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Diritto delleRelazioniIndustriali

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Diritto delle

Relazioni

Industriali

Rivista trimestrale già diretta da

MARCO BIAGI

Pubblicazione T

rimestrale - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/2004 n° 46) arti

colo 1, comma 1, DCB (V

ARESE)

RiceRche

La solidarietà intergenerazionale nella tutela pensionistica inteRventi

La “soggettivazione regolativa” nel diritto del lavoro RelazioniindustRialieRisoRseumane

Contratto di rete e disciplina dei rapporti di lavoro Democrazia e libertà endosindacale

OSSERVATORIO DI GIURISPRUDENZA ITALIANA

Opinioni a confronto sulla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018 Licenziamento illegittimo e trasformazione volontaria del rapporto a termine Prime pronunce sul nuovo art. 4 della l. n. 300/1970 Malattia derivante da vessazioni sul lavoro ed indennizzabilità Discriminazioni di genere, inquadramento giuridico e tutela sostanziale

Licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo Sul principio di buon andamento nei rapporti di lavoro nelle PA La violazione dei termini contrattuali del procedimento disciplinare

legislazione, pRassiamministRativeecontRattazionecollettiva

Il diritto alle ferie nel lavoro a domicilio penitenziario Il “decreto dignità” e la nuova disciplina del contratto a termine Contrattazione e collaborazioni ex art. 2, comma 2, d.lgs. n. 81/2015 giuRispRudenzaepolitichecomunitaRiedellavoRo

Sull’abuso del contratto a termine nella PA

N. 1/XXIX - 2019

In questo numero

Diritto delle Relazioni Industriali

1

2019

Diritto delle Relazioni Industriali fa parte della International Association of Labour Law Journals

(2)

Rivista fondata da Luciano Spagnuolo Vigorita e già diretta da Marco Biagi

Direzione

Tiziano Treu, Mariella Magnani, Michele Tiraboschi (direttore responsabile) Comitato scientifico

Gian Guido Balandi, Francesco Basenghi, Mario Biagioli, Andrea Bollani, Roberta Bortone, Alessandro Boscati, Umberto Carabelli, Bruno Caruso, Laura Castelvetri, Giuliano Cazzola, Gian Primo Cella, Maurizio Del Conte, Riccardo Del Punta, Raffaele De Luca Tamajo, Pietro Ichino, Vito Sandro Leccese, Fiorella Lunardon, Arturo Maresca, Luigi Mariucci, Oronzo Mazzotta, Luigi Montuschi, Gaetano Natullo, Luca Nogler, Angelo Pandolfo, Roberto Pedersini, Marcello Pedrazzoli, Giuseppe Pellacani, Adalberto Perulli, Giampiero Proia, Mario Ricciardi, Mario Rusciano, Giuseppe Santoro-Passarelli, Franco Scarpelli, Paolo Sestito, Luciano Spagnuolo Vigorita, Patrizia Tullini, Armando Tursi, Pier Antonio Varesi, Gaetano Zilio Grandi, Carlo Zoli, Lorenzo Zoppoli.

Comitato editoriale internazionale

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Redazione

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Pavia), Cristina Inversi, Giuseppe Ludovico, Laura Magni (coordinatore Modena), Pietro

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Corso Strada Nuova, 65 – 27100 Pavia (Italy) – Tel. +39 0382 984013; Fax +39 0382 27202. Indirizzo e-mail: dri@unipv.it

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Rivista associata all’Unione della Stampa Periodica Italiana

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(3)

La sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale

e il suo “dopo”

Paolo Tosi

Sommario: 1. Manipolazione adeguatrice o creativa? – 2. La centralità del ruolo del

giudice. – 3. La sentenza e l’impianto complessivo del Jobs Act. – 4. Riflessi

del-la sentenza sulle altre norme del decreto legisdel-lativo n. 23/2015. – 4.1. In

partico-lare sull’articolo 3, comma 2. – 4.2. …sull’articolo 4. – 4.3. …sull’articolo 6,

comma 1. – 4.4. …sull’articolo 9. – 5. Questioni interpretative del nuovo testo

dell’articolo 3, comma 1. – 5.1. La risarcibilità del c.d. danno ulteriore. – 5.2. La

deducibilità dell’aliunde perceptum. – 5.3. L’applicazione dei criteri

“raccoman-dati”.

1. La Corte cancellando, nel testo dell’articolo 3, comma 1, del decreto

legi-slativo n. 23/2015, le parole «di importo pari a due mensilità dell’ultima retri-buzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» è pervenuta a rimettere la determinazione della misura dell’indennità, in caso di licenziamento privo di giusta causa, giustificato mo-tivo soggetmo-tivo ed oggetmo-tivo, alla discrezionalità del giudice entro l’ampio range tra sei e trentasei mensilità di retribuzione; a differenza che nell’articolo 8 della legge n. 604/1966 e nell’articolo 18, quinto comma, della legge n. 300/1970 come novellato dalla legge c.d. Fornero (qui peraltro in un range da dodici a ventiquattro mensilità). In motivazione ha raccomandato ai giudici ordinari di esercitare tale discrezionalità applicando i criteri previsti nelle norme appena citate (1).

La norma “manipolata” prevedeva invece un’indennità rigidamente predeter-minata, nella sua scansione tra minimo e massimo, in esclusiva correlazione

con l’anzianità di servizio; ciò, come rilevato dalla Corte, alla stregua di una «ragione giustificatrice costituita dallo “scopo”, dichiaratamente perseguito dal legislatore, “di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”» mediante «la predeter-minazione e l’alleggerimento delle conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato» (esulando dalla competenze

* Professore emerito di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Torino. Questo scritto è destinato agli Studi in onore di Roberto Pessi.

(4)

della Corte stessa di «addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica oc-cupazionale perseguita dal legislatore può aver conseguito») (2).

L’intervento operato dalla sentenza sulla norma risulta dunque particolarmen-te invasivo e si colloca pericolosamenparticolarmen-te in bilico sul discrimine che la sparticolarmen-tessa Corte costituzionale, nella sentenza che ha dichiarato l’inammissibilità del re-ferendum relativo all’articolo 18 della legge n. 300/1970 e al decreto legislati-vo n. 23/2015, con frasi assai meditate (riferite ai quesiti referendari ma di ri-flesso riferibili anche alle operazioni condotte nella sede dei suoi controlli di legittimità delle leggi), ancora di recente ha individuato tra manipolazione manutentiva o adeguatrice e manipolazione creativa di nuovo diritto (3).

Secondo la sentenza una cosa è la «tecnica del ritaglio […] a volte necessaria per consentire la riespansione di una compiuta disciplina già contenuta in nu-ce nel tessuto normativo», «altra cosa invenu-ce è la manipolazione della struttu-ra linguistica della disposizione, ove a seguito di essa prenda vita un assetto normativo sostanzialmente nuovo». In proposito la Corte conclude

(2) È invece ricorrente l’inserimento nell’argomentazione giuridica dei rilievi critici

alle scelte di politica legislativa da parte della copiosa dottrina giuslavorista ostile, anche in quella metodologicamente più robusta. Cfr. da ultimoO.MAZZOTTA, Cosa ci

insegna la Corte costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in Labor, 2018, n. 6,

in uno scritto peraltro sostanzialmente adesivo alla sentenza. Ma si veda anche A.P E-RULLI, Il valore del lavoro e la disciplina del licenziamento illegittimo, in corso di

pubblicazione in AA.VV., Il libro dell’anno del diritto 2019, Treccani, la cui

posizio-ne non comprendo se sia o meno sostanzialmente adesiva, al di là dell’apprezzamento per l’«alto percorso valoriale, condotto dalla Corte con una sobrietà espositiva che fa aggio alla profondità assiologica in cui si muove il discorso». L’A. non cela infatti la propria simpateticità per l’impostazione (e la finalità demolitoria) dell’ordinanza di rimessione e il rammarico per non vederla seguita dalla Corte, malgrado sia «proprio

il canone della ragionevolezza che richiede, a sua volta, un controllo di congruità fina-listica della legge, ossia una verifica dell’adeguatezza dei mezzi allo scopo perseguito dal legislatore». Proseguendo la sua battaglia contro la law & economics l’A. pare

spesso dimenticare che la politica “valoriale” del diritto, non diversamente da quella economica, quando pervade, con la sua fisiologica carica ideologica, l’ermeneutica giuridica la fa troppo spesso deviare dalla sua intrinseca funzione, che non è specula-tiva ma pratica, deputata a fornire credibili suggerimenti applicativi delle norme, nell’ambito del sistema dell’ordinamento positivo, agli operatori della giustizia. All’A. fa eco S. GIUBBONI, Il licenziamento del lavoratore con contratto “a tutele crescenti” dopo l’intervento della Corte costituzionale, Working Paper CSDLE

“Massimo D’Antona” – IT, 2018, n. 379, il quale appone al § 2 un accattivante titolo

(Precoce de profundis per la law & economics all’italiana) che è già un programma.

Con riguardo all’ordinanza di rimessione, per il mio pensiero rinvio a P.TOSI, F.L U-NARDON, Cronaca di un’ordinanza… annunciata (nota a Trib. Roma ord. 26 luglio

2017), in GI, 2017, n. 10, 2174.

(3) C. cost. n. 26/2017 (su cui T. TREU, La Corte costituzionale e i referendum

(5)

do un proprio precedente secondo cui siffatta manipolazione si verifica allor-quando, «attraverso l’operazione di ritaglio sulle parole e il conseguente stra-volgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione» si perviene ad «introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento, ma

anzi del tutto estranea al contesto normativo» (4).

Orbene, nel senso della funzione meramente adeguatrice della manipolazione operata dalla sentenza n. 194/2018 può essere valorizzata la riconduzione del meccanismo di determinazione dell’indennità forfettaria nell’alveo della tra-dizione legislativa, su cui non a caso la sentenza ferma dettagliatamente l’attenzione.

Ma depone con maggior pregnanza nel senso della funzione creativa della manipolazione lo sviamento dalla sua ratio di una norma concepita dal

legi-slatore quale “rottura” rispetto a quella tradizione.

L’alternativa per la Corte, non volendo dichiarare infondate tutte le questioni sollevate tenuto anche conto degli stimoli, esterni (5) ma forse anche interni (6), provenienti dal clima di insofferenza assai diffuso tra gli operatori giuridi-ci e sogiuridi-ciali nei confronti della progressiva riduzione delle tutele in caso di li-cenziamento illegittimo, sarebbe stata la dichiarazione di illegittimità costitu-zionale dell’intero articolo 3, comma 1, confidando nell’applicazione giuri-sprudenziale, a colmare il vuoto, dell’articolo 18, quinto e settimo comma, della legge n. 300/1970.

Anche prescindendo dalle disarmonie che ne sarebbero conseguite – si pensi solo al rinvio che gli articoli 9 e 10 fanno all’articolo 3, comma 1 – la caduca-zione di quest’ultimo avrebbe segnato lo sgretolamento del Jobs Act ponendo

la Corte in collisione frontale con le scelte del legislatore.

2. La Corte ha quindi concentrato la sua attenzione sulla predeterminazione

forfettaria dell’indennità risarcitoria in misura rigidamente correlata, tra il mi-nimo e il massimo, alla progressione di anzianità del lavoratore licenziato. Una siffatta predeterminazione è stata ritenuta anzitutto contrastante con il principio di uguaglianza in senso stretto di cui all’articolo 3, primo comma, Cost. in quanto la compressione del ruolo equilibratore del giudice «si traduce

(4) Anch’io, per esigenze di sinteticità, ho operato sull’ordinanza con la tecnica del

ritaglio, ma ritengo di essere rimasto fedele alla sostanza del suo contenuto.

(5) Ben rappresentati, del resto, nel tono e negli argomenti, dall’ordinanza di

rimes-sione. Per la dottrina, rinvio ai richiami di scritti, propri ed altrui, a lui congeniali, in materia di Jobs Act offerti da V.SPEZIALE, La sentenza n. 194 della Corte

costituzio-nale sul contratto a tutele crescenti, in corso di pubblicazione in RGL.

(6) Volendo ravvisarne un segnale nella circostanza che per la redazione della

(6)

in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – diverse» (7).

Ciò è inconfutabile. Ma è parimenti inconfutabile, per contro, che la medesi-ma concreta esperienza testimonia come l’esplicazione in sede giudiziale della discrezionalità nell’applicazione di criteri a maglie tanto larghe quali quelli raccomandati si traduca nella diversità di trattamento di situazioni che merite-rebbero un trattamento omologo.

Il fulcro argomentativo della sentenza è comunque costituito dalla irragione-volezza di un metodo di determinazione dell’indennità che, per la sua rigidità prim’ancora che per la esiguità del minimo previsto nei casi di minore anzia-nità (nella norma novellata, sei mesi fino a tre anni di anziaanzia-nità), non garanti-sce un adeguato e dissuasivo ristoro del danno.

La nuova norma fa ormai parte dell’ordinamento e mi pare poco proficuo di-scutere diffusamente se gli argomenti svolti nella sentenza siano pienamente convincenti. Mi limito quindi a qualche considerazione sull’avere la Corte so-stituito la sua valutazione di ragionevolezza (qui disgiunta dalla ratio della

norma) alla ragionevolezza pur ravvisabile nella norma originaria in coerenza con la sua ratio.

Per un verso può apparire in quanto tale ragionevole l’incremento dell’indennità, dal minimo di sei mensilità di retribuzione, parallelamente con quello dell’anzianità di servizio fino al raggiungimento, dopo 18 anni, dell’apprezzabile ammontare di tre anni di retribuzione: l’espulsione immoti-vata appare socialmente (e soggettivamente) più riprovevole, e quindi anche maggiormente da dissuadere, quanto maggiore è la permanenza del lavoratore in azienda e quanto più elevata, in corrispondenza, è la sua età anagrafica con le correlate maggiori difficoltà di reperimento di un nuovo posto di lavoro. Questa è la ratio del sensibile incremento del massimo dell’indennità previsto

dall’articolo 8 della legge n. 604/1966 per le anzianità eccedenti i dieci e venti anni di servizio. D’altro canto, una misura fissa ed elevata di risarcimento è una garanzia anche per il lavoratore “anziano”.

Per altro verso può apparire ragionevole anche la rigidità della predetermina-zione del rapporto tra incremento dell’indennità e incremento dell’anzianità di servizio. Volta infatti a bilanciare l’inevitabile ampiezza del potere discrezio-nale del giudice nell’amministrazione di clausole generali/elastiche come la giusta causa e il giustificato motivo, con conseguente scarsa prevedibilità dell’esito del giudizio (8), può apparire non irragionevole l’introduzione della

(7) Il pieno ripristino di quel ruolo è stato accolto con soddisfazione, oltre che in

dot-trina, anche in magistratura. Si veda, ad es., l’adesione diR.SANLORENZO, A.TERZI,

Al centro, il Giudice. La Corte costituzionale e il Jobs act, in Questione Giustizia, 9

novembre 2019.

(8) È agevole cogliere l’ampiezza di tale discrezionalità, anche solo con riguardo al

(7)

ri-prevedibilità, almeno, dell’entità della sanzione in vista del massimo possibile di certezza del diritto.

3. Pur concernendo il giudizio a quo un caso di licenziamento per giustificato

motivo oggettivo la Corte precisa in premessa di non poter «esimersi da uno scrutinio complessivo del denunciato art. 3, comma 1» giacché l’anzidetto «meccanismo di tutela sorregge l’intero impianto della disciplina delineata dal legislatore, anche nei casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato soggettivo o per giusta causa».

La circostanza consente alla Corte di pervenire ad una sentenza che è lecito ritenere in larga misura conclusiva della partita sulla legittimità costituzionale del decreto legislativo n. 23/2015 inteso come Jobs Act.

Anzitutto la sentenza libera il dibattito corrente (9) con riguardo alla diversità

di trattamento dei rapporti instaurati prima e dopo la data di entrata in vigore del decreto e con riguardo alla violazione degli articoli 76 e 117, primo com-ma, Cost. in relazione ai parametri interposti dell’articolo 10 della convenzio-ne ILO C158 del 1982 e dell’articolo 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La questione della violazione dei medesimi articoli della Carta fondamentale in relazione al parametro interposto dell’articolo 24 della Carta sociale europea viene assorbita nel più generale scrutinio con riguardo agli articoli 3, 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost.

Deve in particolare prendersi atto che la Corte afferma l’idoneità del «limite

di ventiquattro (ora trentasei) mensilità fissato dal legislatore quale soglia massima del risarcimento» ad esplicare sia la funzione risarcitoria sia quella dissuasiva (10).

chiamando il “principio di diritto” formulato, da ultimo, in dichiarata “funzione no-mofilattica”, da Cass. n. 10435/2018 (su cui F.SANTINI, La dimensione (tutta)

proba-toria del repêchage e le sue conseguenze sul piano sanzionatorio, in q. Rivista, 2018,

n. 3): «la verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. La “manifesta insussistenza” va riferita ad una evi-dente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4, ove tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro». Ovviamente questo orientamento non può riguardare l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 giacché, in coerenza con l’art. 1, comma 7, lett. c, della l. n.

183/2014, il comma 2 del medesimo articolo esclude in radice la reintegra per l’illegittimo licenziamento economico.

(9) Cfr. S.GIUBBONI, op. cit., a più riprese.

(10) M.T.CARINCI, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele

economi-che per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre, Working

(8)

affermazio-Ovviamente, nella corretta logica della Corte la funzione dissuasiva va decli-nata retrospettivamente, quale rischio, per il datore di lavoro, che l’indennità possa essere quantificata nella misura massima prevista. Quando il licenzia-mento è stato intimato il giudice non deve dissuadere il datore di lavoro bensì determinare il ristoro adeguato al danno che il lavoratore ha subito (11).

Dunque l’impianto complessivo del decreto, segnatamente quanto all’attenuazione delle tutele, sopravvive all’intervento della Corte costituzio-nale anche se il decreto stesso ne esce mutilato al punto da aver perduto la qualificazione quale portatore di “tutele crescenti” (con l’anzianità di servizio) tuttora scolpita nella sua epigrafe.

4. Occorre tuttavia chiedersi se siano prospettabili ulteriori interventi della

Corte su altre norme del decreto quale riflesso del nuovo testo dell’articolo 3, comma 1, e soprattutto della parte motiva della sentenza n. 194/2018.

4.1. Qui (come nell’articolo 2, comma 2) il risarcimento si accompagna alla

reintegra e quindi già per questo non sono prospettabili dubbi di legittimità costituzionale (12).

In particolare non pone problemi da questa angolazione il contenuto della norma una volta decifrata la sua contorta scrittura.

È prevista «un’indennità commisurata all’ultima retribuzione […] corrispon-dente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva rein-tegrazione» senza scansioni ed è stabilito il tetto di dodici mensilità solo per il periodo dal licenziamento alla sentenza. L’esenzione dalle «sanzioni per omissione contributiva» è estesa anche ai contributi previdenziali dovuti per il periodo successivo alla sentenza.

Questa statuizione conferma che la norma considera unitariamente l’intero pe-riodo anteriore alla reintegrazione e che quindi anche dopo la sentenza l’obbligo gravante sul datore di lavoro conserva la sua natura risarcitoria del danno subito dal lavoratore, qui per non essere stato reinserito nel fisiologico

ne “apodittica”, rimproverando alla Corte di non avere fornito la minima motivazione. Come se andassero spese parole (quali, in relazione alla Carta fondamentale e al pa-rametro interposto dell’art. 24 della Carta sociale europea?) con riguardo ad un limite massimo di 3 anni di retribuzione.

(11) L’equivoco prospettico è diffuso tra gli AA. che hanno commentato la sentenza.

M.T.CARINCI, op. cit., ne desume, forse imprudentemente, quale «prima conseguenza

prevedibile, in punto di fatto», che «i giudici tenderanno a liquidare, mediamente, somme più alte rispetto a quelle derivanti dal calcolo imposto dalla norma dichiarata incostituzionale» (come se continuasse a convivere con la norma nuova e ad intrec-ciarsi con essa).

(12) S.GIUBBONI, op. cit., li prospetta dalla discutibile angolazione di una ipotetica

(9)

sinallagma contrattuale. Vale quindi anche per il periodo successivo alla sen-tenza, in assenza di reintegrazione, quanto dirò nel prossimo paragrafo a pro-posito del danno.

4.2. Nessun riflesso a me pare prospettabile altresì sull’articolo 4 concernente

i «vizi formali e procedurali» sebbene la norma preveda che l’indennità sia

determinata rigidamente in relazione agli anni di servizio nel ventaglio di un minimo ed un massimo sensibilmente inferiori a quelli dell’articolo 3, comma 1. La motivazione della sentenza n. 194/2018 infatti è interamente svolta con riguardo al licenziamento ingiustificato mentre nel caso prefigurato dall’articolo 4 si può ritenere implicita nella mancata impugnazione per vizio sostanziale l’ammissione, da parte del lavoratore licenziato, che il licenzia-mento è giustificato anche quando non se ne abbia l’accertalicenzia-mento allorché, invece, tale impugnazione vi sia stata e la sentenza l’abbia rigettata (13).

4.3. L’articolo impone che la somma offerta nella sede protetta per la

conci-liazione sia determinata secondo una scansione rigida in relazione agli anni di servizio nel ventaglio tra un minimo ed un massimo peraltro superiori a quelli dell’articolo 4.

Anche in questo caso la forfettizzazione operata dalla norma si colloca su un piano diverso da quello sul quale ha operato la Corte trattandosi qui pur sem-pre di una mera offerta che il lavoratore può rifiutare eventualmente avanzan-do una controproposta in vista di una conciliazione nella medesima sede in termini monetari maggiori di quelli proposti dal datore di lavoro.

Piuttosto con riguardo all’ipotesi che tale eventualità si verifichi occorre chie-dersi se il previsto beneficio fiscale si estenda alla maggior somma o se la maggior somma ne sia esclusa o ancora se ne sia esclusa l’intera somma con-cordata.

Ritengo preferibile la prima soluzione considerando per un verso la ratio della

norma, chiaramente diretta a favorire la composizione bonaria della vertenza e per altro verso il dato testuale, provvisto di rilevanza sistematica, per cui l’esclusione dal beneficio è testualmente disposta, nell’ultima frase del com-ma 1, per le «eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro».

4.4. È lecito invece prevedere che venga prospettata l’illegittimità

costituzio-nale dell’articolo 9, comma 1. Non già per il dimezzamento del tetto minimo, del resto superiore a quello previsto dall’articolo 8 della legge n. 604/1966, ma per l’imposizione del limite di sei mensilità al tetto massimo.

(13) Mi parrebbe francamente “forzato” un intervento della Corte sull’art. 4 modellato

(10)

Vero che la sentenza n. 194/2018 argomenta l’irragionevolezza della norma scrutinata assai più sulla rigidità del meccanismo di predeterminazione che sul

quantum dei suoi limiti, in particolare di quello massimo. Non mancano però i

riferimenti al profilo dell’esiguità del minimo statuito, anche in relazione alla necessaria idoneità dissuasiva dell’indennità, considerata, come detto prima, nella prospettiva squisitamente prevenzionistica.

Tale profilo quindi sarà probabilmente portato allo scrutinio di costituzionalità della Corte, unitamente a quello dell’irragionevolezza di una eccesiva svaluta-zione del criterio dell’anzianità di servizio, per sollecitare un intervento abro-gativo dell’ultima frase del testo dell’articolo 9.

Dovrebbe essere superfluo osservare che il risultato non è perseguibile in via di interpretazione costituzionalmente orientata essendo ad essa preclusa la di-sapplicazione di un dato testuale.

5. La natura risarcitoria dell’indennità, rimarcata dalla Corte, è suscettibile di

sollevare alcuni interrogativi, ai quali peraltro è possibile, a mio avviso, dare agevoli risposte.

5.1. È diritto vivente che la disciplina risarcitoria prevista per il licenziamento

ingiustificato è speciale rispetto a quella codicistica, e quindi in caso di assen-za di giusta causa e giustificato motivo, soggettivo od oggettivo, l’indennità forfettaria onnicomprensiva è integralmente satisfattiva del danno cagionato da siffatto licenziamento. Ulteriori voci del danno di diritto comune (segna-tamente, il danno alla integrità psico-fisica) richiedono un fatto che esula dalla mera intimazione del licenziamento ingiustificato, e che quindi eccede la sua fisiologica prevedibilità, come nel caso del licenziamento ingiurioso per i mo-di con cui è comunicato o per la mo-diffusione che se ne è data o anche per l’uso di espressioni offensive nella contestazione degli addebiti ovvero come nel caso del licenziamento ritorsivo o persecutorio (14).

In questi casi è altresì diritto vivente che al lavoratore licenziato spetta anzi-tutto l’onere di provare la causa del danno; prova, questa, che ovviamente coincide con quella del motivo illecito quando da essa deriva la dichiarazione di nullità del licenziamento (15); spetta poi l’onere della prova del danno

(14) Il diritto vivente può ritenersi ben sintetizzato dal principio di diritto rinvenibile in

Cass. n. 5927/2008: «Il danno costituito dalla lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore e causato esclusivamente dall’illegittimità del licenziamento (per assenza della relativa giustificazione: giusta causa o giustificato motivo) non è risarcibile. Il predetto danno è risarcibile ove sia conseguenza immediata e diretta dell’illegittimo comportamento con cui il licenziamento è stato adottato. Come nel licenziamento in-giurioso o persecutorio o vessatorio». Cfr. anche Cass. n. 6847/2010; Cass. n. 63/2015; Cass. n. 10435/2018, cit.

(11)

to, essendo solo allora consentita al giudice la sua quantificazione anche equi-tativa (16).

Con la sentenza n. 194/2018, che si occupa solo del licenziamento ingiustifi-cato, questo scenario è destinato a mutare? Credo che sia agevole la risposta negativa.

Vero che la Corte pone un accento particolare sulla funzione risarcitoria (oltre che dissuasiva) dell’indennità al fine di un adeguato ristoro del danno recato dal licenziamento privo di giusta causa e giustificato motivo. Ma muove dal presupposto che la prevista «predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo non risulta incrementabile, pur volen-done fornire la relativa prova. Nonostante il censurato art. 3, comma 1 – di-versamente dal vigente art. 18, quinto comma, della legge n. 300 del 1970 – non definisca l’indennità “onnicomprensiva”, è in effetti palese la volontà del legislatore di predeterminare compiutamente le conseguenze del licenziamen-to illegittimo, in conformità al principio e criterio direttivo dettalicenziamen-to dalla legge di delegazione di prevedere un indennizzo economico “certo”».

Quindi la Corte non solo si colloca nell’alveo dell’anzidetto diritto vivente (17), ma opera la manipolazione della norma proprio in forza di tale

presuppo-sto, che quindi risulta confermato ed anzi assunto ad elemento di ratio del

nuovo testo normativo (18).

(16) Cfr. in particolare Cass. n. 10435/2018, cit.: «il danno biologico non è in re ipsa

ma va dimostrato, e solo ove tale prova sia data dal lavoratore, il giudice può liquidare il danno equitativamente».

(17) Non condivido quindi, a differenza di altre, l’opinione espressa sul punto da C.

PISANI, La Corte costituzionale e l’indennità per il licenziamento ingiustificato:

l’incertezza del diritto “liquido”, in corso di pubblicazione in MGL, secondo cui la

sentenza ignora la specialità del regime risarcitorio del danno da licenziamento ingiu-stificato adottando quindi «l’assioma […] della completa assimilazione dell’indennità in questione con il vero e proprio risarcimento del danno». Ciò non toglie che io con-divida molte altre opinioni espresse nello scritto.

(18) Non è così per V.SPEZIALE, op. cit., la cui operazione ermeneutica merita di

esse-re integralmente riportata: «Ovviamente, l’indennità [pesse-revista dall’art. 3, comma 1] risarcirà soltanto il danno patrimoniale. È la sua stessa struttura, commisurata alla re-tribuzione, a dimostrare come essa sia parametrata alle utilità perdute a seguito della mancanza del posto di lavoro. Con la conseguenza che saranno comunque dovuti, se sussistenti, i danni di carattere non patrimoniale (biologico, esistenziale, morale ecc.). Questi ultimi, infatti, sono pregiudizi diversi e ulteriori rispetto a quello connesso alla

(12)

Non è qui il luogo per affrontare ex professo la questione del se e del quando

sia risarcibile l’eventuale danno ulteriore rispetto a quello ristorato dall’indennità risarcitoria prevista dall’articolo 2, comma 2, e (con un tetto) dall’articolo 3, comma 2. Ciò richiederebbe, tra l’altro, di estendere l’analisi all’indennità risarcitoria prevista dall’articolo 18, secondo comma e (con un tetto) quarto comma (mentre il sesto e settimo comma prevedono una «inden-nità risarcitoria onnicomprensiva»). Si tratterebbe insomma di stabilire quan-do, nei casi previsti da dette norme, il preteso danno ulteriore possa essere considerato «conseguenza solo mediata ed indiretta (e quindi non fisiologica e non prevedibile) del licenziamento» (19) dichiarato nullo o annullato.

Qui mi limito a segnalare come dalla sentenza n. 194/2018 emerga chiaramen-te che l’omissione della qualificazione di onnicomprensiva non vale di per sé ad escludere che l’indennità volta a volta prevista dal legislatore sia integral-mente satisfattiva del danno recato dal licenziamento.

5.2. La natura forfettaria ed onnicomprensiva dell’indennità prevista

dall’articolo 3, comma 1, unitamente al silenzio della norma al riguardo im-pone di ritenere indeducibile dall’indennità «quanto il lavoratore abbia perce-pito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe po-tuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell’art. 4, comma 1, lettera c, del decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181 e successive modificazioni» come invece statuito dal comma 2 del medesimo articolo 3. Con riguardo al comma 2 si pone tuttavia l’interrogativo se l’esplicita previ-sione della deducibilità unitamente all’assenza, come nel comma 1, della qua-lificazione dell’indennità come onnicomprensiva possa condurre ad escludere che la stessa assolva alla funzione di ristoro integralmente satisfattivo del danno, con riconduzione di esso nell’ambito del diritto comune; ovvero se tale funzione vada confermata atteso che la deducibilità dell’aliunde perceptum

non è ontologicamente incompatibile con l’onnicomprensività dell’indennità. All’interrogativo, come detto sub § 5.1, può essere data soddisfacente risposta

solo nel contesto di un più ampio approfondimento coinvolgente anche le va-rie norme dell’articolo 18. Tuttavia penso di poter anticipare che mi pare ben difficilmente argomentabile la qualificazione dell’eventuale danno ulteriore quale «conseguenza solo mediata e indiretta (e quindi non fisiologica e non prevedibile)» del licenziamento annullato in applicazione dell’articolo 3, comma 2.

comunque, che solo in qualche ipotesi estrema – per. es., nel caso di licenziamento ingiurioso – il licenziamento privo di giustificazione può produrre danni di natura non patrimoniale».

(13)

5.3. I criteri suggeriti dalla sentenza, non essendo entrati nel dispositivo ad

in-tegrare il nuovo testo dell’articolo 3, comma 1, non sono vincolanti per i giu-dici ordinari.

Si è cercato di argomentare il contrario ricorrendo alla distinzione tra veste formale della sentenza (che la configura come di accoglimento parziale) e suo contenuto sostanziale (che la configura come additiva); il che si verifica «quando la soluzione normativa idonea a colmare la lacuna è implicita nell’ordinamento» (20). Ma anche le sentenze additive operano

necessariamen-te sul necessariamen-testo normativo traminecessariamen-te i dispositivi, non già traminecessariamen-te le motivazioni (21).

Dalla asserita legificazione è stata altresì tratta la conseguenza della censura-bilità in sede di legittimità della loro applicazione da parte del giudice del me-rito «nella misura in cui la loro applicazione non rispecchi i requisiti espressi nella sentenza 194/2018» (22).

La questione della legificazione non è peraltro appassionante, come tutte quel-le sostanzialmente scolastiche.

Per un verso è facilmente prevedibile che i giudici si adegueranno applicando i criteri dell’articolo 18, quinto comma, in via analogica o piuttosto utilizzan-doli come parametri in quanto espressione di principi generali desumibili dalla normativa in materia di risarcimento del danno da licenziamento. Ciò, alla stregua dell’orientamento seguito da una già citata sentenza della Corte di cassazione (23), la quale dalle norme codicistiche in materia di risarcimento

per equivalente (articolo 2058 c.c.) e di riduzione dell’ammontare della penale concordata tra le parti (articolo 1384 c.c.) ha desunto il principio generale dell’eccessiva onerosità cui rapportare l’esercizio della discrezionalità affidata dall’articolo 18, settimo comma, al giudice (“può”) nel decidere se disporre o meno la reintegra (24).

Per altro verso l’esperienza ci dice che l’ampiezza della discrezionalità del giudice ordinario nel bilanciamento di criteri tanto eterogenei in sede di appli-cazione di una norma che pur gli impone l’«onere di specifica motivazione»

(20) M.T.CARINCI, op. cit.

(21) Paradigmatica, dall’angolazione del giuslavorista, l’operazione dichiaratamente

additiva compiuta sull’art. 19 della l. n. 300/1970 da C. cost. n. 231/2013.

(22) Cfr. V.SPEZIALE, op. cit., il quale, davvero singolarmente, vorrebbe la Corte di

Cassazione investita del compito di controllare che la quantificazione rispetti il «limi-te della necessaria “adegua«limi-tezza” dell’indennità sotto il profilo risarcitorio e dissuasi-vo».

(23) Alla nota 8.

(24) È proprio questo, del resto, il metodo che la Corte costituzionale suggerisce al

(14)

(25) è tale da escludere in radice l’ipotizzabilità di censure in sede di

legittimi-tà.

Nessun principio generale può soccorrere quanto a tale bilanciamento. Il dato testuale del settimo comma depone sì nel senso della prevalenza dell’anzianità di servizio, ma in quale misura non è dato inferirne. Certo non secondo una misura minima per ogni anno di servizio corrispondente a quella prevista dal testo originario dell’articolo 3, comma 1, tramite una fantasiosa commistione della vecchia e della nuova norma (26).

Solo, ricollegandomi qui al discorso condotto sub § 5.3, mi pare lecito ritenere

che il giudice possa/debba attribuire un (certamente non automatico ma) pru-dente peso all’aliunde perceptum in quanto riconducibile alle “condizioni

del-le parti”.

Concludendo è forse appena il caso di rimarcare che l’operazione manipolati-va della Corte ha lasciato l’unità di misura della mensilità primanipolati-va dell’aggancio all’«ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto». Anche per colmare questa lacuna il giudice sarà costretto a recupe-rare il parametro espunto desumendolo in chiave sistematica dalle altre norme dell’ordinamento che lo utilizzano.

(25) Puntuali le considerazioni di C.PISANI, op. cit.

(26) S.GIUBBONI, op. cit., la desume dalla sopra riportata raccomandazione, rivolta al

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