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Table of Contents 111 ERRORI DI TRADUZIONE. 1) Quel frutto proibito. Anzi sconosciuto

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Table of Contents 111 ERRORI DI TRADUZIONE

1) Quel frutto proibito. Anzi sconosciuto

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2) Un pomo un po’ troppo invadente

3) Salvatore Quasimodo traduce il Vangelo di Giovanni 4) Il Dio vendicativo

5) Mi chiamo Giuseppe e faccio il falegname 6) Non uccidere?

7) Quell’oscuro desiderio del Decalogo

8) Eunuchi per il regno dei cieli. O della Chiesa 9) Le corna di Mosè

10) Separare, non creare

11) Quel pericoloso terrorista chiamato Cristo 12) Barabba? Chi era costui?

13) La donna fu creata da una costola dell’uomo?

14) La croce o il palo?

15) Come il bue e l’asinello diventarono gli animali che conosciamo 16) Giona e la zucca

17) Agostino, Adamo e quel greco vacillante 18) Di che colore era il Mar Rosso?

19) Quel cammello ingombrante 20) Virginity in translation

21) Fratelli o cugini? L’arcano della famiglia di Gesù 22) Per un avverbio in più

23) Rocce, massi, anzi sassolini

24) La Chiesa difende sempre lo status quo?

25) Quei greggi che non sono ovili 26) E gli dèi divennero uno

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27) Unicorni. Esistono davvero?

28) La tana dell’unicorno 29) Gesù e l’omosessualità 1 30) Gesù e l’omosessualità 2

31) Prostituta, sodomita. Anzi, sacerdote 32) Metti la mano sotto la mia coscia!

33) Gesù. Il Nazareno che non era di Nazareth 34) Miscellanea biblica

35) Il catechismo “rock” pieno di errori 36) La Sindone era un lenzuolo?

37) San Cristoforo Cinocefalo 38) I giganti che scesero sulla terra 39) Le vergini dal sapore di uva

40) Quando una “i” in più fa la differenza 41) Quell’inciso galeotto

42) Quando l’errore diventa arte diplomatica

43) Quell’articolo che non torna: l’Italia e il Trattato di Uccialli 44) Noi vi seppelliremo. O forse no

45) Discorsi equivoci

46) L’ambiguo Trattato di Waitangi

47) La madre di tutti gli errori di traduzione 48) Mokusatsu

49) Il mio desiderio è carnale

50) Kennedy e la verità sul krapfen di Berlino 51) Incidente diplomatico in Sudan

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52) Impressionante, davvero. Anzi mediocre

53) Disavventure linguistiche di un segretario di Stato 54) E le macchine tradirono l’uomo

55) Small people, ovvero come la British Petroleum si è fatta male da sé 56) Vatti a fidare degli interpreti

57) Medicine poco salutari 58) Interpreti di (s)fortuna 59) Il caso Akter Yesmin 60) Gazzose indigeste

61) Un colpevole per un omicidio. Ma è innocente 62) Intercettazioni romanzesche

63) I terroristi che volevano mettere a ferro e fuoco Roma dopo averla avvelenata 64) Condannati per una tonnellata di… melagrane

65) La terribile peste nera 66) La miopia di Nerone 67) Propaganda di guerra 1 68) Propaganda di guerra 2

69) E divenne dio per un errore di interpretazione 70) Sbagli una pronuncia e ti trovi il morto in casa 71) La crociata dei fanciulli che non erano fanciulli 72) Casablanca o Casa blanca?

73) Attenti alla tosse in Francia

74) Missione compiuta! Ma era un errore di traduzione 75) Votare per la libellula!

76) Yucatàn? Ma questo come parla?

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77) Canguri? Cosa? Non capisco!

78) Shibboleth 1 79) Shibboleth 2 80) Shibboleth 3

81) Mens sana in corpore sano?

82) La piazza che era bella e che divenne rossa

83) Un errore che ha mandato una lingua… nel pallone 84) La Terra di Lavoro dove il lavoro non c’è

85) Zì, Miz Rozella 86) Errori da milionario

87) Errori alla radio

88) Ci sono alieni su Marte?

89) Freud, Leonardo e il nibbio che non voleva saperne di essere un avvoltoio 90) Uno sbaglio che ti cambia la vita

91) Harry Potter e il medaglione misterioso 92) Quelle scomode scarpe di cristallo

93) Il fascino di una traduzione “sbagliata”

94) Il re degli ontani…, pardon, degli elfi 95) Qui sta il busillis

96) Per una traduzione Martin perse la cappa

97) Imputato Geoffrey Chaucer: stupratore o sequestratore?

98) Millenari equivoci filosofici 99) Sangue reale?

100) Attenti al marketing 1 101) Attenti al marketing 2

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102) Questione di colore

103) L’errore che spogliò la reginetta del suo titolo 104) Il poligono dei veleni di Quirra

105) Come ostacolare la ricerca medica con un errore di traduzione 106) Un’isola... dei cavoli

107) Un dono per sbaglio

108) Un errore di pronuncia e scatta l’amore 109) La saggezza dei proverbi

110) La direzione di un pollice

111) Il colmo degli errori di traduzione Conclusione

ROMOLO GIOVANNI CAPUANO

111 ERRORI DI TRADUZIONE CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO

ERETICA SPECIALE - STAMPA ALTERNATIVA COLLANA DIRETTA DA MARCELLO BARAGHINI

CONTRO IL COMUNE SENSO DEL PUDORE, CONTRO LA MORALE CODIFICATA, CONTROCORRENTE. QUESTA COLLANA VUOLE ABBATTERE I MURI EDITORIALI CHE

ANCORA SEPARANO E NASCONDONO COLORO CHE NON HANNO VOCE. SIANO I MURI DI UN CARCERE O QUELLI, ANCORA PIÙ INVALICABILI E RESISTENTI, DELLA

VERGOGNA E DEL CONFORMISMO.

(7)

“Fronte della Comunicazione”, il nostro blog per discussioni e interventi collettivi: www.stampalternativa.it/wordpress

“Libera Cultura”: la collana online che raccoglie i libri storici e le novità, liberamente diffusi con licenza Creative Commons:

www.stampalternativa.it/liberacultura

© 2013 STAMPA ALTERNATIVA/NUOVI EQUILIBRI CASELLA POSTALE 97 – 01100 VITERBO

fax: 0761-352751

e-mail: ordini@stampalternativa.it sito web: www.stampalternativa.it contatti: redazione@stampalternativa.it

Prima edizione cartacea: Aprile 2013 - ISBN 978-88-6222-345-4 Prima edizione ePub: Dicembre 2013 - ISBN 978-88-6222-392-8

ROMOLO GIOVANNI CAPUANO

111 ERRORI DI TRADUZIONE CHE HANNO CAMBIATO

IL MONDO

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Romolo Giovanni Capuano, sociologo, criminologo, traduttore. Ha

pubblicato, fra l’altro, Oracoli Quotidiani. Cos’è e come funziona la profezia che si autoavvera, Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia. Per Stampa Alternativa ha curato la traduzione di Una modesta proposta... di Jonathan Swift ed è autore di Elogio del turpiloquio.

Sito web personale: http://www.romolocapuano.com

Per segnalare altri errori di traduzione che hanno cambiato il mondo:

romolo.capuano@gmail.com Introduzione

Un tempo tradurre una parola della Bibbia in un modo piuttosto che in un altro poteva costare la vita. Uomini come Wycliffe e Tyndale ebbero molti problemi con la Chiesa per le loro traduzioni. Nel 1428, i resti del corpo di John Wycliffe, che pure era morto di morte naturale nel 1384, furono riesumati e bruciati, mentre le sue ceneri furono sparse nel fiume Swift, dopo che il Consiglio di Costanza (1415) lo ebbe dichiarato eretico. Pure i suoi libri furono bruciati. La Chiesa non gli aveva perdonato di aver tradotto la Bibbia.

Anche l’umanista, tipografo, editore e traduttore francese Etienne Dolet pagò per le sue opere: nel 1546 fu condannato al rogo per ateismo, blasfemia, sedizione e pubblicazione di libri proibiti. Fra l’altro, per aver tradotto uno dei dialoghi di Platone. Secondo l’accusa, la sua traduzione instillava nel lettore la sfiducia nell’immortalità dell’anima.

Eccessi degli antichi, direte. Oggi le cose vanno molto meglio. Se non che...

1988. Salman Rushdie pubblica i suoi Versetti satanici, un libro che ben presto diviene un bestseller mondiale. A guastare le cose interviene una fatwa, che condanna a morte lo scrittore e tutti quelli che hanno a che fare con il suo libro.

I Versetti satanici sono giudicati blasfemi e, in quanto tali, punibili con la sanzione estrema. Guai a chi osa tradurre o far tradurre il libro maledetto. Il traduttore giapponese Hitoshi Igarashi è assassinato a coltellate l’11 luglio 1991.

L’editore francese Christian Borgois e la sua famiglia vivono per mesi protetti dalla polizia. Il traduttore italiano scampa a molte coltellate nel 1991. Il

traduttore turco si salva a stento. L’editore norvegese William Nygaard è ferito con tre colpi di proiettile l’11 ottobre 1993. Varie morti si verificano in India,

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Pakistan ed Egitto. Tutto questo a causa del libro.

Casi estremi. Eccezioni che confermano la regola, ripeterete cocciuti. Ma la regola qual è?

Qualche anno fa mi trovavo a un convegno in cui uno dei relatori parlava in inglese di gufi, civette e altri animali della notte. Improvvisamente, dietro di lui, viene proiettata l’immagine di un enorme barbagianni. Barnowl dice

correttamente il relatore. “Gufo” traduce malamente l’interprete (“gufo” in inglese si dice owl). Dalla platea si alza uno spettatore inviperito. «Buffone»

grida contro il palco. «Quello è un barbagianni, non un gufo». Ci vuole tempo per spiegargli che si è trattato di un errore di traduzione. La tensione nell’aria farà fatica a disperdersi. Tutto per un banale errore di traduzione.

La verità è che per un errore di traduzione si può morire. O compromettere qualcosa di importante. Come dimostrano le storie (vere) di cui si occupa questo libro. Che parla di parole di una lingua rese malamente in un’altra, cattive

trascrizioni, virgole spostate, parole travisate o udite male. Intenzionalmente o casualmente. Errori reali o presunti. Sviste che hanno causato terremoti, fatto cadere governi, creato inimicizie o favorito accordi. Reso felici o infelici esseri umani.

Non solo.

Leggendo queste pagine, imparerete come, grazie a un errore di traduzione, Nerone sia diventato miope, Lutero abbia inventato una religione, il presidente americano Truman abbia deciso di bombardare il Giappone, alcune persone innocenti siano finite in galera, la gente creda nelle cose più strane e una piazza sia diventata rossa.

«Countries have gone to war after misinterpreting one another», dice Silvia Broome, alias Nicole Kidman, nel bel film di Sydney Pollack The interpreter (2005). Che cosa significa? La traduzione la lascio a voi. Non vorrei commettere errori. Di questi tempi!

Romolo Capuano

111 ERRORI DI TRADUZIONE

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1) Quel frutto proibito. Anzi sconosciuto

Qual è il frutto proibito che Adamo ed Eva mangiarono nel Giardino dell’Eden? La mela, facile. La domanda sembra così banale che perfino un bambino saprebbe rispondere. Sbagliando, naturalmente. Perché la faccenda è più complicata di quanto sembri. Per rendercene conto, basta leggere i passi del libro della Genesi in cui si fa menzione dell’albero del bene e del male, l’albero dal quale proviene il famigerato frutto. In Genesi 2, 9, ad esempio, si legge (Bibbia CEI):

Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male.

Più avanti troviamo:

Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”.

(Gen 2, 16-17)

La scena madre che dovrebbe rivelarci l’identità del frutto proibito è però narrata in Genesi 3, 1-7. Leggiamola con attenzione:

Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di alcun albero del giardino’?”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete’”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare,

gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò.

Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

È inutile che leggiate per l’ennesima volta il brano. Di mela non si parla. E allora perché siamo tanto convinti che il frutto proibito del Giardino dell’Eden sia proprio una mela?

Cominciamo col dire che non sempre si è stati di questo avviso. Nel Testamento di

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Adamo, apocrifo del Vecchio Testamento, Seth domanda al padre Adamo quale sia stato il frutto che ha causato la sua perdizione. E Adamo risponde che è un fico. E un fico si vede rappresentato anche in alcuni monumenti dell’arte cristiana primitiva. Di questa opinione sono inoltre famosi rabbini ebrei. Il buon senso ci dice che, esaminando la rapidità della scena descritta in Genesi 3, 6-7, che

culmina con l’intreccio delle foglie di fico, è probabile che i nostri due progenitori abbiano afferrato la prima cosa a portata di mano per coprirsi. E, dal momento che si trovavano vicino all’albero del bene e del male…

Tuttavia, sulla faccenda, la fantasia umana si è sbizzarrita in forme imprevedibili.

Alcuni rabbini hanno indicato l’uva. Altri il grano (e di grano parlano anche alcuni commentatori musulmani). Il Talmud di Babilonia parla del cedro. Mentre si è ipotizzata anche la melagrana (che, nonostante il nome, non è nemmeno

lontanamente imparentata con la mela), una delle qualità di frutta più coltivate nell’antichità. Comunque sia, si ritiene molto improbabile che il frutto possa essere stato la mela, se non altro per ragioni botaniche. Se accogliamo il

presupposto che il Giardino dell’Eden fosse collocato in una regione del Medio Oriente, qui non c’è un clima favorevole alla crescita della mela che noi

conosciamo.

Torniamo, dunque, alla domanda iniziale. Perché crediamo che il frutto dell’albero del bene e del male sia una mela? Una spiegazione condivisa da molti è che,

quando la Bibbia fu tradotta in latino, la parola malum contenuta in “albero del bene e del male”, che significa sia “male” sia “mela” (anche se la prima è malum, la seconda è malum) abbia indotto qualche copista antico nell’errore di preferire la seconda interpretazione alla prima, con le conseguenze che tutti sappiamo.

Potrebbe essere accaduto nel Medioevo, quando i segni vocalici si affievolirono molto, così che malum venne a indicare indifferentemente sia “mela” sia “male”.

Un’altra ipotesi è che quando, sempre nella versione latina, il serpente dice:

«Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum» («Sarete come Dio, conoscendo il bene e il male»), la parola malum sia, per qualche motivo, retrocessa di quattro righe e si sia venuta a trovare nelle mani di Eva sotto forma di mela.

Per altri l’origine del fatto sarebbe diversa. Secondo Plants of the Bible, di H.N.

Moldenke, un ruolo cruciale lo ebbero gli artisti medievali e rinascimentali. Basti pensare a Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre di Pieter Paul Rubens (1577-1640), nel quale sembra proprio che il frutto che Eva è nell’atto di cogliere sia una mela.

La mela era inoltre, per i popoli pre-cristiani, il simbolo dell’amore e del sesso, nonché della discordia (basti pensare all’omonimo “pomo” che gettò il panico fra

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le dee dell’Olimpo). Tutti simboli negativi per i cristiani e, quindi, facilmente associabili alla “caduta” e alla “perdizione”. Simboli a parte, una cosa è chiara.

Non importa quale fosse il frutto proibito. Ciò che importa è che, almeno secondo la mitologia cristiana, senza di esso, noi non saremmo qui. Allora, grazie mela. O fico. O melagrana. O…

Fonti:

“Albero della conoscenza del bene e del male”, Wikipedia, consultabile all’indirizzo:

it.wikipedia.org/wiki/Albero_della_conoscenza_del_Bene_e_del_Male.

Graf, A., 2002, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Bruno Mondadori, Milano, pp. 28-31.

Kramer, W., Trenkler, G., 1999, Dizionario dei luoghi comuni e delle credenze popolari, Sperling &

Kupfer, Milano, pp. 175-176.

Lapide, P., 2000, Bibbia tradotta Bibbia tradita, EDB, Bologna, p. 89.

2) Un pomo un po’ troppo invadente

I medici lo chiamano “prominenza laringea” e lo descrivono come la sporgenza della cartilagine tiroidea che circonda la laringe. Se non è chiaro di cosa sto

parlando, siete in buona compagnia. Molti avrebbero la stessa difficoltà. Perché la sporgenza in questione è nota a tutti con il nome di “pomo d’Adamo” e

costituisce una delle parti più caratteristiche del collo, compreso quello delle donne. A dispetto del nome, la cartilagine infatti è presente pure nell’altra metà del genere umano, anche se meno visibile. Si sviluppa nella pubertà in

concomitanza con la maturazione della laringe e accompagna le variazioni della voce in questo periodo evolutivo.

Qualsiasi dizionario medico può offrire informazioni irrefutabili sul pomo

d’Adamo e sulle sue funzioni. Più incerta e curiosa, invece, è la storia dell’origine del nome. Secondo una leggenda particolarmente diffusa e scarsamente messa in discussione nonostante la sua improbabilità, la sporgenza deriverebbe da un pezzo della mela proibita che Adamo, su istigazione di Eva, volle assaggiare a dispetto di ogni proibizione divina, e che gli si sarebbe incastrato nel gargarozzo, conferendo così la nota forma alla gola degli uomini che da lì in poi avrebbero popolato la terra. Una leggenda, appunto. Non solo per la sua infondatezza logica e sostanziale, ma anche perché, come abbiamo visto, la stessa identificazione del frutto proibito del Giardino dell’Eden con la mela è spuria, in quanto discende da un errore di traduzione. In realtà, la Bibbia non rivela affatto di che genere fosse il frutto in questione e, nel corso del tempo, eruditi di diversa provenienza culturale ne hanno argomentato in vari modi l’identità, giungendo a conclusioni poco

condivise.

Appurato che il frutto proibito non è una mela, quale può essere allora l’origine

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del termine “pomo d’Adamo”? Secondo il linguista Alexander Gode si tratterebbe di un maldestro errore di traduzione compiuto da qualcuno che pensò di rendere l’espressione ebraica tappuach ha adam, che significa “protuberanza maschile”, con il latino pomum Adami, che divenne poi in italiano “pomo d’Adamo”. L’errore è in parte scusabile se si pensa che adam in ebraico significa sia “uomo” sia

“Adamo”, mentre tappuach può alludere tanto a una “mela” quanto a una

“protuberanza”. Scuse a parte, rimane il fatto che, a causa di questo errore, una banale escrescenza fisica ha acquisito caratteristiche mitologico-religiose durate nel tempo fino a legittimare bizzarre etimologie e improbabili credenze. Per fortuna Adamo non si è mai strozzato con quel pezzo di mela. Altrimenti, non staremmo nemmeno qui a parlarne.

Fonti:

Gode, A., “Just Words”, “The Journal of the American Medical Association”, 21 ottobre 1968, vol.

206, n. 4, p. 1058.

“Adams’ apple”, in Haubrich, W., 2003, Medical Meanings: A Glossary of Word Origins, American College of Physicians, Philadelphia, PA, p. 5.

3) Salvatore Quasimodo traduce il Vangelo di Giovanni

Salvatore Quasimodo, premio Nobel italiano per la letteratura nel 1959, è tra i più noti poeti del XX secolo, iniziatore dell’ermetismo, autore di liriche

straordinarie come Ed è subito sera, Specchio, Rifugio d’uccelli notturni.

Meno nota è la sua attività di traduttore dal latino e dal greco antico, ma anche di autori contemporanei come Pablo Neruda. In particolare, in qualità di

traduttore dal greco, ebbe modo di misurarsi con Saffo e Sofocle, nonché con testi importanti come il Vangelo di Giovanni. Un’esperienza, quest’ultima, quasi misconosciuta dalla critica, ma che ebbe un ruolo importante nella formazione intellettuale e umana del poeta.

In un’intervista d’epoca, ripubblicata nel 2005 sul quotidiano cattolico

“L’Avvenire”, Quasimodo fu invitato a soffermarsi su questa sua traduzione, spiegando le motivazioni che lo avevano condotto a cimentarsi in un compito così difficile e, soprattutto, a commentare un importante errore di traduzione da lui rilevato; un errore che gli costò qualche imbarazzo sia personale sia nei confronti delle autorità ecclesiastiche. La svista si trova nel versetto 5 del capitolo 19 del Vangelo di Giovanni che recita: «Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse loro: “Ecco l’uomo!”»

(Bibbia CEI). Si tratta del famoso Ecce homo! pronunciato da Pilato, oggetto di molteplici discussioni e interpretazioni. Che cosa trovò Quasimodo di così

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imbarazzante in questo verso? Per saperlo, leggiamo il brano dell’intervista in cui il poeta discute la sua straordinaria scoperta.

D. Ha avuto l’‘imprimatur’?

R. Sì, ho avuto l’imprimatur e la traduzione è stata accettata in pieno. Le dirò un particolare: sull’episodio dell’Ecce Homo quando Pilato si affaccia all’ingresso del pretorio e presenta Cristo dopo la flagellazione, ho scoperto che nel testo latino era stato aggiunto un soggetto: et Pilatus come se quelle parole le dicesse lui. Invece in greco c’è: idou anthropos, cioè una espressione pleonastica che vuol dire: eccomi. Non è Pilato che porta fuori Cristo, ma è Cristo stesso che esce con la corona di spine e il manto rosso e dice: eccomi.

D. È un’espressione più drammatica, mi pare; l’hanno accettata?

R. M’hanno detto: “Lei distrugge così tutta una tradizione iconografica”. Ma l’hanno accettata perché il testo greco dice così.

D. Forse un antico amanuense aveva fatto l’interpolazione...

R. Credo che sia stato fatto apposta nella volgata, col tentativo di aiutare Pilato a riconoscere in Cristo, ridotto a quel modo, l’uomo per eccellenza. Ma la frase, così com’è nel testo greco, ha un significato più potente. Cristo stesso si offre alla vista dei nemici, del giudice iniquo, ed è lui che appare il più forte.

D. Lei fino ad ora è l’unico che ha notato questo particolare?

R. L’ho scoperto traducendo.

A questo punto, la domanda sorge spontanea: come mai tanti traduttori prima di Quasimodo non hanno notato questo dettaglio? Eppure, dalla risposta del poeta, appare evidente che l’errore sarebbe dovuto balzare all’occhio semplicemente

“traducendo”. È vero, non si tratta di un errore eccezionale. Il senso della frase rimane più o meno identico. Però, come fanno notare i dotti con i quali

Quasimodo si confronta, la scoperta distrugge “tutta una tradizione iconografica”.

Basta pensare all’Ecce homo di Caravaggio, capolavoro del 1605 circa, che mostra Pilato in primo piano nell’atto di indicare il Cristo. E con la tradizione iconografica, un intero immaginario, religioso e no, tutto centrato sul rapporto tra Pilato e Gesù. Insomma, siamo così sicuri che si tratti di un errore banale? Se la risposta è sì, perché allora non è mai stato corretto da nessun traduttore? Solo per

rispettare la versione affermatasi nella tradizione?

La scelta traduttiva di Quasimodo, per ammissione dello stesso poeta, alla fine riuscì ad avere l’imprimatur (cioè l’autorizzazione) della Chiesa. Ma solo dopo

“lunghissime osservazioni teologiche”, come viene riportato in un altro brano

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dell’intervista. E con grande tribolazione interiore dello stesso poeta il quale, a conclusione delle sue riflessioni, è quasi costretto a scusarsi: «Io comunque non sono ateo, credo che questo l’abbia capito; sono un cristiano e non potrei non esserlo».

Fonti:

“E Quasimodo rif{ il Vangelo”, intervista con Salvatore Quasimodo, pubblicata su l’“Avvenire”

dell’8 maggio 2005, consultabile all’indirizzo:

jesuschrist.it/Pages/it_giovanni_testi_scelti_rari.aspx?arg=46&rec=353.

4) Il Dio vendicativo

I lettori della Bibbia hanno spesso l’impressione che il Dio dell’Antico Testamento e quello del Nuovo siano due entità diverse. Tanto buono e misericordioso appare il secondo quanto crudele e vendicativo sembra il primo. Almeno a giudicare da alcuni passi in cui effettivamente le parole e il comportamento del Dio

veterotestamentario lasciano alquanto sconcertati. Si pensi a Geremia 13, 14 (Bibbia CEI) dove Dio annuncia: «Poi li sfracellerò, gli uni contro gli altri, i padri e i figli insieme. Oracolo del Signore. Non avrò pietà né li risparmierò né per

compassione mi tratterrò dal distruggerli», o a Samuele 15, 3 dove il “Signore degli eserciti” comanda: «Va’, dunque, e colpisci Amalèk, e vota allo sterminio quanto gli appartiene; non risparmiarlo, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini» (Bibbia CEI). Ognuno di noi avrebbe difficoltà a provare simpatia per un mostro sanguinario del genere.

Uno dei passi più sconcertanti in assoluto è quello di Esodo 20, 5: «Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano» (Bibbia CEI). Va bene la gelosia – viene voglia di dire – ma perché punire i figli dei figli dei figli per qualcosa che non hanno mai fatto? In effetti questa citazione ha fondato lo stereotipo del “Dio vendicativo” che incute più terrore che rispetto. Ma forse le cose non stanno proprio così. Alcuni commentatori fanno notare che la vendetta per “colpa ereditaria” vale soltanto per coloro che odiano Dio. Infatti lo stesso verso

continua: «…ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Bibbia CEI). Questa integrazione può apparire rassicurante, almeno per chi non trasgredisce i comandi divini. Ma c’è dell’altro. Sembra infatti che il verbo ebraico tradotto in italiano con “punire”

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– pahad – nasconda delle sorprese, ignote perfino a molti esperti traduttori.

Sorprese che avrebbero condotto da sempre a una erronea interpretazione della frase. Anzi, a sentire fonti autorevoli come il teologo cattolico Josef Scharbert,

«pochi passi dell’Antico Testamento sono stati tradotti peggio di questo».

Vediamo perché.

Il verbo pahad significa propriamente “verificare esattamente qualcosa,

considerare attentamente, perseguire esattamente una cosa”. L’effetto di questo verificare può essere sia negativo sia positivo. Altre lingue, come l’inglese, parlano anche di “visitare” (e infatti la traduzione inglese di Esodo 20, 5 è: «I the Lord your God am a jealous God visiting the iniquity of the fathers on the children to the third and the fourth generation of those who hate me»). Ma la “visita” può dimostrarsi fonte di gioia come nel caso di Sara, che partorì un figlio nella vecchiaia (Genesi 21, 1-2) o di Anna che divenne madre di Samuele e di altri cinque figli (1 Samuele 2, 21). O di dolore, come nel caso di Isaia 10, 12, dove l’operato orgoglioso del re di Assiria è punito.

Alla luce di queste considerazioni, la traduzione più appropriata per Esodo 20, 5 dovrebbe essere qualcosa come: «Io esamino la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione». Ciò significa che Dio non impartisce una generica quanto crudele punizione ai figli di chi commette peccato, ma aspetta e osserva se il peccato dei padri prosegue anche nei loro discendenti. Solo in questo caso la punizione continua a essere elargita.

Questa soluzione è di sicuro più tranquillizzante di quella tradizionale, ma non meno angosciante. Trasmette infatti l’immagine di un Dio inesorabilmente proteso a scrutare l’animo di “povere creature innocenti” – veri e propri

“osservati speciali” – in attesa di un passo falso. Un Dio meno vendicativo, ma non meno implacabile. E forse, proprio per questo, ancora più terrificante.

Fonti:

Lapide, P., 2000, Bibbia tradotta Bibbia tradita, EDB, Bologna, pp. 81-83.

5) Mi chiamo Giuseppe e faccio il falegname

“Il mestiere di san Giuseppe” mi domandava tempo fa la voce di un cruciverba.

Facile la domanda, facile la risposta: “falegname”. Tutti sanno che il più famoso papà della storia era un falegname. Un “umile falegname”, conferma la

tradizione, che ci ha trasmesso un’immagine dimessa del padre di Gesù.

L’immagine di un uomo di modeste condizioni sociali e di modesti mezzi economici. Ma le cose stanno davvero così? Cominciamo col chiederci: come facciamo a sapere che Giuseppe fosse un falegname? Lo dice un famoso verso del

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Vangelo di Matteo, che tratta dei miracoli e delle conoscenze meravigliose esibite da Gesù:

E avvenne che Gesù, quando ebbe terminato queste parabole, partì di là. E, venuto nella sua patria, li istruiva nelle loro sinagoghe, in modo che essi ne erano stupiti e dicevano: «Donde gli viene questa sapienza e i miracoli? Non è costui il figlio del falegname?». (Mt 13, 53-55. Bibbia Concordata)

Notiamo incidentalmente che il Vangelo di Marco nel passo corrispondente a quello di Matteo appena citato dice invece a proposito di Gesù:

Non è costui il falegname? (Mc 6, 3. Bibbia Concordata)

Falegname il padre, falegname il figlio. Allora, e in parte ancora oggi, il mestiere del padre veniva ereditato dal figlio. Ma c’è un problema. La parola “falegname”

traduce il greco téktón, che a sua volta si sovrappone all’aramaico naggar.

Sfogliando dei buoni dizionari, ci si rende conto che, in entrambi i casi, i significati possibili sono molteplici e non si limitano a “falegname”. Ad esempio, téktón vuol dire anche “costruttore edile”, “scalpellino” (e Betlemme all’epoca era famosa per i suoi costruttori e scalpellini). Potrebbe anche significare “imprenditore edile”,

“architetto” o “maestro artigiano”, mestieri – questi ultimi – certamente non umili e tali da garantire un certo benessere materiale. Una conferma viene anche dal Protovangelo di Giacomo, uno dei più noti vangeli apocrifi, che, in un passo, riporta: «*…+ ed ecco tornò Giuseppe dalle sue costruzioni». Per estensione, téktón può voler dire anche “autore”, “creatore” (qualche buontempone ne ha ricavato l’idea che Giuseppe sia stato il primo “libero muratore”, cioè massone, della storia. Ma c’è chi ha visto perfino in Dante Alighieri un massone!).

A sua volta, naggar significa propriamente “maestro”, “erudito”, “sapiente”. Se tutto ciò è vero, allora Gesù non era il figlio di un misero operaio del legno, come vuole la tradizione. E forse nemmeno lui era un falegname, bensì un sapiente, seppure decisamente precoce, come appare dalle conoscenze palesate quando dodicenne istruisce i dottori del Tempio, di cui parla Luca:

Ora, tutti coloro che lo ascoltavano stupivano per la sua intelligenza e le sue risposte. (Lc 2, 47. Bibbia Concordata)

È qui evidente la familiarità del Gesù bambino con uomini di alto rango sociale, cosa che si può comprendere solo se si ipotizza che lo stesso Gesù appartenesse a una classe più elevata di quella che siamo abituati a credere. Ciò proietta una luce

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completamente nuova su quanto sappiamo della figura più importante per i cristiani. Riassumendo: lungi dall’essere un umile figlio di falegname, che stupiva le folle con la sua inspiegabile sapienza, Gesù proveniva da una famiglia di alti natali, abituata a frequentare uomini di rango, e aveva acquisito dal padre profonde conoscenze dottrinarie che elargiva in pubblico con meraviglia di tutti.

Fonti:

Craveri, M. (a cura di), 1990, I Vangeli apocrifi, Einaudi, Torino, p. 17.

Tranfo, G., 2011, La croce di spine, Chinaski Edizioni, Genova, p. 59.

Wilson, A.N., 1992, Jesus: A Life, Ballantine Books, New York.

6) Non uccidere?

Ogni credente conosce i dieci comandamenti. Per la Chiesa cattolica sono i princìpi basilari cui attenersi obbligatoriamente per raggiungere la salvezza eterna. Violarli significa commettere peccato. E anche reato, in alcuni casi. Basti pensare ai comandamenti contro il furto e l’omicidio.

È altresì noto che il decalogo fu consegnato direttamente da Dio a Mosè, come dicono Esodo 20 e Deuteronomio 5. Se però si confrontano le versioni offerte dall’Antico Testamento con quella diffusa dalla Chiesa cattolica, le differenze balzano agli occhi (il che solleva almeno qualche dubbio sull’immodificabilità della parola di Dio). Tanto per fare due soli esempi, il secondo comandamento del decalogo deuteronomico – “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra” – non compare affatto nel decalogo cattolico, con grande beneficio della secolare tradizione iconografica che ha fatto la fortuna comunicativa della Chiesa (si sa che un’immagine rende più di mille parole). Il quarto comandamento,

invece, – “Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato” – è diventato più genericamente “Ricordati di santificare le feste”, con conseguente spostamento del giorno sacro dal sabato alla domenica.

Ma dubbi sorgono anche a proposito di alcuni comandamenti la cui comprensione dovrebbe essere lineare. Prendiamo il quinto (sesto nella versione dell’Antico Testamento): “Non uccidere”. Sembrerebbe un divieto chiaro, senza “se” e senza

“ma”. In realtà, le cose non stanno così.

Il verbo ebraico ratsach, adoperato nell’originale, non si riferisce a qualsiasi tipo di uccisione, ma solo a quella ingiusta, illegale, ad esempio l’uccisione di un membro del proprio gruppo di appartenenza. Ne consegue, a contrario, che uccidere un membro di altri gruppi, soprattutto se nemici, è non solo ammesso, ma

raccomandato. Di ciò vi è traccia anche nel sesto comandamento presente nel

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Corano, che suona: «Non ucciderai nessuno di quelli che Allah ti ha proibito di uccidere, se non per giusta causa». Altro che altissimo precetto morale, dunque.

Siamo di fronte a un modo arcaico di dividere il mondo – amici contro nemici – che porta a vedere chiunque non appartenga al proprio gruppo sociale come nemico, nemmeno degno di essere considerato umano. Saranno le traduzioni successive a limare tale poco cristiana caratteristica, relegando nel dimenticatoio il significato originale di ratsach.

Se le cose stanno così, hanno sostenuto alcuni interpreti, allora anche eventi efferati come il genocidio e lo sterminio di massa e perfino la pena di morte possono, in determinate condizioni, essere giustificati. Né il comandamento può essere inteso come un appiglio per rifiutare il servizio militare. Considerando che anche Gesù chiedeva di obbedire ai comandamenti, è evidente che la religione del

“porgi l’altra guancia” non ne esce bene. Certamente, la Bibbia riconosce dignità diverse a diversi tipi di omicidio, come è evidente in Numeri 35, dove l’omicidio non intenzionale e la vendetta sono ammessi senza punizione.

Al giorno d’oggi, pochi conoscono le implicazioni paradossali del quinto (o sesto) comandamento. La maggior parte di noi intende il divieto “non uccidere” in maniera assoluta e non è disposta a cedere a compromessi per un atto percepito come ignobile e contrario a ogni regola del vivere civile. Come siamo lontani dalla cultura di quelle tribù nomadiche presso le quali fu in principio formulato il

divieto. Anche se con le nostre traduzioni errate, facciamo di tutto per dimenticare questa distanza.

Fonti:

Hoffman, J. M., “The Ten Commandments Don’t Forbid Killing”, Goddidntsaythat.com,

consultabile all’indirizzo: http://goddidntsaythat.com/2010/11/24/the-tencommandments- dont-forbid-killing/.

Donini, A., 1994, Breve storia delle religioni, Newton & Compton, Roma, p. 161.

Lapide, P., 2000, Bibbia tradotta Bibbia tradita, EDB, Bologna, pp. 44-45.

Rodriguez, P., 1998, Verità e menzogne della Chiesa cattolica, Editori Riuniti, Roma, pp. 223-238.

7) Quell’oscuro desiderio del Decalogo

Il comandamento “Non uccidere” non è l’unico a suscitare perplessità in virtù di una traduzione inesatta. Molte discussioni hanno riguardato anche gli ultimi due precetti che recitano: “Non desiderare la donna d’altri” e “Non desiderare la roba d’altri”.

Innanzitutto, nella versione iniziale, i due comandamenti erano fusi insieme. La formulazione era piuttosto prolissa e recitava:

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Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderare la donna del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo. (Es 20, 17. Bibbia concordata)

È immediatamente evidente che porre la donna accanto a cose e animali come oggetto di desiderio non è molto lusinghiero per l’altra metà del genere umano, già ridotta a costola dell’uomo secondo la maggior parte delle traduzioni

disponibili dell’Antico Testamento. Ma, al di là di ogni rivendicazione egualitaria, lascia perplessi l’uso del verbo “desiderare”. Proibire un desiderio sembra

eccessivo, soprattutto se pensiamo che le sanzioni previste dalla Bibbia in caso di violazione dei comandamenti sono piuttosto severe. I desideri sono parte

costitutiva del pensiero umano e la psicologia ci ha mostrato che limitarsi a desiderare un oggetto può non essere di per sé un male, se non sfocia in un’azione illegale. Anzi, può avere una sorta di effetto catartico.

Qualcosa non va. Secondo alcuni, il verbo ebraico solitamente tradotto con

“desiderare”, chamad, ha in realtà altri significati. Per lo storico delle religioni Ambrogio Donini, esso vuol dire “gettar l’occhio addosso” e si riferisce a un’azione magica, tipica della stregoneria, volta a lanciare il malaugurio sulla proprietà o sulla donna altrui per poi impadronirsene. Una sorta di malocchio finalizzato non a una semplice attività desiderante, ma a un vero e proprio impossessamento.

Secondo Joel M. Hoffman, curatore del sito Goddidntsaythat.com, chamad può essere reso in altro modo. Confrontando i vari usi del verbo in diversi luoghi dell’Antico Testamento, in particolare Esodo 34, 24, Deuteronomio 7, 25 e Proverbi 6, 25, Hoffman conclude che, in tutti questi casi, chamad è meglio tradotto con “prendere”, “impossessarsi” e indica, di conseguenza, un’azione concreta e non un semplice vagheggiamento per ciò che appartiene ad altri.

Stando così le cose, sono comprensibili i divieti espressi dal nono e dal decimo comandamento. Si tratta, in sostanza, di un’estensione del settimo, “Non rubare”, articolato fino a specificare che cosa non si può prendere o rubare.

Ma allora perché questa insistenza sul desiderare? È probabile che qui, come in altri passi della Bibbia, agisca la forza della tradizione: poiché chamad è sempre stato tradotto con “desiderare” si continua a tradurlo in questo modo, sebbene il buon senso e la logica ci indirizzino altrove. Ma si sa che parte della magia

persuasiva delle Sacre Scritture sta anche nella loro rinuncia al buon senso. Le parole insensate talvolta agiscono come incantesimi che arrestano il pensiero e inducono timore e riverenza.

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Fonti:

Hoffman, J. M., “The Ten Commandments Don’t Forbid Coveting”, Goddidntsaythat.com, consultabile all’indirizzo: http://goddidntsaythat.com/2011/03/02/the-ten-commandments- dont-forbidcoveting/.

Donini, A., 1994, Breve storia delle religioni, Newton & Compton, Roma, p. 161.

8) Eunuchi per il regno dei cieli. O della Chiesa

La tradizione del celibato dei sacerdoti cattolici risale a tempi molto antichi, anche se non così indietro, se si pensa che solo nel XII secolo esso divenne un obbligo affine a quello che conosciamo oggi (sebbene solo per il clero latino). È

sicuramente uno degli aspetti più discussi della teologia cattolica, contestato come residuo del passato o come un’interpretazione forzata di alcuni passi biblici da altre confessioni cristiane.

Il testo fondamentale al quale si ispirano le gerarchie cattoliche per dare forza al principio del celibato è la frase contenuta in Matteo 19, 12, che recita:

Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca. (Bibbia CEI)

Il brano non è chiarissimo. Se i più sono d’accordo nel ritenere che il termine

“eunuchi” debba intendersi metaforicamente (ricordiamo, però, che il teologo Origene si castrò perché prese un po’ troppo alla lettera la frase), rimane

l’incertezza su cosa voglia comunicare questa metafora. Di certo la fondazione del celibato sacerdotale è un’interpretazione buona come quella di chi vi legge un vago discorso a favore della castità (anche matrimoniale) o del candore spirituale.

Per la teologa Uta Ranke-Heinemann non vi sono dubbi. Qualsiasi cosa significhi il termine “eunuchi” (in greco eunuchoi) nel contesto del verso evangelico, esso è sempre stato tradotto male e non vuol dire “celibi” o “non atti al matrimonio”.

Basta leggere l’intero capitolo 19 del Vangelo di Matteo per rendersi conto che l’affermazione attribuita a Gesù è in realtà la risposta all’interrogativo «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?» che apre il capitolo stesso. Ciò di cui Gesù sta parlando allora non è il celibato, ma il divorzio. E a questo proposito enuncia una tesi scandalosa per i suoi tempi maschilisti, in cui bastava la minima mancanza da parte della moglie perché il marito potesse ripudiarla. Questa tesi è espressa con le parole: «Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio». I discepoli, abituati ai costumi sessisti dell’epoca, obiettano, non

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capiscono. E a questo punto Gesù esprime la sua famosa sentenza. Ma – ribatte Ranke-Heinemann – non è probabile che qui si stia parlando della rinuncia

all’adulterio? Dell’invito a rivedere completamente i rapporti tra uomo e donna su un piano più egualitario? Ciò sarebbe confermato anche dall’obiezione degli

apostoli i quali, di fronte a tale novità, controbattono che allora sarebbe meglio non sposarsi. La ratio di questa replica sta nel fatto che, se si applicasse la tesi di Gesù, gli uomini perderebbero la propria libertà sessuale e, con essa, la possibilità di sbarazzarsi a piacimento delle mogli. Ricordiamo, infatti, che per gli ebrei del tempo, adulterio significava una cosa per gli uomini e un’altra per le donne.

Commetteva adulterio solo l’uomo che aveva un rapporto sessuale con una donna già sposata; per la donna, invece, ogni evasione dal matrimonio era causa di divorzio.

Ecco perché, secondo Ranke-Heinemann, il messaggio di Gesù è stato travisato:

perché impartiva un colpo secco alla morale maschilistica e sessuofobica

dell’epoca. Meglio farlo passare per altro. Ad esempio, per il fondamento di una dottrina, come quella del celibato, che faceva comodo alla Chiesa. In ogni caso, non c’è alcuna ragione per tradurre eunuchoi con “celibi”. Per quanto metaforici si voglia essere. È degno di nota, però, come un errore di traduzione possa fondare un’intera tradizione religiosa. E, con essa, un’intera morale sessuale.

Fonti:

Ranke-Heinemann, U., 1995, Eunuchi per il regno dei cieli, BUR, Milano, pp. 32-45.

9) Le corna di Mosè

L’iconografia tradizionale cristiana rappresenta Dio come un vecchio dalla lunga barba bianca in posizione ieratica (si pensi alla celeberrima Creazione di Adamo di Michelangelo). La Bibbia però dice che nessuno ebbe modo di vederne le fattezze, ma solo di sentirne la voce. Come Mosè. Di lui Esodo descrive l’ascensione al Monte Sinai dove gli furono consegnate le Tavole della Legge. Non ci interessa ora raccontare ciò che Mosè udì e cosa poi trasmise al fratello Aronne e ai “figli di Israele”. Ci interessa quello che accadde al momento della discesa dal Sinai. Ecco il testo biblico:

Ora avvenne che, quando Mosè scese dal Monte Sinai, e le due tavole della testimonianza erano nella mano di Mosè mentre scendeva dal monte, Mosè non sapeva che la pelle del suo volto era raggiante per aver egli parlato con lui. (Es 34, 29-30. Bibbia Concordata)

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Niente di sorprendente. È normale che il volto di un individuo che ha appena incontrato il suo Dio sia raggiante. Sorprende però sapere che la traduzione dall’ebraico realizzata da san Gerolamo nella sua Vulgata, la versione della Bibbia ufficiale per secoli nella Chiesa romana, era “notevolmente” diversa:

Mosè non sapeva che la sua faccia fosse cornuta (“ignorabat quod cornuta esset facies sua”).

Come è potuta accadere una cosa del genere? Mosè, il datore della legge e il profeta per eccellenza, era cornuto? Come mai “cornuto” ha preso il posto di

“raggiante”?

La responsabilità è di un grossolano errore di traduzione, attenuato in parte da una caratteristica del testo originale ebraico (detto masoretico). La scrittura ebraica, infatti, trascrive solo le consonanti, mentre le vocali sono rese sotto forma di piccoli segni posti intorno a queste. La radice qrn è generalmente adoperata nella Bibbia per esprimere l’idea di radiosità e qaran vuol dire “raggio di luce”. “Raggiante”, dunque, sembra la traduzione più efficace. Vocalizzando la stessa radice in maniera diversa (qeren) si ottiene però la parola “corno”. L’errore di Gerolamo, allora, più che di traduzione fu probabilmente di vocalizzazione.

Ora, è vero che la lingua ebraica ha caratteristiche ingannevoli per un traduttore, ma il contesto avrebbe dovuto suggerire al buon Gerolamo che probabilmente

“cornuta esset facies sua” non fosse la traduzione più opportuna.

Il bello è che questo errore ne trascinò altri. Ispirati dai versi della Vulgata, diversi artisti, nel corso dei secoli, hanno rappresentato Mosè con le corna! L’esempio più famoso è il Mosè di Michelangelo, l’imponente scultura, risalente al 1513- 1515 circa, che possiamo ammirare nella Basilica di San Pietro in Vincoli a Roma.

Secondo alcuni autori, le corna di Mosè, osservabili in diverse rappresentazioni artistiche, si spiegherebbero invece con l’abitudine del Medioevo cristiano di attribuire agli ebrei caratteristiche demoniache. Ad esempio, in Germania gli ebrei erano costretti a indossare un cappello la cui foggia ricordava un corno. In altri luoghi, forme di corno trasparivano da altri particolari del vestiario.

Un’ultima interpretazione suggerisce che fu proprio il verso di Gerolamo a

contribuire alla diffusione di stereotipi negativi e diabolici sugli ebrei. Se questo è vero, allora, l’errore del povero teologo non ebbe conseguenze meramente linguistiche, ma anche artistiche e sociali.

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Fonti:

“Lingua ebraica”, Wikipedia, consultabile all’indirizzo:

http://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_ebraica.

“Corno”, in Achtemeier, P.J. e Society of Biblical Literature (a cura di), 2003, Il Dizionario della Bibbia, Zanichelli, Bologna, pp. 201-202.

Cooper, J., 2010, Who knew? Unusual stories in Jewish History, Gefen Publishing House, Jerusalem.

Lapide, P., 2000, Bibbia tradotta Bibbia tradita, EDB, Bologna, pp. 98-99.

10) Separare, non creare

Nel 2009, grande scalpore hanno destato nei credenti le affermazioni della professoressa Ellen van Wolde, docente di esegesi dell’Antico Testamento e di Ebraico alla facoltà di Teologia cattolica dell’Università di Tilburg, in Olanda, secondo cui il primo verso del primo libro della Bibbia, Genesi, è stato tradotto male per secoli. Come tutti sanno, recita: «In principio Dio creò il cielo e la terra»

e attribuisce a Dio la creazione dell’universo e di tutte le cose in esso esistenti.

Secondo la van Wolde, invece, la traduzione corretta dovrebbe essere: «In

principio Dio separò il cielo dalla terra» e condurrebbe a un cambiamento radicale della concezione di Dio, non più creatore, ma semplice “divisore” di elementi a lui pre-esistenti. Un vero e proprio terremoto teologico che declasserebbe la figura di Dio e lascerebbe intatti i dubbi sull’origine dell’universo. Se Dio, infatti, non è il creatore di tutte le cose, chi le ha create? È necessario postulare una seconda entità più potente? O non c’è mai stato un punto d’origine? È ancora sostenibile l’idea di una creatio ex nihilo (“creazione dal nulla”)? La stessa van Wolde, che si dice religiosa, ha dichiarato di essere turbata dalle sue scoperte, ma che ora la visione tradizionale della creazione del mondo è divenuta insostenibile.

Su cosa basa le sue affermazioni? Dalla contestualizzazione e dall’analisi

meticolosa di documenti risalenti all’antica Babilonia confrontati con la versione originale della Genesi scritta in ebraico, risulterebbe che il termine ebraico bara, comunemente tradotto con “creare”, significa appunto “separare” o “separare parzialmente” e che l’inizio cui fa riferimento il passo biblico non è l’inizio dei tempi, ma l’inizio della narrazione. La terra era dunque già esistente quando cominciò il suo lavoro: Dio si limitò a permettere che fosse un posto abitabile tramite la sua opera di separazione. Secondo la van Wolde, tuttavia, ciò non significa negare che egli abbia successivamente creato gli uomini e gli animali, ma solo che non ha creato la Terra. Sebbene bara tecnicamente possa significare anche “creare”, il contesto e l’indagine di altre fonti testimonierebbero

un’accezione diversa del termine, che è poi, secondo van Wolde, l’unica possibile.

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Van Wolde spera che le sue conclusioni diano la stura a un ampio dibattito e, in effetti, la sua università ha già riconosciuto pubblicamente l’assoluto pregio delle scoperte della studiosa.

I suoi contestatori, però, sostengono che la Bibbia adopera altri termini per

descrivere la separazione, come asa, usato nella stessa Genesi, e che quindi la van Wolde non avrebbe scoperto niente di eccezionale; anzi sarebbe stata lei a

prendere una cantonata. La questione non è da poco. Ne vanno di mezzo secoli di discussioni teologiche e ipotesi sull’origine della vita. Alle quali la tesi della van Wolde non porrà certamente la parola fine.

Fonti:

Alleyne, R., “God is not the Creator, claims academic”, in “The Telegraph”, 08/10/2009,

consultabile all’indirizzo: http://www.telegraph.co.uk/news/religion/6274502/God-isnot-the- Creator-claims-academic.html.

Nadali, G. “Ellen Van Wolde. La teologa che nega la creazione”, in Articolionline.net, consultabile all’indirizzo: http://www.articolionline.net/2009/10/ellen-van-wolde-lateologa-che-nega- la.html.

11) Quel pericoloso terrorista chiamato Cristo

È un libro curioso quello di David Donnini, intitolato Cristo. Una vicenda storica da riscoprire, pubblicato nell’ormai lontano 1994. Curioso non solo per le ipotesi a proposito dell’identità di Gesù, ma anche perché tali ipotesi sono elaborate a partire dall’analisi di alcuni clamorosi errori di traduzione su cui vale la pena soffermarsi. Cominciamo col dire che David Donnini non è un accademico paludato, ma ha dedicato molti anni all’indagine critica dei vangeli con risultati apprezzati anche dagli specialisti. Le sue tesi sono certamente ardite e, in effetti, Donnini ha la correttezza di definirle ipotesi. Su chi non ha conoscenze eccelse di storia del cristianesimo, esercitano un indubbio fascino che, a tratti, dà le

vertigini.

Secondo lo studioso, Gesù non era un banale predicatore religioso: all’epoca ce ne erano molti e non subivano certo il destino crudele toccato a lui. Gesù era il capo di una setta partigiana, un combattente sovversivo e dissidente il cui obiettivo era la liberazione di Israele dal dominio romano. Una sorta di

anticipatore della rivolta del partito ebraico degli Zeloti contro le autorità romane che nel periodo 66-70 d.C. costò la distruzione del tempio di Gerusalemme a opera del generale romano Tito. Gli evangelisti, secondo Donnini, hanno consapevolmente modificato, attraverso una sistematica opera di censura, le identità dei protagonisti del racconto neotestamentario, di cui hanno anche

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alterato toni e motivi ispiratori allo scopo di spoliticizzare i Vangeli e celare la loro verità di fondo: Gesù era un terrorista, condannato a morte per il reato di

sovversione contro il dominio imperiale. Insieme ai suoi seguaci, era in procinto di organizzare un atto di forza contro il presidio romano e le autorità ebraiche nel solco della tradizione messianica. In sostanza, Gesù non era dissimile, quanto a pensieri e azioni, da un combattente palestinese contemporaneo. Egli fu

condannato prima dagli ebrei, che non volevano esporre la nazione al rischio di una rappresaglia romana, e poi dai romani stessi in base al loro diritto come un ribelle politico. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché fu arrestato da un’ingente coorte di soldati romani (le coorti dell’epoca erano costituite da 5-600 soldati), che non avrebbe avuto ragione di intervenire se si fosse trattato di un pacifico predicatore; perché fu necessario l’intervento di Giuda, che ebbe il compito di avvertire i sacerdoti al momento in cui la sommossa stava per iniziare; perché Gesù fu crocefisso, considerando che la crocifissione era riservata dai romani ai ribelli.

Ma a occultare la vera identità di Gesù e dei suoi seguaci contribuiscono, secondo Donnini, soprattutto le mistificazioni linguistiche sparse nei Vangeli, che, in alcuni casi, prendono la forma di intenzionali errori di traduzione. Errori, in particolare, sui nomi dei discepoli del Cristo. E questa è la parte più sorprendente del testo di Donnini, che svela le alchimie linguistiche cui è ricorso il Cristianesimo delle origini per fornire una versione totalmente falsa della vicenda di Gesù.

Facciamo qualche esempio. In un passo del Vangelo secondo Matteo, Gesù si rivolge a Pietro chiamandolo “Simone, figlio di Giona”. Il testo greco riporta Simon bar Iona, in cui “figlio di” è reso con bar, termine aramaico, e non con uios,

termine usato frequentemente nei Vangeli quando un personaggio è definito

“figlio di...”. Nei manoscritti antichi del Vangelo di Matteo compare, però, l’espressione “Simon Bariona” e in aramaico barjona vuol dire “combattente, partigiano”. “Simone figlio di Giona” cela dunque in realtà l’identità di “Simone il partigiano”. Lo stesso meccanismo agirebbe nel caso di altri apostoli. Come quello che i Vangeli di Marco e Matteo definiscono “Simone cananeo”. “Cananeo” è in realtà qanana (“zelota”), sinonimo di barjona. Anche Taddeo nasconde delle sorprese. Il suo nome è solo un titolo, dal momento che in ebraico non è un nome proprio, ma un aggettivo che significa “coraggioso”: altro termine più adatto a un combattente. Il vero nome di Tommaso, invece, è Giuda, del quale alcuni

manoscritti antichi riportano la variante qanana, di cui già abbiamo conosciuto il significato. Gli apostoli fratelli Giacomo e Giovanni sono soprannominati in

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aramaico “figli del tuono”, epiteto utilizzato anche per Pietro, secondo antiche versioni del Vangelo di Marco. Insomma, riandando all’origine aramaica di questi nomi e traducendoli di conseguenza, scopriamo, secondo Donnini, che quelli di Gesù non erano semplici discepoli religiosi, ma una vera e propria setta di

sovversivi politici, pronti a far saltare in aria Israele come una polveriera. E tutto questo lo apprendiamo dalla traduzione corretta dei quattro Vangeli.

Non so se le ipotesi di Donnini corrispondano a verità. È affascinante però che un testo importante come la Bibbia possa comunicare messaggi così diversi secondo la traduzione adottata. Un tempo Donnini avrebbe corso il rischio di soccombere, per le sue idee. Oggi le cose, per sua fortuna, sono molto diverse.

Fonti:

Donnini, D., 1994, Cristo. Una vicenda storica da riscoprire, Erre emme Edizioni, Roma, pp. 57-60.

Lapide, P., 2000, Bibbia tradotta Bibbia tradita, EDB, Bologna, pp. 186-191.

Tranfo, G., 2011, La croce di spine, Chinaski Edizioni, Genova, capp. V e IX.

12) Barabba? Chi era costui?

Sappiamo benissimo chi era Barabba. La tradizione neotestamentaria ci ha abituato a considerarlo un brigante liberato a furor di popolo al posto di Gesù quando questi fu crocefisso. «Chi volete che vi liberi, Barabba o Gesù detto il Cristo?» (Mt 27, 17. Bibbia Concordata), grida Pilato alla folla accorsa ad assistere all’esecuzione di Gesù. Come è andata a finire lo sappiamo. Quello che non

sappiamo è che le cose potrebbero essere andate diversamente a causa di un clamoroso errore di traduzione.

Innanzitutto, chi era Barabba? I Vangeli non ci dicono quali fossero le sue colpe.

Marco, ad esempio, parla di «uno, chiamato Barabba, incarcerato insieme a dei sediziosi che in una rivolta avevano commesso un omicidio» (Mr 15, 7. Bibbia Concordata). Da questa frase, però, non sembra sia stato lui a commettere l’omicidio. Giovanni lo definisce lestes (Gv 18, 40), parola che può tradursi con

“ladro”, ma anche con “bandito” o “delinquente politico”. Se è così, non si capisce perché il popolo dovesse preferire la sua liberazione a quella di un semplice e pacifico predicatore. I Vangeli, inoltre, giustificano il suo proscioglimento sulla base del fatto che «per la festa [di Pasqua Pilato] soleva liberare loro un

carcerato» (Mr 15, 6. Bibbia Concordata). Ma, durante la dominazione romana in Palestina, non è mai esistito il costume di liberare un prigioniero per Pasqua. Le amnistie di detenuti avevano luogo, ma in occasione delle feste romane, non di quelle di altri popoli, come la Pasqua ebraica di cui si parla nei Vangeli. E

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comunque non si chiedeva al popolo chi dovesse essere liberato. La decisione spettava unicamente al procuratore romano. Insomma, un bel guazzabuglio. Ma il mistero si infittisce ulteriormente e assume proporzioni insospettabili.

In alcune antiche versioni del Vangelo di Matteo si parla in una nota di Iesoun Barabba, e cioè “Gesù Barabba”, possibile variante di leghomenon Barabba, cioè

“detto Barabba”. Il nome Barabba, poi, tradotto letteralmente, vuol dire bar Abbà, “figlio del Padre”. Iesoun Barabba significa dunque “Gesù figlio del Padre”.

Secondo alcuni, come lo storico e giornalista Gerard Messadié, ciò vorrebbe dire che Gesù e Barabba erano all’inizio la stessa persona e che solo una traduzione inaccurata – forse volontariamente inaccurata – ne ha decretato lo

sdoppiamento, probabilmente in funzione antigiudaica. Lo sdoppiamento, a sua volta, richiese di adattare e modificare l’intero episodio che così venne ad

assumere le fattezze a noi note (che non hanno alcun fondamento da un punto di vista storico), in modo da sostenere l’accusa di deicidio rivolta dai cristiani contro gli ebrei.

Secondo un’altra versione, invece, lo sdoppiamento avrebbe avuto la funzione di rimuovere l’ingombrante patina guerriera che il personaggio reale di Gesù si portava dietro, proiettandola su un personaggio minore. Questo stratagemma avrebbe consentito di preservare un’immagine puramente religiosa di Gesù e di dimenticare quella politica, costruendo un protagonista che, in ultima analisi, sarebbe tornato utile alla nascente Chiesa cristiana. A ciò dobbiamo aggiungere che, secondo diverse fonti, nessuno dei due ladroni posti accanto a Gesù era un semplice bandito. Più probabile che entrambi fossero ribelli politici: patrioti o martiri che dir si voglia, condannati per aver minacciato l’Impero romano.

Barabba, dunque, non fu semplicemente uno squallido brigante, un farabutto che per qualche strano motivo viene preferito a Gesù, ma una figura ingegnosamente fabbricata per scopi di legittimazione religiosa.

A giudicare da quanto dicono studiosi come David Donnini e Giancarlo Tranfo, sdoppiamenti del genere sono presenti anche altrove nella Bibbia (ad esempio, la figlia di Giairo e Lazzaro sarebbero la stessa persona) e non dovrebbero apparire come bizzarre spiegazioni di interpreti un po’ troppo fantasiosi. Se è vero, vuol dire che la Bibbia è un testo molto più complesso di quanto siamo abituati a pensare. E forse il futuro ci riserverà scoperte ancora più sorprendenti.

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Fonti:

Donnini, D., 1994, Cristo. Una vicenda storica da riscoprire, Erre emme Edizioni, Roma, pp. 86-95.

Lapide, P., 2000, Bibbia tradotta Bibbia tradita, EDB, Bologna, pp. 186-191.

Pellicani, L., 2007, Le radici pagane dell’Europa, Rubbettino, Soveria Mannelli, p. 208.

Tranfo, G., 2011, La croce di spine, Chinaski Edizioni, Genova, pp. 243-245; 283.

13) La donna fu creata da una costola dell’uomo?

La Bibbia non è esattamente un testo femminista. I protagonisti delle sue storie sono quasi sempre maschi, che vivono in un mondo di maschi, secondo regole di maschi. C’è poco spazio per le donne. Perfino nel Nuovo Testamento, che pure concede qualcosa in più, gli apostoli di Gesù sono tutti maschi e maschi sono anche la maggior parte dei personaggi che compaiono intorno a loro. Ci sono significative eccezioni, a partire da Maria, la madre di Gesù, ma si tratta appunto di eccezioni che, nel loro complesso, non fanno altro che confermare la

proverbiale regola. Il testo biblico più maschilista in assoluto si trova, però, in Genesi, e corrisponde alla descrizione della creazione della donna dall’uomo. Sono versi famosi, sedimentati ormai in quel magma indistinto e raramente messo in discussione che si chiama inconscio collettivo.

Rileggiamoli:

Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora

l’uomo disse: “Questa volta / è osso dalle mie ossa, / carne dalla mia carne. / La si chiamerà donna, / perché dall’uomo è stata tolta. (Gen 2, 21-23. Bibbia CEI) Per la Bibbia, dunque, la donna non è che una costola dell’uomo, una umile appendice ossea destinata a un ruolo subalterno. Se a ciò aggiungiamo che, secondo lo stesso libro biblico, la costola è anche responsabile della caduta della prima coppia di umani dal paradiso dell’Eden, l’immagine che se ne trae non è certo lusinghiera.

Potrà allora essere di qualche consolazione sapere che questi versi si reggono su un bizzarro errore di traduzione, perpetuato da secoli, e continuamente

riproposto nelle versioni bibliche che, di volta in volta, sono state proposte (anche le più recenti). In ebraico la parola usata per “costola” è tselah che, scritta e

pronunciata allo stesso modo, vuol dire anche “fianco”, “lato”, “metà”. E con il significato di “metà” (di qualcosa) compare ben 49 volte nella Bibbia.

Stranamente, l’unico luogo in cui compare tradotta con “costola” è quello dei

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versi prima riportati. Emendandone il senso, dunque, apprendiamo che Dio prese la metà dell’uomo e con questa fece la donna.

Siamo sempre nel campo della fantascienza religiosa, ma almeno uomo e donna sono l’uno la metà dell’altra e occupano posizioni paritarie.

È opportuno aggiungere che qualche teologo ha tratto da questa vicenda delle implicazioni curiose. Danilo Valla, ad esempio, è convinto che, una volta corretto, il testo biblico rispecchi la descrizione della struttura del DNA, individuata solo nel 1953 da Watson e Crick.

Come è noto, la genetica dice che l’uomo e la donna possiedono ciascuno 23 coppie di cromosomi in ogni cellula, a formare un totale di 46 cromosomi per cellula. Le coppie sono tutte identiche tranne l’ultima, XX per le femmine e XY per i maschi. Ebbene, per Valla questo non dimostra forse che una metà della coppia maschile (la X) sia stata trasferita alla coppia cromosomica femminile perché questa potesse esistere? Del resto Dio conosceva le leggi della genetica ben prima di Watson e Crick, essendo onnisciente, e i versi della Bibbia ne sarebbero una testimonianza, meno impegnativa ma più poetica.

Tutto molto suggestivo, ma anche fantagenetico. Consiglio però di dare un’occhiata al video in cui Valla enuncia la sua teoria.

Fine dell'estratto Kindle.

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