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Parte II Capitolo I Il futurismo e la fotografia

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Parte II

Capitolo I

Il futurismo e la fotografia

Fermo restando che dovremo riprendere a breve le considerazioni, svolte in chiusura della prima parte, su una eventuale vita di frontiera della fotografia - un mezzo nato e cresciuto a cavallo di due secoli, ma, soprattutto, a cavallo di una profonda rivoluzione estetica - diamo il via a questa seconda parte dedicata al Novecento proprio col parlare di un movimento, quello futurista - generalmente riconosciuto come la prima avanguardia1 - che si è fatto latore di una cesura

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netta nei confronti dei modi di fare e pensare l’arte, così come si erano andati via via definendo durante il secolo precedente. Ciò che naturalmente ci interessa è vedere come questo movimento, promotore del nuovo in arte, si sia potuto e saputo rapportare alla fotografia, con particolare attenzione alle fotografie sperimentali dei fratelli Bragaglia e al loro Fotodinamismo futurista. Alcune coordinate storiche. Il movimento si apre ufficialmente con il manifesto letterario nel 1909, ad opera di F. T. Marinetti. Il manifesto della pittura futurista segue a distanza di un anno firmato da G. Balla, U. Boccioni, C. Carrà e L. Russolo. Solamente nel novembre 1930 - «a giochi fatti» come commenta Marra2 - Tato (il bolognese Guglielmo Sansoni) firma il manifesto della fotografia futurista, controfirmato dallo stesso Marinetti.

nell’arte un interesse ideologico e deliberatamente prepara ed annuncia un radicale rivolgimento della cultura e perfino del costume, negando in blocco tutto il passato e sostituendo alla ricerca metodica un’audace sperimentazione nell’ordine stilistico e tecnico». Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva,

L’arte moderna. 1770-1970. L’arte oltre il Duemila, Sansoni, Milano 2003,

p. 159.

2

Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Una storia “senza

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Il futurismo si caratterizza sin dal principio per l’esaltazione della macchina industriale, della tecnologia e del nuovo dinamismo da essa inaugurato. «Nei manifesti futuristi si chiede la distruzione delle città storiche (per esempio Venezia) e dei musei; e si esalta la città nuova, concepita come un’immensa macchina in movimento. La rivoluzione che si auspica è in realtà la rivoluzione industriale o tecnologica […] nella nuova civiltà delle macchine, gli intellettuali-artisti dovranno rappresentare l’impulso spirituale del “genio”»3.

Visto l’assetto teorico del movimento fortemente improntato sull’esaltazione della tecnica (non di quella tradizionale ma di quella industriale, quella che ha generato e diffuso – come abbiamo visto in precedenza – anche l’apparecchio fotografico) e dei suoi prodotti, appare particolarmente significativo il silenzio, durato venti anni, intercorso tra i primi manifesti futuristi (quello della cinematografia futurista,

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sintomaticamente, è del ’16) e quello del ’30 dedicato alla fotografia; quello che viene descritto da Marra

come «un riconoscimento di maniera»4 giunto troppo

tardi e a conti fatti: quando il destino critico della fotografia nel sistema delle arti (e forse anche del futurismo) sembra ormai già scritto.

A veder bene non si tratta di un silenzio quanto di una consapevole presa di posizione, un allineamento in quella contesa nei confronti della fotografia che aveva caratterizzato la scomunica ottocentesca. Difatti i

sostenitori della città industriale reagirono

polemicamente alla pubblicazione del volumetto

Fotodinamismo futurista, del 1913 ad opera di Anton

Giulio Bragaglia, che promuoveva, in un tentativo di avvicinamento - se non di imitazione - alle direttive del movimento futurista, il lavoro fotografico dei due fratelli di Anton Giulio: Arturo e Carlo Ludovico. Procediamo per gradi.

4

Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Una storia “senza

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Nel 1910 Arturo e Carlo Ludovico avevano dato avvio a una sperimentazione fotografica molto particolare: si trattava di un approfondimento, uno studio visuale del gesto, del movimento. In aperta contrapposizione con le immagini di Marey (anche se a torto, visto che la sperimentazione dell’autore francese anticipava a buon diritto negli esiti quella dei due fratelli di Frosinone e non solo5) e di Muybridge, le foto dei due fratelli riproducevano il moto nelle loro fotografie in maniera continua e unitaria: il gesto di una mano non veniva congelato in un’istantanea e neppure smontato analiticamente in una serie di immagini distinte, ma riportato come un’unica traccia sulla singola fotografia. Queste immagini mosse, che avevano il compito - alla luce del volumetto composto dal fratello Anton Giulio, responsabile della loro identità e identificazione estetica6 – di mostrare il senso intimo del movimento,

5

È Aaron Scharf a notare l’enorme somiglianza tra le fotografie di Marey dei ginnasti e alcune prove di Boccioni, tra cui la nota scultura intitolata Forme

uniche nella continuità nello spazio. Lo stesso Marey nel 1887 aveva

commissionato la traduzione in scultura di alcune sue opere come quelle raffiguranti il volo di un gabbiano, ripreso nelle varie fasi ma in continuità come nell’opera di Boccioni. E, ancora, alcuni quadri di Balla come Ragazza

X Balcone del 1912 o Movimenti rapidi: linee andamentali + successione dinamica del 1913. Aaron Scharf, Arte e fotografia, Einaudi, Torino 1979,

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furono presentate pubblicamente nel 1911 in una conferenza tenutasi a Roma in via Mantegazza. Nonostante le precauzioni messe in opera dai Bragaglia questo testo provocò sentite reazioni da parte proprio dei pittori futuristi, assai poco disposti ad accettare una comunione col lavoro di alcun fotografo. Partiamo proprio dalle precauzioni. Fotodinamismo futurista si apre con questa affermazione: «Ci piace inoltre far osservare che io e mio fratello Arturo non siamo fotografi, e ci troviamo ben lontani dalla professione di fotografi»7. Contraddicendo ogni evidenza i Bragaglia negano che la loro opera sia assimilabile alla fotografia, intendendo in realtà prendere le distanze dalla professione che più di ogni altra sembrava riscuotere le antipatie del mondo della pittura. Rendendosi conto della diffidenza critica oramai affermatissima presente nel mondo dell’arte nei confronti della fotografia e dei fotografi, la loro prima preoccupazione è proprio quella di differenziare il loro lavoro da quello del comune fotografo, convinti che

secondo Marra, sarebbe stato il terzo fratello, Anton Giulio, a ripertinizzare il loro lavoro e conferirgli la valenza estetica vantata nel libro citato,

Fotodinamismo futurista.

7

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solo questo sia il modo per essere accettati dal movimento. Altro tentativo di guadagnare l’accettazione è la dichiarazione di debito nei confronti della pittura futurista, presente poche pagine più oltre, e l’offerta di un apporto scientifico capace di consolidare le fondamenta della pittura e della scultura movimentiste. Le fotodinamiche insomma come strumento di comprensione delle leggi intime del movimento, un’identità in bilico tra quella di opera d’arte e scienza. «La Fotodinamica, ricordando anche ciò che fu da uno stato all’altro, compie opera trascendente la condizione umana, così da divenire

essa una fotografia trascendentale del movimento».8

Sulla falsa riga della critica ottocentesca, della fotografia (tradizionale) viene messa sotto accusa la vuota realisticità e, in particolare, il bersaglio preferito

appare «l’errore bestialissimo dell’istantanea»9,

responsabile di falsificare la natura del movimento, di non fornirne per cui una manifestazione aderente, vera - se non all’apparenza - incapace di cogliere, come invece le fotodinamiche, l’«essenza interiore delle

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cose»10. Così come altri tentativi di avvicinamento possono essere considerati la critica della scultura classica, dell’arte passatista, o, per converso, l’esaltazione poetica dell’automobile e della rivoluzione tecnologica novecentesca, di cui il fotodinamismo dovrebbe accogliere naturalmente l’eredità. «Noi ricerchiamo la essenza interiore delle cose […] nel moto, le cose dematerializzandosi, si idealizzano, pur possedendo ancora, profondamente un forte scheletro di verità […] vogliamo elevare la fotografia sino a quelle altezze»11.

Come si può facilmente riconoscere la critica che i fratelli Bragaglia pongono nei confronti della fotografia tradizionale, tenendosene per quanto loro possibile ben alla larga, ricalca quella nata in pieno Ottocento in seno al dibattito sul realismo.

10

Ivi, p. 35.

11

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Nonostante un evidente parallelismo tra le scoperte nel visivo della fotografia e le ricerche in campo pittorico dei futuristi, l’aspra scomunica nei confronti dei Bragaglia non si fece attendere.

«Nell’intento di trovare nuovi elementi compositivi, i pittori futuristi sono portati ad annettere alla rappresentazione pittorica tutte le scoperte vis ive della fotografia, così come ogni formalizzazione scientifica realizzata a partire dall’occhio meccanico: il raddoppiamento della forma come tematizzazione cinetica del tempo (Marey); la materializzazione dei raggi luminosi e la trasparenza dei corpi interpretate come corrispondenti a una sensibilità ottica resa più acuta dal dinamismo […] la molteplicità simultanea dei punti di vista come evocazione emozionale e affettiva del movimento (Muybridge) […] la curvatura di campo e le distorsioni ottiche degli obiettivi grandangolari ipergonici come possibilità di intensificare il vitalismo emozionale dell’immagine mediante una prospettiva irradiante che situi “lo spettatore al centro del quadro”»12.

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Nonostante le parentele individuate da Lista tra la poetica e le ricerche stilistiche movimentiste e certe specifiche qualità dell’occhio fotografico, dicevamo, i pittori reagirono aspramente alla pubblicazione del libro dei Bragaglia. Nel settembre 1913, a pochi mesi dalla pubblicazione del suddetto volume, attraverso una lettera al direttore di una galleria d’arte romana, Giuseppe Sprovieri, invitato a non prendere in considerazione l’opera dei due fotografi per un eventuale mostra collettiva del Futurismo, Boccioni e compagni (segnatamente Carrà, Balla, Soffici, Russolo e Severini) rifiutano le tesi espresse da Anton Giulio e la possibilità di qualsiasi legame tra il lavoro di Arturo e Carlo Ludovico e quello degli artisti appartenenti al movimento. Anche il rifiuto di Boccioni nei confronti della fotografia – della fotografia in generale, non solamente quella dei Bragagaglia - sembra ricalcare la critica baudelaireiana, insistendo sul tanto detestato, vuoto mimetismo di cui è ritenuta portatrice, quando

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dice: «una benché lontana parentela con la fotografia l’abbiamo sempre respinta con disgusto e con disprezzo perché fuori dall’arte. La fotografia in questo ha valore: in quanto riproduce ed imita oggettivamente, ed è giunta con la sua perfezione a liberare l’artista dalla catena della riproduzione esatta del vero»13.

E ancora, ma questa volta Balla nel 1918: «Data l’esistenza della fotografia e della cinematografia, la riproduzione pittorica del vero non interessa né può interessare più nessuno»14.

A parte questo quella che è messa in discussione da Boccioni è pure la struttura limitante della visione fotografica in contrapposizione alla libertà del pittore:

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punto di vista monoculare e fisso versus visione aperta, aggregante e libera.15

Come si esprime Marra: «se nel 1859 si poteva anche comprendere lo spirito di un Baudelaire quando parlava della fotografia come “palestra dei pittori mancati”, francamente, nel secondo decennio del Novecento, ci si potrebbe attendere qualcosa di più»16. Ma appare doveroso aggiungere un aspetto che nelle parole appena citate di Marra resta ancora implicito: la critica espressa nel 1859 da Baudelaire non è solo più comprensibile, cioè più perdonabile; ma assume, visto il contesto in cui è stata espressa, una valenza assai differente rispetto a quella incarnata dalla scomunica futurista. La critica di Baudelaire, come abbiamo visto, nasce come critica all’arte realista, attenta alla riproduzione scientifica, metodica della natura e non all’ideale, a quel che di profondamente umano la sola

15

«Il pittore non si deve limitare a ciò che vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice fotografo, ma riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni direzione, dal balcone”, riportato in E. Crispolti, Storia e critica del

Futurismo, Laterza, Bari 1986, p. 163.

16

Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Una storia “senza

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immaginazione è capace di liberare. Se come dice Schwartz i prodromi del realismo ottocentesco – una vera moda imperversante all’epoca e colpevole di riempire di lavori omologati l’uno all’altro, a parte le solitarie eccezioni, gli spazi delle esposizioni parigine - vanno ricercati nell’epoca rinascimentale è evidente che la critica del poeta francese appare non solo più perdonabile, ma anche più lungimirante e tutt’altro che reazionaria come ormai appare quella dei pittori futuristi. Resta in entrambi i casi - quello di Baudelaire e quello dei futuristi - l’ammissione di un’esplicita o implicita «accettazione di un’idea di arte fondata su

una manualità retoricamente “alta”»17. È questa

ammissione, questo rifiuto della meccanicità e automaticità, implicite nello strumento fotografico, ad apparire semmai conservatore in entrambi i casi.

Ed entrambi questi due limiti critici vanno significativamente e più colpevolmente ascritti ai Bragaglia, ai quali venne indirizzato, circa un mese

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dopo la lettera a Sprovieri, anche un messaggio su

Lacerba (sempre firmato dai pittori futuristi Boccioni,

Carrà, Russolo, Soffici e Severini) dove vi era scritto: «Data l’ignoranza in materia d’arte, e per evitare equivoci, noi pittori futuristi dichiariamo che tutto ciò che si riferisce alla fotodinamica concerne esclusivamente delle innovazioni nel campo della fotografia. Tali ricerche puramente fotografiche non hanno assolutamente nulla a che fare col Dinamismo plastico da noi inventato, né con qualsiasi ricerca nel dominio della pittura, della scultura e dell’architettura»18.

La presa di distanza manifestata quindi dal primo futurismo e conclusasi, lo ricordiamo, tardivamente nel novembre del 1930 col Manifesto della fotografia futurista è, così, assoluta, senza reticenze.

18 M. Drudi Gambillo – T. Fiori (a cura di), Archivi del futurismo, De Luca,

Roma 1958, vol. I, p. 288, riportato in Claudio Marra, Fotografia e pittura

nel Novecento, Una storia “senza combattimento”, Paravia Bruno Mondatori

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La spiegazione che ne fornisce Argan, accettata anche

da Marra19, è chiaramente espressa in questa sue

parole: «se fra il foto-dinamismo di Bragaglia e il dinamismo plastico futurista non c’era una divergenza teorica così grave da giustificare la scomunica, l’incompatibilità nasceva dal fatto che la ricerca di Bragaglia usciva dal sistema delle arti che il Futurismo aveva ormai accettato e convalidato, e che soltanto più tardi, dal dadismo sarà rimesso, e per sempre, in crisi»20. O, per dirla con Marra, «l’opposizione dei futuristi alla fotografia trova reale spiegazione in una mancata e autentica revisione dell’intero settore delle arti visive, un ambito che, nello sviluppo del loro sistema estetico, continua a proporre il quadro come unico e immutabile strumento espressivo»21.

19

E a cui potrebbe essere aggiunta la testimonianza di Scharf: «Con tutto il loro professato amore per le macchina, con tutta la loro ostilità per le concezioni tradizionali dell’arte, i pittori futuristi non si servirono mai della fotografia per dimostrare il loro rapporto con la tecnica moderna. Non furono capaci di svincolarsi completamente dalle idee convenzionali». Aaron Scharf,

(16)

Capitolo II

Materialità e concettualità della fotografia

Un medium strutturalmente moderno che può

all’occorrenza fruire dello statuto di medium

contemporaneo. La fotografia, come abbiamo visto in chiusura della prima parte del presente lavoro, si porta dietro l’eredità assai cospicua – e per il rinnovato panorama artistico novecentesco assai ingombrante - della camera obscura e, attraverso di essa, una visione del mondo, quella moderna, che nel periodo di transizione che andiamo affrontando stava rapidamente mutando. Abbandonare in arte il realismo di matrice rinascimentale, che durante l’Ottocento si era alimentato anche dell’esperienza rivoluzionaria dell’apparecchio fotografico, significava in un certo senso necessariamente respingere la fotografia. Come medium strutturalmente moderno essa poteva essere destinata a breve vita, a scomparire dopo meno di un

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secolo di operato quando le rivoluzioni nel campo dell’immagine sembravano aver soppiantato quella esigenza di veridicità, di precisione che solo essa poteva soddisfare. E senza neppure essersi affermata come nuova arte ed anzi apparentemente destinata ab

aeterno a inseguire condiscendentemente la sorella

maggiore, la pittura, per ambire a ricevere una considerazione critica di pari livello.

Proprio nel momento in cui la rappresentazione pittorica – e secondo alcuni, come abbiamo visto, il processo era stato accelerato dall’avvento del medium fotografico – si liberava dell’esigenza di ricopiare il reale e vi sostituiva un autonomia e una affrancatura dalla visione senza precedenti, essa poteva ormai sembrare inesorabilmente affacciata al tramonto. Eppure così non fu, ed anzi fu proprio all’interno di movimenti come il dadaismo o il surrealismo – anche se non del futurismo, come abbiamo visto - che sconvolsero profondamente le logiche del quadro e

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dell’arte in generale, che essa trovò una seria rivalutazione estetica.

Addirittura il complessivo mutamento dell’identità artistica e della concezione di opera che fu inferto da queste avanguardie all’arte tradizionale non fece che avvantaggiare la fotografia nel suo percorso di affermazione in campo artistico. È questo che ha portato Marra, come dicevamo, a parlare di una doppia natura dell’apparecchio fotografico: una moderna ed una contemporanea.

Più precisamente, nella sua argomentazione, vi si annovera un’identità materiale – ed è quella che in linea di principio lega la fotografia alla modernità – ed una concettuale – che nell’uso può affrancarla e rivelarne la sua capacità di essere medium contemporaneo.

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La prima è legata alla materialità della fotografia: la fotografia come oggetto, come immagine bidimensionale in cui «dar corso a una qualche rappresentazione del mondo»22; mentre la seconda è un’identità meno palpabile - in certa fotografia quasi completamente latitante - e che riguarda l’uso e la ricezione dell’immagine fotografica. Insomma «si parlerà […] di identità concettuale quando la fotografia funzionerà non come sostanza oggettuale ma come innesco di fluttuanti stimolazioni mentali»23.

La materialità dell’immagine fotografica è ciò che maggiormente l’accomuna al quadro: sono entrambi due rappresentazioni bidimensionali di qualcosa, che appare racchiuso all’interno delle rispettive cornici, le quali delimitano un campo di forze più o meno complesso. A questo livello d’analisi la fotografia – materialmente intesa – può apparire, similmente al quadro, come un complesso di linee, masse e colori (o

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tonalità di grigi), come lo sono particolarmente tante fotografie astratte, in cui il referente reale non si rende esplicitamente riconoscibile, ma come in generale ogni fotografia è.

Diversa logica di funzionamento dal quadro può avere la fotografia laddove essa sia considerata per le «stimolazioni mentali» che peculiarmente essa è capace di dare. Si parla allora in questo caso - quello dell’identità concettuale dell’immagine fotografica - di tutti quei valori aggiunti che essa può vantare rispetto al quadro: il suo essere una «presenza in assenza di

qualcuno o qualcosa»24, quindi documento di

un’azione, un gesto o dell’esistenza di una persona. Quindi ancora documento del trascorrere del tempo - caratterizzandosi come un suo momentaneo congelamento - e banca del ricordo. Roland Barthes in

Camera Chiara25 a questo proposito parla del noema

della fotografia che consiste in quel è stato che essa

24 Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Una storia “senza

combattimento”, Paravia Bruno Mondatori Editori, Milano 2000, p. 15.

25

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sempre contiene e che essa sempre pronuncia. «La foto è letteralmente un’emanazione del referente»26. Oppure Sontag quando dice che «Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa)[…] Una fotografia è insieme una pseudopresenza e l’indicazione di un’assenza»27.

Quando, dicevamo, la fotografia - che resta nonostante tutto una - mette in risalto di sé la componente concettuale della sua identità (il che avviene facilmente anche nell’impiego più consueto e banale della

fotografia, quello che Sontag definisce uso

talismanico28) si presta ad essere impiegata, così come effettivamente è successo, in senso contemporaneo.

26 Ivi, p. 81.

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Laddove ad essere messo in risalto è per lo più o esclusivamente l’aspetto materiale, la sua superficie – ad esempio, come composizione di forme o di astratti valori chiaroscurali – la fotografia riprende - come emblematicamente ha fatto tra gli anni 60 dell’Ottocento e la fine del secolo col Pictorialism - a funzionare come un quadro e inevitabilmente a ricercare di emularne gli stilemi e le logiche profonde che vi soggiacciono. L’immagine fotografica allora rifugge la sua natura fisico-chimica di medium capace di registrare la realtà e di farlo in modo semplice, automatico. Esibisce un dotto campionario di forme e composizioni – mutuate dall’accademia pittorica – vantando una competenza e, con ciò, «una manualità retoricamente “alta”».

Quello che è da rimarcare a questo punto - chiarite le due categorie estetiche che ci saranno molto utili e ci guideranno nell’analisi nel prossimo capitolo – è che questa doppia natura della fotografia è emersa, e può

elettore, le istantanee dei figli di un taxista tenute sul parabrezza e tutti gli altri usi talismanici delle fotografie». Ivi, p. 15.

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emergere in ogni fase della sua storia e, come ha sottolineato Marra, non solo limitatamente al tanto detestato Pictorialism.

A questo proposito egli propone una revisione della nozione critica di pittoricismo che è generalmente utilizzata - ad indicare un modo di fare fotografia succube della logica del quadro - dalla storiografia di settore limitatamente in riferimento al fenomeno storico suddetto.

Mentre «tanta fotografia del Novecento ha sicuramente rifiutato lo spazio prospettico moderno, ha magari addirittura evitato lo scoglio della rappresentazione figurativa, ma non per questo si è affrancata dalla logica del quadro […] Il pittorialismo si può certo fare, e si è fatto, imitando l’Impressionismo, ma anche il

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Neoplasticismo, il Suprematismo, l’Informale e così via»29.

Una ragione ulteriore secondo Marra per riconoscere – rifacendoci al discorso del capitolo precedente – quello del secondo Futurismo, un riconoscimento ancora meno significativo: oltre che nella poca prontezza per quanto riguarda i tempi, la debolezza di questa tardiva adesione (col manifesto del ‘30) starebbe anche nei modi, nelle direttive promosse da Tato, portavoce fotografo del movimento. Difatti «la tipologia di immagini elaborata nell’area del secondo Futurismo, nonché lo stesso sostegno teorico a esse fornito dal manifesto di Tato, si configurano come un vero e proprio “ritorno all’ordine” dove la fotografia funziona esattamente come un quadro»30.

29 Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Una storia “senza

combattimento”, Paravia Bruno Mondatori Editori, Milano 2000, p. 15.

30

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Dal lavoro di Marra mutuiamo dunque la categoria generale, metastorica, di pittoricità, che useremo ogni qual volta un modo di fare fotografia non solo si mostrerà imparentato strettamente a certa pittura, ma, e soprattutto, quando ciò andrà a discapito di valori espressivi e comunicativi specifici del medium fotografico, sempre visti in relazione e per contrasto con le logiche del quadro.

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Capitolo III

La fotografia diretta

Quando si è cercato nell’arco della storia della fotografia di dare una definizione rigida, rigorosa e conclusiva del cosiddetto specifico fotografic o - cioè di quel insieme di qualità e capacità che apparterrebbero per costituzione e in maniera esclusiva rispetto alle altre arti al medium fotografico e che possono essere espresse oppure occultate nei suoi concreti utilizzi – si è spesso caduti nella conferma interessata a determinati discorsi di poetica e di militanza artistica, o, peggio, nella creazione di saldi stereotipi sui modi corretti di identificare il bello in fotografia.

Il senso in cui è intesa nel presente lavoro la parola specifico, in riferimento alle potenzialità espressive della macchina fotografica, è un senso aperto,

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consapevolmente erede di una prospettiva storica che abbraccia centocinquanta anni di effettiva produzione fotografica nel territorio dell’arte. Inoltre, e non secondariamente, il tentativo di circoscrivere qualità, che possiamo chiamare naturali e culturali, della creazione fotografica sotto la parola specifico fotografico è utile da un punto di vista metodologico; permette di far emergere comparativamente differenti logiche e dinamiche dell’operato dell’apparecchio fotografico, tenendo d’occhio insieme le logiche e le dinamiche della pittura ad esso contemporanea.

Proprio con la ricerca e poi l’affermazione dell’osannato specifico fotografico si chiude nei primi decenni del Novecento la polemica innescata dal

Pictorialism. Con un atto di orgogliosa rinuncia e sotto

l’esempio di alcuni pionieri - i fautori della fotografia

diretta -molti abbandonarono le fila della fotografia pittorica per rilanciare un idea della fotografia più

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caratteristiche ritenute genetiche del medium fotografico così spesso viste bistrattare dagli operatori della fotografia artistica.

Si cercava una nuova identità artistica che spingesse ad esempio i fotografi «a staccarsi dai soggetti lirici»31, e ricercare nuove fonti di ispirazione nei paesaggi urbani dell’America in evoluzione (Stieglitz), o attraverso l’ «esplorazione del consueto»32 a fotografare oggetti generalmente privi di considerazione estetica come la bottiglia di latte di una famosa fotografia di Edward Steichen del 1915.

Una vera e propria transizione tra due modi di fare e pensare la fotografia, in riferimento e per contrasto colla pittura, che ha modificato sensibilmente e inesorabilmente da allora in poi la sensibilità del fotografo. Una rivoluzione che gli storiografi di settore

31 S. Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1978, p.25. 32

Alfred Stiglitz, cit. in Camera Work, Un’antologia , Michela Vanon (a cura di), Einaudi, Torino, 1981, p. 7.

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fanno ruotare intorno alla vita e all’operato di Alfred Stieglitz, alle riviste che diresse e fondò, tra cui

Camera Work, e alla sua galleria d’arte Little Galleries of the Photo-Secession meglio nota come 291 dal

numero civico della via newyorkese in cui trovò natali.

Partiremo proprio da questa figura e dal movimento di rinnovamento culturale di cui, Stieglitz, fu attivo e convinto promotore, per arrivare a parlare di alcuni dei fotografi che sono cresciuti sotto la sua diretta influenza o seguendone a loro modo l’esempio e che come lui hanno favorito e spinto un forte mutamento direzionale nei modi di fare e intendere una bella fotografia.

(30)

strettamente imparentati con gli sviluppi e l’affermazione della fotografia pittorica, definita infatti anche artistica, e al dibattito interno al discusso

Pictorialism. Tra le personalità votate a sostenerlo e ad

alimentarlo ma insieme a metterne in crisi i presupposti ritroviamo il già citato fotografo cubano Peter Henry Emerson, capitano tra le fila dei flouisti, padre della fotografia naturalistica con la pubblicazione di

Naturalistic Photography for Students of Art del 1889.

Avversario delle manipolazioni dei fotografi nettisti e propugnatore di una fotografia fondata «sulla ripresa diretta dal vero e sull’uso puro e diretto della macchina fotografica»33. Il flou, che «offriva una possibilità di intervento soggettivo del fotografo (quindi “artistico”) affidato soltanto al mezzo fotografico e non alle forbici o alla colla, come nelle fotocomposizioni di

Robinson»34, gli permetteva di affermare la sua

predilezione per l’occhio umano rispetto a quello della

33 Camera Work, Un’ antologia, Michela Vanon (a cura di), Einaudi, Torino

1981, p. 5.

34

Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari-Roma 2001, p. 136.

(31)

macchina, un occhio selettivo contro la messa fuoco di tutti i piani, la visone naturale dell’occhio contro la verità dell’apparecchio35. La fotografia naturalistica aveva il merito di promuovere un rapporto più diretto col reale, soprattutto se paragonata alle immagini di

Robert Demachy36, Robinson e compagni che

attraverso manipolazioni e complicati procedimenti di stampa perseguivano, oltre l’irriproducibilità tecnica, gli effetti di uno schizzo a matita o di un acquerello. A proposito della tecnica a stampa alla gomma bicromatata Demachy scrive: «devo dire che i risultati migliori che ho visto nel procedimento alla gomma – le opere di Steichen, Puyo, Watzek, Kuehn -, mi hanno sempre fatto pensare a raffinate incisioni, a bellissime

35

«Egli sosteneva che “compito dell’arte è l’imitazione degli effetti della natura sull’occhio” e portava come esempio la pittura di un Constable e d’un Corot». Camera Work, Un’ antologia, M. Vanon (a cura di), Einaudi, Torino 1981, p. 5.

36

Che tra le pagine di Camera Work scriverà: «È pura follia affermare che la fotografia è arte perché può riprodurre la bellezza che esiste in Natura. La Natura spesso è bella ma non è mai artistica “in sé”; non ci può essere arte,

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acqueforti, a bellissime litografie, a bellissimi disegni acquerellati»37.

In Emerson e nella sua fotografia naturalistica Alfred Stieglitz riconobbe un esempio da seguire, quella che lui definì straight photography: fotografia diretta.38 Attorno alla sua attività di fotografo, editore, collezionista e gallerista d’arte si mosse una rivoluzione estetica che porta proprio questo nome.

Nato a Hoboken nel New Jersey il 1 gennaio del 1964 da una famiglia di emigrati tedeschi, si trasferì giovanissimo in Europa dove cominciò a fotografare e a interessarsi al dibattito estetico in particolare intorno

37

Camera Work, Un’ antologia, M. Vanon (a cura di), Einaudi, Torino 1981, p. 61.

38 «Non ci sono dubbi sull’influenza del maestro, avversario irriducibile dei

procedimenti manipolativi, sullo sviluppo artistico di Stieglitz». Vanon, in

Camera Work, Un’ antologia, Michela Vanon (a cura di), Einaudi, Torino

(33)

alle idee di Emerson. Come illustra Vanon: «i suoi esordi sono nell’ambito del naturalismo sentimentale alla Millet[…] immagini del mondo contadino fatte con simpatia e senza distacco accademico che documentano la sua recettività agli stimoli e alle sollecitazioni della cultura figurativa della fine Ottocento»39. Con la fotografia A good joke si impose al primo posto in un concorso organizzato dalla rivista londinese The Amateur Photographer nel 1887 tra i cui giurati figurava proprio Peter Henry Emerson che, in una lettera privata indirizzata all’autore, la definì «l’unica fotografia spontanea del concorso»40. Fu la prima delle 150 medaglie vinte da Stieglitz nel decennio 1890-1900 in cui s’impose nel panorama artistico internazionale.

(34)

L’anno successivo entrò a far parte della New York

Society of Amateur Photographer di cui dirigerà la

rivista, l’American Amateur Photographer, dal 1893. Il ritorno dall’Europa inizialmente si presenta come deludente: «mi resi subito conto che la fotografia come l’intendevo io, non esisteva in America. Tutto quello che vedevo, accresceva il mio desiderio di ritornare in Europa»41. Lo stabilimento di fotoincisione che diresse a New York lo portò però ben presto a scoprire «l’atmosfera urbana ed industriale della nascente metropoli, i continui mutamenti di una società in

perenne trasformazione»42 e a fornire un nuovo

soggetto alle attenzioni del suo obiettivo fotografico, come nel 1903 il grattacielo di recentissima costruzione, il Flat-Iron Building, che Stieglitz definì «immagine della nuova America ancora in trasformazione»43. 41 Ivi, p. 6. 42 ibid. 43 Ivi, p. 7.

(35)

Nel 1896 la società newyorkese si fuse con il New York

Camera Club ed egli ne assunse la carica di

vicepresidente, oltre alla direzione della rivista trimestrale del camera club, Camera Notes. Poco dopo nel 1902, in occasione di una mostra di fotografia pittorica, che ne costituì il primo informale

raggruppamento44, - della cui organizzazione fu

incaricato dal National Art Club - diede vita, ispirandosi ai movimenti europei, alla Photo-Secession

newyorkese. «La Foto-Secessione non fu mai un

movimento omogeneo, né si mosse su una linea programmatica precostituita e ben definita; fu il risultato di esperienze di singoli artisti di formazione e tendenze diverse (molti erano europei), che tuttavia erano accomunati dalla volontà di rivendicare il diritto

alla libera espressione della fotografia»45. Fra i

fotografi in mostra oltre allo stesso Stieglitz figuravano Edward Steichen, Frank Eugene, Alvin Langdon Coburn, Clarence White ed altri. Dopo la mostra Stieglitz diede le dimissioni da Camera Notes per avviare da sé un’altra attività editoriale: fu così che il 1

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gennaio 1903 uscì il primo di 50 numeri della «rivista indipendente da ogni organizzazione e consorteria»46 (eppure organo della Foto -Secessione): Camera Work.

Diretta, pubblicata e per lo più finanziata dallo stesso Stieglitz, Camera Work «è la più importante rivista americana di fotografia artistica degli inizi del secolo. Nei suoi quindici anni di attività essa illustra gli sviluppi del pittorialismo e la nascita della fotografia

moderna»47. «Stampata con le più avanzate e

sofisticate tecniche di fotoincisione, in tavole spesso fuori testo, fu un punto di riferimento per il mondo della cultura d’immagine del tempo, anche perché la fotografia veniva regolarmente presentata con valore paritetico alle altre arti, con un pionieristico criterio interdisciplinare»48.

46 ibid. 47 Ivi, p. 3. 48

Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari-Roma 2001, p. 295.

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Camera Work diede spazio tra le sue pagine non solo

alla fotografia e alle immagini fotografiche, ma a contributi di varissimo tipo: dalla letteratura alle recensioni di mostre d’arte in generale. George Bernard Shaw, Oscar Wilde, Henri Bergson e Gertrude Stein (di cui Stieglitz fu il primo editore in assoluto) figurarono tra i suoi collaboratori.

Vanon propone una periodizzazione di comodo degli orientamenti della rivista: «un periodo iniziale (1903-908) che vede i secessionisti impegnati nella battaglia per il riconoscimento ufficiale della fotografia come arte in America e che coincide con il pittorialismo; gli anni centrali (1908-13) forse quelli più importanti ed interessanti perché caratterizzati da un’intensa e febbrile sperimentazione (non senza il confronto con la produzione dell’avanguardia europea); ed infine il periodo conclusivo della parabola della secessione in cui con la presenza di Strand si arriva ad una svolta non priva di conseguenze per lo sviluppo della

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fotografia moderna negli Stati Uniti»49. Insomma è attraverso la rivista e l’attività di Stieglitz e di altri fotografi (come Paul Strand) a lui vicini che si compie una rivoluzione estetica importante. Una transizione dal pittorialismo ottocentesco alla fotografia moderna, la straight photography, al passo con le avanguardie europee. Nel 1917 si chiuse la rivista con la pubblicazione proprio di un portfolio di Paul Strand che non solo «influenzò moltissimo la giovane fotografia americana»50, ma «l’esemplare lavoro del giovane Strand […] rappresentò il definitivo superamento del pictorialism e l’inizio di una nuova

era per la moderna fotografia»51. Inizialmente

l’obiettivo della Secessione fu soprattutto «quello di portare al riconoscimento la fotografia come strumento di espressione artistica»52 in risposta al dilagare della produzione massiva, commerciale. Allora «i secessionisti rivendicano la creazione contro la produzione, e creazione diventa sinonimo di

49

Camera Work, Un’ antologia, Michela Vanon (a cura di), Einaudi, Torino 1981, p. 12.

50 Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari-Roma 2001,

p. 295.

51 Ivi, p. 296. 52

Camera Work, Un’ antologia, Michela Vanon (a cura di), Einaudi, Torino 1981, p. 13.

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“pittorico”, non nel senso di riprodurre la realtà della pittura, ma semmai di suggerire un’atmosfera e una mutazione stilistica che non appartengono alla visione realistica e documentaria»53. E così tra le pagine di Camera Work troviamo il lavoro e gli spunti critici di Demachy, le immagini dell’italiano Guido Rey, Puyo, Edward Steichen (membro fondatore della Foto-Secessione, il quale si cimentò con pari abilità nella pittura e la cui famosa Rodin Le Penseur è frutto di un collage di due negativi stampati con la tecnica della gomma bicromatata), Julia Margaret Cameron ed altri.

«La necessità era quella di nobilitare la fotografia come mezzo espressivo, portandolo al livello e assegnandogli

i compiti della pittura»54. «Numerosi fotografi

partecipano della sensibilità simbolista fin de siècle. Alcuni guardano all’idealismo della pittura preraffaellita[…] altri ancora ai quadri di Corot e al luminismo crepuscolare di Carrière in cui più che forme definite sono rese le sfumature fugaci, gli aspetti

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momentanei della natura. Sono immagini “flou”, soffuse di vago chiarore, caratterizzate dalla morbidezza dei contorni e da effetti di sfocature. Altri fotografi si ispirano al “paysage intime” della scuola di Barbizon[…]Né mancavano suggestioni dirette della pittura fra quei fotografi che deliberatamente si rifanno a situazioni pittoriche, come accade all’italiano Guido Rey[…]interni borghesi alla maniera di Vermeer e di De Hooch»55.

Appaiono lavori di membri del Linked Ring

Brotherhood di Londra, cui fu invitato a far parte lo

stesso Stieglitz dal 1894 in poi. Difatti sebbene «fin dagli inizi della sua carriera fu un acceso sostenitore della fotografia pura e di un approccio diretto alla realtà. Questa concezione, tuttavia, non gli impedì di presentare delle opere in cui veniva utilizzato ogni espediente tecnico, dalla sfocatura intenzionale in fase di ripresa, al ritocco durante lo sviluppo e agli

55

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interventi correttivi durante la stampa»56. O come dice Italo Zannier: «nel meditare sul destino della fotografia, che vuole sottrarre alle muffe del pictorialism di maniera, Stieglitz suggerisce un uso “diretto” della tecnica, per ottenere immagini spontanee, affidate a regole tecniche ed estetiche proprie e implicite[…]Egli, però, non rifiuta radicalmente il pittorialismo e tende, anzi, a utilizzare gli elementi validi di queste tecniche, ai fini di una più ricca e duttile potenzialità espressiva. Nonostante Stieglitz sia stato il paladino della fotografia diretta (la straight photography), che si proporrà come una regola tassativa per molti fotografi degli anni Venti, non soltanto ha tollerato il pictorialism, ma ha affermato che “pur di raggiungere lo scopo desiderato, è lecito intervenire sul negativo o sulla carta con qualsiasi mezzo”»57.

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Come vedremo tra poco non è tanto in questa tolleranza tecnica, nei confronti del ritocco (che, come detto, non inficia la freschezza dei risultati), che si manifesta maggiormente il contributo di Stieglitz alla causa del Pictorialism, ma è di un pittoricismo più inconsapevole e latente che la fotografia diretta si è resa in qualche modo tramite con la modernità.

Accanto all’attività di fotografo e a quella di editore Stieglitz affianca ben presto quella di gallerista. Nel 1905 al numero civico 291 sulla Quinta Strada a New York nasce la Little Galleries of the Photo-Secession, che rappresenta la sede ufficiale della Secessione. Presto verrà conosciuta semplicemente come 291 e quando verrà chiusa nel 1908 troverà il seguito in una nuova galleria, da subito battezzata 291, a pochi metri dalla prima sul lato opposto della stessa strada. La 291 rappresenta, se non bastasse, molto più che il luogo d’esposizione della nuova idea di fotografia di cui Stieglitz fu propugnatore. Attraverso i suoi spazi si svolse un incessante e proficuo scambio tra la cultura

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artistica americana e quella europea. Per suo tramite l’America conobbe per la prima volta il lavoro rivoluzionario dei Fauves e in seguito della avanguardia cubista. Nelle tre stanze all’ultimo piano del vecchio edificio che ospitava la Little Galleries, nel 1908 e nel 1910, con l’aiuto di Steichen allestì la prima mostra americana di opere - disegni, litografie, acquerelli e incisioni - di Henri Matisse. Nel 1909 e nel 1910 trenta litografie di Henry Toulouse-Lautrec, anche lui alla prima esposizione in America. Nel 1911 è la (prima) volta di Cézanne, acquerelli, e poi di Picasso, acquerelli e disegni.

Picabia, Brâncusi, Rodin, Braque, Duchamp, Kandinsky: Stieglitz si fa portavoce in America delle nuove strade aperte dall’arte europea, con cui era venuto personalmente a contatto, e parallelamente promotore delle nuove leve dell’arte americana.

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«Le mostre hanno un esito polemico, come la prima di Matisse che suscita un vespaio, con recensioni negative del pubblico e ancora di più dei critici che lo liquidano come ciarlatano, selvaggio, autore di aberranti distorsioni lineari e plastiche»58.

Nel novembre del 1910 all’Accademia delle Belle Arti di Buffalo (New York) si tenne un’importante esposizione della Secessione, che viene considerata una tappa importante del riconoscimento, per lo meno in America, del valore artistico della fotografia. L’Accademia acquistò delle stampe e destinò una sala ad esposizioni permanenti di fotografia. «Ma la mostra è importante soprattutto perché segna una svolta negli sviluppi della fotografia artistica. Cominciava a guadagnare sempre più terreno una nuova estetica, quella della fotografia “diretta” che indicava un maggior rispetto per i limiti e le potenzialità intrinseche del mezzo[…]accettare il soggetto così com’è, senza alcun intervento manuale, assecondando

58

Camera Work, Un’ antologia, Michela Vanon (a cura di), Einaudi, Torino 1981, p. 26.

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la resa dell’obbiettivo»59. Esposti accanto ad uno dei padri della fotografia pittorica, David Octavius Hill (attivo in particolare negli anni 40 dell’Ottocento), figuravano i fotografi della nuova fotografia americana: Stieglitz, Steichen (dal passato fortemente pittoricista), Clarence H. White, Frank Eugene (anch’egli passato alla fotografia pura dopo trascorsi indubbiamente pittoricisti) e Alvin Langdon Coburn. «In gran parte delle fotografie della sezione americana entrava in scena come protagonista la città»60. «Nuove ed inedite erano queste fotografie perché muovendo dalla ripresa diretta del vero, erano riuscite a liberarsi dalla sudditanza del modello pittorico. Ma la mostra di Buffalo significò qualcosa di più: era proprio la fotografia a rappresentare “l’unico contributo originale dell’America all’arte, l’unico campo artistico in cui gli Stati Uniti sono stati una guida e non degli epigoni della tradizione europea” e questo perché i fotografi americani a differenza di quelli europei non avevano cercato di fare della fotografia “un’ancella delle arti maggiori, ma avevano aperto una nuova strada

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attraverso lo sviluppo delle qualità intrinseche del mezzo fotografico”»61.

Una fotografia, quella dei fotografi americani sopra menzionati, apparentemente non più debitrice nei confronti della pittura; non più interessata alle soluzioni visive da essa proposte; finalmente matura e consapevole delle proprie, specifiche qualità. Nonostante la parentela implicita nell’essere - il quadro

e la stampa fotografica - due riproduzioni

bidimensionali di una realtà vista dagli occhi dell’artista, nel primo Novecento la fotografia – quella pura, diretta - sembra finalmente consapevole di sé e padrona di una propria modalità, indipendente, di essere arte. Come detto sinora questa evoluzione – il ripudio del Pictorialism e l’affermazione di una fotografia tesa alla ricerca e affermazione del proprio linguaggio – germina con l’opera e l’attività di Stieglitz e dei fotografi della Secessione. Cresce, si sviluppa con Strand, fino a trovare una conferma in

61

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grandi fotografi, che attraversano il Novecento americano e che fanno scuola, come Edward Weston e Ansel Adams.

A guardare bene questa posizione critica - seppur con qualche rarissima eccezione, generalmente condivisa - merita una radicale revisione. La rivoluzione apportata da Stieglitz e compagni è indubbia, come indubbio è il superamento per suo tramite del pittorialismo di maniera. Si può dire che dopo la straight photography niente per la fotografia è stato più lo stesso. Ciononostante è una conclusione senz’altro errata declamare - come è successo - con entusiasmo il definitivo affrancamento della fotografia dalla pittura. Così come esultare nella convinzione che finalmente la fotografia, riflettendo su sé stessa, abbia superato i propri pudori. Ad analizzare l’operato dei fotografi suddetti e anche a sentire le posizioni critiche da essi sostenute si giunge a tutt’altre conclusioni.

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I problemi sollevati dalla critica ottocentesca non trovano soluzione colla fotografia diretta: il rapporto sfrontato col referente reale smette – è vero – di essere camuffato dalle virtuose manipolazioni pittoriciste, ma, a fronte di un apparente purezza nell’impiego della macchina fotografica dinnanzi al oggetto reale, esso si perde dietro astrazioni di nuovo tipo. A far da padrone non è più la ricerca del tratto vago, dal sapore impressionista – che rendeva le stampe fotografiche indistinguibili da un disegno – ma un perfetto controllo tonale (per inciso, siamo ancora nell’epoca del bianco e nero) e compositivo che - quando non giunge alla completa astrazione e quindi alla perd ita,

all’irriconoscibilità dell’oggetto rappresentato –

conduce molte delle fotografie degli autori suddetti ad essere lette non come immagini di un tavolo, una staccionata, un corpo nudo o un profilo montano, ma come fotografie di linee, contrasti tonali, masse ed equilibri compositivi. Quello che appare fondamentale a definire una fotografia bella è il pieno controllo sulla composizione e sulle campiture tonali dell’immagine e questo, spesso, a discapito dell’afferrabilità

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dell’oggetto fotografato o comunque indipendentemente da essa. Oltre ciò non manca neppure l’esaltazione della grande abilità tecnica necessaria all’impiego, che ambisca a definirsi artistico, del mezzo fotografico. Virtuosismo che non si esprime più nelle modalità pittoriciste, ma, appunto, nelle nuove centrali abilità compositive e di gestione di quello che nel cinema si definisce profilmico, cioè la scena. Saper vedere quelle linee, quei giochi di luce nella realtà che lo circonda, saper scegliere il punto di vista e attendere il momento giusto diventano le nuove abilità richieste all’artista dell’obbiettivo fotografico. Stieglitz: «Winter – Fifth Avenue è il risultato di tre lunghe ore di attesa del momento adatto in una terribile bufera di neve»62.

Nessuno dei due limiti maggiormente ravvisati dalla critica ottocentesca trova una reale soluzione colla fotografia diretta, ma semplicemente una nuova veste: l’esaltazione di una manualità alta contro l’effettiva

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semplicità di impiego della macchina fotografica trova conferma in un nuovo regime di competenze rispetto a quelle sviluppate dal Pictorialism. L’espressività dell’oggetto reale lascia spesso posto alla bellezza formale dei nuovi stili di ripresa, imparentati strettamente con le nuove soluzioni sperimentate contemporaneamente in campo pittorico. Difatti sono gli stessi difensori della tesi che la Straight

Photography avesse liberato la fotografia dalla sua

sudditanza nei confronti della pittura, ad ammettere ingenuamente la parentela tra gli sviluppi di questa e le nuove frontiere calpestate dalle avanguardie. In realtà l’opposizione registrata da certa critica tra pittoricismo e fotografia diretta andrebbe riscritta come opposizione tra fotografia (esplicitamente) pittorica di marca impressionista e fotografia (implicitamente) pit torica ma di marca astrattista e neoplastica, come individua Marra. Vanon: «la fotografia “diretta” si esprimeva non solo nel rifiuto dell’intervento manuale, ma anche nell’esplorazione della forma e degli elementi strutturali e compositivi dell’immagine. The Steerage, la famosissima fotografia che Stieglitz realizzò durante

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un viaggio verso l’Europa, rivelava un’attenzione tutta nuova per l’organizzazione delle forme nello spazio»63. La fotografia in questione rappresenta senza dubbio una rottura enorme colla tradizione: il suo soggetto è per la fotografia di quegli anni un non soggetto, un ponte di terza classe con un ammasso di persone, apparentemente disposte alla rinfusa e comunque relegate alla periferia dell’immagine, non più importanti graficamente dei corrimano, della passerella o degli elementi strutturali della nave. Nonostante la sua distanza dalla fotografia pittorica degli stessi anni (1909) è lo stesso Stieglitz a fornirci una descrizione dei suoi esibiti aspetti formali: «una paglietta rotonda, il fumaiolo inclinato sulla sinistra, la scaletta appoggiata sulla destra, la passerella con le ringhiere formate dalle catenelle rotonde, un paio di bretelle bianche si incrociavano sul dorso di un uomo sul ponte di sotto, le forme rotonde degli ingranaggi metallici, un albero che fendeva il cielo nella sua struttura triangolare»64. Sono numerosissimi gli esempi tra le fotografie di Stieglitz – senza scavare tra i risultati più

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marcatamente pittorici, come in Raggio di sole, Paula del 1889 – in cui il soggetto rappresentato perde sempre di più importanza a dispetto di astratti elementi compositivi. Il referente concreto è sempre più sublimato in una vuota e insignificante struttura astratta; è in questo perdersi che esso raggiunge la bellezza. Se The Steerage ha comunque delle caratteristiche molto fotografiche come il dinamismo dei bordi: il fatto di essere un ritaglio di realtà è reso efficacemente esplicito dall’abbondanza di elementi interrotti dal quadro dell’immagine, che denunciano uno spazio di realtà esterno a quello selezionato dal fotografo; Raggio di sole, Paula , che è di dieci anni precedente, denuncia appieno la sua influenza da stilemi pittorici proprio nell’assenza di questo elemento: la figura è isolata al centro da una cornice di ombra, il soggetto del quadro più che la ragazza china sullo scrittoio appare l’effetto suggestivo della luce filtrata a strisce da una finestra. Nonostante la presenza di alcune immagini fotografiche all’interno della scena, che accennano a una riflessione sul medium stesso, e il

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protagonismo della luce, come rimarca Krauss65, l’immagine sembra essere un omaggio alla pittura di fine Ottocento piuttosto che alla nuova fotografia. Ciò che si perderà nei lavori più maturi di Stieglitz non sarà una vaga pittoricità, bensì il simbolismo allusivo di certa fotografia da cui egli prenderà piano piano le distanze e che coincide col pittorialismo storico; parallelamente alla conquista di nuovi soggetti, di pari passo con lo sviluppo modernista, come la città industriale in evoluzione. Questo a vantaggio di una maggiore attenzione alle qualità formali – e non espressive - dell’immagine, sempre sotto l’influenza delle avanguardie moderniste. Il percorso che verrà ripreso e portato all’estreme conseguenze da Paul Strand.

Facendo momentaneamente il punto abbiamo quindi ancora esaltazione di una manualità retoricamente alta (attraverso nuove competenze) capace di sostenere il paragone con le altre arti, e una sublimazione del

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referente reale ad elemento astratto che porta di nuovo se non ad una negazione, ad un camuffamento di quella che in precedenza abbiamo chiamato realisticità della fotografia.

Inoltre le relazioni con la pittura appaiono più forti che mai, semplicemente, per dirla con Marra, «il pittoricismo non muore […] con l’avvento della straight photography ma cambia solo sponsor, dalla tutela impressionista a quella astrattista (ma meglio sarebbe dire neoplastica), risorgendo in questo modo, come novella fenice dalle proprie ceneri»66.

Con Paul Strand (1890-1976), dicevamo, l’esaltazione di questi elementi materiali della fotografia raggiunge il livello più alto.

66

Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Una storia “senza

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«Nel 1916 dopo una lunga assenza di esposizioni fotografiche, Stieglitz dedica una mostra personale a Paul Strand che ai suoi occhi era l’unico artista veramente moderno, l’unico fotografo che avesse realmente fatto tesoro dei suoi insegnamenti. L’entusiasmo per le superbe immagini del venticinquenne fotografo è tale che decide di dedicargli anche gli ultimi due numeri della rivista, punto di arrivo di una sperimentazione che era durata quattordici anni»67. La fotografia diretta trova una sua naturale prosecuzione nel programma di objectivity enunciato da Strand: «l'obiettività è la vera essenza della fotografia il suo contributo e al tempo stesso il suo limite»68.

«Strand accoglie da Stieglitz il rispetto per l'immagine puramente fotografica, rifugge il ritocco e dai

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procedimenti manipolativi, è un convinto seguace della fotografia "diretta"»69.

«Le fotografie di Strand segnano una svolta fondamentale nell'estetica di "Camera Work" e, fatto più importante, l'inizio di una fase nuova nella storia della fotografia. I modi scorciati di espressione, il taglio moderno delle sue fotografie, spazzano via l'artistico "flou" ottocentesco, bruciano i ponti con il pittorialismo e aprono la via alla ricerca artistica moderna»70.

Come Stieglitz, è attento al nuovo soggetto rappresentato dalla vita moderna: «le fotografie "brutally direct" di New York di Strand inaugurano un nuovo modo di vedere la realtà»71.

69 Ivi, p. 37.. 70 ibid. 71 ibid.

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«L'estrema semplificazio ne della forma, il tentativo di rendere la figura secondo forme geometriche, pone decisamente l'opera di Strand in rapporto con la cultura figurativa cubista. Dal cubismo egli deriva l'attenzione per l'oggetto che sottratto ad ogni variazione fenomenologica come ad ogni emozione sentimentale, viene indagato nella struttura»72.

Egli stesso ammette: «cercavo di applicare alla fotografia i principi astratti di quegli artisti che allora mi apparivano oltremodo strani»73, riferendosi ai vari Braque, Picasso, Brancusi conosciuti tra le sale della 291. Come illustra bene Vanon: «egli aveva scoperto negli oggetti banali e di uso quotidiano forme pure assolute»74 e, ancora, «le fotografie di Strand non erano

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tanto una descrizione realistica di alcuni fatti, quanto piuttosto la loro enunciazione»75.

Sulle pagine della rivista Strand dirà che: «l'efficacia potenziale di ogni mezzo dipende dalla purezza del suo uso; ogni tentativo volto alla sua contaminazione porta a dei risultati morti quali l'incisione a colori, la pittura fotografica, la stampa alla gomma, all'olio, ecc»76. Ed anche : «l'America ha trovato una espressione squisitamente americana senza l'influenza delle scuole d'arte parigine e delle sue pallide imitazioni nostrane»77.

Con Strand - contraddizioni a parte - appare chiaro che la fotografia lungi dal trovare una definitiva indipendenza - non sarebbe più succube della pittura - cambia semplicemente sponsor ed è lo stesso Strand a fare la differenza tra una pittura - e quindi un

75 Ivi, p. 38. 76 Ivi, p. 153. 77 Ivi, p. 154.

(59)

pittoricismo - cattivo da non seguire e una pittura - e quindi un nuovo pittoricismo, ma inconsapevolmente ignorato dalla tradizione storiografica - buono e proficuo.

Strand: «se invece ci lasceremo influenzare dalle idee altrui, non potremo che realizzare una cosa estremamente banale e di poco valore, una fotografia pittorica»78.

La cosa importante rimane - per dirla con Marra - «esorcizzare il fantasma della referenzialità»79.

Il lavoro di questi fotografi - considerati

universalmente alla stregua di eroici esorcisti del

Pictorialism - metterà le basi di un pittoricismo ben più

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schizofrenicamente convinto di essere altro, di corrispondere addirittura all'essenza vera della fotografia»80.

Ed esso troverà l'ideale continuazione - come accennato in precedenza - nelle immagini - le astrazioni sul paesaggio, sul nudo e sulla natura morta - di Edward Weston (1886-1958), che dirà: «al giorno d'oggi il fotografo non deve necessariamente far sembrare la sua fotografia un acquerello, perché sia considerata arte, ma deve conformarsi alle regole di

composizione»81. Come commenta Marra:

«l'acquerello allora non va bene ma la composizione si, che è come dire: il paesaggino sfumato di gusto naturalistico lo detestiamo, ma la composizione ben equilibrata che riprende i crit eri dell'avanguardia

80

Ivi, p. 116.

81

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pittorica modernista è il nostro obiettivo e il nostro punto di riferimento»82.

Ansel Adams (102-1984) - considerato da Marra «il grande divulgatore del credo neo-pittoricista nel secondo dopoguerra»83- aggiungerà a questo i concetti chiave di visualizzazione e la differenza dialettica tra

shapes e form, con le prime intendendo le forme

naturali e con le seconde le forme culturali individuabili sulle prime.

La visualizzazione coincide - e si nota una significativa parentela con le fotocomposizioni di Robinson e Rejlander, che come abbiamo visto prevedevano schizzi preparatori precedenti la ripresa vera e propria - con una prefigurazione dell'opera definitiva: conoscere il risultato ancor prima di effettuare l'esposizione. Un po' come imporre la propria immagine sulla realtà esterna piuttosto che accettarne l'incontro, la

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suggestione – tipicamente fotografica – della relazione col soggetto esterno.

Alla stessa stregua del lavoro di Weston (e ricordiamo che i due furono fondatori di un collettivo noto come F. 64) il compito del fotografo viene individuato nella registrazione di forme e linee compositive. Le forme naturali - shapes - ,che sono infinite, devono essere sottoposte da parte del fotografo ad una codificazione visiva che le costringe in forme - forms - culturali, capaci di introdurre l'ordine visivo nel caos naturale. «L'occhio del pittore o del fotografo porta la forma

(form) nelle forme (shapes) circostanti»84. Una

fotografia aggiornata al panorama artistico e culturale, ma non certo – come invece si vorrebbe – indipendente dal quadro.

Tutto ciò sia detto senza l’intento di ridimensionare il valore dei fotografi citati, ma semmai di revisionare

84

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alcune categorie critiche oramai scontate, datate e per giunta mal utilizzate.

(64)

Capitolo IV

Indicalità della fotografia e Duchamp

«Al fotografo il compito di individuare una sua realtà, alla macchina quello di registrarla nella sua totalità. Due operazioni strettamente connesse ma anche distinte, che, curiosamente, richiamano nella pratica certe operazioni messe a punto da alcuni artisti degli anni venti: penso ai ready made di Marcel Duchamp, a certi oggetti di Man Ray, dove l’intervento dell’artista era del tutto irrilevante sotto l’aspetto operativo, consistendo nell’individuazione concettuale di una realtà già materializzata che bastava indicare perché prendesse a vivere in una dimensione “altra”, cosicché l’oggetto, fino a quel punto identico a mille altri, cominciava a inserirsi in una sfera ideale sganciata per sempre dal mondo inerte delle cose. A questo punto, mi pare utile riprodurre alcune parole tratte dal testo che Marcel Duchamp pubblicava in “The Blind” dopo che gli organizzatori del primo Salon des Indépendants di New York, nel 1917, rifiutarono di esporre la “Fontana”85, il famoso

85 Da notare che Duchamp faceva parte dello stesso comitato organizzativo e

che nello spirito originario della galleria indipendente non avrebbe dovuto esserci una giuria a selezionare le opere valide e censurare le altre. Man Ray,

(65)

orinatoio firmato Richard Mutt (nome di un fabbricante di articoli sanitari), ma inviata da Duchamp: “Non ha nessuna importanza che Mutt abbia fabbricato la fontana con le proprie mani oppure no; egli l’ha scelta; egli ha preso un elemento comune dell’esistenza, e l’ha disposto in modo che il significato utilitario scompare sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista; egli ha creato un nuovo pensiero per tale oggetto”»86.

Fu agli esordi degli anni settanta, mentre si accingeva con le sue Verifiche (la prima, Omaggio a Niepce, è del ‘71) a tirare le somme della sua carriera di fotografo e del suo punto di vista personale e riflessivo sulla fotografia stessa, che Ugo Mulas (1928-73) ebbe questa fortunata intuizione. Fortunata perché concettualmente illuminante sul fronte della comprensione dell’atto fotografico, come su quello del significato della pratica artistica del ready made duchampiano e dell’ objet trouvé dada-surrealista, rappresentata dai lavori di Man Ray, gli oggetti

d’affezione, citati dal autore. La relazione genetica tra ready made e fotografia affiora nelle parole di Mulas

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nell’introduzione all’intero piano delle Verifiche e l’ultima di esse è dedicata non a caso allo stesso Duchamp. Prima di affrontare le conseguenze concettuali di questa parentela - che ci porterà ad affrontare un discorso più volte differito in queste pagine e che qui trova, a nostro avviso, la sua sede ideale di esposizione – è il caso di analizzare più in dettaglio l’opera conclusiva della carriera e della vita del fotografo bresciano, proprio le Verifiche.

Spinto a far chiarezza - sul significato non di una singola immagine ma della fotografia in toto - da un esordio sul campo avvenuto, a 26 anni, da completo autodidatta (e come tale tanto libero quanto, a sentire il fotografo, irriflessivo) e anche dall’approssimarsi della conclusione della sua vicenda personale, Mulas sentì la necessità di esplorare l’attività di fotografo partendo da una sorta di grammatica di base del mezzo con la quale ciascun fotografo consapevolmente o meno deve fare i conti. Si tratta di un discorso intessuto per immagini e parole: brevi testi che illuminano sul senso

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profondamente autoriflessivo degli scatti dell’autore. I temi che affiorano in queste 14 fotografie sono depositari di riflessioni che accompagnano la fotografia sin dai suoi esordi e ne fanno il punto sullo sviluppo concettuale ma anche e inscindibilmente tecnico. Riflessioni -mostrate attraverso le immagini - sul tempo fotografico, sul supporto sensibile - il negativo e la carta - che rende possibile l’esistenza dell’immagine fotografica e sul dialogo tra i segni, immagine e didascalia. Riflessione, ancora, sulle molteplici relazioni intessute, nel compiersi dell’atto fotografico, tra un soggetto che sceglie, seleziona e fotografa e un oggetto che si mostra e resiste, nonostante tutto, all’intervento del fotografo. Una paradossale presenza e assenza di entrambi i referenti del discorso, l’incontro che ogni fotografia testimonia tra un individuo – che, comunque cerchi di occultarla, mostra la propria presenza, la propria posizione, il proprio atteggiamento in relazione alla fetta di mondo isolata - e una realtà oggettiva che formata dagli occhi del fotografo e dalla macchina fotografica continua

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incontro87 tra due realtà inesauribili l’una nell’altra, eppure dialetticamente compresenti in ogni immagine fotografica – quella del soggetto fotografante e dell’oggetto fotografato - si mostra un primo aspetto dell’intima somiglianza di funzionamento tra la fotografia e il ready made.

Come un incontro - che avviene entro lo sguardo dell’artista - la prima operazione fotografica a compiersi (verrebbe da dire, nonostante la

visualizzazione di Adams, o la totale pianificazione

pittoricista) è l’individuazione, la scoperta dell’oggetto o la particolare configurazione di realtà in corso. In questa relazione tra termini fotografia e ready made si guardano l’un l’altra. L’inquadramento, l’esercizio di controllo dell’operator88, come proiezione soggettiva

87

« È una specie di appuntamento», dice a proposito del ready made Duchamp. Riportato in Rosalind Krauss, Teoria e storia della fotografia, Paravia Bruno Mondatori, Milano 2000, p. 76. E riguardo al legame che si instaura con l’oggetto, che viene dichiarato unico come ready made, Duchamp ha parlato di «effetto di istantanea», «come un discorso

pronunciato in occasione di una cosa qualsiasi ma alla tal ora». Ivi, pp. 83-4.

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È Roland Barthes in La camera chiara , Einaudi, Torino 1980, p. 11, a nominare così in un ipotetico discorso a tre capi il fotografo. L. Cuccu (ad esempio in Antonioni, Il discorso dello sguardo e altri saggi , Edizioni Ets, Pisa, 1997) utilizza il termine, mutuandolo da Barthes, per definire il soggetto dell’enunciazione filmica. Gli altri due estremi della relazione sono lo

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rivolta all’esterno, mediata dalle convenzioni di mestiere e culturali, e la conseguente trasposizione di un contenuto, il riquadrato, in una dimensione altra: da

tranche de vie a pezzo da museo89. Questo avviene all’insegna del riutilizzo e della riproposizione-ripertinizzazione, dall’oggetto per arrivare al ready

made come nel inquadramento, l’esposizione (ex-porre) fotografica; giungendo infine al superamento

del canone di una manualità virtuosisticamente alta e della regola dell’intervento e della manipolazione materiale sull’opera d’arte che abbiamo visto emergere fino a questo momento, nella «convinzione che sia l’atto mentale della scelta a fondare il principio dell’artisticità»90. È questo atto a trasformare un prodotto seriale, che dopo l’intervento dell’artista non ha smesso di restare identico ad ogni altro elemento della sua famiglia e quindi a sé stesso, in un oggetto della contemplazione estetica, posto davanti agli occhi dello Spectator. Spectator che, quale elemento attivo,

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Esula dal presente lavoro affrontare la problematica connessa all’istituzione museo come organo che determina cosa sia o non sia arte, «dove ciò che è escluso dallo spazio di esposizione è marginalizzato sul

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