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Domanda di ammissione al concordato preventivo e reazione all’inadempimento contrattuale del richiedente. - Judicium

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Academic year: 2022

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ANTONIO BRIGUGLIO

Domanda di ammissione al concordato preventivo e reazione all’inadempimento contrattuale del richiedente.

1. In caso di fallimento una norma espressa (art. 72, c. V° l. fall.) dispone sulla procedibilità ed efficacia verso la curatela dell’azione di risoluzione promossa “prima del fallimento nei confronti della parte [già] inadempiente”, implicando più che chiaramente a contrario la inammissibilità di una azione di risoluzione proposta dal contraente in bonis, dopo il fallimento, per precedente inadempimento del fallito (così già la giurisprudenza precedente la riforma1).

Il che è, da un lato, perfettamente comprensibile in relazione alla necessità funzionale di lasciar margine al curatore per l’esercizio del noto potere di scelta circa lo scioglimento o meno dal contratto. D’altro lato, si tratta di soluzione sufficientemente giustificabile e perequata dal punto di vista del contraente in bonis: la vulnerazione del sinallagma precedente il fallimento, in danno del contraente in bonis (egli ha consegnato il cavallo ma non ha ottenuto un euro), resterebbe non più rimediabile secondo le regole di diritto comune, ma solo secondo le regole della insinuazione al passivo, anche se l’azione di risoluzione post-fallimento per inadempimento precedente fosse ammessa. Ed in effetti anche in caso di azione di risoluzione procedibile, perché esercitata prima del fallimento, le pretese restitutorie e risarcitorie conseguenti alla risoluzione debbono essere fatte valere secondo le regole del concorso (v. sempre l’art. 72, c. V° l. fall.).

E nei contratti ad esecuzione continuata o periodica il contraente in bonis non ha nulla da temere più di un normale creditore concorsuale: se il curatore si scioglie dal contratto, il contraente in bonis sarà pro futuro liberato dal vincolo contrattuale e non dovrà più recapitare periodiche e gratuite forniture di champagne, e quanto alle forniture pregresse e non pagate egli se la vedrà (e se la vedrebbe comunque) in sede di insinuazione al passivo; se invece il curatore non si scioglie, il contraente in bonis recapiterà tranquillamente d’ora innanzi lo champagne, sicuro del pagamento

Questo scritto è destinato agli Studi in onere di Mario Libertini.

1 Cass. 26 maggio 2000 n. 6952; Cass. 4 luglio 1990, n. 6952 e Cass. 30 maggio 1983, n. 3708.

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del corrispettivo in prededuzione, ed anzi si gioverà della prededuzione, e perciò della esenzione dalle regole del concorso, anche per il corrispettivo “delle consegne già avvenute o dei servizi già erogati” prima del fallimento, come stabilisce l’art. 74 l. fall. (e, secondo una condivisibile tesi, questa regola è applicabile anche ai contratti ad esecuzione differita e quanto al corrispettivo della prestazione già parzialmente eseguita dal contraente in bonis prima del fallimento).

2. Nulla di tutto ciò è previsto, né sarebbe giustificabile in relazione alla semplice domanda di ammissione al concordato preventivo.

La regola è la prosecuzione dei rapporti contrattuali secondo la disciplina del diritto comune.

La facoltà di scioglimento dai contratti in corso di esecuzione è data al debitore, dall’art. 169 bis l.

fall., quale eccezione a tale regola. E lo stesso art. 169 bis, c. II°, se confrontato con l’art. 72, c. II°, esprime una intentio normativa di tutela del sinallagma, in favore dell’altro contraente, comprensibilmente maggiore che in caso di fallimento.

Inoltre, nessuna disposizione esplicita o implicita impedisce in radice al contraente del debitore concordatario l’utilizzazione dei rimedi civilistici di autotutela, compresa la risoluzione del contratto per inadempimento del debitore concordatario e comprese ovviamente l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. e la sospensione dell’esecuzione contrattuale ex art. 1461 c.c..

Una tale disposizione impediente non è ravvisabile nell’art. 168, c. I°, l. fall. e nel divieto di azioni esecutive e cautelari, perché l’azione di risoluzione contrattuale non è palesemente ed in alcun senso tale, se non nel paese in cui tutti i gatti sono grigi.

Neppure è ravvisabile nell’art. 186 bis, c. III°, l. fall., ove, per il caso di “concordato con continuità aziendale”, si prevede (inutilmente perché la cosa sarebbe comunque ovvia per ogni concordato: arg. a contrario ex art. 169 bis) che “i contratti in corso di esecuzione non si risolvono per effetto dell’apertura della procedura”, nonché (utilmente e con valenza questa volta sicuramente limitata ai soli “concordati con continuità aziendale”) la inefficacia di “eventuali patti contrari”. E’ evidente che qui ci si trova di fronte a disposizioni che escludono un effetto risolutorio automatico ex lege o ex contractu riconducibile alla domanda di ammissione al concordato, e che non sono invece minimamente in grado di impedire - come è invece in grado a contrario l’art. 72, c.

V°, l. fall. - l’esercizio, successivo a quella domanda, dell’azione risolutoria per inadempimento.

Posto dunque che in linea generale è sostanzialmente e processualmente consentita, dopo la

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presentazione della domanda di ammissione al concordato, una azione (o una intimazione) di risoluzione per inadempimento, ovvero ed a fortiori l’utilizzazione dei rimedi ex artt. 1460 e 1461 c.c., vediamo su quali inadempimenti del debitore concordatario l’una e gli altri possono fondarsi.

- Inadempimento di prestazioni non pecuniarie (consegna del cavallo) divenute esigibili prima o dopo la domanda di ammissione? Risposta: sì, perché nessuna disposizione e nessuna ragione sistematica lo impedisce (il debitore concordatario non è spossessato dei beni e la consegna del cavallo in adempimento di un contratto è più che fisiologico atto di ordinaria amministrazione non necessitante alcuna autorizzazione).

- Inadempimento di obbligazioni pecuniarie divenute esigibili (o se si vuole insorte) dopo la domanda di ammissione? Risposta: sì, per le stesse ragioni di cui appena sopra.

- Il problema si pone per le obbligazioni pecuniarie “precedenti” la domanda di ammissione.

3. Chi nega – non frequentemente, né con particolare incisività e ponderazione in dottrina, più frequentemente ed assai più pericolosamente nelle strategiche prospettazioni dei difensori del richiedente il concordato – che si possa risolvere un contratto per un inadempimento consistente nel mancato assolvimento di una obbligazione pecuniaria divenuta esigibile (o addirittura anche soltanto insorta) prima della domanda di ammissione al concordato da parte dell’inadempiente, ragiona su due dogmi concatenati: a) il pagamento di quel debito sarebbe vietato al debitore concordatario; b) ergo il mancato pagamento non potrebbe essere considerato ragione di inadempimento agli effetti dell’art. 1456 c.c. e men che meno di grave inadempimento agli effetti degli artt. 1453 e 1455 c.c., sicché – sia detto per incidens – il cosiddetto e conseguenziale divieto di azione risolutoria (ma allora anche di eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. ecc…) si tradurrebbe, processualmente, non in ragione di inammissibilità, bensì in ragione di infondatezza nel merito della domanda risolutoria.

a) Il primo dogma tuttavia non può fondarsi sull’art. 184 l. fall. e sugli “effetti del concordato omologato sui crediti anteriori”, effetti che – non assistiti direttamente dalla “sanzione” della inefficacia e/o della revocatoria, ma semmai soltanto, e nei soli casi in cui si dimostri la frode agli altri creditori, da quella della dichiarazione di fallimento su sollecitazione del commissario ex art.

173 l. fall. – non paiono idonei a postulare un impedimento generale né de iure né de facto al pagamento spontaneo. Né del resto la pacifica ammissibilità medio tempore dell’azione di condanna

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all’adempimento di quei crediti sarebbe logicamente compatibile con il divieto, in senso proprio, di adempimento spontaneo.

Il primo dogma, dunque, può semmai fondarsi solo sulla previsione, nell’art. 182 quinquies l. fall., dell’autorizzazione del tribunale “a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi”.

In mancanza di autorizzazione giudiziale – possibile per altro unicamente in caso di domanda di “concordato preventivo con continuità aziendale” – quei pagamenti sarebbero impediti.

Si potrebbe però sostenere che l’autorizzazione non è affatto necessaria per rendere possibile il pagamento, ma solo per proteggerlo dalla revocatoria in caso di eventuale fallimento, che è cosa ben diversa. Se così fosse – e così credo che sia pur se la questione è assai complessa – cadrebbe già il primo dogma (negato del resto in termini generali, ma prima della ultimissima riforma del concordato preventivo, da Cass. 29 novembre 2005 n. 260362, a mio avviso tuttora valida ed istruttiva).

b) Ma perfino se il primo dogma si rivelasse inattaccabile, non ne conseguirebbe necessariamente il secondo. E’ vero che in astratto un pagamento vietato può anche considerarsi un adempimento impossibile di guisa che appunto il mancato pagamento non integrerebbe inadempimento.

Sennonché questo assioma astratto potrebbe essere scardinato, nella particolare situazione che ci riguarda, proprio dalle disposizioni su cui il primo dogma, e cioè quello del “divieto di pagamento”, è imperniato: perché mai il giudice dovrebbe autorizzare, in sostanziale spregio della par condicio, il pagamento dei debiti pregressi “per prestazioni di beni e servizi essenziali per la prosecuzione dell’attività di impresa” (così testualmente l’art. 182 quinquies l. fall.) se non appunto, o almeno anche, per evitare che l’altro contraente risolva legittimamente il contratto o ricorra ai rimedi minori

2 In tale sentenza, la Suprema Corte ha espressamente affermato che «il pagamento di un debito preconcordatario sarebbe in sé legittimo, in quanto sicuramente atto di ordinaria amministrazione, sempreché, in casi particolari, non integri l'ipotesi di un atto

"comunque diretto a frodare le ragioni dei creditori", ciò che lo renderebbe non già nullo ai sensi della L. fall., art. 168, comma 1, ma solo sanzionabile con la dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 173, comma 2, e, subito dopo, revocabile in forza dell'art.

67, comma 2 della stessa legge, nel concorso delle condizioni prescritte dalla legge». In senso contrario, anche se con motivazione poco aderente al testo normativo, Cass. 12 gennaio 2007, n. 578, secondo cui «L'art. 168 nel porre il divieto di azioni esecutive da parte dei creditori, comporta implicitamente il divieto di pagamento di debiti anteriori perché sarebbe incongruo che ciò che il creditore non può ottenere in via di esecuzione forzata, possa conseguire in virtù di spontaneo adempimento, essendo in entrambi i casi violato proprio il principio di parità di trattamento dei creditori. L'art. 184 ancora nel prevedere che il concordato sia obbligatorio per tutti i creditori anteriori, implica che non possa darsi l'ipotesi di un pagamento di debito concorsuale al di fuori dei casi e dei modi previsti dal sistema» e «il pagamento riferito a prestazioni anteriori alla presentazione della domanda di concordato non può essere qualificato come mero atto dovuto, in base alla legge del contratto, ma necessita al contrario dell'autorizzazione del giudice delegato, quale strumento diretto ad accertare la sussistenza delle condizioni che derogano alla regola del concorso».

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ex artt. 1460 e 1461 c.c., e perciò cessi definitivamente o sia momentaneamente interrotta l’erogazione di quei beni e servizi (arg. ex Cass. civ., Sez. I, 27 agosto 1997, n. 8076)?

In altri termini il discorso potrebbe ribaltarsi: proprio perché l’art. 182 quinquies, c. V°, l.

fall., esiste ed è scritto in quel modo, è segno che la risoluzione per inadempimento pregresso di cui discorriamo è ben possibile, e cioè che il corrispondente pagamento non va considerato

“civilisticamente” come adempimento impossibile ex art. 1256 c.c..

4. Se non si ragiona in questo ultimo senso e si ritiene preclusa la risoluzione per inadempimento relativo ad obbligazioni pecuniarie pregresse (ed ovviamente anche la corrispondente eccezione di inadempimento), gli unici rimedi per il contraente in bonis resterebbero quelli previsti dagli artt. 1463 e 1464 c.c. appunto per i casi di impossibilità totale o parziale della prestazione contrattuale: qui la prestazione di pagamento in capo al debitore concordatario.

Ma siamo certi che può qui discorrersi di impossibilità sopravvenuta della prestazione pecuniaria? Siamo sicuri che per applicare gli artt. 1463 e 1464 (e 1256) c.c. non occorre comunque far salti mortali che rendono, a paragone, la via diversa della risoluzione per inadempimento una via del tutto fisiologica e sistematicamente congrua? Può divenire impossibile il pagamento di una somma di denaro? Si dice tradizionalmente di no, ma qui si tratterebbe di impossibilità giuridica concernente l’effettuabilità della prestazione e non di impossibilità fattuale concernente l’oggetto della prestazione. Questo primo scoglio potrebbe dunque superarsi. Ma come si fa ad affermare e dar rilievo al fatto – nel senso dell’art. 1256 c.c., e quindi anche nel senso degli artt. 1463 e 1464 c.c., e soprattutto in senso preclusivo della risoluzione per inadempimento – che la prestazione di pagamento “diventa” impossibile, quando si tratta di prestazione che al momento in cui è divenuta esigibile, e cioè prima della richiesta di concordato, risultava per definizione ben possibile e dunque ingiustificatamente inadempiuta?

5. I rimedi di cui agli artt. 1463 e 1464 c.c. sono inoltre sufficientemente, ma neppure totalmente, perequativi solo in alcune situazioni. Non ho ricevuto il prezzo del cavallo, che peraltro non ho ancora consegnato al momento in cui la mia controparte ha depositato la istanza concordataria: posso certamente ex art. 1463 c.c. rifiutarmi di consegnare il cavallo. L’effetto pratico è equivalente alla risoluzione, salva l’impossibilità di richiedere i danni; impossibilità però

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non indifferente sul piano della sostanziale equità e pur volendo rispettare le regole del concorso:

passi che se potessi richiedere i danni da risoluzione le somme risulterebbero ridotte dalla falcidia concordataria dato che il diritto al risarcimento potrebbe considerarsi sorto precedentemente alla domanda di ammissione, ma perché mai invece non posso neppure chiedere, sia pure ottenendolo in misura ridotta, il ristoro del pregiudizio che è derivato dal mancato buon fine dell’affare, visto che a questo infausto esito si è giunti per una “impossibilità” della prestazione di cui è causa la stessa controparte e cioè il debitore concordatario? Insomma, sul piano della giustizia sostanziale, mi sembra che la vicenda sarebbe ben più adeguatamente sugellata ex artt. 1453 o 1456 c.c. piuttosto che ex artt. 1463 o 1464 c.c..

In altre situazioni invece la impossibilità di esperire efficacemente il rimedio risolutorio espone il contraente in bonis a conseguenze pratiche del tutto ingiustificabili ed intollerabili.

La controparte di un contratto di somministrazione o avente ad oggetto prestazioni di servizi accumula una elevata morosità sicuramente idonea a fondare la risoluzione per inadempimento, ma previene la mia iniziativa depositando la domanda di concordato o perfino di concordato in bianco e senza uno straccio di piano, in modo da mettersi in condizione di non poter ancora neppure chiedere l’autorizzazione giudiziale al pagamento del pregresso perché nessun giudice evidentemente la concederebbe senza piano.

Avrei qui le mani legate. Difficile pensare alla impossibilità sopravvenuta della prestazione perché il sinallagma può tranquillamente attuarsi dopo la domanda di concordato: sul piano giuridico io posso continuare ad erogare servizi o a somministrare beni, la controparte (richiedente il concordato) può tranquillamente corrispondere il relativo prezzo.

Se poi il sistema mi impedisce la risoluzione ex artt. 1453 c.c. in ragione dell’inadempimento pregresso, ciò vuol dire che il sistema mi sta di fatto costringendo a continuare a somministrare beni o a fornire servizi perfino gratuitamente al debitore concordatario fino a che questi accumuli una ulteriore morosità rilevante (art. 1455 c.c.) per la risoluzione, ed in mancanza di clausola risolutiva espressa si tratterà di morosità per definizione significativa relativamente al valore complessivo del contratto. E ciò dovrei fare ben sapendo che, a parte creditoris, quella ulteriore morosità rilevante è destinata ad aggiungersi a quella pregressa tra le mie poste attive illusorie sia in caso di omologazione del concordato sia in caso di fallimento.

Vi sarebbero è vero gli strumenti alternativi degli artt. 1461 e soprattutto 1460 c.c.: evito

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l’accumulo di ulteriore morosità della mia controparte semplicemente interrompendo l’erogazione di beni o servizi. Ma quegli strumenti, rispetto alla certezza della liberazione dal vincolo negoziale ed alla possibilità di riprogrammare verso altri l’attività imprenditoriale di somministrazione o erogazione di servizi, sono un quanti minoris e spesso un modesto palliativo.

Ed anche fuori dalla ipotesi dei contratti di durata: il mio contraente non ha pagato in anticipo, e come contrattualmente previsto, il 90% del prezzo del cavallo ed ha poi richiesto l’ammissione al concordato. E’ mai concepibile che costui possa ottenere la consegna del cavallo pagando solo il 10% quale saldo alla consegna, ed impedendomi così sia l’azione di risoluzione sia l’eccezione di inadempimento? Qui per la verità (scontata sempre la perdita delle ragioni risarcitorie) la applicazione alternativa dell’art. 1464 c.c. soccorrerebbe utilmente quanto alla mia liberazione dal vincolo di consegna: se si considera “impossibile” nel senso dell’art. 1464 c.c. il pagamento del 90% del prezzo, potrò, se voglio, recedere dal contratto e perciò non consegnare il cavallo.

6. In conclusione: sarebbe auspicabile che la giurisprudenza si orientasse per la possibilità senza limiti o condizionamenti di utilizzare lo strumento risolutorio avverso il debitore concordatario e per ogni inadempimento quale che sia la sua collocazione nel tempo. Si tratterebbe della soluzione più severa, ma anche più lineare e semplice. Semmai, con il solo temperamento del principio di buona fede e della ragionevole utilizzazione della categoria dell’abuso del diritto in singoli casi concreti ed in relazione a tempi e modalità della domanda di concordato e della intimazione risolutoria, e di altre circostanze.

In linea subordinata, occorre rifarsi agli artt. 1463 e 1464 c.c. ed alla “impossibilità sopravvenuta”, avendo cura tuttavia di elasticizzare la loro applicazione sì da superare ad ogni costo apparenti incongruenze, in funzione di tutela dell’affidamento della controparte del debitore richiedente (il quale – si rammenti – non può fallire “quando vuole”, ma la semplice ammissione al concordato la può invece richiedere quando gli garba ed assai facilmente).

La ulteriore ipotesi subordinata – applicazione analogica dell’art. 74 l. fall. per il caso in cui il debitore richiedente non si sciolga dal contratto in corso di esecuzione e con esenzione dalla falcidia dei crediti della controparte corrispondenti al “prezzo delle consegne già avvenute o dei

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servizi già erogati” – mi pare assai problematica3 e risolverebbe i problemi solo in parte ed in relazione ai soli contratti ad esecuzione continuata o periodica ed a quelli ad essi assimilabili.

3E’ stata infatti a suo tempo esclusa dalla Cassazione con le sentenze del 18 maggio 2005, n. 10429 e 30 gennaio 1997, n. 968).

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