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CAPITOLO PRIMO

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CAPITOLO PRIMO

DALLA TEORIA DI CREAZIONE DEL VALORE AL VALUE BASED MANAGEMENT.

1.1 La massimizzazione del capitale d'impresa.

L'idea che al tradizionale obbiettivo della massimizzazione del profitto possa sostituirsi, in modo più proficuo per le scelte e le valutazioni di lungo periodo, quello della massimizzazione del valore di capitale dell'impresa non è certamente recente. Come è noto,1 I. Fisher sosteneva che il valore del capitale (W) si definisce dall'attualizzazione del flusso dei redditi futuri che esso è capace di generare; e che tale valore si contrappone al costo ( C) dell'investimento. Oltre a Fisher anche ad altri economisti come Samuelson, Hicks Wicksell, fondano il loro pensiero sul confronto (W-C) e nella ricerca del tasso di rendimento r che pone uguali W e C. Nelle loro teorizzazioni è infatti presente, anche in modo esplicito, la tesi della massimizzazione di W o della differenza (W-C) o del rapporto W/C.

Anche in Italia questi concetti sono stati recepiti da lungo tempo dagli economisti aziendali tra i quali Zappa, che nella sua opera2 ha definito il valore del capitale economico in funzione dei redditi attesi, così che l'incremento dei redditi significa anche accrescimento del capitale economico. E' quindi da molto tempo che la massimizzazione del capitale viene considerata un obbiettivo attribuibile all'impresa, ma solo dopo gli anni '80 questo concetto torna di grande attualità. Esplode negli Stati Uniti quando la ricerca della massimizzazione del valore azionario si trasforma in un approccio strategico giudicato di grande interesse. Nello stesso tempo anche nel Vecchio Continente, od almeno in alcuni paesi europei, l'attenzione alle problematiche di valutazione del capitale economico ed alle sue tecniche di valutazione induce ad un nuovo apprezzamento del significato e delle utilizzazioni di tale concetto. Tutto questo si è enfatizzato anche grazie al crescente sviluppo del mercato borsistico europeo. L'idea in 1 L. GUATRI, La teoria di creazione del valore, Egea, Milano, 1991

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questo caso è che il valore del capitale economico e le sue variazioni costituiscano la formula migliore per misurare i “veri” risultati ottenuti dall'impresa: scopo al quale la contabilità tradizionale appare sempre più impari. Le origini e le ragioni delle suddette correnti di pensiero possono essere precisate come segue.

Negli Stati Uniti il crescente interesse per lo Shareholder Value Approch è dovuto a varie cause tra le quali:3

• il forte appoggio che, negli ultimi anni, esso riceve da alcuni Gruppi, che

l'hanno adottato come base dei loro piani;

• il timore delle società sottovalutate, o che comunque presentano attività

non sufficientemente valorizzate dal management, di subire scalate;

• la dilagante opinione che le tradizionali misurazioni contabili (quali l'utile

per azione ed il rendimento sull'investimento:EPS e ROI) siano riferimenti inaffidabili per esprimere i futuri risultati che gli azionisti possono attendersi;

• il sempre più diffuso riconoscimento che la remunerazione del

management deve essere strettamente collegata ai risultati ottenuti dagli

azionisti;

infine, la disponibilità odierna di programmi educativi per il management

e di strumenti di software atti alla concreta realizzazione dell'approccio in questione.

Come si può notare, sono state diverse ragioni eterogenee a mettere in moto quel movimento d'opinione che ha poi scatenato una vasta letteratura. Tuttavia non è ancora ben chiaro fino a che punto l'approccio in esame, oltre ad appagare le esigenze di alcuni Grandi Gruppi, soddisfi anche le esigenze delle PMI.

Nel contesto italiano ed europeo, una misura periodica di valutazione del valore del capitale ha diverse origini.

Innanzitutto si è notata sempre di più la minore credibilità delle misure 3 M.L. BLTH, E.A. FRISKEY, A. RAPPAPORT, Implementing the shareholder value approch, Journal

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puramente contabili dei risultati dell'impresa. Infatti da numerose ricerche si è evidenziato come questa misura sia del tutto inadeguata a eliminare le componenti inflazionistiche di risultati economici (utile e perdite apparenti) ed appare del tutto fuorviante nel riflettere gli investimenti ed i disinvestimenti riguardanti beni immateriali. Tra questi ultimi, numerose voci come la ricerca e lo sviluppo e gli investimenti di marketing attinenti alla pubblicità e promozione assumono un peso rilevante in ampie zone dell'attività industriale.

Più in generale, investimenti in ricerca e tecnologia, marketing ed organizzazione, privi del requisito della materialità, caratterizzano numerose categorie di aziende.

I beni immateriali sono difficilmente misurabili, sia perché non si dispone ancora di tecniche adeguatamente sperimentate, sia perché tali beni tendono a confondersi e a sovrapporsi così che il pericolo di omissioni e di duplicazioni è sempre in agguato. Molto spesso questa incertezza si manifesta nelle aziende industriali che, dopo aver tentato di enucleare pochissimi valori riferiti a specifici beni materiali (ad esempio il valore della ricerca e marchi) fanno ricadere tutto il resto in voci generiche del tipo dell'avviamento e del Goodwill.

In realtà, l'avviamento dovrebbe esprimere il maggior valore dei beni componenti il capitale dell'impresa, ma in mancanza di individuazione di specifici beni immateriali (o di gran parte di essi) finiscono per assorbire in un tutto indistinto anche tali valori.

A ciò si aggiunga che, per diffuso convincimento (legato certo alla necessaria prudenza di stime ancora allo stato embrionale), il valore attribuibile ai beni immateriali deve trovare riscontro in una capacità complessiva dell'impresa di sopportarne nel tempo l'ammortamento e di remunerare l'investimento totale, comprensivo anche di tali valori. Riscontro complessivo, ovviamente, poiché il reddito è unico per l'impresa. Da che deriva che il giudizio sull'accettabilità dei valori attribuiti ai beni immateriali è pure globale ed unico. Se esso è positivo, i singoli valori attribuiti rimangono globalmente confermati; se non lo è, uno o più di essi vanno ridotti; anche se non è facile stabilirlo oggettivamente, e qualsiasi scelta è solo una convenzione.

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Queste difficoltà che si riscontrano nell'individuare in maniera certa i beni immateriali ha convinto coloro che sono preposti alla redazione del bilancio di escluderli da ogni processo di contabilizzazione oltre al sostanziale rifiuto di apprezzarli separatamente nelle relazioni periodiche nonché negli schemi finali dello Stato Patrimoniale e del Conto Economico.

Per tutte queste ragioni si è fatta sempre più strada l'idea di superare questi ostacoli mediante l'accertamento a medi intervalli di tempo del valore del capitale economico. Queste modalità di valutazione sono state favorite dal diffondersi in tutta Europa dei processi di acquisizione/fusione di imprese ed in generale alle crescenti negoziazioni di capitali (sia di controllo, sia di semplice partecipazione).

La variazione periodica del valore del capitale economico tra il momento t0 ed il momento t1 (∆ W1) diviene dunque, in aggiunta al dividendo distribuito nel periodo (d1) – e se del caso deduzione fatta del nuovo capitale investito (∆ C1) – la misura del risultato effettivamente ottenuto:

R1= ∆W1 + d1 -∆C1

Su di un'orizzonte temporale di n anni, tale risultato può esprimersi concettualmente come:

∑n1 ds vs + (Wn·vn- W0)-∆ Cs vs in cui:

ds = dividendo dell'anno s;

Wn = valore finale (al tempo n) dell'impresa; W0 = Valore attuale (al tempo 0) dell'impresa; ∆Cs = aumento del capitale a pagamento al tempo s; vs, vn = fattori di attualizzazione (in base al tasso i).

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comune espressione “ interesse (o vantaggio) dell'azionista”, identificato in tutto ciò che accresce la ricchezza generata dall'impresa per i portatori del capitale. Massimizzare tale interesse significa perciò massimizzare il flusso dei dividendi attesi, congiuntamente all'accrescimento del valore del capitale: il tutto espresso in valori attuali e depurato - se del caso – dalle nuove immissioni del capitale. A parte la ricerca di una adeguata misura dei risultati di periodo, da affiancare ai sempre meno significativi risultati contabili, la misura delle variazioni del valore del capitale economico (∆ W) esprime un deciso orientamento per una visione a medio/lungo termine in tutti i giudizi sulla conduzione aziendale. Esprime, in particolare, una concezione non effimera, non legata al breve, cioè ai risultati immediati, ma proiettata nel futuro; ed intesa ad assicurare, in primo luogo, la sopravvivenza dell'impresa e la conservazione e lo sviluppo della capacità di generare reddito. Una concezione, questa, perfettamente in linea con le esigenze e le attese dell'odierna società civile, oltre che di tutti coloro che sono direttamente interessati alle sorti dell'impresa. Anche da ciò nasce un rilevante stimolo alla periodica valutazione del capitale economico: a questo fine una periodicità bi- o triennale potrebbe apparire adeguata.

Nella nostra ottica europea, dunque, le motivazione che portano all'odierno interesse per la massimizzazione o più in generale per la “creazione” del valore del capitale d'impresa sono ben diverse rispetto all'ottica nord-americana. Meno sentito appare, in particolare, il legame con le decisioni di strategia, che è invece il leit-motiv dell'esplosione dell'interesse negli Stati Uniti. Alla fine, però, i discorsi sembrano ricollegarsi: le diverse spinte concettuali ed emotive hanno comunque portato in auge il tema della periodica verifica del valore del capitale e fissato come prioritario l'obbiettivo della “creazione” o della massimizzazione di tale valore.

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1.2 La “creazione di valore” : riferimento al valore di mercato o al valore di capitale economico?

Un'altra differenza rilevante tra l'impostazione americana e quella europea sulla dottrina di “creazione” del valore è il riferimento:

• nella prima, al valore di mercato del capitale, espresso tipicamente dalle

quotazioni di borsa (donde l'espressione creazione di valore azionario);

• in quella europea, al valore del capitale economico, cioè una misura del

valore che risulta astratta rispetto a quella del mercato e rilevata secondo criteri di generalità, razionalità, dimostrabilità/obiettività; mentre l'aspetto del trasferimento sui prezzi di mercato del valore creato in termini di capitale economico è una fase successiva e non necessaria (anche se altamente auspicabile, ovviamente quando sia possibile).

Questa differente impostazione è certo in gran parte legata alle diversità ambientali: il mondo statunitense è caratterizzato da un grande numero di imprese quotate, di cui buona parte sono public companies, da attivi scambi sul mercato dei capitali d'impresa anche per quote di controllo e da mercati finanziari caratterizzati da un buon livello di efficienza.

Diversi paesi europei, ed in particolare l'Italia, non presentano tali condizioni di mercato; le società quotate sono ancora in numero limitato, le Public Companies presso che inesistenti, gli scambi di pacchetti di controllo non rari ma neanche frequenti, anche se in rapido accrescimento. A ciò si aggiunga una non trascurabile presenza di imprese a capitale pubblico e a prevalente partecipazione pubblica.

Anche da queste diverse premesse, trae certamente origine il nostro orientamento a discutere in primo luogo di creazione di valore, nei termini di accrescimento del capitale economico (nella simbologia ∆ W); mentre di valori di quotazione borsistica (∆ Wm) o di prezzi per quote di controllo (Wmm) spesso non si può trattare per mancanza di riferimenti di mercato. Ma non si tratta solo di questo. Il modo più intuitivo per discutere tale tema consiste in una sequenza logica che

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si sviluppa su tre livelli:4

a) al primo livello si pone il tema della creazione di capitale economico (W) b) al secondo livello, il tema della “creazione” del valore di mercato nelle sue nozioni (Wm, Wmm);

c)al terzo livello, c'è il problema delle relazioni che devono intercorrere tra valori di mercato e valori di capitale economico.

La creazione di capitale economico rimane comunque il primo e fondamentale obbiettivo, senza il quale ogni discorso di sostegno dei valori azionari non può che esprimere tentativi destinati a lungo andare all'insuccesso.

La massimizzazione di W è in primo luogo un obbiettivo diretto per l'impresa, rispondente al fine essenziale di assicurarle lunga vita: spingendola senza posa sulla via del successo e rendendola resistente negli inevitabili periodi di difficoltà.

Come meglio si vedrà più avanti, ogni strategia di supporto di tale valore passa attraverso due componenti:

• il sostegno e lo sviluppo (fino alla massimizzazione) del reddito a lungo

termine;

• il contenimento del rischio, influendo sulla qualità del reddito.

Il primo comportamento postula, come elemento essenziale, che nel definire i propri obbiettivi di reddito a breve l'impresa ponga somma cura nell'evitare, in qualsiasi modo, il depauperamento delle capacità di produrre reddito. Da ciò l'esigenza di conservare e sviluppare tutti i fattori di reddito, tra i quali, peso crescente assumono ai giorni nostri i beni immateriali. Così come, del resto, oltre che dalla misura del reddito, la formula di capitalizzazione deve tener conto della qualità e della variabilità del reddito, cioè essenzialmente del rischio che ad esso si associa.

Ecco perché, badando alla conservazione ed allo sviluppo del capitale economico, l'imprenditore ed i managers garantiscono la vitalità ed il successo a lungo termine dell'impresa ed evitano l'alea che essa, distruggendo risorse preziose ed indispensabili, si condanni ad una vita effimera.

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Al secondo livello, come si è detto, vi è il tema della creazione del valore di mercato del capitale azionario. In questo ambito, gli obbiettivi perseguiti sono di tutta evidenza.

In primo luogo è ben noto che all'azionista in genere, ma in ispecie all'azionista risparmiatore detentore di piccole quote, quanto sta a cuore è l'accrescimento del valore di mercato delle sue azioni (Wm): soltanto questo gli consente di misurare come sia variata la sua ricchezza. Sia per la carenza di informazioni atte a consentire la stima del capitale economico, sia per la non liquidità di tale valore, il piccolo azionista sente in modo molto tiepido ed indiretto le vicende del capitale economico: quanto conta per lui è, insomma, il prezzo anche immediatamente realizzabile.

Ciò premesso, è evidente il rilievo che assume, nell'opera dei manager, la traduzione delle variazioni degli aumenti del capitale economico in aumenti di valore di mercato delle azioni; e quanta attenzione vada dedicata al tema. In mancanza di tale propagazione degli effetti di accrescimento del valore, l'obbiettivo – pur sempre rilevante – di sviluppo del capitale economico sarebbe incompiuto.

Oltre che per quanto detto, lo sarebbe anche per altre ragioni, cui i vertici d'impresa sono assai sensibili. Un elevato valore di mercato del titolo azionario consente in primo luogo la possibilità di ottimizzare, con emissioni azionarie a prezzi adeguati, il costo di raccolta di nuovo capitale. A ciò si aggiunga, come meglio si vedrà in seguito, che un elevato valore di mercato consente il contenimento del pay-out, cioè del rapporto dividendo/utile netto.

Al terzo livello, infine, si pongono i problemi riguardanti i rapporti tra valori di capitale economico e valori di mercato (Wm. Wmm). Rapporti che, per varie ragioni, è interesse dei vertici aziendali tenere sotto controllo. Ad esempio, un divario eccessivo, o con forti oscillazioni e perciò imprevedibile, tra W e Wm è giudicato molto negativamente dall'azionista-risparmiatore. Ciò in quanto egli trae soprattutto dal mercato la misura del valore creato e l'indicazione delle ragionevoli attese di ulteriori sviluppi. E' senza dire, fenomeno non meno rilevante dei Paesi in cui le società sono esposte al rischio di scalate, della

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possibilità che tale divario scateni la fantasia dei possibili raiders.

Per queste e per altre ragioni, delle quali si dirà compiutamente più avanti, la presenza di contenute differenze ed ordinate relazioni tra le varie figure di valori capitali (W-Wm; W-Wmm; ed anche Wm-Wmm) è da giudicare di grande importanza e meritevole di attente considerazioni.

La nostra proposta metodologica che, in sintesi, riconosce essenziale ed inderogabile per qualsiasi impresa l'obiettivo della creazione sistematica di valore, (o se vogliamo della massimizzazione del valore relativamente alle condizioni esistenti) non è dunque insensibile al problema del passaggio al mercato del valore così creato. Essa però sostiene che, anche in assenza della seconda (e perciò della terza fase) la prima mantiene il suo pieno ed inalterato significato. La dottrina di creazione del valore è perciò applicabile (e questo è molto rilevante nell'ottica europea) anche alle aziende non quotate, od i cui capitali non segnano comunque prezzi per lunghi periodi.

1.3 La creazione di valore: un obbiettivo razionale, accettato, stimolante, misurabile.

La creazione di valore capitale è un obbiettivo, per l'impresa, dotato delle caratteristiche di razionalità e di larga accettazione.5 Esso risulta inoltre

stimolante e misurabile. Per l'insieme di queste ragioni ha destato un così diffuso interesse ed un vasto movimento di opinione.

L'obbiettivo è innanzitutto razionale. E ciò per almeno due ragioni:

• da un lato, poiché assegna all'impresa una meta che è perfettamente

connaturata con la sua esigenza imprescindibile di sopravvivenza e di sviluppo; non di uno sviluppo qualsiasi ed a tutti i costi, ma di uno sviluppo secondo linee creatrici di valore: quindi selezionate ed indirizzate a garantirle il successo anche nel lungo periodo;

• d'altro lato, esso assegna priorità alla salvaguardia dell'interesse dagli

5 A. AMADUZZI, Obbiettivi e valore dell'impresa: misure di performance, Il sole 24 Ore, Milano, 2000

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azionisti: in ciò richiamandosi bensì all'esigenza di una equilibrata distribuzione dei risultati conseguiti (reddito in senso lato, oppure valore aggiunto) tra tutti i protagonisti della realtà aziendale: azionisti, managers, lavoratori; ma senza tuttavia trascurare le quote di valore aggiunto assegnate ai lavoratori, ed in particolare ai managers, hanno un significato diverso rispetto a quelle assegnate al capitale. Il soddisfacimento dei lavoratori ha infatti la caratteristica del rispetto di un vincolo necessario, del quale sono presenti anche considerazioni di natura etica e sociale, oltre che economiche: si tratta comunque di una quota di reddito che va preliminarmente dedotta dai risultati dell'impresa, cioè di un costo. Né sostanzialmente diversa è la posizione dei managers, il cui trattamento economico è pure un costo, anche se la frequente presenza di incentivi legati al profitto può attenuare tale condizione.

Agli azionisti spetta dunque la parte residuale del valore aggiunto, cioè il reddito in senso stretto (o profitto). Proprio la residualità di questa quota afferma che sull'azionista grava l'alea della gestione, che su di lui il rischio si riversa in massimo grado, mentre sugli altri protagonisti della vita d'impresa non grava affatto (oppure grava in forme indirette ed attenuate). Egli può essere o non essere, secondo i casi, il protagonista della gestione: ma comunque ne subisce le conseguenze. Il rapporto dell'azionista con la sua quota di valore aggiunto è in realtà ben diverso dal rapporto degli altri soggetti, in quanto egli è titolare dell'impresa, cioè ne ha in pieno senso giuridico la proprietà. I concetti sono di tutta evidenza nelle imprese personali e nelle società di persone, in cui gli imprenditori rispondono senza limiti; ma lo sono anche nelle società di capitali, salvo la limitazione del rischio ai beni conferiti. Sono dunque i concetti di titolarità (o proprietà) dell'impresa o di partecipazione al valore aggiunto a mezzo di una quota residuale che fanno dell'azionista un protagonista peculiare della vita dell'impresa, con le caratteristiche nettamente diverse rispetto agli altri soggetti.

Proprio perché l'interesse degli azionisti è un obbiettivo fondamentale per l'impresa. Pur senza aprire un dibattito sulla gerarchia degli obbiettivi, non vi è

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dubbio che l'obbiettivo in discorso, per la rilevanza ed universalità deve essere ben presente in ogni scelta strategica. Esso è il necessario riferimento di ogni programma, di ogni importante investimento, di ogni politica d'impresa.

In terzo luogo, poiché nel definire l'interesse degli azionisti porta l'accento sull'accrescimento del valore del capitale (∆ W), anziché sul dividendo.

Il capital gain diventa così il vero protagonista di tale “interesse”, con importanti ripercussioni positive su fenomeni rilevanti per il finanziamento dell'impresa (bassi pay-out, elevati prezzi di emissione delle azioni, vie sempre aperte agli aumenti di capitale, ecc..); e per il contenimento del costo del capitale proprio. L'obbiettivo della creazione di valore capitale è sicuramente dotato di larga

accettazione. Proprio perché assicura la sopravvivenza ed il successo a lungo

termine per l'impresa, è gradito a tutti i suoi protagonisti diretti: oltre agli azionisti, anche ai lavoratori e ai managers. E da questi ultimi è certo più facilmente accettato del profitto (che spesso i lavoratori non condividono e sul quale – anche se non palesemente – talvolta perfino i managers hanno riserve). Ciò anche per la ragione che il profitto è visto non di rado, non importa se a torto od a ragione, come una mietitura affrettata dei possibili raccolti. Qui talvolta si confonde il legittimo obbiettivo del profitto con l'esaltazione del risultato immediato, cioè del profitto a breve: che può anche essere la negazione di politiche avvedute e razionali di investimento, i cui risultati maturano nel medio/lungo termine. Ma non si può dimenticare che in qualche caso proprio questo avviene, specie quando i managers vedono legati ai risultati immediati i giudizi e i riconoscimenti (anche economici) sul loro operato.

La larga accettazione di cui trattiamo, mentre riguarda quasi senza riserve anche protagonisti indiretti della vita dell'impresa (ad esempio fornitori e clienti), proprio negli azionisti può sollevare qualche dubbio quando il dividendo viene chiaramente messo in secondo piano rispetto al capital gain; senza peraltro che di quest'ultimo si abbia la sicurezza e la misura certa.

In proposito si deve subito chiarire che la teoria della creazione del valore capitale non significa necessariamente che il dividendo sia un fenomeno trascurabile, o anche semplicemente da porre in secondo piano. Si può benissimo

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creare valore pur mantenendo una generosa politica di dividendi: anche se, così operando, la creazione di valore risulta ovviamente più contenuta. Invero solo se la teoria di creazione di valore si specifica nella formula di massimizzazione dell'interesse dell'azionista, cioè nell'obbiettivo di rendere massimo il valore della formula enunciata nel paragrafo 1; solo allora, invero, il dividendo può sottostare, a talune condizioni, all'esigenza di massimizzazione del valore complessivo. Su tali condizioni si ritornerà più avanti. Basti per ora rilevare che, quand'esse si realizzano, allora la massimizzazione dell'addendo capital gain può soverchiare il dividendo, cioè indurre a politiche di distribuzione restrittiva. In tal caso si instaura il principio di “massimizzazione del valore del capitale”che è una formula più spinta del “principio di creazione del valore”

Oltre che razionale e largamente condiviso, l'obbiettivo di creazione del valore risulta stimolante per gli imprenditori e managers. Esso introduce una mentalità aggressiva nei confronti dei valori spesso potenzialmente esistenti nell'impresa, ma che la scarsa fantasia od atteggiamenti conservativi o altre cause impediscono di far emergere. Induce, in altro aspetto, alla ricerca accurata e continua, e non occasionale, di tutte le opportunità (migliorando l'esistente, attraverso l'innovazione, ricorrendo ad acquisizioni e dismissioni, ristrutturando le fonti finanziarie, ecc..) affinché il valore del capitale sia esaltato.

Questo nell'aspetto della costruzione di nuovo valore.

Ma non meno rilevante è il sistematico appello a porre attenzione massima ai fenomeni che distruggono valore; e che l'ignoranza e la cattiva interpretazione delle informazioni disponibili, o semplicemente il desiderio del quieto vivere, hanno consentito di mantenere. Tali fenomeni distruttivi possono essere rappresentati da società controllate, da aree d'affari, o anche da specifici prodotti od iniziative.

Questa filosofia aggressiva nei confronti dei fattori distruttivi di valore, e che dunque lavorano in senso opposto rispetto alla creazione, è ben messa in luce dal quadro 1, che espone – secondo l'approccio in esame – un giudizio negativo, cioè di “distruzione del valore” in riferimento all'acquisizione di una partecipazione avvenuta da alcuni anni. Acquisizione che all'apparenza, in quanto produttiva di

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sia pur contenuti dividendi, non si segnalerebbe come particolarmente rischiosa Da ultimo l'obbiettivo della “creazione di valore” è misurabile. Le tecniche di valutazione del capitale economico hanno compiuto, negli ultimi decenni, passi avanti nella dottrina e nella pratica di numerosi paesi. E sebbene tali tecniche siano spesso differenti, esse non risentono più delle gravi lacune anche concettuali che un tempo le caratterizzavano. Hanno raggiunto un livello accettabile di razionalità; e sono confortate da un'esperienza ormai adeguata. Anche i managers, che devono applicarle, se ne sono impadroniti.

Il vero problema che, a proposito della misurabilità dei fenomeni in discorso, dev'essere affrontato non è tanto la stima periodica del valore del capitale economico, quanto il collegamento tra specifiche iniziative, alle quali si assegnano compiti di creazione del valore e le ripercussioni che da tali iniziative limitate e definite, quali l'acquisizione/cessione di un ramo d'attività o la chiusura di uno stabilimento inefficiente, o simili: come accade quando all'approccio della creazione di valore si assegnano compiti di strumento operativo.

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Anche in questo caso, pur con alcune limitazioni e con un certo margine di possibile errore, la misurabilità del fenomeno sussiste.

1.4 I fattori determinanti di “nuovo valore”.

Ai fini di un corretto inquadramento concettuale, appare preliminarmente utile l'individuazione delle cause d'ordine generale che sono, in ogni situazione, alla base della formazione di nuovo “valore”, cioè dell'accrescimento del valore del capitale economico (∆ W > 0) nel tempo. Secondo opinioni diffuse nella letteratura nord-americana, che ha dedicato molta attenzione al tema, si possono individuare tre fattori fondamentali: il tasso di profitto, la durata del profitto ed il tasso di reinvestimento degli utili. Esaminiamoli uno per uno.

1) Primo ed essenziale fattore è la differenza tra il rendimento atteso del capitale proprio (ROE) ed il costo del capitale proprio (ke), che sinteticamente chiameremo tasso di profitto (tp):

tp= ROE-ke

Risulta intuitivo il rilievo di questo fattore: se, infatti, il capitale proprio costa il 15% e renderà in prospettiva il 20%, il tasso di profitto del 5% è garanzia che ogni ulteriore investimento (sia raccolto sul mercato sia derivante da autofinanziamento) genererà crescenti valori del capitale proprio ( cioè ∆ W positivi e proporzionali a tp).

In via alternativa, anziché fare riferimento al capitale proprio, si fa riferimento al totale di mezzi investiti (passività comprese): in tal caso il tasso di profitto si traduce nell'espressione:

tp = ROI-costo medio del capitale proprio e dei debiti (wacc) in cui:

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Wacc = [ke • C + (1-t) r • D] / D + C , con D = indebitamento totale;

C = capitale proprio;

r = tasso medio d'indebitamento; t = tasso degli oneri fiscali

Il punto debole di questa costruzione concettuale è la definizione del costo del capitale proprio. Nell'ottica americana, si tratta sostanzialmente di una misura fornita dal mercato. Ma, a parte l'opinabilità di questa versione, che del resto è oggetto di critiche, le indicazioni di mercato sono inesistenti per altri Paesi.

Anche per tali ragioni, è più semplice, oltre che concettualmente più convincente, definire il tasso di profitto come differenza tra il ROE ed il tasso di capitalizzazione i

usato nella misura del capitale economico. Da ciò la scelta: tp = ROE – i

2) Un secondo fattore è la durata temporale del profitto. Non si deve dimenticare che, in condizioni di concorrenza perfetta, nessuna impresa può investire a tassi eccedenti il proprio tasso opportunità, cioè non esiste il profitto. In questa ottica l'obbiettivo centrale di qualsiasi comportamento strategico è la ricerca di opportunità innovative atte a creare disequilibrio; e quindi a proteggere e sostenere nel tempo tale situazione. Solo una condizione di vantaggio competitivo è all'origine del profitto; e tale vantaggio dev'essere, anche con l'aiuto della fantasia, continuamente rinnovato per durare a lungo. Il valore del capitale economico dipende dalla redditività a medio/lungo termine: per “creare” valore occorrono dunque attese di durata del profitto.

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3) Un terzo fattore è la crescita del capitale proprio “C” per effetto della ritenzione degli utili conseguiti. Se il tasso annuale del reinvestimento è definito con

p = R'/R

(in cui R è l'utile totale dell'anno ed R' è quanto viene investito), il tasso di crescita g del capitale proprio può essere espresso con

g = R'/C e quindi, posto che g = (R'/R)·(R/C);

può essere infine scritto:

I fattori indicati hanno, a loro volta, spiegazione in altri sub-fattori. Ad esempio gli elementi del tasso di profitto tp ( ROE ed i) hanno a loro volta vari componenti:

a) il ROE, spiegato con la formula: ROE = ROA – id(1-t)

in cui

ROA = rendimento calcolato sulle attività; id = interesse sull'indebitamento

t = aliquote delle imposte dirette (sul reddito). Dipende:

− dal ROA, a sua volta legato all'utile sulle vendite, cioè all'utile sulle vendite,

cioè al rapporto tra vendite e valore delle attività (V/A);

g = p · ROE

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− dal rapporto tra indebitamento e capitale proprio D/C; − dal tasso medio dell'indebitamento;

b) Il tasso i di capitalizzazione dipende a sua volta dalle componenti:

− tasso degli investimenti “senza rischio”(r); − rischio di settore;

− rischio specifico dell'impresa;

Il quadro 2, ispirato ad un lavoro di Hax e Majluf,6 con alcuni adattamenti, esprime in sintesi i fattori determinanti di “nuovo valore”. Il prospetto fa 6 A.C. HAX, N.S. MAJLUF, Direzione Strategica, edizione italiana, Ipsoa, 1987

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riferimento all'ipotesi di sviluppo senza aumenti a pagamento del capitale proprio. Ma può essere facilmente integrato in questo senso: anche per il nuovo capitale la capacità di generare “valore” è ancora una volta legata al tasso di profitto, alla sua durata, al tasso di reinvestimento.

1.5 I due momenti organizzativi: il controllo del valore; la gestione del valore.

La teoria e le pratica americana non hanno più dubbi: lo Shareholder Value

Approch non è da intendere solo come un principio guida, od una linea generale

di comportamento, per imprenditori e manager. Esso è un vero strumento operativo, col quale tutte le decisioni rilevanti devono misurarsi. Ancora fino a pochi anni or sono, a ben vedere, non erano rare le incertezze sulle effettive possibilità applicative dell'approccio: ed in particolare le incertezze riguardavano le concrete possibilità di tradurlo nei processi di pianificazione.7 Ma a questa

realizzazione sono state dedicate negli ultimi anni molte attenzioni: che hanno portato in varie società importanti al cosiddetto Value-Basic Planning, cioè alla pianificazione incentrata sulla “creazione del valore”.

A tal fine sono indispensabili alcune condizioni. In primo luogo occorre che la misura del capitale economico diventi possibile non solo a livello di impresa, ma anche:

− di singola area d'affari; − di singolo progetto;

A livello di aree d'affari, grande attenzione è rivolta all'obbiettivo di distinguere quelle che “creano” e quelle che “distruggono” valore. Le prime, ordinate a seconda dell'intensità della “creazione”, sono le naturali destinatarie delle risorse disponibili. Per le seconde si pongono problemi di contenimento dello sviluppo, o di riduzione dell'attività svolta, oppure di cessione o di liquidazione.

Un esempio, che può graficamente rendere con immediatezza l'idea è rappresentato dal grafico seguente.

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Andamento del valore del capitale dal tempo t1 al tempo t2.

Esso mette in relazione il valore del capitale economico (W) al tempo t1 ed al tempo t2 per varie aree d'affari a, b, c, d e per l'impresa nel complesso. Com'è evidente, mentre le aree a e c sono forti generatrici di valori in via assoluta (+20 e + 30) e relativa (+ 50%) e buona è pure la posizione di b, l'area d è forte distruttrice di valore (- 40 e – 36,3%). Nel complesso il progresso risulta perciò modesto (+ 20 e +8,3%), nonostante i forti impulsi delle aree positive.

Affinché l'approccio di creazione del valore possa effettivamente entrare come componente normale , di routine, nel processo di pianificazione aziendale, occorrono però precise condizioni, che secondo alcuni esperti possono così essere sintetizzate:8

1) occorre che si diffonda nei managers il convincimento e la consapevolezza che la “creazione di valore” è il riferimento essenziale per tutte le decisioni rilevanti;

2) dev'essere preparata una serie di norme e di processi che focalizzino il management su tale obbiettivo;

3) si devono stabilire criteri di valutazione, incentivi e riconoscimenti che 8 R.G. McLEAN, Planning for Value, Mc Kinsey Quarterly, 1990

area “a” area “b” area “c” area “d” impresa

0 50 100 150 200 250 300 Colonna D Colonna C Colonna B

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incoraggino i managers ad assumere decisioni basate sulla “creazione di valore”. Un dirigente della Pepsi Co., esprimendo opinioni diffuse anche nel management di altri grandi gruppi, descrive in questi termini i vantaggi creati dallo SVA:9 “Noi abbiamo ora un solido progetto

finanziario per il Gruppo. Conosciamo quali siano le divisioni più valide per noi, e quanto valore ciascuna creerà; conosciamo quali strategie creeranno più valore per ogni decisione; conosciamo il valore della nostra azione... Insomma, abbiamo gli strumenti per condurre meglio il nostro gruppo da un punto di vista strategico e finanziario”.

Quanto procede non lascia, dunque, dubbi sulle intenzioni e sui comportamenti seguiti da esperti e dai managers di alcuni grandi Gruppi americani. Ciò non toglie, tuttavia la possibilità e l'opportunità sul piano critico di alcune ulteriori considerazioni.

Nella nostra ottica, la teoria di creazione del valore ha un duplice significato: a) di periodica verifica dei risultati ottenuti dall'impresa: una necessaria integrazione dei dati e delle informazioni forniti dagli strumenti contabili;

b) di linea guida per una gestione dinamica ed innovativa del valore del capitale economico e ( se del caso) del valore di mercato delle azioni: avendo sullo sfondo l'obbiettivo di massimizzare tali valori, o quanto meno di mantenerli su livelli soddisfacenti, di non farli languire.

Con riguardo al primo obbiettivo, una verifica bi- o triennale del valore del capitale economico potrebbe essere sufficiente.

Il secondo obbiettivo pone invece molto maggiori esigenze sul piano organizzativo. Esso richiede, innanzitutto, che da giudizi generali e complessivi, rinnovabili a medio termine, si passi a giudizi ben più limitati nello spazio e nel tempo. A giudizi cioè che devono accompagnare le scelte rilevanti, che nella società e nei gruppi complessi si verificano più e più volte all'anno. E tali giudizi, per avere significato operativo, devono scendere al livello non solo delle singole società, ma delle divisione e delle aree d'affari cui le decisioni specifiche si riferiscono.

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Ciò è possibile se per i “centri” spazialmente limitati si dispone di una serie adeguata di dati e di informazioni per il passato; se si è in condizione di comporre attendibili previsioni sulle grandezze essenziali (costi, ricavi), così che possano esprimersi autonomi risultati economici ed autonomi flussi di cassa; se si è in grado di stimare il livello e la variazione dei rischi (e quindi dei tassi di attualizzazione); se si può comporre una distinta situazione patrimoniale e seguire nel tempo le variazioni.

Questi brevi richiami sulle esigenze organizzative confermano che si possono distinguere due momenti organizzativi ed applicativi sul tema in esame, corrispondenti a fasi successive e con crescenti difficoltà:

la fase della verifica del valore attraverso accertamenti periodici (in

linea con il significato a). Per le società quotate questa fase significa ovviamente anche confronti coi valori di mercato ed analisi delle relazioni con le diverse grandezze;

la fase di gestione del valore, al fine della “creazione” di nuovo valore,

o se vogliamo della sua massimizzazione (significato b). Per le società quotate, la gestione del valore si estende, ovviamente, anche ai prezzi di mercato.

Mentre la prima fase è alla portata di qualsiasi impresa, la seconda esige un apparato organizzativo adeguato e l'accettazione di una vera cultura del valore. La gran parte delle aziende italiane (e forse europee) è oggi già in grado di affrontare la prima fase; mentre per la seconda fase si esigono tempi più lunghi. Questa maturazione è però necessaria: la teoria del valore è essenzialmente spirito e cultura di “creazione” del valore. L'aspetto del controllo, pur significativo, è di secondo piano, se non proprio marginale.

1.6 Dalla massimizzazione del valore al Value Based Management.

La crescente diffusione della cultura del valore trova giustificazione anche nella possibilità di tradurre l'obbiettivo della massimizzazione del valore del capitale in

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un approccio operativo ai problemi gestionali (identificato nella terminologia anglosassone come Value Based Management,di seguito anche VBM).10

Le elaborazioni teoriche e le soluzioni pratiche risultano al riguardo sempre più diffuse e numerose.

Il Value Based Management può essere definito come: “un approccio ai problemi gestionali dell'impresa per il quale il principale obbiettivo da perseguire è la massimizzazione della ricchezza per gli azionisti. Gli obbiettivi d'impresa, il suo sistema, le strategie, i processi, le tecniche di analisi, le misurazioni delle performance e la cultura dell'impresa stessa trovano nella massimizzazione della ricchezza per gli azionisti, il loro obbiettivo “guida”.

Se, come abbiamo precedentemente accennato, l'idea alla base di tale approccio non è certamente recente, una sua sistematica applicazione può rivoluzionare e modificare in molti aspetti le scelte strategiche, la gestione, la struttura organizzativa, gli strumenti di rilevazione e la cultura stessa dell'impresa.

Da un punto di vista generale, gli aspetti coinvolti e le fasi in cui può essere suddivisa l'applicazione del VBM possono essere come di seguito identificati.

Il punto di partenza è la fissazione della massimizzazione della ricchezza per gli azionisti quale obbiettivo aziendale.

Tale obbiettivo viene identificato come l'obbiettivo che l'impresa intende 10 A. AMADUZZI, Obbiettivi e valore dell'impresa: misure di performance, Il sole 24 Ore, Milano,

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perseguire (metaobiettivo). Il perseguimento di obbiettivi particolari, come precedentemente detto, dovrà sempre essere verificato nella sua compatibilità con la massimizzazione del valore per gli azionisti. La fissazione dell'obbiettivo della creazione del valore comporta, come prima conseguenza, la ridefinizione delle strategie attuate dall'impresa.

Il processo di formulazione e valutazione delle strategie troverà nella massimizzazione del valore la sua chiave di lettura comune, nei termini e nelle modalità che verranno in seguito precisate.

La formulazione delle strategie avverrà, naturalmente, tenuto conto delle caratteristiche esterne del mercato dei beni e servizi di riferimento. Tali caratteristiche possono essere classificate in:

1) aspetti tecnologici riguardanti le modalità di produzione, i prodotti, il sistema informativo;

2) struttura dei mercati (concorrenti, clienti e fornitori); 3) quadro normativo di riferimento.

La ridefinizione degli obbiettivi strategici dell'impresa comporterà, peraltro, la rilettura della struttura organizzativa e dei confini dell'impresa.

L'analisi dell'impresa in termini di creazione del valore comporta infatti non solo l'identificazione della aree di creazione/distruzione del valore, ma anche un'approfondita analisi in merito alla opportunità di mantenere/dismettere:

• determinate aree di attività;

• determinate combinazioni di prodotti/mercato

determinate fasi del processo produttivo (make or buy)

Essa inoltre determina una ridefinizione dei criteri di scelta di integrazione a valle o a monte e delle forme di distribuzione (franchising).

Una sistematica applicazione del Value Based Management comporta quindi una profonda modificazione del modo di competere, delle scelte strategiche, della struttura organizzativa e dei confini dell'impresa.

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della cultura dell'impresa.

La centralità della creazione del valore per gli azionisti, le modalità per il suo conseguimento, gli aspetti coinvolti, la necessaria tensione al suo conseguimento sono differenti aspetti del profondo mutamento culturale necessario per una corretta applicazione del Value Based Management.

La dimensione e l'importanza di tale cambiamento varieranno ovviamente a seconda delle condizioni ambientali in cui opera l'impresa.

La diffusione della cultura del valore può essere infine schematizzata in alcune fasi tipiche:

• condivisione ed accettazione da parte dei vertici aziendali;

diffusione di un tipico processo di top-down dei principi del Value

Based Management.

A tale fase, che potremmo definire “educativa”, si associa l'identificazione delle misure di performance ritenute maggiormente significative e il loro utilizzo come strumenti di incentivazione, al fine di orientare i comportamenti dell'organizzazione aziendale alla massimizzazione della creazione del valore.

1.7 Quattro motivi per adottare il Value Based Management.

Vari fattori ambientali spingono il management ad adottare il VBM. In particolare per avere successo l'impresa deve avere performance elevate in quattro “mercati”: 1) dei prodotti e dei servizi, 2) del controllo delle imprese (acquisizioni), 3) dei capitali, 4) del lavoro (management skills). In questi mercati la pressione esterna è forte ed il management deve arginarla.11

Prodotti e servizi. Il ciclo di vita utile dei prodotti si accorcia

costantemente. La competizione è crescente. Nuovi concorrenti entrano nel mercato con prodotti nuovi e nuovi processi. Le nuove tecnologie dell'informazione hanno dato al potenziale cliente maggiore potere di scelta (più informazioni e più rapidamente). Per mantenere uno spread tra

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“economic profit” e costo del capitale il management deve costantemente individuare opportunità che diano prezzi più alti dei costi; deve dare risultati, deve prendere le migliori decisioni.

Controllo delle imprese. In una economia in cui le imprese sono

“contendibili” (nel senso che possono cambiare proprietari) gli azionisti/investitori che non chiedono creazione di valore sono sostituiti da quelli che invece la considerano l'obbiettivo principale. I “raider” individuano le imprese che pur avendo un potenziale positivo distruggono valore e non lo creano in misura adeguata. Incorporazioni, scalate ostili, ristrutturazioni, smembramenti e vendita di parti sono frequenti nella storia recente. Si giunge a suggerire che il management dovrebbe guardare alla propria impresa con la stessa ottica di un “raider”.

Capitali. Non meno intensa è la pressione che viene dal mercato dei

capitali. I grandi investitori (banche, fondi assicurazione) intervengono sempre più frequentemente per chiedere sostituzioni del management o dei consigli di amministrazione. La “rivolta” degli azionisti degli ultimi anni è un'altra dimostrazione di questa tendenza. Di fronte ad opportunità di investimento sempre più numerose, crescono le attese degli investitori.

Management. Il successo di un' impresa dipende dalla qualità del

management. I migliori sono attratti dalle imprese che creano valore, che danno opportunità di avanzamenti di carriera e danno compensi più alti. Si avvia così un circolo virtuoso.

1.8 Value Based Management e le scelte strategiche dell'impresa

L'identificazione della priorità della massimizzazione del valore per gli azionisti quale obbiettivo per l'impresa, pur non essendo un concetto di per se rivoluzionario, se applicato in modo sistematico, può comportare, come detto, un profondo mutamento delle scelte strategiche dell'impresa.

Nel corso degli ultimi anni numerose imprese, nella realtà anglosassone prima e in quella europea poi hanno “riesaminato” la loro attività, sia a livello di intera

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azienda sia di singola divisione, di area strategica d'affari o di linea di prodotto, sulla base delle seguenti domande:

1)qual'è l'ammontare del capitale investito nelle attività? 2)qual'è il rendimento per gli investitori generato dall'attività?

3) tale rendimento è superiore al costo opportunità delle risorse investite, pari al rendimento richiesto dagli investitori?

Tale revisione ha consentito di identificare le aree aziendali di “distruzione di valore” mettendo in luce la necessità di una revisione delle scelte strategiche assunte.

L'articolato processo di revisione strategica, sia a livello corporate che di singola area strategica d'affari (strategic business unit), può essere rappresentato nei suoi aspetti principali nella figura sotto:

Aree di revisione strategica in termini di creazione del valore

Come emerge dalla figura, senza alcuna pretesa di esaustività, a livello Corporate, i vertici aziendali procederanno a un'attenta analisi e revisione del portafoglio di attività detenute a una corretta gestione delle “leve del valore” che risultano comuni a più SBU (quali, per esempio, la gestione di un marchio

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aziendale o di un determinato patrimonio tecnologico ecc..)

Nella revisione del portafoglio di attività, l'analisi in termini di creazione del valore consentirà di comprendere quali SBU o, all'interno di esse, quali combinazioni di prodotto/mercato, concorrono al processo di creazione di valore e quali invece “distruggono” valore e devono quindi essere dismesse e ridimensionate.

Tale processo può essere suddiviso in tre fasi distinte:

1)rilettura in termini di creazione di valore delle SBU esistenti; 2)identificazione delle aree di crescita potenziale;

3)allocazione di capitale investito.

Prima di modificare le scelte strategiche assunte a livello di singole SBU è opportuno compiere una revisione del livello di creazione di valore delle strategie in essere.

A tal fine, una volta identificate le singole Business Units in cui opera l'impresa, e all'interno di queste le singole combinazioni prodotto/mercato, è possibile costruire un semplice grafico che fornisce un'immediata indicazione delle “aree” di creazione/distruzione di valore.

Successivamente a tale fase di analisi si procederà ad un'attenta revisione del processo di selezione/controllo dei singoli progetti di investimento, al fine di allineare tale processo ai principi del Value Based Management.

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Tipicamente il processo di selezione dei singoli progetti verrà svolto utilizzando una metodologia basata sull'analisi dei flussi di cassa, mentre il sistema di budgeting verrà strutturato non considerando esclusivamente dati contabili ma anche misure di performance di creazione di valore (value based metrics).

La struttura organizzativa aziendale, se del caso, verrà anch'essa modificata al fine di ottimizzare i processi decisionali e sfruttare al meglio, tramite un processo di delega più ampia, tutte le opportunità di ottimizzazione della creazione di valore dell'impresa.

La revisione delle strategie in essere a livello di singola SBU dovrà anch'essa avvenire alla luce dei principi del VBM.

A tal fine può essere utile differenziare l'analisi a tre differenti livelli:

a) analisi dell'attuale posizione strategica dell'impresa, nella quale le variabili ambientali esterne e le risorse e competenze dell'impresa vengono analizzate al fine di fornire una “fotografia” delle variabili rilevanti per la formazione del potenziale di creazione di valore dell'impresa;

b) fase di selezione strategica, in cui le singole opzioni strategiche vengono sviluppate e valutate;

c) implementazione strategica, che tipicamente comporterà un mutamento nella struttura e nei sistemi organizzativi, nella pianificazione delle risorse, nelle misure di performance utilizzate, nei sistemi di motivazione ed incentivazione.

1.8.1 Analisi dell'attuale posizione strategica dell'impresa

Al fine di valutare l'attuale posizionamento strategico dell'impresa e il suo potenziale in termini di creazione di valore sarà necessario valutare:

1) l'attrattività del settore. La struttura competitiva dei mercati dei beni e servizi offerti dall'impresa sono forse uno dei fattori più rilevanti nella

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determinazione del livello di profittabilità, attuale e prospettica, dell'impresa.

A tal fine, secondo un metodo di analisi tradizionale è necessario attentamente analizzare la struttura e i rapporti con:

a) concorrenti; b) fornitori; c) clienti;

d) potenziali nuovi entranti; e) prodotti sostitutivi.

E' possibile in tal modo suddividere i mercati di riferimento tra quelli strutturalmente attrattivi, nei quali tendenzialmente esiste e persiste un differenziale positivo tra rendimento e costo delle risorse investite e quelli non attrattivi, nei quali il suddetti spread è negativo;

2) la posizione competitiva dell'impresa all'interno del settore. All'interno di ogni singolo settore di riferimento, a prescindere dal suo livello di attrattività, l'impresa può detenere, rispetto ai propri concorrenti, una posizione competitiva che le consente di conseguire uno spread positivo (tra rendimento e costo delle risorse investite) sostenibile nel tempo.

Tale posizione di vantaggio può emergere da un'attenta analisi e confronto con i diretti competitori (Analisi del Gruppo strategico di appartenenza).

Tale analisi può essere affiancata da un'analisi a livello di singoli segmenti di mercato;

3) la fase del Ciclo di vita potenziale di creazione del valore dell'impresa. L'esistenza di un potenziale positivo in termini di creazione del valore non andrà valutata infatti in termini statici ma avendo riguardo alla sua probabile dinamica temporale.

Una posizione di vantaggio competitivo da parte dell'impresa in un settore attrattivo non garantirà infatti performance superiori nel medio/lungo termine senza che ciò venga supportato da un vantaggio competitivo sostenibile e dal fatto che le condizioni economiche strutturali del settore rimangano favorevoli. La dinamica competitiva fa sì che, in assenza di significative barriere d'entrata,

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rendimenti “straordinari” tendano ad essere erosi nel tempo dall'entrata di nuovi competitori.

A tale riguardo, è possibile descrivere la dinamica nel tempo del processo di creazione del valore dell'impresa facendo riferimento ad un modello convenzionale di “Ciclo di vita” suddiviso in quattro differenti fasi: introduzione, sviluppo, maturità e declino.

Ciclo di vita della creazione di valore dell’impresa

Nella fase di introduzione il vantaggio competitivo, e quindi la possibilità di conseguire un sovra-rendimento delle risorse investite, è tipicamente determinato dalla diffusione di un'innovazione o a livello tecnologico o di prodotti e servizi offerti.

In tale fase il livello assoluto delle vendite è modesto anche se cresce a tassi elevati. Il livello di rendimento delle risorse investite può essere non sufficiente a remunerare il loro costo.

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competitivo può essere rafforzata dal conseguimento di una posizione di leadership all'interno del settore, dalla progressiva formazione di una forte marca commerciale o dall'esistenza di diritti di brevetto.

In tale fase la dinamica di creazione del valore è progressivamente crescente e si caratterizza per un periodo in cui l'impresa riesce a conseguire elevati tassi di rendimento, ben superiori al costo delle risorse investite.

Progressivamente tale vantaggio può tuttavia essere eroso sia dall'entrata di nuovi competitori sia da un mutamento delle condizioni del settore in cui clienti e fornitori acquisiscono un maggior potere contrattuale. Alternativamente la fase di maturità può essere determinata dall'introduzione di innovazioni da parte dei concorrenti, in grado di offrire prodotti e servizi “superiori”, o da un accrescimento dei costi sostenuti dall'impresa.

Entrata nella fase di maturità, qualunque ne sia la causa, l'impresa può alternativamente:

a) cercare di erigere barriere all'entrata di nuovi concorrenti;

b) continuamente innovare così da offrire un prodotto superiore rispetto ai concorrenti.

Nel caso in cui tali azioni risultino o vengano considerate insufficienti l'impresa dovrebbe procedere al disinvestimento delle attività ora distruttrici di valore e reinvestire le risorse così reperite in SBU caratterizzate da prospettive positive in termini di creazione del valore.

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Analisi del posizionamento competitivo in termini di creazione del valore: grafico di sintesi12

Le variabili rilevanti nell'analisi dell'attuale posizione competitiva dell'impresa, così brevemente descritte, possono essere riassunte nel grafico riportato sopra.

1.8.2 Scelta strategica

Nella fase di selezione e scelta delle singole opzioni strategiche il management deve decidere quali siano quelle caratterizzate da un maggiore potenziale in termini di creazione del valore, grazie alle quali sia quindi possibile conseguire un vantaggio competitivo:

1) strategie di leadership di costo; 2) strategie di differenziazione;

3) strategie di focalizzazione su singoli elementi di prodotto mercato. 12 I cerchi rappresentano la dimensione, in termini di capitale investito assorbito, dalle singole aree,

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Qualsiasi sia l'opzione strategica assunta questa deve essere attentamente valutata.

A tale riguardo gli strumenti a disposizione risultano di due tipi: qualitativi e quantitativi.

I primi tendono a valutare la singola opzione strategica in base al suo contenuto di creatività, di intuizione, di capacità di analisi e giudizio del soggetto proponente.

I secondi mirano a tradurre le singole opzioni strategiche in dati presentati usualmente secondo i tradizionali schemi contabili (ROI, ROE, Utile per azione, impatto sullo stato patrimoniale ecc...). Tali misure tuttavia, come vedremo ampiamente in seguito, non riescono ad evidenziare in modo diretto l'impatto delle singole opzioni strategiche sul processo di creazione del valore e devono essere integrate da misure di performance in grado di misurare tale processo (value based metrics).

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1.8.3 Implementazione strategica

L'ultima fase di revisione strategica attiene alla possibilità di mutare la struttura organizzativa aziendale, le misure di performance utilizzate e gli strumenti di incentivazione al fine di allineare i comportamenti dell'organizzazione all'obiettivo della creazione del valore.

1.9 Come valutare la strategia

La definizione dell'attrattività del settore comporta la valutazione delle possibilità di creazione di valore nei settori in cui opera ciascuna delle Business Unit dell'azienda.13

Risulta essenziale per questa analisi la valutazione del rischio strategico. La variabile rischio può essere studiata sia dal punto di vista dell'investitore, sia dal punto di vista del management. Il primo considera due tipologie di rischio:

• il rischio specifico, legato strettamente alle sorti dell'impresa e, in quanto

tale, eliminabile tramite la diversificazione del portafoglio;

• il rischio sistematico connesso all'andamento dell'economia e, come tale

ineliminabile.

Da ciò si deduce che gli investitori si preoccupano unicamente delle parte parte del rischio non diversificabile ed è per questo che, per coprirsi da esso, richiedono un compenso aggiuntivo.

Dal punto di vista del management, invece, il rischio globale può assumere le forme di:

• rischio di impresa, che deriva dall'incertezza inerente alle attività delle

bisiness unit dell'azienda e che può essere misurato attraverso le stime della variabilità del cash flow;

• rischio finanziario, ovvero quel rischio legato alla presenza di obbligazioni

e di debiti di natura finanziaria delle business unit.

E' bene precisare che talvolta il costo del capitale di una business unit, calcolato unicamente in base al rischio di mercato, può sottostimare il rischio azionario,

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non tenendo conto di un altro tipo di rischio: il rischio di fallimento. Ipotizzando, infatti, che un investitore abbia investito in diverse imprese e che le perdite per il fallimento di una di queste siano solo in parte compensate dai guadagni ottenuti nelle altre, allora quanto sarà maggiore la probabilità che un'impresa fallisca, tanto più l'investitore richiederà tassi di redditività più alti di quanto indicherebbe il solo rischio sistematico.

Per quanto attiene al management, questo si trova, a differenza degli investitori, ad avere gran parte dei propri risultati economici e finanziari legati in modo inscindibile alle sorti dell'impresa e delle sue business-unit, e non può bilanciare il rischio di fallimento con altri rischi. La prospettiva del fallimento viene per questo motivo considerata dal management con molta maggiore preoccupazione rispetto agli investitori e l'avversione al rischio si manifesta, in questo caso, nella propensione verso tassi di rifiuto particolarmente alti per tutti quei progetti e strategie a rischio elevato.

Si può allora valutare il modo in cui l'analisi dell'attrattività del settore del Porter facilita la valutazione del rischio d'impresa. Le determinanti di tale rischio sono:

• variabilità della domanda: più essa è stabile minore è il rischio; • variabilità del prezzo di vendita;

• rigidità dei costi, se essi sono in gran parte fissi; • variabilità dei prezzi d'acquisto;

• possibilità di modificare i prezzi di vendita in funzione dei prezzi di

acquisto: tanto maggiore è questa possibilità, tanto minore sarà il rischio d'impresa.

1.10 Il capital Budgeting

Creare valore significa ottenere una redditività del capitale investito superiore al costo di tale capitale. Il VBM richiede di misurare tale fenomeno con criteri rigorosi ed analitici per la valutazione della convenienza economica di operazioni aziendali che comportano l'impiego di mezzi finanziari. Ciò deve avvenire:

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pervenendo a stime dell'incremento di valore del capitale degli azionisti conseguibile con lo sviluppo della scelte strategiche alternative a quelle in essere;

• sia in un ottica più parziale, di breve periodo, pervenendo alla definizione

dell'incremento di valore conseguibile in un anno e derivante dalle scelte di breve periodo, previste a budget.

L'obbiettivo di creazione di valore nei sistemi di Capital Budgeting, ossia del processo di programmazione, esecuzione e controllo delle operazioni di investimento, sia in capitale fisso che circolante, viene a coincidere con il concetto di Capital Efficiency, inteso come il maggior incremento possibile del

Free Cash flow. In altre parole, si deve cercare di raggiungere gli obbiettivi

dell'investimento limitando nel contempo il dispendio di risorse finanziarie ed incrementando, quindi, i flussi di cassa.14

In un ottica di VBM, quest'idea fondamentale è applicabile non soltanto agli investimenti di grandi dimensioni, generalmente sotto il controllo del vertice aziendale, ma anche agli investimenti di piccole e medie dimensioni, gestiti dalla struttura organizzativa in tutte le sue articolazioni. Questi ultimi difficilmente possono essere gestiti dal centro, in quanto esigono conoscenze e competenze gestionali approfondite, che sono presenti solo a livelli inferiori dell'organizzazione.

Affinchè l'obbiettivo perseguito sia un parametro guida per tutte le tipologie di operazioni di investimento, occorrerà agire sul piano metodologico, organizzativo ed infine anche culturale. Il primo punto da affrontare riguarda le tecniche da adottarsi in sede di valutazione delle alternative di investimento. I criteri adottati, otre a rendere possibile l'apprezzamento della redditività dei progetti, devono obbligare il management a esplicitare l'ipotesi di andamento dei parametri. Si deve tener presente che alla base di qualsiasi decisione, il riferimento costante è l'albero del Free Cash Flow. Lo sforzo risulta ancora quello di individuare le variabili fisiche collegate a quest'ultimo (i determinanti del valore), evidenziando benefici e costi di ogni proposta. Il secondo aspetto da

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osservare è la nuova dimensione organizzativa dei sistemi di capital Budgeting. Il dover coinvolgere attivamente nella realizzazione dell'obbiettivo aziendale i livelli manageriali intermedi e di linea e, nel contempo, utilizzare tecniche di valutazione complesse, richiede l'adozione di un processo organizzativo ben strutturato.

Non si devono trascurare le ultime due fasi, quelle relative al controllo dello stato di avanzamento di un progetto e di valutazione a consuntivo dello stesso. Il momento realizzativo risulta cruciale al fine di raggiungere un reale impatto positivo sul Cash Flow, ma risulta altrettanto importante monitorare e valutare le variabili di redditività attesa.

Il Capital Budgeting: programmazione, esecuzione e controllo delle operazioni di investimento

1.11 Monitorare la creazione di valore: il value Reporting

L'attività di gestione di un'azienda si estrinseca in una successione continua di decisioni e di azioni conseguenti. Per facilitarne l'efficace svolgimento è di fondamentale importanza poter disporre sinteticamente delle informazioni necessarie. Nelle aziende la funzione di amministrazione e controllo assume allora il ruolo di “fornitore” del prodotto informazione, nell'ottica della qualità e

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della soddisfazione delle molteplici esigenze dei suoi diversi “clienti”. Si tratta, in primo luogo, di clienti interni rappresentati dai responsabili delle diverse unità organizzative, a tutti i livelli, ossia del management aziendale; e, in secondo luogo, di clienti esterni, quali gli azionisti, gli enti dello Stato, le banche, i creditori. Lo scopo da perseguire è quello di ottenere una coerenza tra tutte le informazioni prodotte e le mutevoli e diversificate esigenze informative aziendali. Diventa, allora, di fondamentale importanza, ai fini del successo di un'azienda, un sistema di reporting che rilevi, organizzi e comunichi le informazioni destinate a supportare l'attività gestionale.

La definizione di obbiettivi coordinati e la programmazione delle azioni necessarie per raggiungerli costituiscono il primo momento di razionalizzazione a priori della gestione aziendale. La loro efficacia sarebbe però grandemente ridotta se ad essi non seguisse la verifica sistematica e tempestiva dei risultati effettivamente raggiunti. Il reporting direzionale è allora lo strumento informativo fondamentale per raggiungere questo scopo, essendo costituito da un insieme strutturato di rendiconti (report),che mettono a confronto i dati effettivamente consuntivati con quelli programmati, al fine di:

• evidenziare il rispetto o meno degli obbiettivi programmati; • identificare le cause degli eventuali scostamenti;

• favorire l'adozione di azioni correttive;

• valutare le prestazioni dei vari responsabili operativi.

Per rispondere agli obbiettivi posti ad un sistema di reporting, l'azienda deve definirne chiaramente la struttura in funzione di quelli che sono i suoi attributi caratteristici. Il primo di questi riguarda i contenuti, ossia la natura delle informazioni, quantitative e qualitative, sia globali che parziali. Il reporting direzionale si compone, in prevalenza, di valori economico monetari, ma questi devono essere integrati con elementi di natura fisico/tecnica e qualitativa, che svolgono una funzione informativa di notevole rilievo.

La struttura più ricorrente in tema di contenuti è quella relativa all'analisi degli scostamenti tra i valori preventivi di budget e i valori consuntivi, analisi che fa riferimento sia alle componenti economiche elementari, sia ai centri di

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responsabilità che sono chiamati a gestirle.

Negli ultimi anni a questo tipo di struttura si sta affiancando ed integrando un sistema di reporting legato, più che alle singole aree di responsabilità, ai processi aziendali ed alle variabili che a questi si riferiscono. I processi aziendali, per essere efficacemente gestiti, necessitano non solamente di informazioni economiche, ma anche di quelle operative, relative alle variabili che condizionano sia i risultati di breve periodo sia quelli strategici di medio/lungo periodo.

Il giudizio sulla validità delle singole variabili si attua attraverso l'individuazione degli indicatori che meglio le rappresentano e che sono più facilmente misurabili. Questi possono essere di origine interna o esterna, prevenivi o storici.

Il Value Reporting: non solo informazioni economiche

L'articolazione del reporting identifica invece la numerosità e la natura dei livelli di aggregazione delle informazioni, ossia le dimensioni gestionali rispetto alle quali l'azienda intende procedere alla determinazione dei risultati economici parziali. In altre parole, si tratta di definire la profondità a cui arrivare nella scomposizione dei principali indicatori aziendali, economico-patrimoniale-finanziari, in risultati riferibili a specifici processi, settori o funzioni aziendali. Le

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