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LA RESPONSABILITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Tra le singolari città immaginate da Italo Calvino nel bellissimo

“Le città invisibili” è compresa anche la città di Fedora,

“metropoli di pietra grigia, (al cui centro) sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello di un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro1”.

Ogni abitante della grigia città di Fedora ha pertanto la possibilità, visitando il museo, di contemplare le diverse città e le corrispondenti utopie che, per motivi diversi, non hanno potuto realizzarsi2.

Fra la descrizione della città di Fedora fornita da Calvino e la complessiva vicenda del nuovo Codice del processo amministrativo approvato con d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, sono state rinvenute delle sostanziali corrispondenze.

In particolare sembra che lo studio della problematica delle azioni ammissibili nel processo amministrativo abbia molti aspetti in comune con la città di Fedora immaginata ed

1 Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972, ora in Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, vol. II, 1992, 382

2 L. Viola, Le azioni avverso il silenzio della P.A. nel nuovo codice del

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abilmente descritta dallo scrittore: si può infatti immaginare di essere di fronte alla grande città di pietra di Calvino, caratterizzata da grigiore di fondo, contemplando ciò che avrebbe potuto essere, ovvero delle “utopie non concretizzate” e a questo scenario ben può essere paragonato a quello di un Codice che presenta invero grandi limitazioni di tutela ma che sarebbe potuto essere diverso, se alcune “utopie” immaginate fossero diventate reali.3

Questo paragone sembra essere calzante anche in materia di inerzia della Pubblica Amministrazione.

Nuovi passi avanti in termini di tutela del cittadino e di disciplina dei rapporti con la Pubblica Amministrazione, sono stati fatti con la legge sul procedimento amministrativo n. 241/'90, la quale, con le sue continue modifiche, ha introdotto nel nostro ordinamento una disciplina generale che ha recepito principi fondamentali già affermati nel tempo dalla giurisprudenza e che si muove nell'ottica di una concezione dell'azione amministrativa non più come mera espressione del potere amministrativo, ma come risultante di un dialogo e di una reciproca collaborazione tra amministrazione e cittadino nel contemperamento dell'interesse pubblico e privato.

In particolare è nel caso in cui l'amministrazione, nonostante il dovere di provvedere, rimanga inerte, che si vanno a configurare insidie e difficoltà per il cittadino.

Il comma 5 dell'articolo 2 della legge 241/'90 aveva invero già previsto uno strumento processuale di tutela attraverso il ricorso giurisdizionale con il silenzio della Pubblica Amministrazione,

3 Il paragone tra la complessiva vicenda del Codice e Le città invisibili di Calvino era invero già stato fatto: A. Pajno, La giustizia amministrativa all'appuntamento con la codificazione in Dir. Proc. Amm., 2010, 142, in L.

Viola, Le azioni avverso il silenzio della P.A. nel nuovo codice del processo amministrativo: aspetti problematici, www.federalismi.it

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ma è con la legge 69/2009 che il panorama è effettivamente cambiato, avendo tale legge recepito quelle spinte della dottrina e della giurisprudenza già favorevoli all'affermazione della responsabilità per danni conseguente ad una violazione dei termini procedimentali e, quindi, ad una tutela maggiore del cittadino.

Infatti il nuovo articolo 2 bis inserito nel contesto della legge 241/'90 dall'articolo 7 della legge 69/2009 prevede il risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.

Il legislatore ha in tal modo disciplinato il “danno da ritardo”

prendendo un'espressa posizione nell'ambito di un annoso dibattito che ha animato dottrina e giurisprudenza e di cui in questa tesi vedremo gli aspetti salienti.

Tale impostazione trova la sua giustificazione non solo nella profonda trasformazione che nell’ultimo ventennio ha toccato la pubblica amministrazione ed il rapporto con il cittadino, il quale si trova non più in posizione di sudditanza, ma anche di reciproca collaborazione, ma anche con riferimento al fenomeno patologico dell’inerzia amministrativa ed, in alcuni casi, a veri e propri abusi amministrativi, fonte di danni non solo per il privato cittadino ma anche per la stessa economia nazionale.

Infatti ciò che la collettività sempre di più cerca non è un rispetto della legalità in astratto, come formula vuota, ma dei risultati concreti4.

Quello che si può auspicare è che le novità introdotte dal legislatore del 2009 assieme alla disciplina del codice del

4 S. Corasaniti, Presidente T.A.R. Friuli Venezia-Giulia, Danno da ritardo o da silenzio rifiuto della pubblica amministrazione e sua risarcibilità,

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processo amministrativo, apprezzabili per l’attenzione mostrata all’esigenza di assicurare la risarcibilità del danno da ritardo, possano finalmente agire nel senso di una maggiore sensibilità degli enti pubblici al rispetto dei termini procedimentali, a tutto beneficio di una minore conflittualità tra la P.A. e i cittadini”5. Disciplinando il danno da ritardo, il legislatore sembra inoltre aver preso un'espressa posizione in merito alla spinosa questione del risarcimento del danno da mero ritardo, quindi a prescindere dall'indagine sulla spettanza del bene della vita oggetto del provvedimento richiesto.

Ci si è infatti a lungo interrogati sulla possibilità di risarcimento anche nel caso in cui l'amministrazione non emani alcun provvedimento, ovvero emani in ritardo un provvedimento negativo.

L'orientamento maggiormente condiviso era di segno negativo, come espresso dall'Adunanza Plenaria con la decisione n. 7 del 2005: si riteneva risarcibile il danno da ritardo solo in caso di provvedimento di tipo favorevole per il privato o, in caso di perdurante silenzio, solo sulla base di un giudizio prognostico circa la spettanza del bene della vita oggetto dell'istanza del cittadino.

Parte della giurisprudenza tuttavia, come espresso dall'ordinanza della sezione IV del Consiglio di Stato n.

875/2005 di rimessione all'Adunanza Plenaria, riteneva invece possibile richiedere il risarcimento del danno anche in caso di mero ritardo ed indipendentemente della fondatezza della pretesa azionata con l'istanza nei confronti dell'amministrazione, intendendo in tal modo soddisfare l'esigenza di garantire tutela

5 S. Corasaniti, Presidente T.A.R. Friuli Venezia-Giulia, Danno da ritardo o da silenzio rifiuto della pubblica amministrazione e sua risarcibilità, www.uniroma1.it

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piena all'interesse del cittadino al rispetto dei termini di conclusione del procedimento amministrativo.

L'articolo 2 bis, come sopra anticipato, sembra aver dato una risposta proprio a tale esigenza, prevedendo la risarcibilità del danno in caso di inosservanza dolosa o colposa del termine per concludere un provvedimento doveroso, senza alcuna limitazione in ordine al contenuto dell'atto.

In seguito dell'introduzione dell'articolo 2 bis il bene protetto sembra essere il rispetto di tempi certi del provvedimento amministrativo anche al fine di salvaguardare la progettualità del privato e dunque il “bene tempo”, inteso sempre più dal nostro ordinamento, anche grazie alle influenze del diritto europeo e della CEDU, come un bene della vita.

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CAPITOLO PRIMO

EVOLUZIONE STORICA E NORMATIVA DELL'INERZIA DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

1 Profili generali e principali tappe evolutive: iniziale assenza di tutela per il privato e progressiva introduzione della stessa.

Il fenomeno dell'inerzia amministrativa nei confronti dei privati è sempre stato oggetto di un articolato confronto tra dottrina e giurisprudenza, oltre che di ripetuti interventi legislativi.

Tuttavia le prime e rare sentenze che si occuparono dell'argomento, come la sent. 317/1893 del Consiglio di Stato, pur constatando il fenomeno dell'inerzia della pubblica amministrazione, non garantivano una tutela al privato.

Pare giusto precisare che ci si trovava agli albori della giustizia amministrativa e l'assenza di tutela era in particolare ricondotta alla natura impugnatoria del sindacato giurisdizionale nei confronti dell'amministrazione. Invero sia la legge n. 2248/1865, all. E, sia la legge n. 5992/1889 avevano configurato un sistema per cui la reazione contro l'inerzia amministrativa non era prospettabile davanti al giudice ordinario né direttamente innanzi al Consiglio di Stato, che poteva essere adito solo con un'azione di annullamento di un atto o di un provvedimento illegittimo.

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In particolare, l'art. 3 della legge n. 5992/1889 stabiliva che

“spetta alla sezione quarta del Consiglio di Stato di decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge, contro atti e provvedimenti di una autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell'autorità giudiziaria né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali”.

Solo in presenza di un atto o provvedimento amministrativo vi era la possibilità di proporre ricorso. Invece, qualora l'amministrazione fosse rimasta inerte, non era prevista la possibilità di invocare la tutela giurisdizionale.

Il primo riconoscimento di una tutela giurisdizionale del privato si è avuto ai primi del '900, attraverso l'equiparazione del silenzio al rifiuto, per cui “quando l'autorità amministrativa abbia l'obbligo giuridico di prendere un dato provvedimento, e non dichiara la sua volontà, malgrado le istanze ripetute, e regolarmente intimate, dell'interessato, quel silenzio deve interpretarsi come rifiuto di prendere quel provvedimento6”.

Tale posizione era peraltro già stata presa dal Consiglio di Stato7, con un'ardita sentenza che rimase per molto tempo isolata.

La decisione che inaugurò tale orientamento era infatti innovativa e coraggiosa.

La IV Sezione del Consiglio di Stato introdusse un meccanismo processuale per cui, trascorso un congruo periodo della presentazione del ricorso gerarchico, l'interessato poteva notificare all'amministrazione una diffida, intimandola ad

6 O. Ranelletti, Lezioni di diritto amministrativo, Napoli, 1921, 108

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adempiere entro un termine, scaduto il quale il ricorso doveva intendersi come rigettato.

Il silenzio diventava così significativo proprio perché equiparato al rigetto, ed in tal modo il privato, in linea con un sistema prettamente impugnatorio, aveva la possibilità di impugnare la decisione tacita di reiezione.

L'inerzia era considerata come indicativa della volontà da parte dell'amministrazione di non accogliere l'istanza del privato, e questa equiparazione risultò essere anche l'unico modo per adire il giudice amministrativo, giacché altrimenti l'interesse a ricorrere sarebbe stato assente.

La dottrina cercò di motivare ulteriormente tale metodo, accogliendo l'idea del silenzio come manifestazione tacita di volontà, secondo l'impostazione della dottrina privatistica8. Dopo la sentenza del Consiglio di Stato n. 492/1902, il giudice amministrativo si pronunciò solo sporadicamente sulla proponibilità del ricorso avverso l'inerzia della Pubblica Amministrazione.

Infatti l'equiparazione del silenzio al rifiuto avvenne più sul piano sostanziale che non sul piano processuale, non consentendo di fatto l'accesso alla tutela giurisdizionale: “in generale, il Consiglio di Stato si è astenuto dal definire il valore giuridico del silenzio9”.

Nel 1934 anche il legislatore sembrò appoggiare tale equiparazione: infatti l'art.5 del R.D. 3 marzo 1934, n. 383, ai commi 4 e 5 dispose che una volta “trascorsi centoventi giorni dalla data di presentazione del ricorso senza che l'autorità adita abbia provveduto, il ricorrente può chiedere, con istanza alla

8 F. Cammeo, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1914, 1276;

S. Romano, Corso di diritto amministrativo, Padova, 1914, 1132

9 F. G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione, Milano, 1971, 10, nt.7

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stessa notificata, che il ricorso venga deciso. Trascorsi sessanta giorni dalla notifica di tale istanza, senza che sia intervenuta alcuna decisione, il ricorso si intende a tutti gli effetti di legge, come rigettato”.

Il legislatore stabilì non solo che una volta trascorsi i termini il ricorso dovesse intendersi come rigettato, ma anche che il rigetto del ricorso produceva l'effetto di consentire la proposizione del ricorso, per motivi di illegittimità, al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale o il ricorso straordinario al Re.

Tale disposizione, com'è facilmente immaginabile, ebbe un notevole impatto sull'interpretazione successiva del silenzio amministrativo ed arrivò ad assumere il significato di principio generale valido in tutti i casi di inerzia dell'amministrazione.

Negli anni che seguirono la dottrina elaborò una tesi che attribuì una nuova connotazione al silenzio-inadempimento. Infatti si iniziò a vedere il silenzio dell'amministrazione come un puro comportamento inadempiente collegato ad un dovere di provvedere.

Tale dovere fu percepito come un dato preesistente e sussistente nella misura in cui ci fosse una posizione giuridica soggettiva da soddisfare. Talvolta l'obbligo di rispondere è stato inquadrato come correlato ad un vero e proprio diritto soggettivo ad una risposta, ritenendo che fosse proprio l'esistenza di tale posizione giuridica soggettiva a creare un dovere in capo alla Pubblica Amministrazione. Altre volte la doverosità è stata individuata mettendo in luce il legame tra l'agere amministrativo ed il perseguimento dell'interesse pubblico legislativamente predeterminato.

Ponendo il dovere di provvedere in una posizione preesistente rispetto al potere e correlato all'interesse del privato, l'inerzia

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amministrativa divenne un mero inadempimento ad un obbligo imposto dalla legge10.

Avvicinandoci sempre di più ai nostri giorni, è necessario far menzione del D.P.R. n. 1199/1971 che all'art. 6, abrogando di fatto l'art. 5 della legge del '34, eliminò la necessità della previa diffida e messa in mora per proporre il ricorso avverso l'inerzia.

Infatti secondo tale nuova disciplina, trascorsi novanta giorni dalla presentazione del ricorso, il ricorrente poteva impugnare direttamente lo stesso provvedimento in sede giurisdizionale o in sede straordinaria davanti al Capo dello Stato.

Tali novità furono recepite con fatica dalla giurisprudenza, la quale sosteneva che solo la diffida potesse attribuire una qualificazione giuridica al silenzio, e che continuò quindi a ritenere necessaria la messa in mora, vista come una garanzia per il cittadino al fine di avere un dies a quo certo con riferimento al termine per l'impugnazione del silenzio11.

La dottrina invece sembrò accettare la nuova impostazione, secondo la logica per cui la diffida sarebbe stata un inutile aggravio procedurale contrario al principio della certezza del tempo dell'azione amministrativa.

L'applicabilità delle procedura imperniata sulla diffida è stata messa in dubbio dall'entrata in vigore dell'articolo 2 della legge n. 241/1990.

Con l'art. 2, l. n. 241 del 1990 è stata introdotta una disposizione volta a canonizzare il principio di doverosità dell'esercizio dell'azione amministrativa e la necessità della certezza dei tempi12. L'amministrazione determina per ciascun tipo di

10 A.M. Sandulli, Sul regime attuale del silenzio inadempimento della Pubblica Amministrazione, Scritti Guiridici, in Riv. Dir. Proc., 1977, 169 e ss.

11 Cons. St. Ad. Plen. 10/03/1978 n. 10 12 Cons. St., sez. IV, 18 ottobre 2007, n. 5433

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procedimento il termine entro il quale esso deve concludersi, a meno che tale termine non sia già indicato per legge o per regolamento. Se nessun termine è espressamente stabilito dall'amministrazione, questo si presume di trenta giorni.

Una parte della dottrina13 e anche della giurisprudenza riteneva che tale norma, introducendo un sistema di predeterminazione dei termini per la conclusione del procedimento, avesse fatto venir meno la ragione principale della diffida, consistente appunto nell'individuare con certezza un termine finale decorso il quale l'omissione diventa inadempimento. Si è affermato che scaduto il termine di cui all'articolo 2 della legge n. 241/1990, il silenzio della Pubblica Amministrazione dovesse già ontologicamente considerarsi illecito, rendendo così superflua la diffida a provvedere.

Tale orientamento è stato però respinto dalla giurisprudenza prevalente, la quale era ferma nel ritenere che l'azione contro il silenzio non potesse essere esperita senza che prima fosse prospettata all'amministrazione, mediante la notifica di un atto ad hoc, la possibilità di essere convenuta in giudizio14.

Si osservava infatti che la diffida non era una mera formalità, ma svolgeva sia una funzione deflattiva del contenzioso, in quanto fissa un termine entro cui si può evitare il contenzioso stesso, sia una funzione garantistica, poiché evita che il silenzio-rifiuto diventi inoppugnabile senza che l'interessato sia a conoscenza

13 Cfr. in tal senso Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo, Milano, 2000, 502; Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Torino, 1995, 145 ss.; F. G. Scoca, M. D'Orsogna, Silenzio, clamori di novità, in Dir. Proc. Amm., 1995, 410; S. Pelillo, Il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, in www.lexitalia.it, 2001 n. 9

14 Ministero della funzione pubblica, Circolare 60397/7493 dell'8/01/1991, secondo cui la l. 241/'90 “non dispone nel senso della qualificazione dell'inerzia imputabile all'amministrazione, pertanto è necessario seguire la procedura per la determinazione del silenzio-rifiuto imputabile

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della sua formazione.

Il mantenimento in vita di tale tradizionale sistema basato sulla necessità della diffida era inoltre ritenuto idoneo ad assicurare un coordinamento fra l'art. 2 e la disposizione dell'art. 328 del codice penale in tema di omissione di atti di ufficio: “se non si vuole che il termine fissato per la conclusione del procedimento dall'art. 2 della legge 241 o dai regolamenti delle singole amministrazioni venga a sovrapporsi, coincidendovi perfettamente, con il termine di pari durata stabilito dalla norma penale quale momento costitutivo per la realizzazione della condotta antigiuridica qualificata come omissione di atti d'ufficio”

è necessario “che questo secondo termine sia identificabile proprio con quello che l'interessato ha assegnato all'amministrazione attraverso l'atto di diffida ritualmente notificato alla medesima”15.

La tesi della non necessità della diffida è stata riproposta traendo spunto dalla disciplina del rito speciale per il ricorso avverso il silenzio introdotta dall'art. 2 legge n. 205/2000.

La norma ha aggiunto l'art. 21 bis alla legge n. 1034/1971.

L'art. 21 bis stabiliva che i ricorsi avverso il silenzio dell'amministrazione dovevano essere decisi in camera di consiglio. L'attività istruttoria necessaria poteva essere sia sollecitata da una delle parti, sia disposta d'ufficio dal giudice. Il giudice doveva definire il processo entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso o dalla data fissata per gli adempimenti istruttori, se questi fossero stati necessari.

15 Così G.B. Garrone, Silenzio della P.A., (voce) Digesto (discipline pubblicistiche) XIV, Torino, 1999, 198, in N. Spadaro, Inerzia della Pubblica Amministrazione e tutela risarcitoria, tesi di dottorato, Corso di dottorato di ricerca in diritto amministrativo, Università degli studi di Milano-Bicocca, a.a. 2011/2012, rel. Ramajoli

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La decisione doveva essere presa con una sentenza succintamente motivata.

In caso di accoglimento del ricorso, insomma, il giudice ordinava all'amministrazione di provvedere. Se invece il ricorso fosse stato rigettato, allora si apriva la strada dell'appello.

Il legislatore stabilì anche che l'amministrazione cui era stato intimato di provvedere, dovesse emanare il provvedimento entro trenta giorni. Se fosse rimasta ulteriormente inadempiente, il giudice amministrativo, su richiesta di parte, poteva nominare un commissario che provvedesse in luogo della stessa.

In sostanza attraverso tale rito speciale contro il silenzio- inadempimento, la diffida ad adempiere si spostò su un piano processuale, non essendo più un compito del privato, ma un ordine del giudice amministrativo che avrebbe potuto concludersi con la nomina di un commissario ad acta.

In altri termini è nella fase processuale che si aprono i termini per provvedere: in caso di accoglimento del ricorso infatti l'ente può fruire di un nuovo periodo per provvedere che si aggiunge a quello, ormai terminato, previsto dalle norme sostanziali; tale nuovo periodo va dall'ordine del giudice fino all'insediamento del commissario ad acta.

2 Impatto delle riforme del 2005 e del 2010

Se pareva già chiaro che la diffida non fosse ormai più necessaria, il legislatore, con l'art 2 della legge 11 febbraio 2005, n. 15, prese un'espressa posizione in merito.

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Tale legge aggiungeva infatti il comma 4 bis all'art. 2 della già modificata legge 241/1990, secondo il quale: ”Decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio, ai sensi dell'art. 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e successive modificazioni, può essere proposto anche senza necessità della diffida all'Amministrazione inadempiente fin tanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3”. Dunque la presentazione del ricorso può avvenire immediatamente alla scadenza del termine del procedimento e le esigenze di tutela del privato sono garantite attraverso l'introduzione di un tempo maggiore per impugnare il silenzio e la possibilità di proporre l'azione finché perduri l'inadempimento.

L'art. 3 del d. l. n. 35/2005, convertito in legge n.80/2005, ha riscritto l'art. 2 della legge n. 241/1990 confermando la regola secondo cui non è necessaria la previa diffida e rimandando al Governo l'individuazione dei termini di conclusione dei procedimenti, che sono, in via sussidiaria, di novanta giorni.

La relativa norma non è più contenuta però nel comma 4 bis, ma nel comma 5 del nuovo art. 2 l. n. 241/1990, riscritto dalla legge n. 80/2005.

Un altro problema interpretativo molto dibattuto stava poi per essere risolto.

Vi era infatti il convincimento giurisprudenziale secondo il quale il giudice poteva solo verificare l'inerzia e l'illegittimità dell'azione amministrativa, senza però conoscere la fondatezza dell'istanza, e perciò senza valutare la spettanza, in capo al privato, del bene della vita richiesto.

Si riteneva insomma che, anche a causa della speditezza del rito speciale introdotto, non vi fosse la possibilità per il giudice di

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compiere un'esauriente istruttoria sulla pretesa sostanziale del privato.

L'introduzione, ad opera della legge 80/2005, del quinto comma all'art. 2 della legge 241/1990, permise di superare l'orientamento secondo il quale poteva essere possibile solo un giudizio di accertamento parziale, secondo un'impostazione riproposta anche nell'Adunanza Plenaria n. 1 del 2002.

Si è infatti rilevato16 che sarebbe poco utile un giudizio basato solo sull'accertamento del decorso dei termini, senza che sia valutata la fondatezza dell'istanza.

A supporto di tale posizione vi è anche da considerare che la nomina di un commissario ad acta significa attribuire a tale organo un potere e dei compiti che devono sicuramente essere predeterminati dal giudice stesso. Dottrina e giurisprudenza accolsero tale teoria, ma ammettendo un sindacato del giudice solo nelle ipotesi di attività vincolata, credendo che in virtù di una sorta di separazione dei poteri, fosse necessario lasciare all'amministrazione la possibilità di valutare gli interessi in gioco qualora si trattasse di un provvedimento a carattere discrezionale.

L'art. 31 del Dlgs 104/2010, con cui è stato varato il codice del processo amministrativo, conferma la disposizione del quinto comma dell'art. 2 della legge 241/'90, specificando però che il giudice “può pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività vincolata”.

16 M. Nigro, Le linee di una riforma necessaria e possibile del processo

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3 Il dovere di provvedere

L'art. 2 della legge 241/1990 è stato ulteriormente modificato dall'art. 7 della legge 69/2009, che ha previsto una disciplina improntata ad una generale abbreviazione dei termini ed a principi di certezza, uniformità, economicità ed estremo rigore.

Nella sua nuova versione l'articolo stabilisce il dovere per l'amministrazione di concludere il procedimento con un provvedimento espresso, disciplina poi i termini di conclusione del procedimento ed infine configura la mancata emanazione del provvedimento come elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale.

Il legislatore del 2009 infatti ha modificato la disciplina previgente, per un verso snellendo le procedure di individuazione dei termini per provvedere, per l’altro subordinando la discrezionalità della Pubblica Amministrazione al rispetto di vincoli precisi.

Viene, dunque, stabilito che i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza sono individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottati ai sensi dell’art. 17, comma 3, l. n. 400 del 1988, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la Pubblica amministrazione e l’innovazione e la semplificazione normativa, e che in ogni caso non dovranno superare i novanta giorni.

Il superamento di tale limite è ammesso ove ritenuto indispensabile “tenuto conto della sostenibilità dei tempi sotto il profilo dell’organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento”.

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L’allungamento dei termini procedurali, che non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti in materia di acquisto della cittadinanza e dell’immigrazione, viene quindi affidato alla responsabilità collegiale del Consiglio dei Ministri.

Il ricorso avverso un'eventuale inerzia dell'amministrazione, ai sensi dell'art. 21 bis della legge 1034/1971, come modificato dalla legge n. 205/2000, può essere proposto anche senza previa diffida e fintanto che l'inadempimento perdura, e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3.

Ciò che pare necessario mettere in evidenza è che in tale prospettiva, l'inerzia della pubblica amministrazione è violazione del dovere di provvedere.

Affinché l'inerzia possa acquisire valore giuridico è necessario, quindi, che l'attività esercitata sia doverosa.

Soltanto laddove l'amministrazione abbia il dovere di porre in essere una determinata attività, allora il mancato compimento può avere rilevanza giuridica, con la conseguenza che l'ordinamento dovrà predisporre forme di tutela per chi sarà stato leso dall'inerzia della Pubblica Amministrazione.

Ne consegue che di inerzia amministrativa si può parlare solo quando l'azione è doverosa, rendendosi necessario verificare se lo svolgimento della funzione sia dovuto, oppure se l'amministrazione sia libera di esercitare o meno il suo potere.

L'art. 2, trattando delle due ipotesi per cui “ il procedimento consegua necessariamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio”, fa riferimento ad un obbligo di iniziare il procedimento, che vedrà la sua ovvia conclusione nell'obbligo di concluderlo.

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Il dovere di iniziare un procedimento comporterà infatti in capo all'amministrazione l'obbligo di emanare un provvedimento espresso, e quindi un dovere di provvedere.

E' stato osservato infatti che “l'omissione di provvedimento da parte della Pubblica Amministrazione può acquistare rilevanza come ipotesi di silenzio inadempimento soltanto ove gravi sulla Pubblica Amministrazione il dovere di provvedere17”.

E' necessario cioè che, a monte, sussista il dovere per l'amministrazione di prendere posizione su una determinata istanza, altrimenti l'inerzia non sarà qualificabile come silenzio- inadempimento.

Al riguardo, autorevole dottrina18 ha sostenuto che il dovere di iniziare il procedimento si fonda in primo luogo sulla legge, in quanto anche per l'amministrazione vale il principio di legalità, come consacrato dall'art. 97 Cost e come ribadito dall'art. 1 della legge 241/1990.

Il principio di legalità impone insomma l'obbligo di perseguire gli scopi stabiliti dal legislatore secondo le modalità ed i poteri indicati dalla legge.

Quindi se la legge riconosce e tutela un determinato interesse e individua nel privato il titolare di una situazione sostanziale qualificata e differenziata, allora la Pubblica Amministrazione sarà tenuta ad attivarsi.

Il principio di legalità si pone insomma sia come parametro per il controllo giurisdizionale dell'attività amministrativa, per la verifica dell'osservanza delle disposizioni normative applicabili nell'esercizio delle funzioni, sia come fondamento del dovere di

17 V. Parisio, Silenzio della Pubblica Amministrazione, in Cassese, Dizionario Giuridico di diritto pubblico, Giuffré, 2006, 5553

18 A. Police, Doverosità dell'azione amministrativa, tempo e garanzie giurisdizionali ne Il Procedimento Amministrativo, a cura di Cerulli Irelli, Napoli, 2007, 139 e ss.

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attivarsi al fine di conseguire un risultato che vada a realizzare un determinato interesse pubblico, al cui perseguimento essa è preposta.

Laddove l'amministrazione non adotti il provvedimento finale, tale scelta deve quindi essere dettata non già dall'inerzia, ma sempre da una valutazione del pubblico interesse tale per cui il provvedimento in esame non risulta conveniente. La finalizzazione dell'attività amministrativa all'interesse pubblico spiega perché tutti i poteri di cui l'amministrazione dispone debbano essere esercitati soprattutto allo scopo di realizzare detto interesse, al cui perseguimento la stessa è preposta.

Ed è tale finalizzazione all'interesse pubblico a costringere l'amministrazione a porre in essere tutte le misure necessarie, pena il sacrificio dell'interesse tutelato.

Se con riferimento all'attività vincolata è chiara la finalizzazione agli obiettivi predeterminati dall'ordinamento, lo stesso può dirsi con riguardo all'attività discrezionale. Anch'essa è infatti volta al soddisfacimento dell'interesse pubblico perseguito: la discrezionalità non può spingersi fino all'indirizzo del potere, essendo questo stabilito dalla legge.

La giurisprudenza ha poi di recente precisato che l'esistenza di un dovere di provvedere può essere desunta anche dai principi di imparzialità, legalità e buon andamento propri dell'azione amministrativa. In tal modo si afferma l'esistenza di un dovere di provvedere anche in particolari situazioni in cui equità ed imparzialità impongono l'adozione di un provvedimento19.

Espressione di tale orientamento è, ad esempio, la sentenza del Cons. Stato,sez. IV, 14 dicembre 2004, n. 7975, secondo la quale “indipendentemente dall'esistenza di specifiche norme

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che impongano ai pubblici uffici di pronunciarsi su ogni istanza non palesemente abnorme dei privati, non può dubitarsi che, in regime di trasparenza e partecipazione, il relativo obbligo sussiste ogniqualvolta esigenze di giustizia sostanziale impongano l'adozione di un provvedimento espresso, in ossequio al dovere di correttezza e buona amministrazione, in rapporto al quale il privato vanta una legittima e qualificata aspettativa ad un'esplicita pronuncia”.

Così accanto alle situazioni tipizzate, la giurisprudenza ne individua altre, ampliando le ipotesi in cui vi è l'obbligo di avviare il procedimento e quindi di concluderlo, configurandosi, in caso di inerzia, la possibilità di ricorrere avverso l'inerzia dell'amministrazione.

Tale obbligo in capo alla Pubblica Amministrazione sussiste cioè in primo luogo qualora la legge riconosca al privato il potere di presentare un'istanza perché titolare di una situazione qualificata e differenziata.

Il dovere di provvedere trova cioè fondamento nella tutela di determinati interessi del privato nei casi in cui il provvedimento richiesto sarebbe a lui favorevole e soddisferebbe un suo interesse legittimo pretensivo.

La sentenza n. 2318, 11 maggio 2007 della sez. IV del Consiglio di Stato precisa in tal senso che “di fronte alle istanze dei privati vi è sempre un obbligo di provvedere se l'iniziativa nasce da una situazione soggettiva protetta da norme, se cioè è prevista dalla legge”.

Non si può insomma mettere in dubbio che, chi abbia un interesse qualificato ad un bene della vita, sia titolare di una situazione giuridica soggettiva che lo legittima a presentare un'istanza, e che a tale situazione corrisponda anche un obbligo

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della Pubblica Amministrazione di pronunciarsi. Sulla qualificazione di tale interesse al bene della vita torneremo in seguito.

Relativamente a tali casi la giurisprudenza si è trovata a negare in concreto il dovere di provvedere nei casi di istanze manifestamente infondate, o con pretese esorbitanti, o ancora se la domanda appare manifestamente assurda o viziata per ragioni formali o pregiudiziali, o addirittura palesemente illegale20.

Con riferimento ad un secondo gruppo di ipotesi enucleate dalla giurisprudenza, cioè i casi in cui l'atto richiesto avrebbe un contenuto sfavorevole nei confronti dei terzi, è stato ravvisato il dovere dell'amministrazione di provvedere quando l'istanza provenga da un soggetto titolare di una posizione differenziata e qualificata, e non già di un mero interesse di fatto.

Si tratta infatti di quei casi in cui la Pubblica Amministrazione deve decidere se emanare un atto che potrebbe comportare l'esercizio di poteri inibitori, repressivi o sanzionatori nei confronti dei terzi.

Occorre cioè dapprima distinguere i casi in cui l'istanza ha un valore di mera denuncia o interesse di fatto, dai casi in cui chi procede con l'istanza è portatore di uno specifico e qualificato interesse che lo differenzia dalla collettività.

Secondo l'orientamento cui aderisce anche la decisione n. 2318 del 2007 del Consiglio di Stato, allorché l'istante sia titolare di una posizione differenziata e qualificata, “l'eventuale inerzia serbata dall'amministrazione sull'istanza assume una connotazione negativa e censurabile dovendo l'ente dar comunque seguito all'istanza.”

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A titolo di esempio, nel caso di istanza di esercizio di poteri contro l'abusivismo edilizio, la giurisprudenza ha sostenuto la doverosità di adottare provvedimenti che ripristinino lo stato dei luoghi.

Il terzo gruppo di ipotesi si riferisce alle ipotesi di riesame degli atti sfavorevoli.

La giurisprudenza ha individuato alcuni casi in cui la Pubblica Amministrazione sarà tenuta ad iniziare il procedimento.

Occorre tener conto dell'indirizzo secondo cui l’istanza del privato mirante ad ottenere il riesame da parte della Pubblica amministrazione di un atto autoritativo non impugnato tempestivamente dal medesimo, non comporta di regola, la configurazione di un obbligo di riesame, risultando altrimenti compromesso il principio di inoppugnabilità dell’atto amministrativo e quindi le esigenze di certezza e di efficienza gestionale che sono alla base dell'attività della Pubblica Amministrazione.

Tuttavia la Pubblica Amministrazione resta libera di verificare se l'inoppugnabilità dei propri provvedimenti debba o meno essere superata per dare vita a successive valutazioni che tengano conto del decorso del tempo e delle esigenze di certezza dei rapporti giuridici.

Così, secondo tale orientamento giurisprudenziale, laddove si siano verificati mutamenti delle circostanze e dei presupposti di fatto in base ai quali è stato adottato il provvedimento sfavorevole di cui si chiede il riesame, allora ragioni di equità e di giustizia impongono l'apertura di un provvedimento che riconsideri la questione.

Tale obbligo si ha anche nel caso in cui la Pubblica Amministrazione si sia già pronunciata su analoghe istanze di

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riesame pronunciate da altri soggetti; se l'amministrazione deciderà di ritirare un proprio provvedimento, dovrà considerare le istanze di tutti gli altri soggetti che versino in una situazione analoga a quella del soggetto che ha proposto il riesame, secondo il principio di imparzialità.

Il privato è inoltre titolare di una legittima aspettativa a conoscere il contenuto ed anche le ragioni delle decisioni dell'amministrazione, quindi l'amministrazione ha l'obbligo di dare riscontro all'istanza del privato “o adottando un provvedimento avente contenuto satisfattorio dell'interesse sostanziale fatto valere, ovvero esplicando puntualmente le ragioni che hanno ritardato, ovvero ostano, allo stato, alla definizione del procedimento in senso favorevole alle aspettative dell'istante21”.

Insomma nel trattare il concetto di dovere di provvedere, ciò che emerge è che attraverso l'individuazione più attenta del contenuto di tale dovere dell'amministrazione, è possibile tracciare una sorta di linea di demarcazione fra l'inerzia legittima, che non viola nessun dovere imposto dalla legge o dalla giurisprudenza, e quella illegittima, che invece è in contrasto con l'ordinamento giuridico.

Compito precipuo del giudice del rito speciale è prima di tutto stabilire quando il silenzio della pubblica amministrazione possa dirsi legittimo e quando invece non lo sia.

Ne consegue l'inaccoglibilità di una tesi che sostiene un dovere generalizzato in capo alla pubblica amministrazione di procedere a fronte di qualsiasi istanza. Se l'amministrazione fosse costretta ad avviare un procedimento amministrativo a seguito di una qualsiasi domanda di un privato, sia che sia

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titolare di una legittimazione sostanziale, sia di un mero interesse materiale, allora il giudice che deve pronunciare sul silenzio sarebbe sempre costretto a condannare l'amministrazione inadempiente.

Proprio in quanto “contra ius”, l'inerzia illegittima può essere fonte di responsabilità della Pubblica Amministrazione per i danni subiti dal privato che abbia fatto ragionevole affidamento sulla conclusione del procedimento con un provvedimento espresso, ai sensi dell'art. 2 della legge 241/1990.

4 Il problema della tutela risarcitoria

La tutela risarcitoria a fronte del silenzio della Pubblica Amministrazione ha posto non pochi problemi interpretativi.

Nel corso della seguente trattazione ci soffermeremo su alcuni aspetti rilevanti.

Ciò che occorre chiarire fin da ora è che la tutela risarcitoria per il ritardo nella conclusione del procedimento ha trovato un positivo riconoscimento con la riforma attuata dalla L. 69/2009, che ha introdotto l'art. 2 bis.

Tale norma ha infatti codificato la responsabilità dell'amministrazione per la mancata o intempestiva conclusione del procedimento.

Prima di vedere meglio tale legge, pare però necessario chiarire meglio il precedente panorama in materia.

Il problema della tutela risarcitoria aveva infatti già dato adito a contrasti giurisprudenziali sia sul tema della giurisdizione del

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giudice amministrativo, sia sull'individuazione delle caratteristiche necessarie per la configurabilità di una responsabilità dell'amministrazione e dei caratteri del danno risarcibile.

Il Consiglio di Stato sezione IV, attraverso l'ordinanza 7 marzo 2005 n. 875, portò tali dubbi all'attenzione dell'Adunanza Plenaria.

Nell'ordinanza la sezione IV del Consiglio di Stato dimostra di aderire alla teoria per cui spetta al giudice amministrativo la cognizione delle pretese risarcitorie fondate sulla mancata o intempestiva conclusione del procedimento amministrativo.

Inoltre la sezione del Consiglio di Stato chiede se sia risarcibile il mero danno da ritardo, ovvero il danno subito dal privato a causa dell'inerzia della Pubblica Amministrazione protratta oltre un certo termine normativamente fissato e indipendentemente dalla spettanza del bene della vita connessa al rilascio del provvedimento richiesto.

Tale spinosa ed interessante questione è quindi volta a stabilire se sia sufficiente la mera violazione degli obblighi di certezza e buona fede nello svolgimento del procedimento per fondare una richiesta risarcitoria.

Ad avviso della sezione, sarebbe invero possibile una ricostruzione del danno da ritardo inteso come “danno conseguente alla violazione dell'interesse procedimentale al rispetto dei tempi posti dall'ordinamento”.

Tale interesse procedimentale, concetto che poi approfondiremo nel corso della trattazione, si fonda sull'esigenza di certezza e correttezza procedimentale posti a carico dell'amministrazione, cui è naturalmente correlata l'esigenza di tutela dell'affidamento del privato che venga a contatto con l'amministrazione stessa.

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L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato chiamata a rispondere su tali tematiche ha dapprima confermato la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo nelle controversie in esame, in quanto in presenza di mancato e intempestivo soddisfacimento di un obbligo gravante sull'amministrazione nell'esercizio delle sue pubbliche funzioni, ci si trova davanti ad un caso di lesione di interessi legittimi pretensivi del privato, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo.

Rispetto però al profilo della risarcibilità del danno subito dal privato in casi di inerzia dell'amministrazione, l'Adunanza Plenaria, con la decisione 15 settembre 2005, n. 7, ha ritenuto che “la soddisfazione di un interesse pretensivo leso in capo al soggetto privato dal ritardo nell'adozione da parte dell'amministrazione di un richiesto provvedimento può consistere in una riparazione per equivalente solo allorché la mancata o ritardata adozione dell'atto richiesto abbia comportato un pregiudizio del bene della vita che sottende l'interesse pretensivo medesimo, in rapporto all'interesse pubblico al quale quest'ultimo si giustappone; ciò accade nel solo caso in cui il provvedimento richiesto e non adottato, ovvero adottato in ritardo, si configuri come favorevole per il privato istante, e non anche laddove esso compendi un rigetto dell'istanza presentata dal privato medesimo”.

Secondo tale decisione, perciò, non si è ritenuto possibile accordare il risarcimento del danno da ritardo nei casi in cui i provvedimenti adottati in ritardo siano di carattere negativo nei confronti del privato.

Ad oggi, sembra ormai pacificamente risarcibile il danno da tardivo conseguimento del provvedimento favorevole, ma non

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altrettanto pacifica è, tuttora, la risarcibilità del tempo come bene della vita a sé stante, avendo conseguito tardivamente un provvedimento sfavorevole oppure non avendo conseguito alcun provvedimento.

In tali casi, infatti, si pone il problema di valutare la risarcibilità di un mero interesse procedimentale alla conclusione del procedimento nei termini previsti, in virtù della rilevanza, anche economica, del “bene tempo”.

Tale questione è strettamente correlata a quella della responsabilità che si ritiene ascrivibile alla Pubblica Amministrazione, ed anche alla questione della natura della situazione giuridica soggettiva vantata dal privato a fronte del dovere dell'amministrazione di provvedere.

Tali argomenti verranno analizzati nel prosieguo, rilevando come il legislatore del 2009 abbia invero creato un meccanismo di tutela che sembra slegato dalla verifica della meritevolezza dell'interesse finale, essendosi limitato a fare riferimento espresso solo alla violazione dolosa o colposa del termine del procedimento.

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CAPITOLO SECONDO

LA RESPONSABILITÀ DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

1 La posizione giuridica soggettiva a fronte dell'inerzia della Pubblica Amministrazione

Diverse sono le interpretazioni ravvisabili sulla posizione giuridica soggettiva del privato a fronte dell'inerzia della Pubblica Amministrazione.

Ciò che in particolare interessa ai fini della presente ricerca è verificare se l'inquadramento della situazione giuridica soggettiva sia da collocare nell'ambito degli interessi legittimi oppure dei diritti soggettivi, soffermandoci anche sulle differenze sul piano della tutela .

Prima di affrontare tale questione, pare giusto fare riferimento alla già trattata questione del dovere di provvedere.

Infatti, nonostante i concetti di “dovere” e “obbligo” siano solitamente interpretate come sinonimi, in realtà non possiamo non considerare le differenze che la dottrina civilista ha da sempre individuato tra le due posizioni giuridiche.

Certamente è vero che in entrambi i casi si fa riferimento a situazioni giuridiche di svantaggio e ad un vincolo giuridico, ma ciò che qui interessa è fare una distinzione: il dovere è previsto in favore di una platea indistinta di persone, e conseguentemente a fronte del dovere non si configura alcun

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diritto in capo ad un soggetto determinato.

Al contrario il concetto di obbligo si correla ad una posizione di vantaggio di un singolo individuo, che si raffigura in un vero a proprio diritto a che il soggetto obbligato adempia.

Se si parla di diritto soggettivo ad una conclusione tempestiva del procedimento, la relazione tra amministrazione e privato sarebbe riconducibile al paradigma civilistico diritto soggettivo- obbligo.

Non vi è dubbio che in talune situazioni si crei una relazione contrattuale fra amministrazione e privato: si pensi a titolo di esempio al contratto di appalto che certamente obbliga entrambe le parti; l'una ad eseguire il lavoro, l'altra a pagare il corrispettivo.

Non altrettanto semplice è, però, chiarire la relazione che si instaura tra privato ed amministrazione a seguito della presentazione di un'istanza.

In tal caso, infatti, non vi è alcun rapporto contrattuale.

Parte della dottrina ha comunque ritenuto che anche in tale caso vi sia un obbligo in capo all'amministrazione di concludere il procedimento entro il termine, per cui si configurerebbe un corrispondente diritto soggettivo del privato ad ottenere una decisione.

All'interno di tale orientamento vi sarebbe una distinzione fra i procedimenti iniziati di ufficio e quelli su istanza di parte. Infatti nel primo caso non vi sarebbe dubbio sull'esistenza del potere amministrativo e sulla posizione di interesse legittimo di cui sarebbe titolare il privato il cui interesse sia in contrasto con quello pubblico perseguito dall'autorità competente.

Nel caso, invece, dei provvedimenti su istanza di parte si configurano in capo al privato due diverse posizioni giuridiche:

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da una parte l'interesse legittimo, la cui soddisfazione è solo eventuale e si concretizza nell'accoglimento della domanda;

dall'altra, il diritto soggettivo che sorge in virtù del rapporto procedimentale che si instaura fra cittadino e pubblica amministrazione in seguito alla presentazione dell'istanza, e che comporta per l'amministrazione il dovere rispondere.

Vi sarebbe quindi un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere una risposta dell'amministrazione quando il procedimento sia avviato a seguito dell'istanza del cittadino e, correlato a tale diritto, vi sarebbe un obbligo dell'amministrazione di adempiere.

Quando il procedimento inizia su istanza di parte, insomma, si creerebbe tra privato e amministrazione un rapporto simile a quello fra creditore e debitore, per cui il primo può pretendere l'adempimento dell'obbligo gravante in capo al secondo22.

Ciò che dovrebbe essere assicurato primariamente al privato sarebbe quindi una risposta, positiva o negativa23: l'obbligo, infatti, non riguarda l'adozione del provvedimento atteso, ma l'esternazione della volontà dell'amministrazione.

La tesi a favore del concetto di “obbligo a provvedere” afferma dunque l'esistenza di un obbligo dell'amministrazione ad adottare un provvedimento conclusivo, anche non satisfattivo dell'interesse del privato, ma comunque nel rispetto dei termini.

Tra le ragioni addotte dalla dottrina che sostiene la tesi dell'obbligo di provvedere vi è anche la qualificazione dell'inosservanza del termine di conclusione del procedimento come inadempimento, lasciando così supporre che sussista in capo all'amministrazione un obbligo, o meglio un'obbligazione di provvedere entro il termine24. Per cui, dato che, come già detto,

22 M. Clarich, Termine del procedimento e potere amministrativo, Giappichelli, Torino, 1995, 28-41

23 F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo, Torino, 1964, 62 e ss.

24 F. Figorilli- M. Renna, Commento all'art. 2 in A. Bartolini, S. Fantini, G.

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gli obblighi hanno come controparte diritti soggettivi, il cittadino che si sia rivolto all'amministrazione è titolare di un vero e proprio diritto all'osservanza del termine.

Tale impostazione è stata oggetto di critiche: si è infatti rilevato che, secondo tale tesi, l'esistenza di un obbligo di provvedere dipenderebbe dall'esistenza del rapporto giuridico. Ma qui il rapporto giuridico, inteso come correlazione di diritto ed obbligo, è semmai una conseguenza dell'esistenza di un dovere, e quindi un posterius25.

In altre parole la sussistenza dell'obbligo a provvedere della Pubblica Amministrazione e la posizione giuridica soggettiva del privato a fronte di tale obbligo, non nascono per una scelta volontaria delle parti, come avviene nei rapporti negoziali, ma per effetto di una predeterminazione legislativa che impone all'amministrazione di perseguire l'interesse pubblico.

Ad ulteriore supporto alla tesi della configurabilità di un diritto soggettivo in capo al cittadino che presenta un'istanza all'amministrazione vi è anche l'attribuzione alla giurisdizione esclusiva della controversie in materia di risarcimento del danno derivante dalla conclusione tardiva del procedimento26. Infatti l'art. 133 del summenzionato d. lgs. 104/2010 introduce, tra le questioni riservate alla giurisdizione esclusiva, quelle che riguardano il “risarcimento del danno ingiusto cagionato in

Ferrari (a cura di), Codice dell'azione amministrativa e della responsabilità, Roma, 2010, 105, secondo cui il riferimento all'inadempimento comporterebbe la sussistenza di un obbligo, o meglio di un'obbligazione, di provvedere nel termine.

25 S. Cassarino, Le situazioni giuridiche e l'oggetto della giurisdizione amministrativa, Milano, 1956, 153-163, in S. Vernile, Inerzia della Pubblica Amministrazione ed effettività della tutela del privato, tesi di dottorato, Corso di Dottorato di ricerca in Diritto Amministrativo, Università degli studi di Milano, a.a. 2011/2012, rell. F. Fracchia, E. Ferrari.

26 S. Vernile, Inerzia della Pubblica Amministrazione ed effettività della tutela del privato, tesi di dottorato, Corso di Dottorato di ricerca in Diritto Amministrativo, Università degli studi di Milano, a.a. 2011/2012, rell. F.

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conseguenza dell'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento amministrativo”: secondo parte della dottrina questo confermerebbe la natura di diritto soggettivo della pretesa del privato, dal momento che la giurisdizione esclusiva si caratterizza proprio per l'eccezionale attribuzione al giudice amministrativo di diritti soggettivi.

Pare giusto ricordare però la pronuncia della Corte costituzionale 204/2004 secondo la quale le materie devolute alla giurisdizione esclusiva sarebbero in realtà date da un intreccio di diritti soggettivi ed interessi legittimi.

Se l'art. 133 del c.p.a. non è quindi di per sé sufficiente a delineare l'effettiva natura della situazione giuridica del privato, pare dunque giusto approfondire le motivazioni che conducono ad una qualificazione di tale posizione giuridica in termini di interesse legittimo.

Si tratta, in relazione a ciò, di stabilire se la mancata tempestiva adozione del provvedimento finale costituisca un mero comportamento inadempiente, equiparabile a quello di un qualsiasi debitore, oppure se sia invece più corretto parlare di inerzia.

Infatti l'orientamento maggioritario, cui si ritiene di dover aderire, riconosce in capo al privato una posizione di interesse legittimo all'adozione del provvedimento.

Nel momento in cui, infatti, una norma attribuisce all'amministrazione un potere, si configura in capo al privato che con essa si rapporta una posizione di interesse legittimo, dal momento che il soddisfacimento dell'interesse del privato passa attraverso la realizzazione dell'interesse pubblico affidato alla cura dell'amministrazione da quella specifica disposizione.

Dunque, una volta ammessa la natura sostanziale dell'interesse

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legittimo e riconosciuta la sua esistenza come situazione che si configura a fronte del potere dell'amministrazione, è facile comprendere come l'interesse legittimo sia prima di tutto interesse a che l'amministrazione adotti un provvedimento.

Tornando quindi alla premessa di questo paragrafo, il primo argomento idoneo a confutare la tesi della natura di diritto soggettivo della posizione giuridica vantata dal privato è di natura letterale. Infatti l'articolo 2 della legge 241/1990 dispone che l'amministrazione abbia il dovere di concludere il procedimento mediante l'adozione di un provvedimento espresso.

Il legislatore, insomma, parla espressamente di dovere, non lasciando spazio a dubbi di sorta circa la sua qualificazione.

Ma al di là del dato letterale, non sembra che si possa accogliere la tesi del rapporto obbligo/diritto soggettivo per quanto detto in precedenza.

Dal momento che una norma attribuisce all'amministrazione il potere di incidere sulla sfera giuridica del privato, o attivandosi autonomamente, o facendolo in forza della domanda del privato, sorge in capo a quest'ultimo una posizione di interesse legittimo:

infatti il suo interesse sarà soddisfatto solo in caso di esercizio del potere (se pretensivo) o di mancato esercizio (se oppositivo)27.

Ovviamente il soddisfacimento dell'interesse del privato, inteso come bene della vita, è solo eventuale, in quanto subordinato al superiore interesse pubblico.

Concludendo, si può quindi affermare che in capo all'amministrazione si configura un dovere di provvedere per il

27 S. Vernile, Inerzia della Pubblica Amministrazione ed effettività della tutela del privato, tesi di dottorato, Corso di Dottorato di ricerca in Diritto Amministrativo, Università degli studi di Milano, a.a. 2011/2012, rell. F.

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perseguimento di un interesse pubblico prevalente, in virtù del quale essa può modificare la realtà giuridica incidendo anche sulla posizione giuridica del privato titolare di un interesse legittimo a che l'amministrazione eserciti o meno il potere.

2 L'interesse legittimo come posizione correlata al potere amministrativo

A fronte del dovere dell'amministrazione di provvedere, si è giunti alla conclusione che il privato sia titolare di un interesse legittimo.

Per dimostrare come l'inerzia amministrativa sia idonea a ledere l'interesse legittimo (al pari di un provvedimento espresso) è necessario chiarire meglio la portata dell'interesse legittimo e la rilevanza della distinzione rispetto al diritto soggettivo.

L'interesse legittimo è comunemente definito come una posizione giuridica soggettiva che si correla con il potere amministrativo.

Si riscontra un ampio consenso nell'identificare alcuni elementi come propri dell'interesse legittimo.

Un primo elemento è costituito dal carattere relativo dell'interesse legittimo: infatti esso non è una posizione soggettiva di tipo assoluto (come invece sono i diritti reali), ma è una posizione correlata all'esercizio di un potere da parte dell'amministrazione. Infatti l'amministrazione, disponendo degli interessi che le sono devoluti dalla legge, può distribuire risorse, conferire ad alcuni particolari utilità, sottraendole o negandole

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ad altri, incidendo sulle posizioni giuridiche dei cittadini.

L'interesse legittimo può essere definito come una posizione soggettiva speculare al potere dell'amministrazione: è la posizione qualificata del cittadino nei cui confronti assume rilevanza giuridica l'esercizio di tale potere28.

La nozione di potere amministrativo è tutt'altro che univoca, essendo stata condizionata da ragioni ideologiche e politiche, oltre che giuridiche.

In passato il potere dell'amministrazione è stato considerato come un valore che esprimeva la supremazia dello Stato e dei suoi fini rispetto ai cittadini: questa logica è però oggi incompatibile con i principi di un ordinamento democratico.

Nel tempo sono stati presi in considerazione vari profili dell'attività amministrativa nel diritto pubblico, per definire il potere dell'amministrazione. Un riferimento a questi profili appare quindi opportuno al fine di delineare meglio l'interesse legittimo.

Secondo alcune interpretazioni è stato considerato elemento caratteristico del potere dell'amministrazione la cosiddetta autoritarietà. Di fronte ad un potere autoritativo dell'amministrazione, infatti, il cittadino non potrebbe opporre un diritto soggettivo, pensando anche alla possibilità che l'amministrazione estingua legittimamente i diritti dei terzi.

Il nucleo del potere amministrativo sarebbe perciò espresso dall'autoritarietà ed in questo senso sembra anche trovare spazio l'art. 1 legge 241/1990, come modificato dalla legge 15/2005, che nel contesto di una valorizzazione degli istituti privatistici riserva al diritto pubblico la disciplina dell'attività autoritativa dell'amministrazione.

28 A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, decima edizione, Giappichelli

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Secondo altre interpretazioni è stata evidenziata, come caratteristica del potere, la funzionalità alla realizzazione dell'interesse pubblico. Conseguentemente non si potrebbe parlare di potere quando l'attività amministrativa sia diretta a soddisfare un interesse privato: si pensi alla determinazione di un'indennità da esproprio. A proposito di questa interpretazione è stato osservato che rimane oscuro come si possa concludere che un'attività vincolata sia diretta a realizzare un interesse pubblico o privato. Infatti, se l'attività è vincolata, è preclusa ogni valutazione di interessi da parte dell'amministrazione e quindi la funzionalità a certi interessi dovrebbe ritenersi giuridicamente irrilevante.

Altre interpretazioni ancora assumono come caratteristica del potere amministrativo la sua infungibilità: il potere dell'amministrazione è infatti riservato ad uno specifico apparato e solo tale apparato può esercitarlo. Proprio per questa ragione la posizione del cittadino titolare di un interesse legittimo si caratterizza per una dipendenza istituzionale dall'amministrazione: la posizione del cittadino è infatti priva di alternative.

Altre teorie individuano come elemento tipico del potere la produzione di effetti giuridici, in termini costitutivi: potere significherebbe quindi capacità di assumere atti produttivi di effetti giuridici propri. Pare necessario fare una distinzione tra procedimenti dichiarativi e costitutivi. I primi si limitano ad accertare posizioni già definite dalla legge, e nei confronti di questi sarebbero identificabili diritti soggettivi; gli altri hanno un carattere dispositivo e sono idonei a produrre effetti giuridici specifici che vengono enunciati nel provvedimento finale, e nei confronti di essi sarebbero identificabili interessi legittimi.

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Ovviamente l'identificazione del carattere costitutivo di certi provvedimenti non è pacifica: si discute, in particolare, se possa considerarsi costitutiva l'attività amministrativa che si limiti a verificare condizioni già compiutamente definite dalla legge o che si limiti a determinare effetti che erano già determinabili in base alla legge.

Un ordinamento dottrinale individua invece come determinante, al fine di parlare di potere dell'amministrazione, il fatto che la legge riservi all'amministrazione stessa una competenza esclusiva, intesa come capacità di operare effettuando valutazioni che possono essere compiute solo dall'amministrazione e non da altri soggetti.

Il potere deriverebbe insomma da una riserva a favore della pubblica amministrazione, riserva che attiene non tanto alla tipologia degli effetti prodotti, quanto alle modalità con le quali l'amministrazione opera.

Infatti quando la legge riserva all'amministrazione il compito di effettuare determinate valutazioni per adottare i provvedimenti ed individuarne i contenuti (si pensi alla discrezionalità tecnica ed a quella amministrativa), l'attività dell'amministrazione assume contenuti particolari.

Rispetto a quanto già previsto nella legge, la valutazione dell'amministrazione introduce nel provvedimento elementi nuovi, rispetto a quelli già compiutamente determinati nella previsione normativa.

Nei casi in cui la legge conferisca all'amministrazione la possibilità di fare questo genere di valutazioni, essa può innovare l'ordinamento producendo regole nuove rispetto a quelle già sancite nell'ordinamento. Tale innovazione si verifica tipicamente nei casi di attività amministrativa discrezionale:

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l'amministrazione ha infatti la possibilità di introdurre una regola nuova determinando l'assetto concreto degli interessi in gioco.

Quando invece si tratta di attività vincolata l'agire dell'amministrazione sarà invece più limitato.

Secondo questa tesi, insomma, si presentano due scenari diversi: quando l'attività dell'amministrazione è vincolata, essa sarà tenuta ad assumere nei confronti del cittadino l'atto previsto dalla legge e conseguentemente il privato è titolare di un diritto soggettivo dal momento che, anche indipendentemente dall'attività amministrativa, è già stato esattamente definito per legge ciò che gli spetta.

Quando invece l'attività è discrezionale il cittadino non potrà vantare un diritto soggettivo, dal momento che ciò che gli spetta non è già stato previamente definito, ma dipende appunto da una valutazione dell'amministrazione: in tal caso si può solo parlare di interesse legittimo.

Secondo questo orientamento, insomma, l'interesse legittimo sarebbe sempre correlato ad un potere dell'amministrazione, che va definito però appunto sulla base della discrezionalità.

Questa tesi non viene però accolta dalla giurisprudenza prevalente che riconosce sì la presenza di interessi legittimi in caso di attività discrezionale, ma non la esclude in caso di attività vincolata: la giurisprudenza ammette anche in tal caso la presenza di interessi legittimi, quando l'attività amministrativa è indirizzata ad un interesse pubblico specifico.

Illustrare la presenza di queste varie interpretazioni è sembrato qui necessario al fine di delineare il potere dell'amministrazione, e dedurre quindi il concetto di interesse legittimo, definito appunto come una posizione soggettiva speculare al potere dell'amministrazione.

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