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Discrimen » Il principio di proporzione e i vincoli sostanziali del diritto penale

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IL PRINCIPIO DI PROPORZIONE

E I VINCOLI SOSTANZIALI DEL DIRITTO PENALE franCeSCo Palazzo

Prof. ordinario Università di Firenze

Sommario: 1. Razionalità della legge penale e principi di legalità e di proporzione. – 2.

Duplice fondamento della proporzione. – 3. Proporzione quale principio di giustizia e quale principio di garanzia. – 3.1. La proporzione-giustizia e le teorie della pena. – 3.2.

La proporzione-garanzia e le ragioni della politica. – 3.3. Qualche esemplificazione. – 4.

I contenuti del principio e i criteri del giudizio di proporzione. – 4.1. Meritevolezza del bene e necessità della pena. – 4.2. I criteri del giudizio: giudizi “formali” e giudizi “sostan- ziali”. – 5. I volti del giudizio di proporzione: offensività, cornici edittali di pena, commi- surazione della pena, adeguatezza funzionale. – 6. Considerazioni conclusive.

1. Con una reminiscenza poetica si potrebbe iperbolicamente dire che il principio di proporzione, in diritto penale, è «come l’araba fenice. Che ci sia ciascun lo dice. Dove sia nessun lo sa». Principio circolante nel diritto penale, di quasi autoevidente universalità nella sua enunciazione teorica, esso trova infatti rilevanti difficoltà di razionalizzazione sia sul piano puramente logico che su quello empirico della sua reale effettività. Fra l’altro, e salvo ritornare poi sul punto, nonostante il suo rango sostanzialmente costituzionale – anzi fondativo – il principio non trova espresso riconoscimento nella nostra Costitu- zione. E non è facile ipotizzare le ragioni di questo silenzio, a confronto in particolare con altri testi costituzionali e internazionali che invece lo consacrano solennemente: tra tutti, oggi merita di esser richiamato almeno l’art. 49.3 della Carta di Nizza, incorporata nel Trattato dell’Unione europea. Forse si potrebbe addirittura supporre che, al di là delle ‘manovre argomentative’ attraverso le quali dottrina e Corte costituzionale l’hanno ricavato da talune norme espresse (l’art. 3 e l’art. 27.3 Cost.), i costituenti abbiano taciuto sul punto perché consideravano la proporzione quasi come un carattere implicito della pena. Comunque sia di ciò, è molto significativo e nient’affatto ‘accademico’ che proprio oggi, in Italia in particolare, il principio di proporzione in materia penale sia nuovamente ricollocato all’ordine del giorno e al centro dell’attenzione.

A questa “ricentratura” del principio di proporzione ha recentemente contribuito una significativa sentenza della Corte costituzionale (n. 236 del 2016), con la quale è stata dichiarata incostituzionale – per manifesta sproporzione – la cornice edittale prevista dall’art. 567.2 c.p. per il delitto di alterazione di stato mediante false attestazioni, con con- seguente sua “sostituzione” con la più mite cornice edittale comminata per l’analoga fat- tispecie dell’alterazione di stato mediante sostituzione di neonato (art. 567.1 c.p.). Ancor

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più recentemente, con la sentenza n. 179 del 2017, prendendo spunto dallo sconclusiona- to quadro delle pene edittali comminate dall’art. 73 T.U. della disciplina degli stupefacenti, la Corte costituzionale ha ripercorso puntualmente la “storia costituzionale” del principio di proporzione con riferimento alle comminatorie edittali, sottolineando fra l’altro come si stia consolidando una tendenza a rendere più frequente, vasta e penetrante questa de- licatissima forma di controllo sull’esercizio del potere legislativo, sempre che – beninteso – la “nuova” pena sia univocamente rintracciabile nell’ordinamento.

Più in generale, il principio di proporzione trova motivo di rinnovato interesse in quanto attinente al più vasto tema della razionalità della legge penale, della sua elabora- zione, formulazione ed applicazione: un’esigenza, quella della razionalità nel ‘penale’, largamente sentita. Certamente, battere l’accento sulla razionalità penale significa im- plicitamente e virtualmente entrare in tensione con l’altro fondamento di legittimazio- ne del diritto penale, costituito dalla democraticità delle scelte di criminalizzazione (che dovrebbe essere assicurata da una concezione forte e sostanziale del principio di lega- lità). Sennonché, almeno in Italia in questo momento, è proprio soprattutto nel campo penale che i meccanismi della democrazia rappresentativa stanno subendo le maggiori torsioni involutive. Non è questa la sede per ripercorrere le complesse vicende che stanno all’origine di questa trasformazione dell’originaria legittimazione democratica della legge penale, che ha finito per indurre un processo di svalutazione della stessa legalità. Distorsioni della rappresentanza politico-parlamentare, incremento delle fonti non legislative e secondarie, uso simbolico e personalistico della legge penale, opzioni incriminatrici effettuate in chiave elettoralistica, sono tutti fenomeni che hanno rotto l’irrealistica ed illuministica equazione tra legalità e razionalità dell’opzione penale. Tutto al contrario, proprio quei fenomeni degenerativi dell’assioma della razionalità legale in quanto tale – cioè perché legale – impongono un recupero altrove di parametri ed istan- ze di controllo della razionalità della legge. Solo assicurando il buon funzionamento di siffatti meccanismi di controllo, tra i quali in primis il principio di proporzione, risulterà infatti possibile cercare di mantenere un vitale equilibrio tra la componente democra- tica (e volontaristica) della legga penale e la sua componente razionale (e ‘oggettiva’), così da continuare a salvaguardare una sufficiente fiducia in quella fonte legislativa che in materia penale è tuttora irrinunciabile.

Quasi plasticamente la già ricordata sentenza costituzionale n. 236/2016 mette in luce questo rapporto tra razionalità e legalità nel ‘penale’ laddove, da un lato, non si sottrae più al controllo di legittimità sub specie proportionis e, dall’altro, cerca di non scoprire più di tanto il fianco della legalità cercando ed utilizzando «precisi punti di riferimento già rinve- nibili nel sistema legislativo», cui si aggiunge il consueto – e scontato nell’esito – auspicio che il legislatore, riconsiderando complessivamente il settore dei delitti contro lo stato di famiglia, «potrà introdurre i diversi trattamenti sanzionatori ritenuti adeguati».

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2. Già per quanto riguarda il suo fondamento profondo, il principio di proporzione rivela incertezze e interne antinomie. Esso infatti affonda la sue radici in un duplice terre- no: da un lato, si colloca in un ‘ambiente’ pre-positivo, di stampo universale e giusnaturali- stico, anzi ‘naturalistico’; dall’altro, però, è certamente riconducibile anche ad una matrice positiva e particolaristica in quanto strettamente dipendente dall’assetto costituzionale degli Stati e dall’organizzazione del loro potere punitivo.

Sotto il primo profilo, il principio di proporzione sembra esprimere un principio d’ordine addirittura della natura, che rifugge di regola da un dispendio eccessivo, sproporzionato di forze ed energie naturali. Così come esso costituisce un principio d’ordine morale, regolati- vo dei rapporti umani: in quest’ultimo senso, la proporzione, in quanto instaura una neces- saria corrispondenza delle risorse (sempre limitate rispetto ai desideri) in rapporto ai meriti, alle opere, ai bisogni, costituisce una condizione della giustizia. Peraltro, la proporzione quale criterio di giustizia – sebbene goda storicamente di un grande credito – non è in grado di appagare incondizionatamente l’aspirazione umana alla giustizia. E ciò non solo per la nota ed insopprimibile ragione che rimangono pur sempre concettualmente indeterminati i crite- ri in base ai quali instaurare quella corrispondenza. Ma anche e soprattutto perché la stessa idea di giustizia (tanto distributiva che commutativa) fondata sulla proporzione risulta es- sere in definitiva ‘astratta’ nella sua incondizionata universalità ed astoricità. La concretezza delle situazioni sociali spesso non consente di risolvere i problemi di allocazione delle risor- se sulla esclusiva base della proporzione: basta considerare al riguardo che la proporzione non è già più risolutiva allorché s’imponga la scelta se privilegiare la corrispondenza rispetto ai meriti ovvero ai bisogni. Fin d’ora, dunque, emerge un connotato della proporzione sul quale avremo occasione di ritornare: il principio di proporzione sembra di primo acchito esprimere un prezioso schema logicamente rigido e ben definito nella sua astrattezza, ma in realtà non cessa di richiedere per la sua concreta ‘praticabilità’ una duttile discorsività argo- mentativa, la cui irrinunciabilità continua a rappresentare una vera e propria croce almeno per una parte del pensiero giuridico moderno.

In questo suo primo fondamento di principio d’ordine naturale e morale, la propor- zione viene ad essere, in definitiva, un principio di stabilizzazione e di conservazione (del- la natura e) della società. La sproporzione, al contrario, rappresenta un motivo di rottura e discontinuità dell’assetto sociale, per fronteggiare eventuali prepotenti mutamenti che si manifestano nella struttura sociale e per addivenire talvolta a vere e proprie mutazioni sociali. Orbene, se è vero che l’esistenza della società non può essere assicurata senza stabilizzazione e continuità, è anche vero che i momenti di rottura possono rappresentare ragioni di vitalità per organizzazioni sociali che altrimenti potrebbero essere condannate all’estinzione per consunzione. Dunque, nonostante la del tutto comprensibile primazia del principio di proporzione, la sproporzione può essere la manifestazione – più o meno traumatica – di forze storico-sociali dinamiche e vitali.

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Sotto il secondo profilo, la proporzione viene ad essere un criterio regolativo stret- tamente connesso – abbiamo detto – all’assetto costituzionale degli Stati e dunque ope- rante in una dimensione ‘positiva’ e storicamente condizionata. In siffatta prospettiva, la proporzione viene a svolgere una netta funzione di garanzia della persona nei confronti del potere pubblico e – per quanto segnatamente c’interessa – del potere punitivo statale.

Più in particolare, la proporzione è lo strumento operativo, per dir così, della teoria e della pratica dei diritti fondamentali nello Stato di diritto: nel senso, cioè, che essa per un verso postula la preminenza dei diritti fondamentali rispetto alle esigenze della “ragion di Stato”

e, per l’altro, conseguentemente, funge da misura di legittimità sostanziale dell’eventuale sacrificio cui i diritti possono soggiacere. In definitiva, la proporzione (in relazione ai rapporti individuo/autorità) costituisce la cifra essenziale del Rechtsstaat, divenendo essa stessa una componente essenziale del Rechtsstaatsprinzip. Sotto queste premesse politi- co-costituzionali, è allora forse comprensibile che il principio di proporzione non venga sempre immancabilmente esplicitato nelle costituzioni, come è ad esempio per quella italiana, anche con specifico riferimento alla materia penale. In effetti, quel principio risulta implicito nell’organizzazione costituzionale del Rechtsstaat e concerne tutta l’area d’intervento del potere pubblico nei diritti fondamentali, compreso ovviamente ed in primis il diritto penale.

Anche in questa prospettiva, però, la proporzione probabilmente promette più di quanto può mantenere. In vero, in che senso e in che modo l’idea di una ‘corrisponden- za’ tra sacrificio del diritto fondamentale e ragioni dello Stato può funzionare da limite garantista? O questa corrispondenza viene improbabilmente tratta dal postulato apriori- stico di una universale tavola di valori che consenta di instaurare una rigida equipollen- za tra sacrificio (del diritto individuale) ed utilità sociale, oppure più verosimilmente la corrispondenza dovrà essere apprezzata in termini di adeguatezza e di “minimo mezzo”

necessario e sufficiente a perseguire lo scopo individuato dal ‘pubblico potere’. Ma allora, in questo secondo caso, è chiaro che la proporzione torna ad aprirsi ad una discorsività non precostituita, che vede lo Stato in un ruolo protagonistico in quanto soggetto par- ticolarmente qualificato ad effettuare quelle determinanti valutazioni di adeguatezza e di minimo mezzo. In fondo, sembra qui profilarsi una sorta di circolo – più virtuoso che vizioso – tra democrazia delle leggi e loro controllo di razionalità in termini di propor- zionalità. Argine al volontarismo esasperato di una sopravvalutazione della legittimazio- ne democratica delle leggi è il controllo di razionalità, ma dove quest’ultimo non può spingersi per i connaturali limiti della proporzione torna ad essere significativa la matrice democratica della legge, nel senso sostanziale di consenso sociale storicamente dato. Un equilibrio circolare, che certamente può essere rotto dall’atteggiamento eventualmente prevaricatorio degli organi coinvolti nelle vicende legislative, o di quello democratico che fa le leggi o di quello di garanzia che ne controlla la razionalità in termini di proporzione.

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3. Nel diritto penale le cose sono forse un po’ più complicate che altrove. In effetti, sembra proprio che in questa nostra area del diritto la proporzione continui a venire in gioco in entrambe le sue accezioni, cioè quale principio di giustizia e quale principio di garanzia (così, expressis verbis, la sentenza n. 236/2016).

3.1. Quale principio di giustizia, la proporzione non cessa di aleggiare sul sistema pe- nale, nonostante l’ormai compiuto processo di secolarizzazione abbia al centro l’idea utilitaristica della pena. In verità, se non v’è certo bisogno di richiamare come e perché la proporzione sia del tutto consentanea alla concezione retributiva della pena, continuano ad apparire logicamente problematici – almeno a chi scrive – i rapporti funzionali della proporzione con le finalità utilitaristiche della pena, prevenzione generale e speciale, no- nostante che si tratti ormai di tema diventato quasi tralatizio anche nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

Orbene, quanto alla prevenzione generale (specie quella “negativa” o mediante in- timidazione), rimane logicamente discutibile l’iter argomentativo con cui si afferma la proporzione quale requisito puramente interno alla finalità generalpreventiva. In effetti, desumere l’esigenza della proporzione dalla premessa che una pena sproporzionata (per eccesso) sortirebbe in realtà il contrario effetto di suscitare la reazione ostile dei conso- ciati piuttosto che il loro adeguamento comportamentale, oltre a costituire un dato empi- ricamente tutto da dimostrare, si rivela piuttosto singolare almeno da due punti di vista.

In primo luogo, la ragione di questa presunta reazione di rigetto da parte dei consociati sarebbe individuabile nel senso di ingiustizia che una pena sproporzionata in essi indur- rebbe: rimanendo chiusi nell’orizzonte dell’utilitarismo generalpreventivo della pena, si finisce per ridurre l’idea di giustizia ad un puro sentimento psicologistico insuscettibile di una sua qualunque dignità concettuale ed etica. Ma forse non è anche lo stesso meccani- smo intimidativo riconducibile ad un fenomeno psicologistico, la cui consistenza e realtà empirica sono addirittura ancor meno verificabili ed indiscutibili di quel ‘sentimento di giustizia’ che anima l’idea della proporzione? E allora, se è reale tutto e solo ciò che è

‘sentito’ come tale dall’uomo, anche la proporzione quale principio di giustizia ha la stessa dignità dell’utilità generalpreventiva. In secondo luogo, l’esperienza legislativa mostra che quale limite-requisito interno alla prevenzione generale la proporzione non riesce sem- pre a funzionare: anzi, non mancano previsioni di pene particolarmente draconiane che, mentre sono palesemente ‘giustificate’ da esigenze generalpreventive avvertite dal legisla- tore, non vedono affatto pregiudicata la loro efficacia intimidativa sebbene continuino ad essere ‘sentite’ (giudicate?) come chiaramente sproporzionate.

Quanto poi alla prevenzione speciale, la situazione è ancor più paradossale: da un lato, infatti, la deduzione della proporzione dall’art. 27.3 Cost. è un vero e proprio “cavallo di battaglia” della Corte costituzionale (fra le tante, v. sentenza 251/2012), ma, dall’altro, la

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fragilità del ragionamento è ancora più macroscopica. Intanto, l’idea che il ‘sentimento di ingiustizia’ indotto (questa volta a livello individuale) da una pena sproporzionata per eccesso impedisca o ostacoli l’obiettivo risocializzativo, contrasta storicamente con tutte le teorizzazioni scientifiche e le attuazioni pratiche di esperienze di pene indeterminate e, in fondo, anche col nostro originario sistema delle misure di sicurezza (posto che il for- marsi di quel ‘sentimento di ingiustizia’ non può certo essere condizionato dal nominali- smo sanzionatorio che distingue tra pena [rieducativa] e misura di sicurezza). In secondo luogo, se è vero che il sentimento di giustizia, con cui viene vissuta l’esecuzione della sanzione, è in qualche modo una condizione dell’efficacia specialpreventiva e rieducativa, allora anche una pena sproporzionata per difetto – e a fortiori la rinuncia alla pena – dovreb- be essere almeno tendenzialmente inidonea a produrre l’auspicato effetto risocializzante.

Insomma, pare difficile uscire dalla stringente alternativa: o s’intende sanzionare secondo un finalismo sostanzialmente terapeutico, e allora la ‘giustizia’ – con la connessa propor- zione della sanzione – rimane estranea, sia in eccesso che in difetto, a quella tipologia sanzionatoria; oppure s’intende comunque rimanere in una prospettiva pur sempre puni- tiva, e allora l’innesto della proporzione per via del ‘sentimento’ di giustizia va incontro a quelle stesse difficoltà viste a proposito della prevenzione generale.

3.2. Concepita invece la proporzione quale principio di garanzia, tutto sembrerebbe conseguire più agevolmente in modo lineare. In effetti, una teoria delle proporzione quale garanzia dei diritti individuali nei confronti del potere (punitivo) pubblico, parrebbe non essere contaminata né da apriorismi concettualistici, né da psicologismi empiricamente indimostrabili e neppure da potenziali contraddizioni o antinomie. Tutto al contrario, una concezione schiettamente garantista della proporzione avrebbe non pochi vantaggi. In primo luogo, s’inserirebbe a pieno titolo in quel processo di secolarizzazione del diritto penale, che storicamente l’ha messo al riparo dall’indimostrabilità metafisica delle sue opzioni legislative, ancorché non abbia potuto – e del resto neppure lo si poteva preten- dere – evitare degenerazioni autoritarie o comunque scarsamente razionali delle decisioni del legislatore. In secondo luogo, la proporzione quale garanzia non limita il suo spettro applicativo al campo ‘punitivo’ ma, concernendo ogni limitazione dei diritti, lo estende anche al settore – politicamente ambiguo – delle misure di sicurezza, ove il principio di proporzione vale direttamente, come ben insegna l’esperienza tedesca.

Come già anticipato, poi, la proporzione-garanzia assume una valenza propriamente e francamente costituzionale in quanto connaturata all’idea di Rechtsstaat, senza bisogno che dottrina e giurisprudenza s’impegnino in manovre argomentative che, al di là dei risultati ormai consolidati, non sono prive di qualche artificiosità – come pure si è detto. Tuttavia, non ci possiamo però nascondere che, nonostante tutto, la prospettiva garantista non rende per ciò più facile l’attuazione – o l’implementazione, come si suole dire – del prin-

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cipio di proporzione. Se, infatti, la proporzione-giustizia rimanda ad rapporto tra reato e pena, sfuggente quanto si vuole per la nota incomparabilità quantitativa dei termini in rapporto, ma tuttavia postulato come qualcosa di relativamente fisso nel suo contenuto assiologico e sostanzialmente pre-positivo, la proporzione-garanzia svela una natura del tutto ‘discorsiva’, anzi politico-discorsiva. Ed invero, nella sua accezione garantista la pro- porzione si colloca innanzitutto in una dimensione totalmente interna all’ordinamento, senza ‘agganci’ pre-positivi, così che lo spazio valutativo del legislatore è più ampio se non incontrastato. Inoltre e soprattutto, queste valutazioni (di proporzionalità) si dilatano per così dire, assumendo una articolata complessità in termini funzionali e finalistici più che assiologici, così da coinvolgere una molteplicità non predeterminata e storicamente mutevole di parametri. In breve, il giudizio di proporzione in chiave di garanzia, pur na- scendo per tenere a bada le ragioni della politica, finisce per essere fatalmente impastato di ragioni politiche nel difficile sforzo di conferire loro la razionalità necessaria a mante- nerle nello spazio rechtsstaatlich.

Al riguardo, può essere interessante notare come la proporzione sia un canone certa- mente noto alla giurisprudenza sia della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo che della Corte di giustizia del Lussemburgo. E, per limitarsi ad un solo esempio particolarmente interessante, si può ricordare la sentenza della Corte di giustizia del 28 aprile 2011 (causa C-61/11), in cui il principio di proporzione è stato invocato ed applicato in rapporto alle limitazioni della libertà personale funzionali alle procedure di espulsione degli immigrati irregolari, mutuandolo espressamente da analoga giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo (sentenza 29 gennaio 2008, Saadi c. Regno Unito).

Peraltro, una volta che la proporzione sia appunto sganciata dalla premessa assiolo- gica di giustizia, essa viene talvolta utilizzata con una certa disinvoltura – si direbbe – specialmente dalla Corte di giustizia, cioè in modo decisamente ‘duttile’ a seconda della direzione in cui si manifestano politicamente le esigenze di garanzia. E così, allorché la Corte deve giudicare dei limiti penali introdotti dagli Stati a certi beni od interessi di rilevanza europea, il principio di proporzione è utilizzato “al ribasso”, cioè nel senso del contenimento di quelle limitazioni che non possono dunque comportare sacrifici sproporzionati ai beni europei confliggenti. Quando, invece, si tratta di pretendere la tutela penale da parte degli Stati dei beni od interessi di rilevanza europea, la formula canonica secondo la quale le pene debbono essere “dissuasive, proporzionate ed effi- caci” lascia intendere che il requisito della proporzione deve ben coniugarsi – anche

“al rialzo” – con quello dell’efficacia dissuasiva. Ed anche l’idea dell’“assimilazione”

della tutela, secondo la quale beni ‘europei’ debbono ricevere la stessa tutela penale riservata dagli Stati a beni nazionali simili, lascia chiaramente trasparire dietro l’esigen- za di armonizzazione delle tutele un requisito di proporzionatezza delle pene che può spingerle anche verso l’alto.

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A questo punto, può forse essere utile sottolineare come in Italia il principio di pro- porzione sia presente nel sistema tanto come esigenza di giustizia quanto come istanza di garanzia. Peraltro, per essere più precisi, mentre la Corte costituzionale non afferma mai l’esigenza di giustizia traendola dal carattere retributivo della pena (che, come è noto, non trova nessun riconoscimento in Costituzione), assolutamente consolidato è invece l’orientamento che riconduce la proporzione al finalismo rieducativo della pena afferma- to dall’art. 27.3 Cost. Nella notissima sentenza n. 313/1990, ad esempio, la Corte costi- tuzionale reimposta la disciplina del “patteggiamento”, relativamente ai poteri del giudice di controllo sul quantum di pena concordato, affermando che in ogni caso il giudice dovrà verificare l’adeguatezza della pena allo scopo rieducativo sotto il profilo in particolare della sua proporzione («si tratta di un principio [quello di rieducazione] che, seppure va- riamente profilato, è ormai da tempo divenuto patrimonio della cultura giuridica europea, particolarmente per il suo collegamento con il “principio di proporzione” fra qualità e quantità della sanzione, da una parte, ed offesa, dall’altra». Ancora più incisivamente la sentenza n. 343/1993: «la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale […]

produce […] una vanificazione del fine rieducativo della pena»). A fronte di quest’orien- tamento assolutamente maggioritario non manca tuttavia qualche isolata, ma pregevole, presa di posizione in cui la Corte è sembrata desumere la proporzione da una generale istanza di garanzia presente nell’ordinamento per quanto riguarda gli interventi del potere pubblico sui diritti individuali. Molto significativa in proposito è la sentenza n. 409/1989, di cui val la pena riportare testualmente un passo saliente: «Questa Corte ha già più volte osservato che il principio d’uguaglianza, di cui all’art. 3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali».

In questa stessa prospettiva merita di essere segnalata un’interessante questione di costituzionalità anche se purtroppo non ha potuto essere affrontata dalla Corte costitu- zionale per indeterminatezza del petitum (sentenza n. 186/2011). La questione riguardava l’illecito amministrativo dell’abuso di informazioni privilegiate di cui al Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (l. 6 febbraio 1996, n. 52). Per tale illecito la legge prevede, oltre le pene pecuniarie, anche la confisca obbligatoria (anche per equivalente) non solo del “prodotto” e del “profitto” ma anche dei “beni utilizzati per commettere l’illecito”. E la consistenza di questi ultimi può in concreto essere par- ticolarmente ingente, soprattutto in rapporto a quella del prodotto e profitto realizzato.

Muovendo dalla premessa del chiaro carattere sanzionatorio di questa misura ablatoria, il giudice a quo dubita della legittimità della norma nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria dei beni utilizzati per la commissione dell’illecito in quanto quest’ultima può in concreto rivelarsi del tutto sproporzionata all’intrinseco disvalore dell’illecito concre-

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tamente realizzato. Sebbene il giudice a quo abbia tralaticiamente fatto riferimento all’art.

27.3 Cost., appare evidente che, anche ammettendo che i principi fondamentali dell’il- lecito amministrativo punitivo siano gli stessi di quelli dell’illecito propriamente penale, certamente abbastanza arduo è instaurare questa identità rispetto al principio rieducativo che, insieme a quello di umanità, sembra invece essere di esclusiva pertinenza dell’illecito criminale. È invece assai significativo che, al di là delle ‘manovre argomentative’ un po’ ar- tificiose per desumere la proporzione dal testo costituzionale, sia stata avvertita l’esigenza di mantenere l’equilibrio tra entità della sanzione e disvalore dell’offesa anche in relazione agli illeciti amministrativi. Ed infatti, nella prospettiva della garanzia, quell’esigenza di corrispondenza e dunque di limitazione si pone indifferentemente, quale che sia la natura specifica dell’illecito o più in generale dell’intervento del potere pubblico nella sfera dei diritti individuali.

4. È giunto ora il momento di voltar pagina. Dopo essersi intrattenuti sul fondamento del principio di proporzione, occorre a questo punto passare ad esaminarne i contenuti e i connessi criteri del giudizio di proporzione. E anche qui constateremo ancora una volta, anzi con particolare evidenza, due fenomeni segnalati fin dall’inizio e tra loro stretta- mente connessi. E cioè che, in primo luogo, a fronte della auto-evidenza del principio di proporzione la sua attuazione e praticabilità nella vita quotidiana dell’ordinamento incontra non lievi difficoltà; e che, in secondo luogo, nonostante l’apparente rigidità della corrispondenza assiologica implicata nella proporzione, il principio tende a manifestare sempre più larghi spazi di discorsività in termini di adeguatezza funzionale della norma.

4.1. Quanto ai contenuti, non ci pare per la verità il caso di indugiare troppo qui nel ricordare come essi siano stati ormai individuati abbastanza nitidamente specialmente dalla dottrina. Riassumendo al massimo, ricorderemo come sia possibile individuare due nuclei contenutistici principali riconducibili alla proporzione: quello della “meritevolez- za” e quello della “necessità” della pena. Com’è notissimo, la meritevolezza chiama in campo primariamente la natura del bene/interesse tutelato, che deve appunto presentare una “dignità” di valore proporzionata alla incisività – massima, estrema nella gamma san- zionatoria – della pena criminale. Secondariamente, ma certo non trascurabilmente, alla meritevolezza di pena del bene deve seguire una comminatoria edittale e una disciplina complessiva della commisurazione idonea a far sì che la pena irrogata sia proporzionata alla gravità dell’offesa incarnata dal fatto tipico criminoso. La necessità della pena, poi, presuppone ovviamente la meritevolezza, ma più precisamente richiede che l’opzione penale sia indispensabile all’efficace realizzazione degli scopi di tutela, nel senso cioè che non appaiano altrettanto sufficientemente adeguati altri strumenti extrapenali di tutela;

inoltre, la necessità della pena presuppone che anche la sua misura edittale sia giustificata dalle peculiari esigenze di tutela del bene. Non è difficile constatare fin d’ora che, mentre

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il giudizio di meritevolezza è più caratterizzato sotto il profilo assiologico presupponendo una valutazione della ‘dignità’ del bene, il giudizio di necessità della pena è specialmente caratterizzato sotto il profilo funzionale dovendo spingersi a valutazioni diagnostico-pro- gnostiche e comparative sull’efficacia dello strumento penale di tutela.

Un buon esempio di come la giurisprudenza della Corte costituzionale abbia fatto proprie tali elaborazioni della moderna riflessione penalistica, è costituito dalla sentenza n. 47/2010. La questione riguardava il quantum di pena edittale comminata per il delitto di falsa testimonianza e viene, appunto, affrontata dalla Corte in rapporto al principio di proporzione sotto il duplice profilo della corrispondenza rispetto alla meritevolezza del bene tutelato e rispetto alla necessità della tutela. Per la verità, l’articolazione della motiva- zione è più complessa poiché non manca una parte relativa al confronto del trattamento sanzionatorio della falsa testimonianza con quello di altri delitti ‘consimili’, ma – per quanto a noi qui interessa – l’infondatezza della questione appare già sufficientemente delineata sulla base dei due precedenti argomenti. Ebbene, sotto il primo profilo, la Cor- te testualmente rileva che «l’innalzamento del trattamento sanzionatorio, previsto per il delitto di cui all’art. 372 c.p., è stato dettato dalla necessità di preservare la veridicità della prova […] in relazione all’attuale modello di processo penale di tipo tendenzialmente ac- cusatorio, con una disciplina che, prevedendo la formazione della prova in via prevalente in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, ha attribuito ruolo primario alla testimo- nianza». E si conclude sul punto escludendo che «la determinazione del minimo edittale per il delitto de quo violi il principio di ragionevolezza o di proporzionalità, in quanto l’inasprimento della pena risulta giustificato dalle suddette esigenze; alle quali, peraltro, si deve aggiungere il rilievo che l’illecito in questione presenta un disvalore intrinseco che gli attribuisce carattere di gravità, anche se la circostanza oggetto di mendacio o di reticenza non desta particolare allarme sociale. Infatti, la falsa testimonianza turba comunque il normale svolgimento del processo, ne compromette lo scopo che è quello di pervenire a sentenze giuste, costituisce ostacolo all’accertamento giudiziale».

Sotto il secondo profilo, della necessità (del quantum) della pena, la Corte sottolinea come «rientra nella discrezionalità del legislatore anche la facoltà di modulare il tratta- mento sanzionatorio in riferimento al dilagare di un fenomeno criminoso che si intende reprimere». E, spingendosi oltre sul piano delle valutazioni empiriche di efficacia della norma incriminatrice, osserva come il giudice remittente «trascura di considerare la di- versa incidenza del delitto in questione con riferimento alle molteplici realtà territoriali, nel momento in cui asserisce che “nessuna evidenza sociologica ha mai esaltato la recru- descenza nella società italiana” del delitto di falsa testimonianza».

Dunque, la cornice edittale – e in particolare il massimo edittale – del delitto di falsa testimonianza appare alla Corte, innanzitutto, proporzionata all’‘importanza’ del bene giuridico così come viene ricostruito ed “attualizzato” dalla Corte – è importante sotto-

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linearlo – alla luce delle trasformazioni del nostro processo penale; ed in secondo luogo appare anche necessaria rispetto alle particolari esigenze generalpreventive che si mani- festano nelle “molteplici realtà territoriali”, in alcune delle quali i fenomeni di criminali- tà organizzata possono in effetti giustificare l’esercizio della discrezionalità legislativa in senso più marcatamente deterrente.

4.2. Più interessante e complesso, dicevamo, è il discorso sui criteri di quel giudizio di proporzione che, da un lato, dovrebbe accompagnare le opzioni legislative di criminaliz- zazione e, dall’altro, praticare la Corte costituzionale in sede di controllo di legittimità del- le norme penali. Fermo restando, ovviamente, che un principio dal volto così poliedrico e duttile come quello di proporzione trova fatalmente nell’elaborazione giurisprudenziale la fonte effettiva del suo contenuto. Anzi, lo spettro logico-argomentativo e valutativo sotteso al principio di proporzione è così ampio che si rende opportuna una duplice actio finium regundorum. In primo luogo, è utile assumere un punto di vista più costituzionalisti- co, ragionando sulla natura intrinseca dei giudizi di proporzione; in secondo luogo, oc- correrà muovere da un punto di vista più propriamente penalistico, per verificare quale fi- sionomia assume il giudizio di proporzione in rapporto alla specificità delle norme penali.

Preliminarmente, però, occorre superare l’idea – pur autorevolmente sostenuta – che il giudizio di proporzione possa sindacare l’illegittimità delle sole norme penali caratte- rizzate da assoluta “irrazionalità”, confinando tutto il resto nell’area della discrezionalità legislativa insindacabile. L’assoluta irrazionalità di una norma, se realmente tale, la pone già di per sé al di fuori della stessa giuridicità essendo sostanzialmente priva di contenuto normativo. Inoltre, guardando alla realtà effettuale del giudizio costituzionale ispirato ai criteri di proporzione, nonostante il comprensibile self-restraint della Corte, si constata come il suo sindacato sia rivolto alla “ragionevolezza” – o meglio alla “irragionevolezza”, che certo deve presentarsi come estrema – piuttosto che alla assoluta “irrazionalità” della norma censurata.

Ciò premesso, è utile riprendere una distinzione dei giudizi di proporzione rintraccia- bile già in alcune, seppure risalenti, relazioni annuali di autorevoli Presidenti della Con- sulta (Vassalli e Zagrebelsky). Prescindendo momentaneamente dal fatto che vengano utilizzati o meno i c.d. tertia comparationis, si è invece distinto a seconda che i giudizi siano

“di parità” o “formali” ovvero “di ragionevolezza” o “sostanziali”. La contrapposizione formale/sostanziale va intesa, peraltro, in un senso molto particolare, che cercheremo di lumeggiare. Col giudizio “di parità” l’arbitrarietà della norma illegittima viene colta quale sua disomogeneità rispetto ad una misura, ad un parametro dati: ad esempio, posto il parametro della natura necessariamente costituzionale dei beni penalmente tutelabili, la norma disomogenea a tale parametro, che cioè tuteli penalmente un bene non di rilevanza costituzionale, sarebbe già per questo “arbitraria” in quando difforme rispetto alla misura

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di legittimità data. Così, posto che l’offesa dolosa al bene giuridico “x” sia sanzionata con la pena “y”, una particolare specie di quella stessa offesa non potrebbe essere sanzionata con una pena “z” se fosse del tutto corrispondente al genus, poiché in tal caso la norma sarebbe disomogenea – seppure sotto il profilo ‘quantitativo’ – rispetto al parametro assunto, cioè il trattamento sanzionatorio di “x”, e dunque arbitraria (v. specialmente la sentenza n.394/2006). Apparentemente semplice, lo schema di giudizio “formale” trova i suoi evidenti momenti di difficoltà valutativa (che lo rendono formale solo in un senso del tutto particolare) sia nella individuazione del parametro di riferimento, della misura cui rapportare la disomogeneità, sia nella considerazione dei caratteri ‘significativi’ della stessa disomogeneità della fattispecie sub iudice.

Nel secondo tipo di giudizio, “sostanziale”, l’arbitrarietà della norma – e dunque an- che l’eventuale ‘sproporzione’ del sacrificio inferto al diritto individuale – viene in gioco sotto il profilo della sua adeguatezza rispetto agli scopi di tutela e di disciplina. In altri ter- mini, si potrebbe dire che il giudizio assume carattere più sostanziale dell’altro nel senso che il suo parametro di riferimento non è precostituito e soprattutto esterno alla norma in questione, ma s’identifica nel complesso ‘insieme’ teleologico come ricostruibile da quella stessa disposizione normativa e dalla sua collocazione nel sistema. Indubbiamente, nel di- ritto penale questo secondo tipo di giudizio è più difficilmente praticabile, in quanto l’ina- deguatezza “sostanziale” di una norma incriminatrice rispetto ai suoi obiettivi di tutela si radicherà il più delle volte in una difettosa articolazione strutturale della fattispecie: sulla quale alla Corte costituzionale è interdetto intervenire in via ‘manipolativa’ in ragione del principio di riserva di legge. Diversamente, come in effetti è dimostrato dall’esperienza giurisprudenziale della Corte, il giudizio “sostanziale” di adeguatezza agli scopi di disci- plina è relativamente frequente in relazione alle norme e agli istituti del sistema sanzio- natorio; e ciò sia perché non vi osta la stringente impossibilità di ‘toccare’ l’architettura strutturale delle incriminazioni, sia perché – inoltre – proprio nel diritto penale sussiste un espresso vincolo teleologico costituzionale degli istituti sanzionatori, rappresentato dal finalismo rieducativo della pena (art. 27.3 Cost.) (sebbene quel vincolo debba essere comunque ponderato con le altre finalità e caratteri della pena).

5. Passando ora a guardare ai giudizi di proporzione con occhio più propriamente penalistico, un punto di osservazione non consueto potrebbe distinguere a seconda che quei giudizi abbiano caratteri prevalentemente qualitativi o quantitativi.

A) In primo luogo, è risaputo come la proporzione sia l’anima del principio (e del giu- dizio) di offensività del reato. In quest’ambito vengono in gioco essenzialmente le norme penali di natura incriminatrice. Peraltro, non è escluso che anche norme di natura circo- stanziale, aggravanti, possano essere investite dal giudizio di offensività, come è accaduto, ad esempio, a proposito della disposizione sulla circostanza c.d. della “clandestinità” (art.

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61 n. 11 bis c.p.), che in effetti è stata dichiarata incostituzionale in ragione del fatto che l’aggravamento di pena non corrispondeva ad una maggiore oggettiva offensività del reato commesso dallo straniero ‘irregolare’ né ad una maggiore sua capacità criminale (sentenza n. 249/2010). Il giudizio di offensività, poi, appartiene ai giudizi di proporzione di tipo “formale” in quanto si fonda sulla natura costituzionale del bene giuridico tutelato e dunque sulla sua meritevolezza di tutela penale. Ha un carattere di regola qualitativo in quanto mette in correlazione la qualità della tutela, penale e incidente sulla libertà perso- nale, con la qualità, costituzionale, del bene giuridico.

B) Il giudizio di proporzione assume carattere quantitativo quando viene contestata la corrispondenza della (misura della) pena rispetto alla posizione che il bene (di per sé meritevole) occupa nella scala di valore degli interessi tutelabili penalmente. Anche que- sto secondo tipo di giudizio è, dunque, riconducibile in fondo alla logica dell’offensività in quanto si tratta pur sempre di una corrispondenza proporzionale tra contenuto di disvalore del reato e pena. Sennonché, si tratta come noto di giudizio, questo sulla misura delle pene edittali, assai raramente praticato dallo Corte, certamente per il rischio particolar- mente alto di andare ad impingere nella discrezionalità del legislatore. Una discrezionalità che trova le sue ragioni d’esistenza prima di tutto nell’intrinseca difficoltà logica di razio- nalizzare una corrispondenza, una proporzione, tra due entità incommensurabili quali sono quella – qualitativa – del disvalore dell’offesa e quella – quantitativa, numerica – del quantum edittale della pena. Ma non mancano altre ragioni: in effetti, è innegabile che il legislatore, nella quantificazione della pena edittale, non sia solo – costituzionalmente – legato alla proporzione nel senso ora detto, ma possa e debba anche compiere altre valutazioni largamente indeterminate, complesse e molteplici, che rispondono ad insop- primibili esigenze di politica criminale.

Proprio questa insopprimibile componente di discrezionalità insita nel giudizio di proporzione sulla misura edittale della pena, è alla base dell’atteggiamento estremamente cauto della Corte. E al riguardo, anzi, può essere non poco significativo che quei pochi casi di sentenze di incostituzionalità sulla misura edittale delle pene riguardino per lo più fattispecie relative alla tutela di beni o interessi per così dire “squalificati”, “superati” o comunque lontani dalla nuova tavola di valori emergente dalla Costituzione (così fu, ad esempio, per l’oltraggio a pubblico ufficiale, per taluni reati a tutela della disciplina milita- re, per la contravvenzione della mendicità c.d. non invasiva, ecc.).

Ammesso che la norma penale sia in regola con la proporzione sotto il profilo dell’of- fensività, per quanto concerne sia l’an che il quantum dell’incriminazione, si pone in secon- do luogo un ulteriore problema di proporzione. Ed è precisamente quello che concerne la necessità di ‘proporzionare’ la pena irrogata al caso concreto, cioè che sussistano norme deputate a tale obiettivo e idonee a realizzarlo. Premesso che si tratta di un giudizio di proporzione avente questa volta un carattere eminentemente quantitativo, è chiaro che

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la vastità del tema non consente qui che qualche rapido cenno di particolare attualità.

Innanzitutto, rimane confermata la tendenziale inconciliabilità delle pene fisse con la proporzione così intesa. A questo proposito, merita sottolineare che il discorso va esteso anche alle pene accessorie, come ha fatto una interessante sentenza della Cassazione (sez.

V, 31 marzo-18 giugno 2010, n. 23720): l’art. 216, ult. co., l. fall., che dispone l’applicazio- ne della pena accessoria letteralmente «per la durata di dieci anni», va inteso in conformità coi principi costituzionali e dunque nel senso che esso stabilisce la misura massima editta- le della pena accessoria, la cui durata sarà in concreto ragguagliata proporzionalmente alla gravità del reato come desumibile dalla misura della pena principale irrogata. Egualmente, l’opposta ipotesi di forbici edittali eccessivamente divaricate è pure censurabile non tanto per un generico ed aprioristico atteggiamento di ostilità verso un’esorbitanza del potere discrezionale del giudice, quanto piuttosto per la più puntuale ragione che siffatte pene mettono in crisi la proporzione sia nel momento della comminatoria edittale sia, conse- guentemente, in quello della irrogazione in concreto.

Attualmente, sembra di poter dire in sintesi che la misura edittale della pena può essere sindacata dalla Corte costituzionale secondo due diversi schemi del giudizio di proporzione: mediante l’impiego del tertium comparationis (come è avvenuto, ad esem- pio, nella sentenza n. 341/1994 sull’oltraggio a pubblico ufficiale) oppure in ragione di

“irragionevolezza intrinseca” (come è avvenuto, ad esempio, nella sentenza 236/2016 sull’alterazione di stato). Nel primo schema il giudizio sembra più “formale”, ma in re- altà tutto dipende dal riconoscimento o meno dell’analogia tra la norma contestata e il tertium comparationis. Sicché la Corte ha sempre buon margine di manovra per opporre un fin de non recevoir alla questione prospettata disconoscendo l’analogia. Nel secondo schema, il giudizio è più “sostanziale” e soprattutto tende a fondarsi sulla considerazione di sottofattispecie ricomprese nella norma per valutare la congruenza della pena quasi in concreto, in rapporto a queste ultime (sentenza 236/2016 e anche 68/2012 sul sequestro estorsivo). Ciò che viene censurata in questo secondo schema è la sproporzione rispetto ad una “ipotesi criminosa particolare” o ad una possibile fascia di ipotesi. In definitiva il giudizio di proporzione per irragionevolezza intrinseca, di per sé povero di punti di riferimento chiari, si precisa ed acquista evidenza in rapporto ad una sorta di processo di concretizzazione, prospettato dal giudice a quo o effettuato dalla stessa Corte. Non sfugge come i confini di questo processo di concretizzazione siano particolarmente aperti.

C) Il vero grosso nodo problematico è costituito dall’art. 133 c.p. e soprattutto dal ruolo che è chiamata a svolgere la capacità criminale nella commisurazione della pena, in rapporto al principio di proporzione. Innanzitutto, l’adeguamento della pena irrogata alla concreta capacità criminale del soggetto, se intesa quest’ultima in senso prognostico-pre- ventivo, rimanda ad un concetto di adeguatezza funzionale allo scopo neutralizzativo o rieducativo più che ad una corrispondenza quantitativa; d’altro lato, proprio per ciò

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l’adeguatezza della pena alla capacità criminale rischia d’introdurre un fattore di forte frizione proprio rispetto alla proporzione tra pena e gravità del reato. E a quest’ultimo proposito vale la pena notare che, se tali tensioni possono essere ridimensionate acce- dendo alla diffusa posizione dottrinale per cui la gravità del reato costituisce il limite invalicabile – proporzionalmente fondato – della commisurazione dovendo limitarsi la capacità criminale a operare ‘verso il basso’, per contro vincoli e presunzioni legislative di capacità criminale – come quelle consistenti ad esempio in ipotesi di recidiva ‘obbli- gatoria’ – possono comportare una violazione della proporzione tra pena e reato sotto il profilo in particolare dell’Übermaßverbot garantista. Sotto questo profilo, va ricordata una sentenza della Corte costituzionale (n. 183/2011) che, al di là della pur rilevante questione specifica esaminata, è importante per la portata più generale del decisum. In definitiva la Corte, ribadendo che il potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena corrisponde ad un preciso principio costituzionale, afferma peraltro che non sono per ciò solo illegittime norme ‘ragionevolmente’ limitative ma non totalmente esclusive di detto potere. Tuttavia, dal tenore generale della sentenza, si ricava anche che, quando si tratta di presunzioni di capacità criminale, la loro “ragionevolezza” deve fare i conti non solo colla proporzione rispetto al reato ma anche con l’intrinseca natura del concetto di capacità criminale. La quale, potendo dipendere da una molteplicità infinita di fattori personali, comportamentali e socio-ambientali, mal si presta ad essere ingabbiata in presunzioni assolute facilmente smentibili dai dati d’esperienza generalizzati. In sostanza, nella misura in cui la capacità criminale rimanda ad un concetto di adeguatezza funzionale della pena in concreto irrogata, il principio di proporzione non è qui scindibile dal potere discrezio- nale del giudice se non in stretti limiti. Salva sempre la soglia dell’Übermaßverbot costituito dalla gravità del reato.

D) L’ultimo tipo di giudizio rispetto al quale si pone l’esigenza dell’actio finium regun- dorum è quello appunto di adeguatezza funzionale della norma ai suoi obiettivi finalistici.

Giudizio senz’altro di natura “sostanziale”, che prescinde da parametri “di parità” esterni alla norma, in quanto invece tutto interno al teleologismo funzionale di quella norma spe- cifica ancorché necessariamente da valutare in relazione alle condizioni anche empiriche fattuali del suo funzionamento. Si tratta, poi, del giudizio in cui si esprime e si accerta quel requisito di ‘necessità’ della tutela penale di cui pure si alimenta il sovraordinato princi- pio di extrema ratio: e, come abbiamo già detto, in fondo anche l’extrema ratio risponde a quell’esigenza di proporzione secondo cui l’intervento penale si legittima in quanto ‘non superfluo’. Tale giudizio ha infine natura esclusivamente qualitativa e, vale la pena sotto- linearlo, può concernere norme tanto ‘sfavorevoli’ quanto ‘favorevoli’, essendo ad esso piuttosto distante l’esigenza dell’Übermaßverbot. La “ragionevolezza” di cui tale giudizio è impastato lo pone in immediata continuità con la discrezionalità legislativa, facendone pertanto uno strumento particolarmente delicato del controllo di costituzionalità.

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Buon esempio di quest’ultimo tipo di giudizio può essere la già ricordata sentenza sulla falsa testimonianza (n. 47/2010), in cui la gravità della pena viene “giustificata”

in relazione alle esigenze di prevenzione generale particolarmente forti in talune aree territoriali del Paese. Anche la sentenza (n. 370/1996) che dichiarò incostituzionale la contravvenzione del possesso ingiustificato di valori (art. 708 c.p.), appare ispirata da un giudizio di inadeguatezza della norma là dove si osserva che «la crescita della ricchezza mobiliare, la sua circolazione in ambito internazionale e l’uso dello schermo societario per il suo controllo rendono infatti questo strumento ottocentesco di difesa sociale [l’art.

708 c.p.] del tutto inadeguato a contrastare le nuove dimensioni della criminalità, non più rapportabile, necessariamente, a uno “stato” o a una “condizione personale”». Infine, val la pena ricordare in proposito anche la famosa sentenza della Corte di Lussemburgo (28 aprile 2011, El Dridi, causa C-61/11) che, decidendo sulla compatibilità della disciplina italiana dell’immigrazione irregolare con la c.d. direttiva rimpatri, ha assunto un interes- sante punto di vista. Ha infatti affermato che «gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allonta- namento coattivo […] una pena detentiva […] solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale». Orbene, indubbiamente l’uso della pena detentiva appare difforme ad un’esigenza di proporzione sotto il profilo della “meritevolezza” dell’interesse tute- lato, che invero va visto e bilanciato con esigenze umanitarie di salvaguardia dei diritti dell’uomo. Ma è altrettanto indubbio che, in un altro passaggio, la Corte fa un rapido ma chiaro riferimento anche al criterio di adeguatezza funzionale, quando rileva che la pena detentiva «rischia di compromettere […] l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare».

6. È opportuno riassumere conclusivamente il nostro discorso in quattro punti fon- damentali.

1) La proporzione costituisce sicuramente oggi un principio della tradizione costitu- zionale di molti Stati liberaldemocratici occidentali, anche a prescindere dalla sua espressa formulazione in un testo costituzionale. La proporzione, infatti, costituisce un carattere intrinseco della pena e delle sanzioni punitive di tali Stati e, più in generale, è imposta dall’Übermaßverbot che nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo limita il potere pub- blico del Rechtsstaat in relazione ad ogni intervento limitativo di quei diritti.

2) In Italia il principio di proporzione ha trovato una sua indiretta base normativa costituzionale negli articoli 27.3 e 3. La prima norma, implicando la proporzione quale re- quisito del finalismo rieducativo della pena, sembrerebbe richiamare una sottostante idea di pena “giusta” come condizione imprescindibile perché si possa “tendere” al risultato

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rieducativo. In questo senso, l’art. 27.3 Cost. comporta un giudizio di proporzione come congruenza assiologica della pena rispetto a valori dati. L’art. 3, invece, è in grado di fon- dare un giudizio di proporzione più ‘aperto’ come congruenza funzionale del sacrificio imposto all’individuo rispetto agli scopi di disciplina normativa.

3) Il principio di proporzione, nonostante la sua apparente autoevidenza concettuale, specie proprio nel dominio dei delitti e delle pene, presenta una straordinaria complessità di corretta traduzione normativa e di efficace controllo costituzionale. Ciò dipende non solo dai molteplici volti che il principio di proporzione assume ispirando diversi canoni fonda- mentali del diritto penale, ma anche e soprattutto dalle caratteristiche proprie dei giudizi ispirati alla proporzione. Infatti, tali giudizi, lungi dal corrispondere ad una logica binaria dell’aut aut, hanno carattere massimamente discorsivo, argomentativo e valutativo – stori- camente e culturalmente condizionato – così da rivelarsi omogenei a quella ‘discrezionalità legislativa’ i cui vincoli costituiscono il proprium della moderna democrazia costituzionale.

4) L’art. 49.3 della Carta di Nizza, che oggi sancisce la proporzione della pena qua- le principio espresso del diritto dell’Unione europea, verosimilmente non comporterà immediati mutamenti dirompenti nella concreta esperienza giuridica di quel principio.

Tuttavia, non si può escludere l’eventualità di una qualche evoluzione, se la Corte europea di giustizia cominciasse ad utilizzare quel parametro nel controllo della normativa penale relativa alle materie di competenza dell’Unione. A parte il controllo di ragionevolezza ex art. 3 Cost. in termini di adeguatezza funzionale della norma, che probabilmente potreb- be restare appannaggio prevalente della Corte costituzionale, la Corte di Lussemburgo potrebbe impegnarsi in un controllo di congruenza assiologica del trattamento punitivo nazionale condotto alla stregua di parametri esterni all’ordinamento nazionale. Invero, la Corte europea sarà naturalmente portata a individuare i tertia comparationis per la valutazio- ne della proporzione nelle fattispecie omogenee e similari degli ordinamenti europei più che in quello nazionale: ciò, da un lato, avrebbe il vantaggio di consentire l’individuazione di fattispecie di comparazione strutturalmente più simili e del tutto corrispondenti a quel- la sub iudice, più di quanto può accadere individuando i tertia comparationis all’interno dello stesso ordinamento nazionale; dall’altro lato, un simile modo di utilizzare la proporzione in via “infraordinamentale” presupporrebbe però l’esistenza di un ordine di valori euro- peo omogeneo. O almeno favorirebbe la ricerca di un tale ordine di valori sovranazionale, scontandosi in ogni caso le comprensibili resistenze e diffidenze degli Stati nazionali.

Riferimenti

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