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All’interno di questo percorso, dunque, mi sono proposta di indagare l’esperienza di studenti universitari con disabilità in Italia.

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INTRODUZIONE

1. Oggetto e contesto: studenti con disabilità, Università di Pisa e servizi preposti

Nel nostro paese si è approdati ad una concezione di integrazione/inclusione che si pone l’intento di consentire a ciascuno di prender parte alla vita sociale nel pieno riconoscimento delle proprie “diverse abilità”

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. A partire dagli anni Settanta, infatti, si è assistito all’emanazione di leggi che hanno progressivamente sancito il diritto della persona con disabilità all’integrazione sociale in genere, scolastica come lavorativa

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.

All’interno di questo percorso, dunque, mi sono proposta di indagare l’esperienza di studenti universitari con disabilità in Italia.

Con l’espressione “studenti con disabilità” intendo un insieme di persone con una serie di problematiche, le quali non sono sempre riconducibili a tale categoria (Piasere 2002), per come abitualmente assunta dalla normativa in materia. In particolare, la Legge 5 febbraio 1992, n. 104, Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone

handicappate, all’articolo 3, comma 1, così definisce i soggetti in questione: «è persona

handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o

                                                                                                               

1 In effetti – come avremo modo di approfondire in seguito – la stessa terminologia utilizzata per riferirsi alla condizione di dette persone ha seguito un proprio percorso storico passando, negli ultimi decenni del secolo scorso, da “handicap” a “disabilità” fino a “diversa abilità” (Canevaro, Ianes 2003; Mancini 2005; Pavone 2010).

Ho qui deciso di mantenere il termine “disabilità”, in aderenza con il suo attuale diffuso utilizzo in ambito scientifico, come pure di senso comune, nonché con quanto da alcuni dei suoi stessi portatori affermato.

Parallelamente il processo che ha condotto all’attuale idea di una piena “partecipazione” sociale dei soggetti con disabilità ha assistito al passaggio dalla nozione di “inserimento” a quella di “integrazione” e, più di recente,

“inclusione” (Pavone 2010; TreeLLLe, Caritas, Agnelli 2011). Se nel nostro paese si è storicamente affermato il primo termine – dal latino integratio (dal verbo integrare, derivato di integer “integro”, “intero”, “completo”) – mentre in ambiente anglosassone e a livello internazionale si è maggiormente diffuso il secondo – dall’inglese inclusion (dal verbo to include “includere”, “comprendere”) –, essi oggi vengono talvolta utilizzati in maniera interscambiabile, talaltra distinti secondo una prospettiva che vede nell’inclusione una ulteriore evoluzione rispetto all’integrazione (che, in tal senso, sebbene preveda un reciproco accomodamento fra persona e contesto, troverebbe quest’ultimo ancora impreparato a consentire una piena ed effettiva partecipazione di ciascuno nella sua diversità, rimanendo maggiormente sbilanciata sull’impegno richiesto all’individuo per ottemperarvi). Nel presente lavoro ricorrerò indifferentemente all’uno e all’altro come sinonimi, secondo un’accezione sistemica di entrambi, laddove stanno ad indicare la capacità del contesto, in questo caso della comunità educativa, di aprirsi e adattarsi all’eterogeneità e alla diversità degli studenti. Tale contesto, tramite il ricorso a modelli e strumenti in grado di rispondere parimenti alle esigenze più diversificate, può dunque facilitare l’apprendimento di tutti, all’interno di un tessuto sociale e culturale pluralista che ne consenta una costante coevoluzione (Canevaro 1999;

Mancini 2005; Pavone 2010; Gallino 2012b).

2 Legge 118/71; Legge 517/77; Legge 270/82; sentenza della Corte Costituzionale 215/87; Legge-quadro 104/92, in cui tale materiale è convogliato; Legge 68/99; Legge 17/99; Legge 18/09, con la quale l’Italia ha ratificato la Convenzione ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) sui diritti delle persone con disabilità (Trisciuzzi 2000;

Canevaro 1999; Marsella 2000; Esposito 2007; Maragna, Marziale 2008; Borgnolo et al. 2009; Latti 2010;

Pavone 2010; TreeLLLe, Caritas, Agnelli 2011; Schianchi 2012; Mancarella, Guaraldi 2012).

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progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione»

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. Ai fini dell’accesso al campo, ho infatti contattato persone che, sebbene non in possesso di certificazione di handicap secondo la Legge-quadro 104/92, usufruiscono di diritti legati alla certificazione di invalidità ai sensi della Legge 295/90, poiché presso l’Università di Pisa (come presso ogni altro ateneo italiano) chi ha un’invalidità superiore al 66% è esente dal pagamento delle tasse universitarie e può fruire delle prestazioni erogate da Servizi (o Sportelli) appositamente preposti (come previsto dalla Legge 17/99)

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. L’espressione “studenti con disabilità”, in una accezione più ampia, oltre a riferirsi a chi è definito tale in base alle categorie normative, si riferisce pertanto a tutti coloro che possono accedere alle prestazioni previste dalla Legge 17/99. Tra questi figurano le persone affette da gravi malattie, talvolta croniche ed invalidanti, talaltra dai risvolti ignoti (in assonanza con la nozione di disabilità espressa nell’ ICF - International Classification of Functioning, Disability and Health, redatta nel 2001 dall’OMS)

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. Più di recente, inoltre, è avvenuto un ulteriore passo inclusivo da parte della normativa stessa, laddove anche persone senza certificazione di invalidità (o comunque con invalidità certificata inferiore al 66%), ma che presentino certificazione di handicap secondo la summenzionata Legge 104/92, hanno diritto di esonero dalle tasse e possono                                                                                                                

3 Cfr. http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/b9b27816-47b5-4031-9f4b- f0a8d1a8f364/prot104_92.pdf.

4 Una precisazione terminologica: nella stesura del presente lavoro ho utilizzato i due termini “Ufficio/ufficio” e

“Servizio/servizio” secondo una duplice accezione. L’una, rispondente a quella tecnico-amministrativa ufficiale dell’Università, si riferisce alla dicitura all’interno dell’organigramma istituzionale: in questa prospettiva essi compariranno con la lettera iniziale maiuscola. L’altra, rintracciabile nel ricorso che vi hanno fatto i vari interlocutori contattati (così come la stessa ricercatrice), si richiama piuttosto ad un uso diffuso di senso comune:

in tale accezione i due termini verranno riportati con iniziale minuscola. A conclusione di questo percorso introduttivo, infatti, avremo modo di entrare nel merito dell’organizzazione dell’Amministrazione Centrale dell’Università di Pisa, che include la Direzione Didattica e Servizi agli Studenti, suddivisa in due Settori o

“Uffici”: il Settore Studenti e il Settore Laureati. Quest’ultimo, a proprio turno, include la neo-costituitasi Unità o Linea Orientamento e Sostegno agli Studenti, al cui interno sono riuniti i “Servizi” o Sportelli di USID, Sportello Dislessia e DSA, Servizio di Ascolto, Orientamento. Nel prosieguo del testo, tuttavia - secondo una forse indebita ma a mio avviso opportuna trasposizione, per una fruizione immediata dei due vocaboli -, incontreremo il termine “ufficio” in riferimento al luogo operativo di quello che, nell’organigramma ufficiale, è denominato Servizio - cioè, nel nostro caso, dell’USID come pure dello Sportello Dislessia e DSA - piuttosto che al Settore Laureati di appartenenza. Insomma, il ricorso alla parola ufficio segue qui il significato diffuso de

«il locale o l’insieme dei locali in cui gli impiegati lavorano» (De Mauro 2000, 2824). Nel contempo, anche il termine “servizio” assumerà altra accezione, venendo a designare quanto quotidianamente erogato da USID e Sportello Dislessia, piuttosto che gli stessi. Volendo darne una prima e generica definizione, dunque, secondo un uso comune nella lingua italiana, esso sta qui ad indicare la «prestazione fornita da un ente pubblico o privato volta a soddisfare determinati bisogni della collettività» (ivi, 2420).

5 L’ICF è stato l’approdo, volto a risolvere ogni ristrettezza dicotomica, di un lungo percorso che, a partire dagli ultimi anni Sessanta con i movimenti di persone con disabilità e dai primi anni Ottanta con l’avvento dei disability studies, ha visto il contrapporsi all’univoco «modello medico» della disabilità il «modello sociale», nonché alla International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps (ICIDH), adottata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a partire dal 1980, la classificazione proposta in alternativa nel 1982 dal Disabled People’s International (DPI) (WHO (World Health Organization) 1980; Disabled People’s International 1982; OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) 2002; 2004; 2007; Ferrucci 2004).

Quest’ultimo è un movimento internazionale, istituito nel 1981 come Organizzazione Non Governativa (ONG), che nel tempo si è affermato e ampliato, a costituire una rete associativa con sedi in 135 paesi, incluso il nostro.

Scaturito dalla partecipazione diretta e dall’impegno delle stesse persone con disabilità nella rivendicazione, promozione e tutela dei diritti umani, al fine di conseguire pari opportunità e non discriminazione, esso ha trovato ampio riconoscimento da parte delle principali istituzioni internazionali (www.dpi.org). In particolare, fin dalle sue origini ha ottenuto di avere una propria rappresentanza all’interno dell’ Organizzazione delle Nazioni Unite, ove più di recente ha dato il proprio apporto nel corso dei lavori di redazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) 2007).

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accedere ai servizi appositamente disposti, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, del Decreto Legislativo 29 marzo 2012 (secondo le indicazioni della Legge 240/2010)

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. Inoltre, alla categorie “studenti con disabilità” ho poi affiancato quella di “studenti con dislessia”, nonché di tutte quelle persone che, al momento in cui si affacciano al percorso universitario, presentano Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA). Tale condizione è stata riconosciuta e regolata normativamente dalla recente Legge 170/2010, la quale, anche in ambito di studi accademici, riconosce a quanti risultano certificati come soggetti con DSA il diritto a specifici provvedimenti ed ausili

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.

Allo scopo, dunque, di condurre una ricerca etnografica sul vissuto di questi studenti, ho scelto di focalizzare l’attenzione sul mio Ateneo di appartenenza, quello di Pisa, e sui servizi qui erogati da appositi Sportelli, quali l’Unità di Servizi per l’Integrazione degli studenti con Disabilità (USID), come previsto dalla Legge 17/99 per ogni Università italiana, e lo Sportello Dislessia e DSA, come ulteriormente sancito dalla Legge 170/2010

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. Data la loro recente istituzione, essi rappresentano a mio avviso un focus d’indagine significativo per tre motivi principali:

a) in primo luogo, perché i dati quantitativi di cui disponiamo sul fenomeno della partecipazione ai livelli più elevati dell’istruzione da parte di persone con disabilità assolvono una funzione di rendicontazione amministrativa e colgono soltanto in parte le dinamiche dei processi di integrazione, i quali, anche alla luce della variabilità delle forme di disabilità, richiedono di essere studiati parimenti con approcci di tipo qualitativo su scala locale

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;

b) in secondo luogo, perché l’accesso a tali servizi costituisce un’equa opportunità dal punto di vista del vissuto culturale e sociale di coloro che, in condizioni di disabilità, portino avanti una scelta di studi universitari, in quanto si tratta dell’accesso al massimo grado d’istruzione previsto e dunque ad un eventuale status socio-lavorativo corrispondente all’interno della nostra società;

                                                                                                               

6 Cfr. http://www.codau.it/ufficio_studi/file_ufficio/516//Risposta_a_quesito_su_esonero_tasse_a_disabili_e_a_

portatori_di_handicap.pdf.

7 Cfr. Genovese, Guaraldi, Guzzo 2012; in particolare, la Legge 170/2010, all’articolo 5, comma 1, riconosce che «gli studenti con diagnosi di DSA hanno diritto a fruire di appositi provvedimenti dispensativi e compensativi di flessibilità didattica nel corso dei cicli di istruzione e formazione e negli studi universitari».

Nello specifico, poi, il DM 5669, 12 luglio 2011, all’articolo 6, comma 7, sancisce che «in ambito universitario, gli Atenei assicurano agli studenti con DSA l’accoglienza, il tutorato, la mediazione con l’organizzazione didattica e il monitoraggio dell’efficacia delle prassi adottate» (cfr. http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/

web/istruzione/dsa). Per approfondimenti sull’esperienza della dislessia di giovani adulti e la sua gestione in vista dell’accesso allo studio universitario e al mondo del lavoro, cfr. Ghidoni et al. 2012.

8 Tale scelta è derivata da un lato dal fatto che, trattandosi dell’Ateneo di mia afferenza, è questo il luogo ove studio e che frequento con maggiore continuità, dall’altro dal fatto che, rispetto agli altri due Atenei toscani che ho inizialmente contattato – l’Università degli Studi di Siena e quella di Firenze –, e ai loro corrispettivi Sportelli adibiti ai servizi in oggetto, l’Università di Pisa – nella veste del Delegato del Rettore per la disabilità, dell’USID e dello Sportello Dislessia e DSA – mi ha dato accesso immediato al contesto empirico, mostrando fin da subito interesse per l’indagine proposta.

9 Il sociologo Antonio Mancini, in un suo articolo, lamenta appunto tale carenza, all’interno della tradizione di studi in Italia, di ricerche sugli effettivi processi di integrazione educativa di persone con disabilità da parte delle discipline che maggiormente, a suo avviso, avrebbero dovuto occuparsene: le scienza pedagogiche, psicologiche e sociologiche (2005). Noi aggiungiamo qui il contributo che anche le scienze antropologiche potrebbero dare a un ambito etnografico che hanno storicamente trascurato, ma che invece, riguardando l’integrazione e la diversità, dovrebbe specificamente interessarle.

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c) in terzo luogo, perché mediante la realizzazione di uno studio di caso sul funzionamento di tali servizi, capace di coniugare le diverse prospettive delle persone coinvolte, possono attivarsi processi di riflessività in grado di modificare la percezione sociale della disabilità (rappresentazioni sociali, stereotipi) e processi di ridefinizione e adeguamento dei servizi destinati agli studenti.

Come vedremo, tanto la riflessione teorica, quanto la rilevazione sul campo, si sono concentrate sulle relazioni che si intessono fra gli studenti con disabilità (come sopra definiti) e le figure con cui si rapportano nella fruizione dei vari servizi, nonché sulla portata integrativa di tali relazioni a partire dalle rappresentazioni della disabilità e dell’accesso allo studio universitario che i vari soggetti coinvolti veicolano ed estrinsecano.

Per la realizzazione della ricerca sono state condotte circa cento interviste, intese come consultazioni e/o racconti (Olivier de Sardan 1995), tanto con personale dei due Servizi preposti (nonché di altri a questi connessi o degli organismi che vengono ad includerli) e Delegato del Rettore, quanto con studenti con disabilità, tutor alla pari per la didattica (studenti part-time delle 150 ore), operatori del servizio civile, genitori e docenti. A tale pratica è stata affiancata l’«osservazione partecipante» – oggi forse meglio indicabile come

«partecipazione osservante», secondo il ribaltamento concettuale proposto da Pietro Clemente

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–, della durata di un anno (agosto 2012-luglio 2013), dei momenti che scandiscono il lavoro degli Sportelli e l’operato di tutte le suddette figure che, in vesti diverse e con diverse incombenze, vi gravitano intorno (Cappelletto 2009). Un’osservazione e un processo di incremento delle interviste, d’altro canto, che, se nei dodici mesi menzionati hanno raggiunto la loro maggiore costanza ed intensità, sono stati anticipati da un periodo di avvio dei primi contatti collocabile nella primavera-estate del 2012 e seguiti da alcune propaggini dell’indagine protrattesi nell’estate-autunno 2013 (All. 1).

Nell’indagare i processi di integrazione/inclusione sociale cui gli studenti con disabilità da me presi in esame possono aspirare nel contesto universitario pisano, anche tramite il ricorso ai servizi preposti, il tema del loro vissuto di dipendenza/indipendenza/autonomia si è rivelato saliente e profondamente connesso (Nussbaum 2001a; 2002), laddove percorso legislativo e rappresentazione culturale agiscono ed interagiscono in maniera articolata.

In effetti, per quanto concerne il nostro paese, la Legge-quadro 5 febbraio 1992, n. 104, all’articolo 12, comma 2, stabilisce: «è garantito il diritto all’educazione e all’istruzione delle persone handicappate nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie». Specifica poi al comma 3 del medesimo articolo: «l’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione». La Legge 28 gennaio 1999, n. 17, infine, viene ad integrare e modificare la precedente per quanto concerne la garanzia agli studenti universitari di specifici sussidi

                                                                                                               

10 Lo studioso, nel condurre una critica all’idea di terreno etnografico quale set di laboratorio in cui l’antropologo si reca ad osservare con l’aggiunta, quasi per sua concessione, di momenti di partecipazione, propone un ribaltamento dei termini del binomio per cui lo stesso innanzitutto partecipa al proprio contesto d’indagine cui, tuttavia, rivolge una particolare e costante attenzione osservativa (che anzi sovente è una co- osservazione fra osservatore e osservato) (riflessione tratta dal contributo di Pietro Clemente al seminario dal titolo Dove va l’antropologia? - 17 aprile 2015, Università degli Studi di Firenze).

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tecnologici e didattici, nonché di tutorato specializzato e di un docente di riferimento per tutto ciò che riguarda l’integrazione nelle attività dell’ateneo.

In tal senso, la nozione di integrazione si fa luogo prolifico di riflessione riguardo a ciò che comporta nel riconoscimento di uguaglianza/differenza. In effetti, da un punto di vista di comparazione antropologica, si pone qui il problema di portare reale integrazione in società egualitarie come la nostra (Dumont 1993; Addario 2011; Ingstad, Whyte 1995; 2007).

All’interno di quest’ultime, infatti, il diverso viene dichiarato uguale nel momento in cui è autonomo, ma sovente, in questo passaggio, si giunge ad un disconoscimento della differenza e dell’eventuale dipendenza che comporta, nonché ad un conseguente vissuto di isolamento istituzionale (tramite l’internamento in apposite strutture, come pure il non abbattimento di barriere architettoniche o comunicative) o comunque di solitudine in quanto “non in grado di”

(il vissuto educativo di molte persone da me intervistate) di chi ne è portatore. L’accettazione dell’altro si fa, dunque, «fantasma» e l’isolamento sociale diviene la modalità condivisa per sancirne l’irrisolta ed irrisolvibile liminalità (Goffman 2003; Murphy, Scheer, Murphy, Mack 1988). Al contrario, in società gerarchiche, quale quella indiana studiata da Louis Dumont, si assiste all’inglobamento del diverso, sebbene nello status inferiore che gli viene assegnato (2004a; Solinas 2005b).

Se lo sguardo delle scienze sociali si pone negli interstizi fra linee teoriche definite dalle istituzioni e rappresentazioni e prassi fatte proprie dai soggetti, ecco allora la necessità di riflettere su come nelle nostre società si pervenga all’affermazione della stessa uguaglianza, per poi tradursi in esperienze che da essa sovente si discostano. Nel momento in cui il dato di partenza è l’innegabile diversità di ciascuno, è forse opportuno attuare un passaggio che porti da un’uguaglianza costituita, e dunque identitaria, ad un’uguaglianza costituente, e dunque processuale (Balibar 1993; 2012).

Dal punto di vista etnografico, dunque, si tratta di raggiungere quelle realtà sociali in cui, a partire da una specifica disposizione legislativa e da una altrettanto definita visione della persona quale essere individuale, emergono esperienze e relazioni originali. Al loro interno forme di dipendenza le più varie, manifestate da soggetti che vivono nel mondo con corporeità divergenti da quelle normalmente riscontrabili, e modalità di intervento d’aiuto formali ed informali si coniugano in una nuova percezione dell’alterità reciprocamente costruita: si tratta, in ultima analisi, di soffermarsi sulle micro-dinamiche relazionali in cui l’uguaglianza può essere rivista nel suo realizzarsi processuale, inclusivo della diversità di ciascuno.

2. Ipotesi guida: processi donativi, circuiti relazionali, partecipazione

È pertanto proprio all’interno di tali prassi relazionali, che si dispiegano nell’attuazione dei servizi preposti, che intendo verificare l’esistenza di circuiti di reciprocità a partire da eventuali concezioni del proprio ruolo di operatori, tutor, docenti, impiegati, studenti, in una prospettiva di dono.

In effetti, laddove consideriamo il dono quale primo momento di un eventuale circuito di

reciprocità che viene scandito nei tre momenti di dare, ricevere e contraccambiare, è possibile

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domandarsi se e quando esso sia unilaterale o piuttosto inneschi un contraccambio, se e quando esso parta da un principio umanitario o piuttosto da un diverso presupposto (Mauss 2000b; Godbout 2002; Aria, Dei 2008; Bruni, Faldetta 2012). Il dono è intrinsecamente ambivalente e può convivere con modalità di scambio e relazione in apparenza anche contraddittorie. Nel momento in cui, comunque, esso può innescare il circuito di reciprocità, desidero vagliare se, quanto e come ciò si verifichi negli scambi fra studenti con disabilità ed operatori dei servizi (giovani del servizio civile, tutor alla pari per la didattica, impiegati degli Sportelli). In questa prospettiva, infatti, quando il dono, l’azione unilaterale del donare (ad esempio, di un tutor che dedica del tempo aggiuntivo nell’affiancamento dello studente assegnatogli, che prende appunti per lui o che lo accompagna alla toilette, come pure di un operatore del servizio civile che condivide con la persona accompagnata una pausa caffè o l’ascolto di una specifica canzone alla radio), genera reciprocità (ad esempio, di uno studente che per ringraziare delle attenzioni ricevute invia una confezione di cioccolatini presso la sede del Servizio, o di un genitore che vi porta di persona una torta, nonché di uno studente che condivide le sue abilità artistiche con la persona che lo affianca), quest’ultima a sua volta viene a generare relazioni e dunque integrazione, laddove ciò che è significativo non è il bene che circola (ad esempio gli appunti o il caffè), ma le relazioni stesse che si creano, l’ampliamento del cerchio relazionale che la reciprocità consente, lo scambio fra equivalenti simbolici, piuttosto che economici.

Ad esempio, cosa significa per uno studente part-time che fa il tutor alla didattica di uno studente con disabilità prendere appunti per lui, mettere la firma della presenza ad un corso in vece sua, girare le pagine di un libro perché l’altro possa studiarlo

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? In apparenza sono incombenze come altre, ma in tutt’e tre queste azioni si mette in gioco qualcosa di profondamente personale, un bene simbolico, inerente il proprio essere, laddove si diviene una sorta di alter-ego della persona per cui si opera. Qui ritorna anche il problema della corporeità divergente e della connessa dipendenza, in quanto nei casi menzionati i soggetti in questione non sono fisicamente in grado di compiere le suddette azioni e necessitano della presenza di qualcuno che le compia in vece propria; corrispettivamente, risalta come centrale la capacità del tutor di circoscrivere il dono a ciò che è opportuno, senza sostituirsi all’altro e così facendo eluderne peculiarità e specifiche abilità.

I servizi per studenti con disabilità e/o disturbi specifici dell’apprendimento erogati dagli appositi Sportelli delle Università italiane non hanno di per sé il carattere del dono, poiché sono previsti dalla normativa vigente. In tal senso, non c’è dono di partenza, essi operano sulla base del codice simbolico del diritto piuttosto che sul codice simbolico della gratuità.

Anche in questo caso viene decretata una relazione, ma di altro genere, connessa ad un sistema normativo (la salvaguardia del diritto della persona con disabilità ad avere pari accesso allo studio universitario), nonché ad un mercato del lavoro (la remunerazione garantita allo studente part-time che s’impegna nell’affiancamento allo studio di chi presenti un handicap). Purtuttavia – e qui sta un ulteriore nodo saliente su cui riflettere – sembra essere proprio grazie all’intervento delle istituzioni e al loro supporto che si rende qui possibile                                                                                                                

11 In effetti, da alcuni anni l’Università di Pisa (così come molti altri atenei italiani) ricorre a studenti part-time delle 150 ore, che abbiano fatto specifica richiesta di collaborazione con l’USID (esistono, infatti, svariati bandi di collaborazione part-time retribuita distinti in base ai diversi servizi universitari di riferimento), per coprire i

«servizi di tutorato specializzato» previsti dalla Legge 17/99 (cfr. http://www.unipi.it/index.php/iscrizioni-e- segreterie/item/1874-collaborazioni-part-time) in un’ottica di peer tutoring.

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l’espressione del dono nell’operato delle summenzionate figure (Aria, Dei 2008). Sebbene le disposizioni normative per quanto concerne i diritti riconosciuti agli studenti con disabilità per un paritario accesso allo studio universitario siano uniformi su tutto il territorio nazionale, la loro effettiva attuazione, oltre a lasciare molti gradi di libertà ai singoli atenei, include poi tutto un insieme di pratiche ufficiose che permettono sovente di ottimizzare il servizio stesso.

Ad esempio, il ricorso da parte del personale degli Sportelli a proprie competenze di altro settore per risolvere un problema contingente inerente il vissuto dello studente con disabilità;

o l’intervento diretto del tutor alla didattica o dell’operatore del servizio civile in situazioni di bisogno di assistenza di base per consentire alla persona affiancata di potersi trattenere più a lungo a lezione o comunque permanere nelle strutture universitarie. Le caratteristiche dei servizi forniti, in tal senso, influenzano la stessa auto-percezione degli studenti con disabilità.

Nel momento in cui questi prendono parte attiva ad un tessuto di relazioni, in cui cercano sovente di essere considerati eguali ai propri colleghi, i servizi di cui fruiscono possono consentire loro di avere paritario accesso al sistema universitario, ovviando alle forme di dipendenza fisica o comunicativa di cui sono portatori. D’altro canto, è infine possibile riflettere su come l’autonomia personale che essi giungono, in forme varie, a manifestare possa coesistere con siffatta dipendenza che, sovente ineluttabilmente, vivono, laddove si manifesta nella capacità di “attribuirsi regole” e dunque di vagliare costantemente con l’altro la reciproca inclusione.

A partire, dunque, da una normativa che è uguale per tutti gli atenei del nostro paese, si possono osservare modalità organizzative dei servizi ed operati svolti al loro interno diversi e alquanto specifici. Tale eterogenea organizzazione può essere connessa da un lato al problema delle risorse (che variano da ateneo ad ateneo), dall’altro alla rappresentazione del tema dell’accesso al sapere universitario di persone con disabilità che vi sta alla base. È su quest’ultimo aspetto che le scienze sociali possono fornire il loro contributo nel verificare se e in che misura l’efficacia dei processi di integrazione sia riconducibile al generarsi di circuiti di reciprocità fra gli attori coinvolti. Fabio Ferrucci e Michela Cortini osservano, a riguardo, come proprio l’ambito di studi sociali sulla disabilità a livello internazionale abbia invece trascurato questo duplice oggetto: l’interconnessione della rappresentazione con la pratica, del simbolico col materiale, e dunque le ricadute che specifiche rappresentazioni della disabilità possono avere su corrispettive prestazioni previste e poste in essere; l’eventualità che le forme di relazionalità che investono persone con disabilità all’interno di interventi volti alla loro inclusione non siano necessariamente improntate sull’oppressione sociale, ma possano anche comportare il configurarsi di rapporti di fiducia reciproca, formali come pure informali (2015). In tal senso, relativamente a quest’ultimo aspetto, è possibile osservare con gli autori che «an impairment can constitute a serious impediment; however disabling effects may be attenuated by the relationships that the disabled students have with the people from whom they receive material and resources and draw motivation, which permit them to participate in university life» (ivi, 187). È su questa potenzialità “abilitante” – accanto ai certo molteplici fattori “disabilitanti” – delle relazioni che vengono ad instaurarsi all’interno dei servizi indagati, che ho voluto incentrare la mia analisi. Riguardo poi al primo aspetto menzionato, sempre nelle parole di Ferrucci e Cortini, è importante rimarcare come

social representations also build and give form to reality, enabling communication and social interaction, marking the boundaries of and consolidating groups and they direct the processes of

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socialisation. The network of relationships of disabled students are complex systems of actions in which the various actors move according to different goals, interests and representations, so that inclusive practices may coexist with practices leading to exclusion. Social practices and representations are interdependent (ivi, 188).

A monte delle relazioni, dunque, sono le concezioni della disabilità, e della partecipazione di studenti con disabilità alla vita sociale e culturale universitaria, che possono influire in varia forma sui processi inclusivi attuati (così come, certo, all’interno di specifiche pratiche queste stesse rappresentazioni possono poi trasformarsi). Ho pertanto scelto di indagare le rappresentazioni circolanti fra le figure operanti presso gli Sportelli o che vi collaborano, per vagliare la loro ricaduta concreta. La maggiore o minore efficacia dei servizi nell’ottemperare agli obiettivi posti in essere dalla legge, infatti, non dipende eminentemente da aspetti burocratici o economici, ma, in buona parte, da elementi socio-culturali, dalla concezione che investe la disabilità nell’erogazione di detti servizi e, pertanto – nella presente ipotesi –, dalla capacità che questi hanno di produrre o meno relazioni di reciprocità. È a partire dalle rappresentazioni sul tema che tali relazioni possono avere un ritorno positivo (come pure negativo) ai fini dei servizi, nell’eventuale produzione di effettiva partecipazione in contesti che si estendono dalla sede degli Sportelli all’aula universitaria, dall’ambiente di studio a quello familiare.

In sintesi, la ricerca si propone di articolare i concetti di corpo/incorporazione, persona/dipendenza e partecipazione/integrazione/inclusione all’interno delle teorizzazioni su dono/reciprocità, modelli culturali/cerchi dell’etica ed economie morali, per verificare se e a quali condizioni i servizi erogati dagli Sportelli dedicati a disabilità e disturbi specifici dell’apprendimento favoriscano l’integrazione degli studenti in questione a livello universitario.

L’ipotesi guida della ricerca sostiene che affinché si realizzi una effettiva integrazione è necessario che la rete di relazioni prodotta dal funzionamento dei servizi si qualifichi quale valore in sé agli occhi dei soggetti che la agiscono. Come ben sintetizza Marco Aime, in assonanza con Alain Caillé, oltre al «valore d’uso» – per cui «beni e servizi […] hanno un valore determinato dai bisogni che riescono a soddisfare» (2002, XIII) – e al «valore di scambio» – secondo cui essi «valgono in base alla quantità di denaro o di altri beni e servizi che si riescono ad acquistare» (ibid.) –, consegnatici dall’economia classica, «esiste un altro tipo di valore, quello legato alla capacità che beni e servizi, se donati, hanno di creare e riprodurre relazioni sociali: un valore che potrebbe essere chiamato valore di legame, in quanto, con tale approccio, il legame diventa più importante del bene stesso» (ibid.; Caillé 1998b). La relazione, pertanto, non è importante per l’utilità che ciascuno ne può ricavare, ma nella misura in cui le diverse figure prese in esame la considerano un valore. In tal senso, lo studio di caso intende rilevare quali siano le concezioni della disabilità e della relazione con persone con disabilità che guidano i comportamenti sociali degli studenti e delle loro famiglie, così come dei docenti, degli operatori e del personale dell’USID e dello Sportello Dislessia e DSA dell’Università di Pisa e in che misura esse influenzino le modalità organizzative e di erogazione dei servizi. In questa prospettiva, nell’ateneo pisano, fra gli stessi studenti con disabilità da me contattati non emerge una diffusa ed omogenea auto-rappresentazione, laddove, da un punto di vista «emico», vengono a definirsi in modalità varie (Nigris 2003):

oltre a persona con disabilità, infatti, si susseguono termini come persona diversamente abile,

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diversamente funzionante, con handicap, normale con diversità, normale. Ciò, infine, ci introduce alle connesse tematiche dei modelli culturali indagati da Carlo Tullio-Altan (1979), dei cerchi dell’etica individuati da Alberto Cacopardo (A.A. 2007/2008) e delle economie morali delineate da Didier Fassin e colleghi (Fassin, Eideliman 2012) su cui veniamo adesso a soffermarci.

Per concludere, come già osservato, auspichiamo che, dalla realizzazione di uno studio che pone in relazione le prospettive delle figure coinvolte, possano attivarsi processi di riflessività sulle concezioni emerse in grado di modificare la percezione sociale della disabilità e processi di assunzione critica dell’operato svolto capaci di ridefinire i servizi stessi.

3. Traccia di un percorso: teorie e prassi

Nel quinto capitolo Kalasha. Politica e orizzonte dell’etica del suo lavoro di dottorato dal titolo Chi ha inventato la democrazia? Antropologia politica fra Afghanistan e Pakistan Alberto Cacopardo approfondisce la nozione di «cerchio dell’etica», da lui stesso elaborata da una lunga tradizione di studi di antropologia politica ed economica, nell’intento di far luce sull’organizzazione sociale e gli scambi intercorrenti all’interno della popolazione dei Kalasha del Peristan (A.A. 2007/2008, 171-209). Essa, come vedremo, si è rivelata di grande valore euristico nell’analisi dei dati della presente ricerca e costituirà un filo rosso teorico soggiacente all’intero testo, che troverà infine compimento nella nozione di «economie morali» per come delineata da Didier Fassin (2012).

Con riferimento alle società cosiddette senza scrittura Cacopardo, dunque, suggerisce che

esiste sempre un limite di distanza sociale e culturale, oltre il quale nessuna norma vale, dunque qualsiasi grado di ostilità è potenzialmente ammissibile. Per questo chiameremo questo limite il cerchio o l’orizzonte dell’etica. Ciò che è bene o male al di qua di questo margine, non è detto che sia tale al di là. Fair is foul and foul is fair, i valori possono anche rovesciarsi. All’interno dell’orizzonte dell’etica, tutto l’universo dei rapporti sociali è disciplinato da imperativi condivisi: si concelebrano riti, si coltiva una memoria comune e si partecipa alla condivisione. Al di là di esso, tutto è consentito, o, meglio ancora, tutto è negoziabile: ma non esiste un sistema di valori comune, non c’è un’etica condivisa che a priori sia data (A.A. 2007/2008, 207).

Venendo dunque alla ricerca da me condotta sull’esperienza di studenti universitari con disabilità, può sorgere fin da subito la domanda di come una tale nozione possa rivelarsi utile.

In effetti, sarà necessario fare un ampio lavoro di trasposizione per far sì che essa sia fruibile nel contesto d’indagine prescelto: l’Università di Pisa e i suoi Servizi di USID e Sportello Dislessia e DSA.

Sempre Cacopardo specifica che il suo interesse di analisi non inerisce tanto i

«comportamenti concreti», quanto «l’apparato di norme, di valori, di modelli cognitivi e

comportamentali che organizzano la vita della collettività» (ivi, 199). Una collettività

organizzata secondo un sistema di prossimità/lontananza (parentale e sociale in genere) che

procede per cerchi concentrici in relazione alla persona e al nucleo familiare di appartenenza a

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cui si fa riferimento (il centro) per giungere a quel limite del gruppo etnico più esteso oltre il quale «nessuna norma vale» (il cerchio più esterno che ingloba tutti gli altri).

Ecco allora che, se come suggeriscono Edgar Morin e Anne Brigitte Kern anche nelle società moderne si procede secondo un sistema di riconoscimento identitario per cerchi concentrici dalla famiglia fino allo Stato ed oltre, lo Stato Italiano in prima istanza e l’Istituzione Universitaria in seconda possono qui costituire quel cerchio estremo che definisce una norma, in questo caso di Legge, condivisa a livello nazionale (1994). Normativa che prevede il riconoscimento di specifici diritti di integrazione sociale in genere ed educativa nel caso di nostro interesse alle persone con disabilità (nonché con DSA). Normativa, inoltre, che nei suoi più ampi presupposti oggi non può esimersi dal confrontarsi con quella nozione di

«persona con disabilità» che - come avremo modo di appurare meglio in seguito - permea l’ICF e così chiaramente viene sancita nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con

disabilità (da molti paesi ratificata, incluso, almeno formalmente, il nostro con Legge 3 marzo

2009 n. 18), venendo in tal senso a configurare un ulteriore cerchio esterno Internazionale inglobante tutti gli altri (Borgnolo et al. 2009; Pessina 2010; Fougeyrollas 2010; Leonardi 2005; Pariotti 2008)

12

. Ciò detto, è poi alla specifica normativa comune a tutti gli atenei del nostro paese che fa riferimento anche l’attività dei due Sportelli pisani summenzionati (Marsella 2000; Murgioni 2009; Perrotta 2009; Ghidoni et al. 2012).

Dunque un’Università, in questo caso di Pisa, con le sue strutture (più o meno accessibili), i suoi Dipartimenti (fino a tempi recenti “Facoltà”), il suo personale docente come pure tecnico e amministrativo, i suoi studenti e tutte le cariche interne che la connotano; un’Università che a partire dal nuovo millennio ha reso ufficiale riconoscimento all’evenienza di studenti con esigenze particolari cui dare finalmente risposta.

Ma se questa è la norma comune a livello legislativo internazionale e nazionale, presupposto per l’attivazione degli stessi servizi preposti all’integrazione di studenti con disabilità in ambito universitario, qualcosa poi si accosta o discosta da essa nell’operato e nel vissuto delle figure che costituiscono gli altri cerchi di appartenenza fino al raggiungimento del centro, composto da ciascuno studente con disabilità da me preso in esame.

Questi cerchi, dunque, sono:

-­‐ gli Organismi internazionali (ONU, OMS) e le corrispettive normativa e classificazione inerenti la disabilità;

-­‐ lo Stato italiano e il corpo di leggi nazionali sulla disabilità;

-­‐ l’Università di Pisa;

-­‐ i docenti;

-­‐ i vari livelli amministrativi, secondo un organigramma ben preciso;

-­‐ il Delegato del Rettore per la disabilità, il personale tecnico-amministrativo che opera all’interno dell’USID e dello Sportello Dislessia e DSA e le figure professionali che a vario titolo collaborano nei servizi (interpreti LIS - Lingua dei Segni Italiana);

                                                                                                               

12 Per una lettura per esteso del testo della Convenzione ONU cfr. ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) 2007; www.unric.org/it/sviluppo-economico-e-sociale/78; www.governo.it/backoffice/allegati/42085-5202.pdf;

www.un.org/disabilities/convention/conventionfull.shtml. In Italia tale fonte d’ispirazione è divenuta vincolante con Legge 3 marzo 2009, n. 18 Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell'Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (www.parlamento.it/parlam/

leggi/09018l.htm).

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-­‐ gli operatori del servizio civile e i tutor alla pari per la didattica;

-­‐ gli insegnanti di sostegno, gli assistenti alla comunicazione, gli assistenti personali;

-­‐ le famiglie, solitamente i genitori (talvolta anche i fratelli o gli zii);

-­‐ gli studenti con disabilità e/o con dislessia.

In questa breve e schematica rassegna sono partita dal cerchio più esterno, per giungere infine al nucleo, al cuore pulsante da cui tutto, l’apparato dei servizi come la mia stessa ricerca, parte e fa ritorno: gli studenti con disabilità e con esigenze particolari. Nel complesso, dunque, si tratta di cerchi che, sebbene non siano sempre assumibili secondo uno scandito andamento concentrico (laddove, ad esempio, corpo docente e corpo amministrativo coesistono e operano parallelamente, piuttosto che inglobando l’uno l’altro), lo manifestano tuttavia in specifici frangenti, in maniera frammentaria nello spazio, ma continuativa nel tempo, in un costante rimando, per altro, di reciproca inclusione. Può risultare chiarificatore, a riguardo, soffermarsi ulteriormente sull’interazione fra apparato tecnico-amministrativo e accademia, fra personale degli Sportelli e docenti. Questi ultimi, nei loro vari gradi professionali, costituiscono certo quel corpus che “fa” l’Accademia, per cui a livello simbolico ne sono il primo cerchio più ampio (il Delegato del Rettore per la disabilità, nonché Prorettore alla didattica dell’Università di Pisa, in tal senso, rappresenta questa omni- comprensività “politica” degli accademici anche rispetto agli interventi amministrativi).

D’altro canto, i singoli docenti che si trovano a fronteggiare situazioni di studenti con disabilità talvolta per loro inedite, possono necessitare dell’intervento dei Servizi, fino ad esserne inglobati come parte integrante di una linea d’azione condivisa. In tal senso, il procedere per sistemi concentrici, appartenente, come vedremo, ad una tradizione interpretativa disciplinare che lo vede comune a molte realtà societarie e sociali, viene qui rivisto nella sua dinamicità contemplando anche il configurarsi di andamenti diversi, secondo cerchi paralleli, intersecantisi, inglobantisi. Gli accademici, per essere tali, richiedono un apparato organizzativo amministrativo che consenta loro di preservare la struttura in cui si muovono e da cui traggono credito per la conferma del proprio status, cioè l’Università, nonché di studenti e di studi che permettano loro di protrarre nel tempo il proprio contributo intellettuale (ciò che ciascuno rappresenta, a livello simbolico e dunque materiale, nell’Accademia, non continua necessariamente a rappresentarlo al suo esterno, così come un medico ospedaliero o un primario non sono ugualmente ascritti al riconoscimento attribuito al loro ruolo professionale nel momento in cui escono dall’ospedale). D’altronde, anche tale apparato amministrativo richiede la presenza dei docenti e degli studenti per poter espletare le sue funzioni, nonché delle autorità accademiche per poterne trarre credito al momento di attuare le proprie scelte. I due universi, insomma, si vincolano e si corroborano nello stesso tempo e a vicenda con un doppio legame che sovente limita le scelte dell’uno all’approvazione dell’altro.

Una volta visualizzato, dunque, l’andamento più o meno concentrico del sistema universitario e dei servizi per come qui indagati, si pone, infine, il problema dell’eventuale condivisione

«di valori, di modelli cognitivi e comportamentali» da parte di ciascun raggruppamento

considerato, pur a partire dalla condivisione della normativa. In effetti, allo scopo di vagliare

l’eventuale efficacia di pratiche e servizi messi in opera dai summenzionati attori sociali

appartenenti ai diversi cerchi nel produrre integrazione, mi sono qui proposta di rispondere

alla domanda se essi, nel rapportarsi con gli studenti con disabilità, si richiamino o meno al

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processo donativo fino a generare eventuale reciprocità, nonché un ampliamento del circuito relazionale e della partecipazione sociale dei soggetti in questione. In questa prospettiva, fra i suddetti cerchi possono avvenire scambi di vario genere, secondo una reciprocità di segno positivo, bilanciato o negativo – come suggerisce Marshall Sahlins – ma, all’interno del campo d’indagine prescelto, il procedere di tali scambi non è necessariamente aderente alla configurazione dei rispettivi cerchi individuati (1980c). Se, infatti, il riconoscimento legislativo di determinati diritti inerenti persone con disabilità è condiviso da tutti in maniera quasi sottesa, i modelli cognitivi, di valutazione e di comportamento – laddove Carlo Tullio- Altan suggerisce che se condivisi identifichino un gruppo – di riferimento nell’operato dei membri di ciascun gruppo “rimescolano le carte” (1979). Questo rimescolamento consiste nel fatto che, al di là del più ampio senso di appartenenza ad una categoria sociale più o meno riconosciuta (quella di studenti e persone con disabilità, ad esempio, come pure quella di genitori, docenti, tutor alla didattica, operatori del servizio civile, impiegati degli Sportelli), i modelli interpretativi di riferimento dei singoli attori sociali non solo possono comportare la frammentazione del gruppo (o cerchio che sia) in sottogruppi, ma anche la concordanza dei modelli di riferimento di soggetti appartenenti ad un gruppo con quelli dei membri di un altro.

Per fare maggior chiarezza su questo aspetto può essere utile menzionare le parole di Claudia Strauss e Naomi Quinn riguardo all’applicazione del modello connessionista da loro adottato a processi di formazione di schemi culturali come pure individuali, a seconda della condivisione più o meno estesa di associazioni cui è possibile pervenire (cosa che ben si riconduce ai modelli cognitivi di Tullio-Altan):

gli schemi appartenenti solo ad un individuo sono costruiti a partire da esperienze idiosincratiche, mentre quelli condivisi vengono costruiti partendo da diverse tipologie di esperienze comuni. […] A quale punto del continuum di ciò che è condiviso decidiamo di definire un dato schema come “culturale”, è semplicemente questione di scelta: possiamo parlare, volendo, della “cultura” di una famiglia o di un luogo di lavoro, di “alta cultura”, o ancora di una “tematica sottoculturale”. […] Dato che i sottogruppi – […] – si intersecano l’un l’altro, un individuo può condividere gli schemi con tanti gruppi differenti di altri individui quanti sono quelli cui si sente affiliato – ma al tempo stesso può non condividere tali schemi con nessun membro specifico di questi gruppi. Questo modo di pensare la cultura come un insieme di conoscenze o di schemi culturali distribuiti in maniera differenziata, ci sembra dare ragione della condivisione culturale che avviene senza reificare la cultura come un’entità delimitata (2000, 358).

D’altro canto, è soprattutto sui modelli di valutazione che verrà concentrata l’analisi dei dati raccolti, nella limitata accezione di «economie morali» per come restituitaci nella sua rinnovata valenza euristica da Fassin: «la production, la répartition, la circulation et l’utilisation des affects et des valeurs dans l’espasce social» (2013d, 245). In questa prospettiva, come vedremo meglio in seguito, in corrispondenza dei diversi cerchi dell’etica summenzionati, è possibile vagliare:

-­‐ da un lato, la produzione internazionale delle economie morali della disabilità, la loro

distribuzione all’interno del nostro paese, la circolazione delle stesse ad opera dei

professionisti dell’istituzione universitaria considerata (nello specifico per quanto

concerne i servizi) e l’utilizzo da parte degli studenti interessati, delle loro famiglie e

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delle figure che con essi si trovano ad interagire e collaborare quotidianamente (in questi ultimi due casi, di circolazione e utilizzo, relativamente all’etnografia condotta);

-­‐ dall’altro, la variabilità, trasversalità, reciproca influenza e trasformazione fra questi diversi livelli di azione rispetto alle economie morali della disabilità, nonché all’interno di ciascuno di essi – come accade, ad esempio, nello studio di Jean- Sébastien Eideliman, in cui l’economia morale del «genitore combattivo» di figli con disabilità cognitiva lo vede contrapporsi socialmente al genitore remissivo, che subisce le linee guida e l’intervento delle istituzioni senza lottare per altre possibilità (2012, 377-395).

Ecco allora che i vari protagonisti, inclusi gli stessi studenti con disabilità, vengono a ricostituire senza saperlo diversi raggruppamenti e dunque corrispettivi «cerchi dell’etica», (rivisitando ed estendendo l’accezione cacopardiana a designare gruppi corrispondenti ad altrettante economie morali della disabilità) coesistenti e talvolta intersecantisi, che stavolta non trovano corrispondenza in una precisa categoria sociale, ma piuttosto nella distribuzione dei modelli a cui si richiamano.

4. Una prima incursione antropologica: epistemologie e metodologie

In questo breve cappello introduttivo troviamo condensati una serie di elementi che richiedono adesso una più precisa collocazione nella disciplina antropologica e nelle scienze sociali in genere.

Di cosa stiamo parlando, infatti? Si tratta di un elaborato di antropologia sociale, nel senso che si occupa delle istituzioni proprie di una data società al cui interno si svolgono le interazioni fra gli attori sociali presi in esame, o culturale, inerente cioè alle rappresentazioni e al bagaglio simbolico che informano un dato gruppo e i suoi membri? Un elaborato di antropologia politica e delle istituzioni o economica e del dono/reciprocità (o, aggiungerei, della parentela, medica, dell’educazione, del linguaggio)? Un elaborato che si occupa in prospettiva antropologica della complessa e affascinante tematica del corpo o di quella della persona (nonché, rispettivamente, della disabilità e della dipendenza/autonomia)? E via di seguito, la lista sembra potersi allungare quasi senza soluzione di continuità… Un lavoro, infine, e soprattutto – quasi a chiudere il cerchio di questi interrogativi – di antropologia materiale, connessa cioè alle reali pratiche dei suoi protagonisti, o simbolica, che si occupa dunque di come essi percepiscono, pensano e si rappresentano la realtà propria e condivisa?

Ebbene, credo che questo lavoro si richiami ad ognuno di questi diversi aspetti della disciplina, nonché al legame che essa intrattiene con le altrettante discipline che da un’altra prospettiva si occupano di tematiche comuni, senza certo esaurirne alcuno, ma rivolgendosi a quell’approccio più armonico a cui Michael Herzfeld ripetutamente ci invita (2006).

Egli, infatti, suggerisce di abbandonare le troppo nette distinzioni dualistiche, che poco

rispecchiano la porosità di ogni aspetto summenzionato nei confronti degli altri, nel momento

in cui, ad esempio, «gran parte della razionalità che informa le economie moderne è

cosmologica – ossia dipende da una visione del mondo – ed è analizzabile in quanto tale» (ivi,

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110) e, d’altro canto, «le economie sono inglobate non solo nei valori culturali, ma anche nelle fluttuanti relazioni sociali che smentiscono ogni visione reificata di una cultura» (ivi, 143). Si prospetta, inoltre, la necessità di vagliare le implicazioni politiche soggiacenti alla stessa economia, laddove, infine, «tutto nella vita sociale è veramente politico» (ivi, 162).

Vorrei quindi associarmi a Herzfeld nel riprendere le parole di Nurit Bird-David che rimarca

«l’embricamento (embeddedness) della vita materiale nella cultura, o la costituzione culturale della vita materiale» (1997, 506; trad. in Herzfeld 2006, 112-113). Egli così prosegue nel commentarle: «le forme culturali sono esse stesse materiali, dal momento che hanno relazioni causali con tratti che più convenzionalmente riteniamo materiali. […] le idee hanno conseguenze, quindi sono materiali» (ivi, 113). Detto in altri termini, stavolta derivati da quel campo di studi di antropologia del linguaggio che intende «lo studio del linguaggio come

risorsa culturale e del parlare come pratica culturale» (Duranti 2005, 14), la lingua in primis

si manifesta come «insieme di risorse simboliche che sono parte integrante del costituirsi del tessuto sociale e della rappresentazione individuale di mondi reali o possibili» (ivi, 14-15).

Nello specifico, dunque, assumendo la lingua – secondo dibattiti già ampiamente sviluppati negli studi di antropologia del linguaggio (Duranti 2005) – non solo come modello di pensiero, ma anche come pratica culturale – quale «forma di azione che presuppone e al tempo stesso dà vita ai modi di essere nel mondo» (ivi, 13) – anche la parola può farsi azione sociale, dando luogo a nuovi eventi e interazioni: si tratta del concetto di «atto linguistico»

delineato da John Langshaw Austin, inerente il fatto che «le parole fanno le cose», dimensione performativa propria di ogni uso del linguaggio (1987). La nozione di performativo – spiega Kira Hall – concerne, infatti, «enunciati privi di valore di verità, dato che non si limitano a descrivere il mondo ma agiscono su di esso, “facendo cose con le parole”» (2001, 256)

13

.

Ma questa interazione dinamica e fluida fra diversi ambiti di studio interni alla stessa disciplina antropologica, nonché fra i singoli poli di duplici categorie in apparenza contrapposti l’un l’altro, si estende ulteriormente affiancando alle nozioni di simbolico e materiale, quelle di psiche e soma, nonché di soma e cosmo, singolo e gruppo, persona e corpo. Come, infatti, avremo modo di approfondire in seguito, una visione consustanziale del corpo al mondo circostante è connessa all’eventuale datità della persona quale «essere dividuale» in rapporto al fascio di relazioni sociali che la pongono in essere (Strathern 1998), laddove, invece, l’idea di un corpo quale involucro che separa dal mondo viene a farsi fattore di individuazione della persona come «essere individuale» (Bancel, Sirost 2003; Le Breton 2007a). Ma, infine, «aspetti dividuali e individuali concorrono ovunque nella definizione della persona umana» (Pizza 2005, 62), laddove perfino l’identità corporea, quale gioco di percezione e rappresentazione, piuttosto che assunto ontologico e naturale, si configura e si ricalibra costantemente all’interno dei processi relazionali cui gli attori sociali partecipano.

                                                                                                               

13 Prosegue a riguardo Hall, riportando un esempio a chiarificazione di quanto detto: «perciò se l’enunciato constativo classico “la neve è bianca” è vero o falso da un punto di vista descrittivo, enunciati come “vi dichiaro marito e moglie” sono un po’ diversi, in quanto il loro successo si basa su un certo numero di condizioni (note come “condizioni di felicità”) che non possono esser valutate in base al criterio di verità. Si tratta di proferimenti di carattere performativo e non constativo, perché è proprio pronunciando le parole da cui sono composti che l’atto viene realizzato [performed]» (ibid.). Per approfondimenti riguardo alle nozioni di atto linguistico e performatività cfr. Jhon L. Austin, Come fare le cose con le parole: le William James lectures tenute alla Harvard University nel 1955, Marietti, Genova 1987; Alessandro Duranti (a cura di), Culture e discorso. Un lessico per le scienze umane, Meltemi, Roma 2001; Alessandro Duranti, Antropologia del linguaggio, Meltemi, Roma 2005.

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Certo è che tematiche come il vissuto di disabilità e l’eventuale dipendenza che esso comporta conferiscono ulteriore problematicità ai summenzionati aspetti e si insinuano nelle maglie di pratiche e valori quali quelli connessi alle relazioni familiari e amicali, all’impegno educativo, curativo o anche ludico, sportivo e culturale in genere, al rispettivo ruolo professionale e istituzionale, e, perché no, al soggiacente processo donativo che può intercorrere fra i vari attori e i soggetti di questo vissuto nel momento in cui entrino in contatto. Processo che può spaziare dalla reciprocità fino all’altruismo, ma anche alla sopraffazione e alla negazione. Il tutto seguendo una sorta di continuum, piuttosto che di opposizione dicotomica, all’interno del quale ciascuno può assumere diverse posizioni a seconda del proprio bagaglio esperienziale e della specifica contingenza.

Ecco, allora, come principio e corollario di questo percorso, la necessità per l’antropologia di perseguire quella «via media» auspicata da Herzfeld, «che cerca di navigare […] fra gli stretti che separano la Scilla del secco oggettivismo dalla Cariddi dell’abbandono narcisistico: in questo modo proviamo fenomenologicamente nella nostra pratica intellettuale i parallelismi tra la realtà sociale e la teoria, ritenuta come un’astrazione che esiste al di là di quella realtà»

(2006, XII). La capacità, dunque, di contestualizzare la teoria antropologica rispetto alle specifiche realtà indagate permetterebbe alla disciplina stessa di riconoscere

«l’imprevedibilità e l’indeterminatezza dell’esperienza sociale» (ibid.), nonché quel «rapporto assolutamente dialettico tra agentività e società» (ibid.). Si tratta, insomma, della capacità di assumere una posizione critica rispetto al mondo circostante (proprio come altrui) che consenta di riflettere sulla condizione umana e sulla sua interpretazione per come variamente emergono nello spazio e nel tempo, in modo tale da «valutare la realtà rifiutando ogni rappresentazione dominante di ciò che costituisce la Realtà» (ivi, XVI).

Se questo, in effetti, rappresenta per lo studioso inglese il primo requisito-chiave del lavoro antropologico, egli suggerisce che l’altro consista nel «possedere la consapevolezza di quello che definirei l’imperativo pedagogico dell’antropologia, cioè del fatto che i numerosi ed evidenti punti deboli della disciplina offrono a chi la studia una comprensione pragmatica relativa alla sua stessa base epistemologica. […] Questa visione intende l’antropologia come modello di impegno critico con il mondo e non come modello di distanziata e accademica spiegazione del mondo» (ivi, XV). Un impegno critico, dunque, che permea la quotidianità condivisa con i propri informatori ed interlocutori, e che, nell’oltrepassare quella riflessività postmoderna talvolta fin troppo autocompiaciuta ed autocompiacente, vuol riportare il proprio contributo all’intersezione delle prassi, delle percezioni e delle rappresentazioni antropologiche del ricercatore con quelle del gruppo d’indagine prescelto.

L’antropologia, dunque, come «pratica della teoria» – secondo un’inversione dei termini bourdieusiani effettuata da Herzfeld – può infine farsi «critica della pratica» (ivi, 25-66). Che si tratti, infatti, del perseguire la via media come pure un proprio ruolo pedagogico, è infine il pervenire a questa critica costruttiva di quanto indagato nel momento in cui lo si indaga, che configura le potenzialità dell’antropologia intesa essa stessa come pratica sociale e culturale.

Ciò, oggi, sembra onestamente possibile solo tramite una consapevole «defamiliarizzazione»

dell’antropologo rispetto ai propri stessi presupposti storico-culturali, nonché una distanziata

assunzione della matrice occidentale delle proprie epistemologie. Nel contempo, e soltanto in

tal modo, egli può così finalmente pervenire ad una assidua apertura nei confronti di quelle

voci eterogenee, di quelle «logiche alternative», che permeano anche le realtà in apparenza

più schiacciate dalla sensatezza del senso comune trasversale all’odierno mondo globalizzato.

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Ecco allora in cosa consiste esattamente l’invito del nostro autore a concepire la disciplina come critica. Così egli ce ne dà spiegazione: «è una critica nei confronti dell’assunzione di quell’ovvietà che ovunque è chiamata “senso comune”, ma che ovunque è diversa e distintiva nella sua costituzione» (ivi, XXI). Paolo Jedlowski suggerisce, appunto, che il «processo di

“addomesticamento”» della realtà circostante da parte degli attori sociali abbia, come sua controparte, l’occultamento dello stesso, e dell’ambiguità che sottende, in vista di un

«adattamento alle cose “come stanno”»: «la naturalizzazione di certe interpretazioni della realtà è l’esito cui il senso comune incessantemente conduce» (2012, 116). Dunque il senso comune implica una «messa in forma sociale della realtà» (ibid.), l’attuazione costante di un processo interpretativo del mondo variabile quanto lo sono le dimensioni culturali umane, ma ciononostante negato in quanto tale ed assunto come dato ovvio e naturale. L’antropologia, pertanto – tornando all’argomentazione di Herzfeld – deve «sbrogliarsela» e orientarsi in maniera creativa fra le nebbie del senso comune, inteso quale «comprensione quotidiana di come funziona il mondo» (2006, 1), o ancora – nelle parole di Clifford Geertz – quale assunzione di alcune questioni come «inerenti alla situazione, aspetti intrinseci della realtà, il modo in cui vanno le cose» (1988, 107). La pratica antropologica, dunque, viene innanzitutto a farsi carico dei suoi messaggi variegati e contraddittori, per pervenire, infine, ad una problematizzazione di quanto appare per lo più ovvio e/o auto-evidente. In effetti, nel momento in cui il termine senso comune rivela le proprie ambiguità – in quanto «non è né comune a tutte le culture, né alcuna delle sue manifestazioni appare davvero sensata dal punto di vista di chi si trova al di fuori del suo particolare contesto culturale» (Herzfeld 2006, 1) –, esso può infine indicare «la forma socialmente accettabile di cultura ed è quindi tanto variabile quanto lo sono le forme culturali e le regole sociali» (ibid.). In tal senso, certo, il ricorso a quell’approccio comparativo, che da sempre accompagna la riflessione antropologica, si fa strumento incisivo che consente di non incorrere nel rigido determinismo culturale come pure nel relativismo più estremo. Una comparazione intesa quale tentativo di

«analizzare gli aspetti creativi e mutevoli delle attività umane, riconoscendo così il carattere provvisorio di qualsiasi ipotesi di regolarità» (Herzfeld 2003, 5).

Tutto ciò ci porta finalmente al nocciolo della questione, cioè a comprendere quale sia infine

la specificità dell’antropologia ed il peculiare apporto che essa può dare allo studio di realtà e

fenomeni socioculturali specifici. Maria Minicuci e Mariano Pavanello, nell’Introduzione al

numero monografico della rivista “Meridiana” dedicato all’Antropologia delle istituzioni,

pongono appunto questa domanda: «Cosa studia dunque l’antropologia e come? Quale tipo di

ulteriore contributo rispetto alle altre scienze può fornire alla conoscenza del politico, e in

virtù di che cosa?» (2010b, 11). Domanda, certo, che può essere riferita in senso più ampio ad

ogni ambito di cui lo studio antropologico venga ad occuparsi, se assumiamo con i nostri

autori che «tutta l’antropologia [è] fondamentalmente politica» (ivi,12) e «ci concentriamo

[…] sull’azione del politico in tutti gli ambiti della società e della cultura» (Herzfeld 2006,

161-162). Essi, dunque, così svelano l’arcano: «la risposta a queste domande risiede

essenzialmente su due elementi di fondo: la pratica del fieldwork, da cui discendono le sue

analisi, e l’attitudine critica» (Minicuci, Pavanello 2010b, 11). Se quest’ultimo aspetto è stato

già ampiamente menzionato nelle riflessioni precedenti, quello della ricerca sul campo,

sebbene sempre soggiacente, merita adesso il proprio spazio, nel riconoscimento del suo ruolo

fondativo della disciplina per come oggi viene intesa. Gli autori riportano, a riguardo, le

parole di Richard Fardon, secondo cui gli antropologi si distinguono dagli altri scienziati

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