche e/o intermediari finanziari di crediti acquisiti nell’ambito dell’attività di factoring (cc.dd. ricessioni);
- l’introduzione di una specifica evidenza delle perdite derivanti da cessione;
- i casi in cui è dovuta la segnalazione inframensile di sofferenza o della relativa estinzione;
- i casi in cui è dovuta la segnalazione delle perdite su crediti a sofferenza.
Le novità segnaletiche decorrono dalla rilevazione riferita al mese di gennaio 2017.
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INTERNET E PROPRIETÀ INTELLETTUALE Avv. Alessandro La Rosa
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UBBLICAZIONE ABUSIVA DI PROGRAMMI TV MEGAVIDEO CONDANNATA PER 12 MILIONI DI EURO.LA PIATTAFORMA È RESPONSABILE DELLE VIOLAZIONI DEI DIRITTI AUTORIALI DI TERZI.
Con sentenza dello scorso 15 luglio, la Sezione Impresa del Tribunale di Roma, ha confermato in tema di responsabilità degli intermediari un orientamento che ormai può dirsi consolidato. Facendo seguito alle recenti decisioni della stessa Sezione Impresa contro le piattaforme Break Media e Kit Digital (già commentate, rispettivamente, qui e qui), medesimo trattamento è spettato alla società Megavideo LTD, avente sede legale ad Hong Kong, e gestore dell’omonima piattaforma digitale dedicata allo streaming
“pirata” di contenuti audiovisivi protetti.
Per i giudici romani la condotta di Megavideo consistente nel diffondere, senza autorizzazione, i programmi televisivi di titolarità di Reti Televisive Italiane s.p.a. (Gruppo Mediaset) è stata ritenuta gravemente lesiva dei diritti esclusivi di utilizzazione economica del broadcaster. Da qui l’ingente condanna al pagamento, a titolo di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, di un importo pari ad oltre dodici milioni di euro per l’abusiva diffusione di circa 16.000 minuti di emesso, estratto da note trasmissioni di RTI, ed Euro 60.000,00 a titolo di spese di lite. Il Tribunale ha inoltre fissato, una penale di euro 1.000,00 per ogni futura violazione e per ogni giorno di permanenza abusiva dei materiali audiovisivi.
Nel merito, la sentenza conferma integralmente i principi già affermati nelle precedenti decisioni, sottolineando con più incisività come una realtà quale quella di Megavideo non possa essere equiparata ad una piattaforma di mera condivisione, ma piuttosto, ad un portale organizzato, dotato di strumenti che consentono una scelta mirata di contenuti, cui, per altro, sono collegati messaggi pubblicitari mirati: “un sistema così meticolosamente organizzato ed in continua evoluzione è del tutto incompatibile con la figura del semplice hosting, rappresentando un sofisticato content-provider che fornisce contenuti di intrattenimento digitale distribuendo i diversi video nelle rispettive categorie indicate nell’home page e collegando ad essi i diversi messaggi pubblicitari, cercando di fidelizzare i clienti tramite l’offerta di abbonamenti per evitare il limite temporale di visone dei video presenti sulla piattaforma”. I giudici confermano così anche il principio della “conoscenza effettiva” dell’illecito da parte del provider che non presuppone affatto la specifica indicazione di ogni URL per la localizzazione dell’illecito.
Tra i profili di novità rispetto alle precedenti pronunce, l’introduzione di ulteriori criteri per il risarcimento del danno; seppur ribadito il criterio del prezzo del consenso, valutato per euro/minuto, la pronuncia riconosce espressamente ad RTI il diritto al risarcimento del danno morale, ritenendo che i comportamenti contestati possano integrare le specifiche ipotesi di reato di cui all’art. 171 ter (I e II comma) Lda, quantificato nella misura del 10% sul danno patrimoniale.
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AGCOM:
IL50%
DEI SITI OGGETTO DI ORDINI DI DISABILITAZIONE SFRUTTANO I SERVIZI DI ANONIMATO IN RETEIl 5 luglio scorso, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (“AGCOM”) ha presentato al Parlamento la Relazione annuale 2016 sull’attività svolta e sui programmi di lavoro, illustrando dati e rendiconti
sull’attività svolta tra il mese di maggio 2015 ed aprile 2016, anche in relazione alla promozione della cultura e tutela del diritto d’autore online.
Dalla Relazione è emerso che “a due anni dall’entrata in vigore del Regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sono pervenute 493 istanze valide (209 nel periodo aprile 2014 - aprile 2015 e 284 nel periodo maggio 2015 - aprile 2016, con un incremento di circa il 36%), pari, in media, a circa 21 istanze mensili”.
Gli adeguamenti spontanei da parte degli operatori coinvolti sono stati 123 (pari al 37% del totale dei procedimenti avviati), mentre gli ordini di disabilitazione dell’accesso sono stati 167 (pari al 50% del totale dei procedimenti avviati), mediante blocco del Domain Name System (DNS), rivolto ai prestatori di servizi di mere conduit operanti sul territorio italiano.
In merito ai siti oggetto di ordine di blocco del DNS, l’AGCOM ha chiarito che i detti siti ospitano
“principalmente film, serie tv e musica (italiana e straniera): a questi procedimenti é stato attribuito un carattere di urgenza tenuto conto dell’estensione della violazione –che coinvolge migliaia di opere– e dalla
necessità di arginare in tempi rapidi il danno economico della pirateria su opere diffuse di recente sui mercati di riferimento. A queste si aggiungono le partite di calcio del Campionato di serie A e di altre competizioni calcistiche, che hanno interessato il 14% circa degli ordini di disabilitazione dell’Autorità”.
AGCOM, infine, ha dato espressamente atto del fatto che “la natura stessa delle opere oggetto di violazione, trattate con riti abbreviati, palesa un tipo di violazione che non riguarda la libertà di espressione o l’errore accidentale di qualche singolo utente: sono tutti casi in cui da parte dei trasgressori
vi e una chiara intenzione di speculazione per motivi meramente economici, avvalendosi anche, nel 46,5%
dei casi di disabilitazione dell’accesso, di società specializzate nella fornitura di servizi di anonimato in rete e di sistemi di mascheramento dei dati dell’utente”.
NEWS
IL GOVERNO: PER COMBATTERE LA PIRATERIA MAGGIORE RESPONSABILITÀ PER GLI INTERMEDIARI E GLI OPERATORI DELLE RETI ELETTRONICHE
Il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega agli Affari Europei, Sandro Gozi, lo scorso 26 luglio ha risposto alla Camera dei Deputati all’interrogazione presentata dall’On.le Davide Baruffi in merito alla posizione assunta dal Governo nell’ambito della consultazione avviata dalla Commissione Europea sulla responsabilità dei provider, con particolare riguardo alle misure per il contrasto della contraffazione e alla pirateria.
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Il Sottosegretario Gozi, nel corso del suo intervento, ha “ribadito che per un'efficace tutela del diritto d'autore nell'era digitale occorre bilanciare l'accesso alla conoscenza e all'informazione con la necessità,
per gli autori e gli altri titolari di diritti sulle opere dell'ingegno, di ottenere tutela giuridica e un'adeguata remunerazione da parte degli utilizzatori, nel rispetto delle diversità culturali e favorendo la crescita economica, chiamando ad un ruolo più deciso, anche in termini di responsabilità, gli intermediari e gli operatori delle reti elettroniche”.
KICKASS TORRENT CHIUSO ALL’ESITO DI UN’ARTICOLATA OPERAZIONE DI POLIZIA
Kickass Torrents, che con oltre 50 milioni di utenti al mese è stato per anni uno dei più noti siti di peer-to- peer, è stato chiuso all’esito di un’articolata indagine condotta negli Stati Uniti a carico del suo fondatore, Artem Vaulin, accusato di aver distribuito illegalmente materiale protetto da copyright. Per raccogliere le prove dell’illecito, gli investigatori si sono finti inserzionisti pubblicitari e sono riusciti ad individuare il conto corrente bancario su cui confluivano i proventi di tale attività illecita ed a rintracciarne il responsabile.
NUOVA RELAZIONE SUI MODELLI DI BUSINESS ONLINE CHE VIOLANO I DIRITTI DI PROPRIETÀ INTELLETTUALE
Lo scorso 26 luglio l’EUIPO ha pubblicato una relazione sui modelli di business online che violano i diritti di proprietà intellettuale. Tale ricerca presenta una panoramica di 25 differenti modelli di business che violano i diritti autorali ed offre una migliore comprensione del fenomeno con l’obiettivo di aiutare ad individuare le risposte necessarie per arginare il fenomeno della pirateria online.
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DIRITTO SOCIETARIO E COMMERCIALE Avv. Milena Prisco
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REXIT:
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IMPATTO SULLE OPERAZIONI DIM&A
La Brexit potrebbe produrre un considerevole impatto sulle operazioni di M&A transfrontaliere che coinvolgono società inglesi, determinando la necessità di adoperare una serie di precauzioni a tutela degli acquirenti nella esecuzione della due diligence e nella redazione dei contratti. L’incertezza sui termini di una possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea impone una disanima delle clausole contrattuali maggiormente influenzate dagli effetti della Brexit.
Oggi non si conosce quale sarà lo scenario che gli operatori e gli attori del mercato privato dell’M&A (es.
imprenditori, professionisti, investitori) si troveranno a fronteggiare al momento della Brexit. E’ sicuramente ancora prematuro poter pronosticare quali saranno i termini dei una possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea che impatteranno soprattutto sulla normativa nazionale di derivazione comunitaria (es.
antitrust, IP, servizi finanziari, diritto del lavoro). C’è di certo che nel medio periodo ed in prossimità dell’uscita dall’Europa le operazione di M&A, così come qualsiasi contratto commerciale, che coinvolgono società britanniche dovranno essere impostate tenendo conto proprio delle possibili conseguenze di carattere normativo e finanziario che ne potrebbero conseguire soprattutto in quei settori che più degli altri potrebbero scontare un importate impatto regolamentare (es. settore finanziario, assicurazioni, biomedicale, consumers googds).
Le operazioni di M&A ad oggi in corso e con contratti già formalizzati prima del voto referendario non dovrebbero subire alcun impatto, al contrario delle operazioni che da questo momento in poi verranno 90uàè970è7negoziate e che potranno essere completate a cavallo o successivamente alla Brexit.
Le precauzioni non saranno mai troppe a cominciare dalla due diligence, che dovrà essere svolta anche nell’ottica di esaminare e valutare gli asset e i rapporti contrattuale che fanno capo alla target inglese in chiave Brexit, al fine di predisporre adeguate garanzie e clausole di indennizzo. Innanzitutto, occorrerà verificare se la non applicazione o una applicazione diversa alla Gran Bretagna di normative e regolamenti comunitari impattino sul fronte delle autorizzazioni della target a condurre il proprio business nonché sui costi di gestione dello stesso. Deve essere alta la soglia di attenzione per i contratti che prevedono il diritto di way out della controparte per il caso di cambiamenti di legge o disposizioni delle autorità. Il rimedio è rappresentato da clausole che impongano alla target l’adeguamento dei contratti in essere ad eventuali modifiche legislative e regolamentari per evitare di incorrere in inadempimenti contrattuali, pena meccanismi di manleva e indennizzo o penali a favore dell’acquirente. Inoltre, in presenza di finanziamenti comunitari in corso occorrerà verificarne la permanenza in capo alla target anche quale soggetto non più comunitario. I contratti di licenza e distribuzione con esclusive su base territoriale diversa -a seconda del territorio comunitario o meno- potrebbero richiedere una nuova negoziazione. Ed ancora, una particolare
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attenzione bisognerà riporre nell’esame della proprietà intellettuale della target già soggetta a privativa comunitaria e quella di futura protezione che potrebbe richiedere un aumento dei costi di registrazione dal momento che non sarebbe più possibile ad esempio il ricorso ad un marchio comunitario necessitando a diversi depositi nazionali.
Sul piano contrattuale degli accordi di acquisizione, si potrà minimizzare il rischio di un impatto negativo della Brexit sull’operazione disciplinando con clausole di forza maggiore o con le così dette MAC (Material Adverse Clause) la possibilità che l’acquirente receda dai contratti al verificarsi di specifici eventi quali ad esempio variazioni valutarie della sterlina fissando specifici parametri di riferimento, cambiamenti normativi o provvedimenti di autorità governative che limitano o danneggiano la conduzione del business o creano le condizioni che legittimano una sopravvenuta mancanza di interesse dell’acquirente ad acquisire la target. La previsione di questo tipo di clausole deve poi disciplinare le conseguenze che derivano da una loro attivazione e che possono consistere in rimedi indennitari a favore dell’acquirente oppure l’impegno delle parti a rinegoziare i termini dell’operazione – ove possibile – mediante l’inserimento di clausole così dette di hardship che impongono un termine perentorio per il raggiungimento di un nuovo accordo, pena meccanismi di recesso.
Il profilo antitrust relativo a società che svolgono il proprio business in diversi paesi dell’Unione Europea è fra i temi che più degli altri può comportare l’attivazione di meccanismi di way out o gestioni laboriose di operazioni di fusione. C’è una ragionevole certezza che gli adempimenti propedeutici alla clearance delle Commissione Europea, in relazione ad un’operazione che coinvolge soggetti residenti in più stati membri, non potranno essere svolti da una sola delle parti a beneficio di tutte (principio one-stop-shop) ma dovranno svolgersi difronte alle differenti autorità nazionali con una moltiplicazione dei costi nonché delle relative tempistiche.
Una ultima nota in relazione alla legge applicabile ed al foro competente dei contratti di acquisizione. Non dovrebbe esserci alcun impatto sui due temi dal momento che il diritto internazionale privata garantisce sempre la libertà delle parti di scegliere la legge applicabile al contratto. Sul fronte della giurisdizione, la scelta di un foro competente britannico non viene pregiudicata dal momento che la Gran Bretagna è sottoscrittrice della Convenzione dell’Aija che consente l’assoggettamento ai suoi principi anche a stati che ne chiedessero l’applicazione indipendentemente dalla appartenenza alla Unione Europe; così come resta salvo il ricorso all’arbitrato dal momento che alla Gran Bretagna si applica la Convenzione di New York, la cui applicazione non subirà effetti di sorta.
NEWS
NELLE S.R.L. LE CLAUSOLE DI LOCK UP HANNO “VITA LUNGA”
Cade il tabù delle clausole statutarie di lock up che determinano l’intrasferibilità delle quote delle s.r.l. per oltre 2 anni senza consentire il diritto di recesso ai soci, che intendessero cedere la loro partecipazione. La recente massima n. 152, 17 maggio 2016, del Consiglio Notarile di Milano ha stabilito che solo una
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intrasferibilità assoluta delle quote, con un divieto della circolazione della partecipazione senza limiti ed eccezioni, costituirebbe una legittima causa di recesso del socio altrimenti “blindato” nella compagine sociale. La possibilità di introdurre divieti di circolazione anche più lunghi di 2 anni è prassi consolidata a livello parasociale ma non statutaria; tuttavia questa massima sdogana nello statuto le clausole di lock up di durata media lunga, senza incorrere nella gravosa conseguenza del recesso ad nutum, che sono funzionali al mantenimento della compagine sociale iniziale, almeno per un determinato periodo di tempo.
Quindi via libera a clausole di intrasferibilità non assoluta, come potrebbero essere le clausole che facessero divieto di trasferire solo parte della partecipazione posseduta imponendo il necessario trasferimento dell’intera partecipazione o quelle che prevedessero il trasferimento solo a favore di determinate categorie di soggetti, o quelle che vietassero i trasferimenti con corrispettivi in natura o comunque diversi dal denaro. In tutte queste ipotesi, la disposizione statutaria che escludesse il recesso senza limiti di tempo -o comunque per un periodo di tempo superiore a due anni- sarebbe dunque legittima.
AUMENTI DI CAPITALE A TITOLO GRATUITO E LE CLAUSOLE DI ANTI-DILUIZIONE
Le clausole di anti-diluizione trovano uno strumento di legittimazione forte nelle previsioni statutarie che ai sensi dell’art. 2468, comma 3, c.c., attribuiscono a uno o più soci (eventualmente, in aggiunta al privilegio sugli utili e/o riserve in distribuzione) il diritto di ottenere in sede di aumento gratuito del capitale sociale un incremento più che proporzionale rispetto alla propria quota di partecipazione al capitale sociale. Tanto si deduce applicando alle clausole di anti-diluizione la massima 159, 17 maggio 2016, del Consiglio Notarile di Milano secondo cui i diritti particolari attribuiti ai soci possono riguardare la distribuzione non soltanto degli utili dell’esercizio corrente, bensì anche delle riserve di utili di esercizi precedenti, riportati a nuovo.
Tecnicamente questo può avvenire attraverso l’ imputazione a capitale delle poste patrimoniali coinvolte mediante un aumento di capitale a titolo gratuito, trattandosi semplicemente di modalità di utilizzo di riserve di utili, entrambe ammissibili al fine di soddisfare i particolari diritti di che trattasi. Unica condizione è che per l’introduzione, la modifica e la soppressione di una siffatta clausola occorre il consenso unanime dei soci, ai sensi dell’art. 2468, comma 4, c.c. Questo diritto particolare diventa lo strumento con cui viene assicurata al socio beneficiario di un accordo di anti-diluizione la sua effettiva praticabilità anche su base statutaria.
CINA: LA “GIUSTIZIA 3.0” PER UN CONTENZIOSO VELOCE
È stato appena varato il programma di miglioramento del sistema giudiziario che passerà attraverso una riforma informatica dei processi volto a migliorare la tutela accordata alle parti e a garantire velocità delle procedure. Il Presidente della Supreme People’s Court of the People’s Republic of China (SPC), Zhou Qiang, ha promesso di dare celere avvio alla riforma 3.0 della giustizia cinese, intervenendo sia sulla modernizzazione del sistema probatorio che sul miglioramento dell’intero impianto giudiziale. La certezza nella applicazione del diritto è, infatti, un tema ancora molto sensibile per le migliaia di aziende straniere che intessono regolarmente relazioni commerciali con realtà Cinesi. Non a caso Zhou ha fortemente voluto che il
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momento di inizio del modello di Giustizia 3.0 coincidesse con il 2016, anno che segna l’avvio del 13 esimo Piano Quinquennale Cinese. Le Corti giudiziarie saranno tenute ora a lavorare congiuntamente con la SPC al fine di implementare il già esistente sistema informatico così da favorire una più rapida definizione delle dispute e velocizzare il sistema giudiziario Cinese. Per volontà di Zhou Qiang la riforma della Giustizia 3.0 dovrà passare per una razionalizzazione dei big data ricavabili dalle procedure giudiziarie ed una maggiore attenzione in generale alla sicurezza informatica.