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La macchia di salsa

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Academic year: 2021

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La macchia di salsa

Per cambiare il mondo, basta cambiare camicia. Altri avrebbero scritto che basta cambiare casacca, fare fagotto o calarsi le braghe, ma io no, io lo dico e lo scrivo: per cambiare il mondo, basta cambiare camicia.

Se quel giovedì là non avessi avuto una riunione importante con i responsabili acquisti di Carrefour, se non avessi indossato la camicia azzurra a righette bianche, se non fossi sceso di corsa a mangiare un kebab con salsa samourai, e se poi non avessi dato un morso così forte proprio lì al centro della piadina, allora chissà, forse la carne d’agnello non sarebbe schizzata via sotto la pressione dei miei denti, e magari quel pezzetto non sarebbe caduto dritto sulla cravatta e scivolato verso sinistra, macchiandomi così tutto un lembo della camicia con una strisciata biancastra e oleosa. E allora nulla avrebbe sconvolto la mia vita.

Una macchia del genere è una vergogna per chiunque. Per chiunque sia serio, per chiunque sia importante. E io ero proprio uno così: direttore commerciale per il più grosso fornitore tessile dei magazzini Carrefour. Bastava la cifra di affari che producevo in camicie a giustificare tre posti a tempo pieno nella mia ditta!

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Non potevo permettermi di arrivare macchiato. Sono sceso al bagno, e il tepore del seminterrato mi ha fatto pensare alle centinaia di scarafaggi che dovevano restarsene lì annidati nell’ombra, ad aspettare pazienti la chiusura dello stabilimento. C’era odore di varechina e di pastiglie disinfettanti per orinatoi. Il mezzo kebab che avevo inghiottito mi pesava sullo stomaco. Faceva troppo caldo. Mi mancava l’aria.

Ho fatto scivolare dell’acqua nell’incavo della mano e ho bagnato un po’ la camicia. Il risultato era ancora peggio: l’alone non era scomparso, al contrario, si era diffuso, e dove prima dell’acqua si poteva distinguere la scia di salsa biancastra, ormai non si vedeva più che una larga traccia di grasso e di dita sporche. Impossibile camuffarla sotto la giacca, la macchia ricopriva tutta l’altezza della camicia, dalla cintura al taschino. Mi sono guardato allo specchio. Ero grasso, gonfio, sudato, e la macchia mi assomigliava. Occupava sempre più posto e il mio desiderio era uno solo: vederla sparire.

Ho guardato l’ora: mi restavano venti minuti prima dell’appuntamento. Abbastanza per tornare in ufficio facendo una deviazione attraverso il magazzino. Sarebbe stato il colmo se non avessi trovato una camicia della mia taglia tra le tonnellate di merce in attesa. È vero che quella robaccia mal cucita che rifilavamo ai grandi magazzini, dopo aver importato i container dalla Cina e aggiunto l’etichetta “Made in EU”, non aveva certo la qualità della mia Ralph Lauren azzurra. Ma viste le circostanze, era pur sempre meglio una camicia da quattro soldi senza macchie che una buona ma sporca da far schifo.

Senza finire le patatine già fredde, ho attraversato il bar e mi sono precipitato verso la sede della società.

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Se non fosse stato così tardi, se gli impiegati fossero stati ancora là, e la mia segretaria ancora al suo posto, se poi avessi avuto un po’ più di tempo a disposizione, allora forse non mi sarei precipitato direttamente verso il grande capannone situato nel cortile sul retro, dietro le piattaforme di scarico. Se avessi avuto le chiavi e non avessi dovuto correre fino alla portineria e rovistare in due armadi e una buona decina di cassetti prima di trovare il mazzo giusto, se il telefono non si fosse messo a strillare proprio mentre attraversavo il cortile, se fosse stato un errore al posto di essere mia madre, e se magari avessi potuto riattaccare meccanicamente o non rispondere, allora non mi sarei trovato a sentire queste parole proprio là in mezzo al cortile.

Ho lasciato tuo padre.

Me lo aveva detto così, senza giri di parole né preamboli.

Se me lo avesse detto in un altro luogo, in un altro momento, mi avrebbe fatto tutt’un altro effetto, ma lì, nel calore di giugno, nell’umidità della mia camicia chiazzata di sudore, in mezzo al cortile, ho sentito come una botola che si apriva sotto i miei piedi e un forte vento che mi attraversava la testa. Sentivo il rumore delle macchine sulla strada, il respiro di mia madre nel telefono e mi veniva da piangere.

Non ci si separa a sessantacinque anni. Non ha alcun senso.

Non ci si separa dopo quarantatré anni di matrimonio. Non ci si separa punto e basta, quando a separarsi sono i miei genitori.

Non si può. No.

Ho riattaccato senza dire nulla. Non sentivo più niente all’infuori delle macchine e del vento tiepido che sollevava la polvere. Era la prima volta che le riattaccavo il telefono in faccia.

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Avevo l’impressione di avere tredici anni. Un ragazzino intrappolato nel corpo di un adulto.

La mamma lascia il papà.

Se non fosse stato che io per primo avevo divorziato, che Chantal mi aveva lasciato quattro anni prima e che da allora avevo dovuto fare l’impossibile per mantenere i contatti con i miei due figli, forse avrei reagito diversamente. Forse avrei cambiato camicia e mi sarei presentato alla riunione con un bel sorriso stampato sulla faccia. Ma non riuscivo a muovermi. Sentivo qualcosa che mi bloccava la gola. Come una palla di biancheria sporca incastrata proprio sotto la glottide. Mi veniva da piangere. Avevo l’impressione che a fare schifo non fosse la mia camicia, ma il mondo intero. Prima di tutto, la gente. A cominciare da mia madre. A cominciare da mio padre. Avrebbero fatto meglio a non sposarsi proprio se era per finire così, pensavo io. E poi pensavo al fatto che forse Chantal aveva fatto la stessa chiamata, all’epoca, per parlare con i miei figli, usando le parole che fanno male, le parole che urtano. Forse li aveva chiamati in piena interrogazione di matematica, o nel bel mezzo di un film di suspense, e aveva sconvolto le loro piccole vite per informarli che voleva lasciarmi. Non si dovrebbe mai dire una cosa del genere ai propri figli.

Credo che avrei continuato a rimuginare per ore e ore, e forse anche di più, se in quel momento una macchina non fosse entrata nel cortile. Una grande Audi rossa, con a bordo dei tizi che ho riconosciuto al primo colpo d’occhio. Il trio d’assalto dei responsabili acquisti di Carrefour. Mi hanno sorriso attraverso il parabrezza e io ho fatto un gesto con la mano destra, tenendo la sinistra incollata alla camicia per nascondere la macchia.

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Mentre facevano manovra per parcheggiare, ho gridato che li avrei raggiunti e sono filato via in direzione del deposito.

Se non avessi avuto in mano le chiavi del portone di metallo, credo che in quel momento sarei scappato. Sarei sgattaiolato via, avrei spezzato, strappato, tagliato la corda e me la sarei data a gambe levate. Avrei corso per lunghi minuti fino a restare senza fiato, e non mi sarei fermato finché non fossi arrivato lontano dalla città e dall’agitazione. Credo che avrei corso fino a cadere a terra singhiozzando.

Non desideravo altro.

E invece ho tolto i due lucchetti, infilato la chiave nella serratura e tirato verso di me la porticina ricavata nella grande serranda del deposito. Un istante dopo, l’ho richiusa dietro di me. Dentro era buio e fresco, e non si sentiva nessun rumore se non il tic-tac di una goccia d’acqua che cadeva da qualche parte nell’edificio. Non c’era illuminazione, ma in quella penombra intravedevo in lontananza uno spiraglio di luce sotto una porta chiusa. Mi sono detto che qualcuno si era dimenticato di spegnere una lampada. Ho cercato a tentoni l’interruttore e mi ci sono voluti alcuni secondi per trovarlo. Giusto il tempo necessario perché avessi l’impressione di sentire delle voci provenienti dalla porta in fondo. Delle voci basse. Appena un mormorio. Ho esitato un istante prima di accendere la luce. Mi sarei imbattuto in una riunione sindacale segreta? No, tutto questo non aveva senso: la sola porta d’accesso al deposito era chiusa dall’esterno, non poteva esserci nessuno lì dentro. Doveva essere una radio, senza dubbio. Per dimenticarsi la luce accesa, tanto vale dimenticarsi anche la radio, no? Era logico.

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Ho tirato su la leva del disgiuntore e centinaia di tubi al neon si sono messi a crepitare. Lungo varie decine di metri, dei ripiani giganteschi erano occupati dai vestiti imballati nei cartoni. Ma di stoffa non c’era la minima traccia: viste da lì, le scatole sembravano tutte identiche. Con quale criterio era organizzata tuta quell’accozzaglia di roba? Per cliente? Per paese di produzione? Per luogo di destinazione? Per stagione? Per sesso? Sono corso verso il locale all’entrata per consultare gli schedari. La porta era aperta, ma dava su una stanzetta dove non si vedeva altro che un computer a schermo piatto e un muro con su appese una trentina di pistole per la lettura dei codici a barre. Non avevo il tempo di accendere il PC, tanto meno di sfondare i cartoni col cutter per scovare una camicia. Mi sarei dovuto presentare alla riunione macchiato? Avrei fallito, proprio ora che ero così vicino alla meta?

Ho dato un’occhiata nel deposito. La porta sotto la quale avevo visto spuntare la luce era ora ben visibile, e un cartello al di sopra annunciava: sartoria.

Là dovevano esserci dei vestiti tirati fuori dai cartoni. Una scintilla di speranza mi si è accesa negli occhi.

Ho attraversato la sala di corsa, fiancheggiando gli immensi ripiani e i transpallet in sosta. Nel momento in cui raggiungevo la porta, ho avuto l’impressione che qualcuno mi stesse guardando. Ho voltato la testa, per vedere se ci fosse una telecamera di sorveglianza, o una guardia notturna appena entrata nell’edificio. Niente.

Se avessi fatto dietrofront in quel momento preciso, se all’improvviso avessi deciso di lasciar perdere tutto e presentarmi davanti alla delegazione Carrefour così com’ero veramente, con la mia aria da imbecille

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come tutti gli altri, un imbecille che si macchia al momento sbagliato, che viene a sapere che i suoi si separano e la vita gli sfugge di mano, come a tutti, in fondo… Insomma, se avessi accettato di essere un quidam, se avessi girato i tacchi al posto di girare la maniglia, se non avessi aperto la porta, tutto sarebbe potuto continuare come prima.

Ma ecco che, la mano sulla maniglia, ho sentito uno strano odore. Un odore speziato e caratteristico, quello di una zuppa cinese in busta, al gusto di gamberetti. Era un odore che avrei riconosciuto tra mille, all’epoca ne mangiavo scatole intere, e oggi non posso più cuocerne una senza ripensare allo spettacolo scoperto quel giovedì.

Erano in sette, in una stanza appena più grande di un garage. Quattro donne, due uomini e un neonato. Con degli occhietti grinzosi che mostravano tutta la paura del mondo. Se ne stavano rannicchiati gli uni contro gli altri, come dei bambini quando il padre si fa avanti con lo scudiscio in mano. Non abbiate paura, ho detto, perché era evidente che avevano una fifa pazzesca, cerco solo una camicia. Nel momento esatto in cui pronunciavo queste parole e le sentivo attraversare l’aria, portate dalla mia voce un po’ rauca, mi sembravano ancora più assurde della situazione in cui mi trovavo.

Se avessi avuto veramente fiducia nell’azienda, come prima cosa avrei dovuto chiedere loro che ci facevano lì, come c’erano entrati e perché, e cosa avevano rubato o cercato di portare via. Ma per non so quale motivo, avevo l’impressione che quello fuori posto in quella sartoria ero io.

Tanto per cominciare, si trattava veramente di una sartoria? Certo, c’erano delle macchine da cucire sui ripiani lungo i muri,

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delle bobine di filo e dei mucchi di vestiti ammassati alla rinfusa vicino alla porta. Ma soprattutto c’erano dei materassi di gommapiuma, delle coperte e questa pentola che bolliva su un minuscolo fornellino a gas, una pentola di noodles ai gamberetti. Era insieme il loro laboratorio, la loro cucina e la loro camera da letto. In un angolo, sotto un rubinetto chiuso male, c’era una bacinella d’acqua facente funzione di bagno.

Erano quattordici anni che lavoravo per la società. Quattordici anni che avevo passato a scalare i gradini della gerarchia commerciale: rappresentante al dettaglio, rappresentante all’ingrosso, venditore junior, venditore senior. In quattordici anni avevo venduto più vestiti di quanti la mia discendenza ne avrebbe mai potuti indossare. Delle tonnellate e tonnellate. Avevo fatto fare un pacco di soldi all’azienda. Avevo sempre creduto di salvare il lavoro di gente che apprezzavo. Del resto, tutti quelli del deposito io li conoscevo. A volte mangiavo con loro a mezzogiorno. Con loro festeggiavo i risultati annuali. Ma questi qua da dove uscivano? Chi erano?

Certo, mi ero già detto che col prezzo a cui vendevamo i prodotti ai grandi magazzini dovevamo trattare con laboratori poco scrupolosi dall’altra parte del mondo, dei laboratori in Cina, o in paesi ancora meno raccomandabili. Mi ero già immaginato donne che lavorano senza assistenza sindacale, o addirittura il lavoro forzato e, con orrore, il lavoro minorile.

Ma questo no, non l’avrei mai immaginato. Proprio sotto il mio naso. Proprio lì, alle mie spalle.

Volevo far loro delle domande, ma nessuna mi sembrava pertinente. Avevo già capito tutto. E poi non avevamo una lingua in cui comunicare.

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Solo alcune ore più tardi ho saputo che erano rumeni e che vivevano lì da mesi. Che non uscivano mai e che il bambino era nato lì sui materassi, in una notte di dicembre.

La macchia non aveva più importanza.

Ho aperto la porta del laboratorio, la grande serranda del deposito e ho raggiunto la sala riunioni. Ho invitato i rappresentanti di Carrefour a scendere a visitare il deposito, ma qualcosa ha dovuto infastidirli – forse il modo in cui li tiravo per la manica della giacca, lo sguardo da invasato che avevo stampato sulla faccia o magari la macchia di salsa sulla camicia? - fatto sta che non hanno visitato un bel niente, sono risaliti in macchina e se ne sono andati via senza vedere nulla. Ma anche senza comprare nulla, e questo mi ha fatto sorridere.

Sono tornato al laboratorio e ho caricato in macchina tutta la squadra, prima di chiamare la polizia e i giornali.

Hanno perso il lavoro, e io con loro. Ne abbiamo cercato un altro insieme. Ma cosa è successo dopo quel giovedì non ha nessuna importanza. È un’altra vita che appartiene solo a me. Mi basta dirvi che vado in Romania ogni estate.

E che riempio la mia station wagon di interi cartoni di minestra ai gamberetti.

Ora so come si fa ad ottenere un permesso di soggiorno, un posto all’asilo e degli amici per la vita.

Questo sì che è veramente importante.

La polizia mi ha interrogato più volte nel corso dell’indagine, ma io non avevo granché da dire. La ditta è stata messa in liquidazione, i locali rivenduti.

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Mio padre e mia madre non si parlano più. Non sanno nulla di me. Neppure che l’inverno prossimo Ilya avrà cinque anni. E che abita ancora a casa mia. Con il padre, la madre e il padrino.

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