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Digital humanities e realtà aumentata

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Academic year: 2022

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Digital humanities e ‘realtà aumentata’

Gian Mario Anselmi Pubblicato: 15 dicembre 2021

The essay has a methodological and hermeneutic goal, that is to verify the effectiveness of the current state of DH in relation to philological and literary studies and to the infinite field of ‘augmented reality’

and the ‘virtual’ universe achieved by the achievements of information technology and nanotechnologies.

With some deliberate ‘provocation’ the essay shows the criticalities and the not small shadows of these intertwining, proposing new epistemic knots to be covered by the DH, under penalty of their perpetual subordination to the ‘technique without thought’ with the consequent inability to truly renew in the deep the horizons of our studies. It is necessary to play the best of technological innovations in a process of equal alliance, completely unexplored for now, and capable of moving from research to teaching to publishing itself.

Il saggio si propone un intento metodologico ed ermeneutico di principio: ovvero verificare l’effettiva efficacia dello stato attuale delle DH in relazione agli studi filologici e letterari e all’infinito campo della

‘realtà aumentata’ e dell’universo ‘virtuale’ conseguito dalle conquiste dell’informatica e delle nanotecno- logie. Con qualche voluta ‘provocazione’ il saggio mostra le criticità e le non piccole ombre di questi intrecci, proponendo nodi epistemici nuovi da percorrere da parte delle DH, pena la loro perpetua su- balternità alla ‘tecnica senza pensiero’ con la conseguente incapacità di rinnovare davvero nel profondo gli orizzonti dei nostri studi. Occorre giocarsi al meglio le innovazioni tecnologiche in un processo di alleanza paritaria, del tutto per ora inesplorata, e capace di trascorrere dalla ricerca alla didattica fino all’editoria stessa.

Parole chiave: filologia; realtà aumentata; saggistica; simultaneità; tecnica.

Gian Mario Anselmi: Alma Mater Studiorum — Università di Bologna

gianmario.anselmi@unibo.it

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È opinione corrente, del resto da molti anni codificata negli statuti e nei protocolli delle

‘Digital humanities’ (d’ora innanzi DH) così come si sono costituite in disciplina e in corsi di laurea in molti atenei italiani e stranieri, che l’aspetto dominante delle DH stesse sia essenzial- mente ‘formale’. Intendo ‘formale’ ovviamente in senso epistemologico e inerente a una prero- gativa propria delle discipline informatiche (ma in realtà, per seguire Heidegger, di tutte le

‘tecniche’): alle ‘tecniche’ poco interessa dei ‘contenuti’ ed esse raggiungono il massimo dei risultati quando divengono appunto ‘applicate’ ai contenuti i più disparati se consoni coi loro protocolli. Fin dai primi dell’Ottocento questa asserzione ha suscitato, come è ben noto, ampi dibattiti non solo filosofici e gnoseologici ma anche politici e ideologici. L’intera modernità si è dibattuta tra una esaltazione, talora acritica, delle conquiste tecnologiche, del resto sempre perfettamente funzionali al modello di sviluppo dominante ovvero il modo di produzione ca- pitalistico (il discorso sulle conquiste ‘scientifiche’ delle discipline non ‘applicate’ come la fisica o la matematica o la biologia ci porterebbe in altro e più complesso campo) e una ostilità, al- trettanto acritica o meglio pregiudiziale, verso molti mutamenti imposti dalle nuove tecnologie.

È evidente che la rivoluzione informatica in atto da decenni abbia accentuato questa radicale dicotomia seppure in un contesto in cui ormai la partita appare clamorosamente vinta dalle nuove tecnologie secondo modalità inedite per la storia della società industriale moderna. Gli studiosi delle discipline umanistiche, di solito tra i più restii ad accettare con rapidità i muta- menti tecnologici, in questo caso hanno in gran parte compreso l’enorme portata della rivolu- zione informatica in atto e hanno tentato abbastanza per tempo di sperimentare forme di al- leanza e mutuo scambio tra ambiti solo apparentemente inconciliabili. La ‘formalizzazione’ di- gitale di documenti, testi, reperti, fotografie, film, oggetti d’arte, brani musicali, ecc.; la crea- zione conseguente di banche dati e piattaforme immense e di immediata fruibilità; la ideazione di metalinguaggi dai molteplici usi ed impliciti nei presupposti dell’informatica e tali da modi- ficare gli statuti stessi della linguistica con appositi scripta hanno dispiegato una ‘potenza di fuoco’ impensabile solo fino agli anni Ottanta del secolo scorso. In parallelo la messa in campo in modo efficace di interi corpora testuali e d’archivio ha illuso i filologi di poter giungere forse a cogliere l’antica chimera dell’edizione critica perfetta, superando d’un sol colpo le vecchie dicotomie tra rigido metodo lachmaniano (di matrice positivistica) e filologia ‘alla Bedier’, del singolo testimone capace di dare ragione comunque di un testo finale ‘attendibile’. I metacodici e i ‘marcatori’ testuali nati dall’alleanza tra umanisti e informatici avrebbero dovuto consentire l’apertura di nuovi spartiti all’ecdotica intesa soprattutto come prolegomeni a ogni futura filo- logia (per parafrasare il Kant del celebre saggio su ogni futura metafisica...). Ciò ha riguardato anche altri ambiti disciplinari umanistici con i risultati forse più eclatanti in archeologia. Ma la realtà, per ciò che attiene alle discipline filologiche e letterarie, si sta dimostrando molto diversa dalle aspettative: si è seguito un percorso di fatto ‘minimalista’ che sembrava il più efficace e si sono trascurate le autostrade che invece sono a portata di mano per mutare gli orizzonti delle nostre discipline. L’aporia è abbastanza semplice ed è purtroppo di fatto prevalente nei corsi di laurea e nella pratica delle DH. Ci si è illusi cioè che bastasse una semplice ‘sommatoria’ di saperi per mutare i reciproci statuti disciplinari e rivoluzionarli. Sicché oggi abbiamo i saperi digitali

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di fatto ‘affidati’, nelle loro tumultuose avanzate e pratiche tecniche sempre più sofisticate, giu- stamente e saldamente solo agli informatici, agli esperti di nanotecnologie e di robotica e alle industrie che li supportano. Nessun umanista (ma neppure nessun astronomo o medico o bio- logo) potrà mai raggiungere la padronanza piena di quei saperi iperspecialistici e mai potrà averli, sempre usando il lessico di Heidegger, davvero ‘sottomano’. Per dirla con crudezza: le DH non preparano e non potranno mai preparare ad una conoscenza compiuta di quelle tec- nologie nel loro ‘specifico’. Gli studiosi di DH non saranno mai veri ‘informatici’ ed è inutile creare, come talora è accaduto, corsi di laurea che rischiano di non essere né carne né pesce, mettendo clamorosamente in evidenza, se si sta a quel livello, la inevitabile subalternità dei sa- peri umanistici (ma come abbiamo già detto non solo umanistici) rispetto alla rivoluzione tec- nologica in atto. Occorre praticare una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’ (Kant ci torna sempre utile e non a caso...): ovvero innanzitutto far coabitare informatica e scienze umanistiche con lo scopo di dar vita a una ‘tecnica pensante’. Oggi prevale il modello di una ‘tecnica senza pensiero’ (il bersaglio polemico di Heidegger) cui, in passiva sommatoria, gli umanisti dovreb- bero aggiungere il sale e il pepe dei ‘contenuti’. È una strada che purtroppo conosciamo bene nell’evoluzione di parte non piccola della filologia attuale: all’ambizioso progetto dei grandi filologi dell’Otto/Novecento teso a definire lo statuto della filologia come premessa alla piena comprensione dei testi e alla loro diffusione verso pubblici ampi con criteri espositivi rigorosi ma chiarissimi si è sostituito non sempre ma spesso un fastidioso ‘filologismo senza pensiero’

appunto, pura tecnica ecdotica fine a se stessa e del tutto incapace di definire prospettive e tra- guardi degli ambiti di ricerca, senza nessuna confidenza con le discipline essenziali per la filo- logia, a partire dalla storia (tutti dovrebbero rileggersi più che il troppo citato Contini il gran- dissimo Ridolfi). Il pericolo nelle DH è appunto che la sommatoria passiva ora praticata non produca altro che l’egemonia incontrastata dei saperi informatici senza che gli umanisti possano discuterne i fondamenti, non possedendo le conoscenze adeguate a ‘comprenderne’ i meccani- smi ‘ultimi’. Ecco allora il rovesciamento indispensabile: io umanista smetto di cimentarmi con procedure tecniche che non potrò mai conoscere nel fondo, ne assumo invece i risultati finali (per dire... che so... lo smartphone, le piattaforme utili allo streaming o alla DAD, e così via...) possibilmente indicando il traguardo, il ‘gioco/game’ cui miro in ultima istanza (e contribuendo quindi a riorientare la ricerca tecnologica verso orizzonti comuni) e li amalgamo con i miei saperi, avendo ben chiaro il fine per cui sto lavorando con quella tecnologia. Ciò che mi con- segnano i giganti dell’informatica diviene materia attiva se io so definire finalmente il ‘campo di gioco’ senza farmelo imporre da altri; come arrivare ad esempio a una edizione critica di nuovo conio e che rilanci la grande prospettiva filologica che prima richiamavo: non esiste ad oggi un testo di un classico della letteratura italiana la cui edizione critica sia davvero nata esclu- sivamente dalle DH (conosco solo la coraggiosa edizione delle Lettere di Vespasiano da Bisticci curata da Francesca Tomasi che non a caso viene sempre citata in ogni occasione; aggiungo: il progetto molto avanzato di Wiki Leopardi parte da una celebre edizione cartacea e il censimento online delle carte Manzoni del progetto Manzoni online pone per ora le premesse documentali per una eventuale futura edizione critica digitale). Ma qui ammetto di scontare mie lacune e mancate conoscenze: in altri paesi il panorama sembra più in movimento almeno a stare al catalogo approntato da Greta Franzini fin dal 2018 e dagli studi molto importanti di Elena Pierazzo, anche se mi pare che la vasta mole di prodotti digitali/filologici censiti non sempre

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corrisponda a vere edizioni critiche ancorché sia testimoniata una vivacità esplorativa crescente che sta affermandosi anche negli studi di italianistica in Italia (molto grazie a Paola Italia, a Francesca Tomasi e ad altri studiosi di alcuni atenei). In ogni caso rimango persuaso di un fatto, di là dalle evidenti eccezioni: le pratiche filologiche e linguistiche sono ancora molto lontane dall’aver colto tutta la potenza tecnologica a disposizione perché dibattono sovente di astruse e inesauribili dispute astratte (simili a quelle degli scolastici medievali invisi a Petrarca) su ‘marker’, metalinguaggi ( su questo fronte assistemmo già molto tempo addietro, prima della rivoluzione digitale in atto, a una sorta di involuzione della linguistica generale...), ‘metatutto’ e intanto per procedere a nuove edizioni critiche si oscilla tra empirismi scientisti vecchio stile ‘alla Spongano’

sempre utilissimi per altro (l’‘usato sicuro’ della filologia, il suo intramontabile ‘vinile’), infinite dispute su ‘attribuzioni’ a un grande autore di testi spesso ‘marginali’ (e basandosi su ipotesi per lo più indimostrabili fattualmente) e soffocanti, inutili, sterminati apparati che rendono incom- prensibile al pubblico dei non addetti il testo stesso (e spesso ripetendo ennesime edizioni dello stesso classico... Dio ci salvi e salvi Dante dal ’21...). Per non parlare delle dispute, altrettanto incomprensibili e ‘senza pensiero’, che talora accendono le discipline archivistiche e paleogra- fiche: immensi patrimoni documentari sono ‘pubblicati’ solo in parte e con lentezza esasperante perché ci si affanna in dispute formalistiche al limite del paradosso (come ‘marcare’ una cediglia in modo appropriato?!) che paralizzano il fine ultimo dei nostri saperi che consiste poi nel far conoscere con approssimazione accettabile (è il criterio delle scienze più avanzate come la Fisica o l’Astrofisica cui solo noi ‘umanisti incolti’ attribuiamo un erroneo e antiquato modello di

‘esattezza’) il più ampiamente possibile la nostra storia e ciò che la documenta (rileggersi Ma- chiavelli, Guicciardini, Muratori, Vico per favore!). Ovvero, come giustamente sostiene Ba- ricco, dobbiamo, grazie alla Rete digitale, cercare di ampliare a dismisura la quantità di cose da fruire e soprattutto le platee di nuovi fruitori a scapito di una certa preziosa qualità, di qualche

‘eleganza’ sofisticata (certo che il ‘vinile’ è perfetto; però attraverso Spotify o Youtube Music in un attimo mi collego a tutta la musica che voglio ascoltare anche se il suono non è così perfetto...

lo stesso dovrebbe valere per la messa in circolazione delle edizioni di testi... in filologia e critica letteraria abbiamo molti buoni ‘vinili’ ma non abbiamo nessun magico Spotify... cioè usiamo male le DH...). Si pensi all’edizione nazionale delle opere di Petrarca: per fortuna il non mai abbastanza lodato Ugo Dotti ci ha messo a disposizione edizioni (presso Aragno) criticamente fondate (con procedura alla ‘Bedier’) di tutto il Petrarca latino che conta... se stavamo ad aspet- tare i prodotti filologici ‘perfetti’ (i sofisticati ‘vinili’) dell’edizione nazionale ancora dovremmo accedere per alcuni di essi a qualche cinquecentina!

In sostanza io penso che noi siamo appena agli esordi di un vero patto di alleanza in grado di definire gli statuti delle DH perché in parte siamo partiti col piede sbagliato: occorre un atto di umiltà che ci faccia ritrovare il giusto bandolo. Filologia, archivistica, letteratura, linguistica, storia, filosofia, archeologia, storia dell’arte, musica devono trovare innanzitutto fra loro proce- dure comuni di sperimentazioni e contaminarsi con le tecnologie d’avanguardia per fare un salto epistemico (cambio di paradigma?) tale per cui l’assemblamento di corpora e dati sia solo il primo passo per costruire (incrociando informazioni, discutendo ipotesi storiche, creando pro- spettive su campi inesplorati... come fanno fisici, astronomi o biologi) la nuova visione del mondo e della sua storia. La grandiosa stagione dell’Illuminismo, fondativa della modernità, il lungo periodo dell’Alto Medioevo, incubatoio dell’Europa, sono ad esempio mete di lavoro

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straordinarie e oggi da esplorare in alleanza con le nuove tecnologie. Sono epoche da ‘reinven- tare’, oberate da luoghi comuni e spesso soffocate da specialismi senza meta. ‘Liberiamo’ queste grandi fasi storiche e letterarie, onuste di documenti i più disparati e ancora in parte consistente inediti, rendendole ‘digitali’ nella sostanza, trasformando la narrativa saggistica tradizionale su di esse in un immenso campo di ricostruzione virtuale capace di dar conto di un passato incon- tenibile ormai nelle nostre obsolete ‘narrazioni’ cartacee (o vogliamo lasciare il campo alle sole, splendide serie a sfondo storico di Netflix o Sky? Lo dico provocatoriamente fino a un certo punto...). Nel mondo anglosassone e americano in particolare certamente ci sono da molti anni esperienze volte a contaminare le DH col dibattito critico più ‘caldo’ in particolare in ambiti molto sentiti e praticati negli USA (e con cui fino alla fine il grande Harold Bloom non fu tenero...) ovvero gender studies, new media studies, ricezione e digital divide, ecc. E se anche po- tremmo, appunto come Bloom, non essere del tutto d’accordo con la eccessiva estensione che questi studi hanno imposto alla critica letteraria e alla ‘gerarchia’ dei testi, potremmo però trarre da essi molti spunti proficui per una nuova e fertile alleanza tra critica e DH quanto meno a partire da istanze antropologiche ancor prima che filologiche.

Facciamo un esempio ancor più decisivo: forgiamo le nostre competenze con le più avanzate tecnologie digitali e decidiamo una volta per tutte di dar vita a quella ‘filologia della ricezione’

cara a Maestri come Raimondi e Jauss e che dovrebbe far perno su una rinnovata ‘filologia dei testi a stampa’ come fattore decisivo (in Italia la filologia del manoscritto ha offuscato per troppo tempo la tradizione a stampa e finalmente oggi, sulla scia pionieristica di Roberto Ridolfi e della migliore cultura filologica anglosassone, grazie, ad esempio, a riviste come «Ecdotica», a studi importanti di Pasquale Stoppelli o di Antonio Sorella o, sul Novecento, di Paola Italia, stiamo riaprendo gli spartiti epistemici in merito). Questo orizzonte è forse adesso la vera frontiera avanzata della filologia proprio perché finalmente l’alleanza con il digitale ci consente quell’esplorazione sistematica e quell’approccio a vasto raggio temporale che sarebbe in grado di rivoluzionare interi statuti delle discipline letterarie e della vera storia dei classici nel loro posizionamento lungo i secoli (si pensi ai censimenti finalmente esaustivi dell’immensa tradi- zione dei testi a stampa che le DH consentono). Roba da niente...: ovvero una filologia che contribuirebbe a ridefinire i contorni della nostra stessa identità culturale per come l’hanno pla- smata letteratura e immaginario nel tempo! La bellissima, immaginifica serie Netflix, di successo planetario, Bridgerton (con i romanzi di Julia Quinn che l’hanno ispirata), sarebbe mai potuta nascere senza la grande stagione del Romanticismo inglese così come è circolato nella ricezione fino ad oggi, senza gli ‘scandalosi’ e radicali Byron, Shelley e Mary Shelley, senza la fortuna ininterrotta di Jane Austen? Per dire: ci servirebbe oggi davvero, più che un’altra edizione critica dei Canti di Leopardi (anche se digitale, come è in atto), di sapere piuttosto come il suo pensiero e la sua poesia abbiano circolato se e quanto e dove, dati fattuali alla mano e con indagini e mappe filologiche rigorose supportate dalle DH, nel farsi del pensiero filosofico moderno. E potrei fare lo stesso discorso per il Principe e forse per tutti i classici (ci provò in altri tempi, non

‘digitali’, con uno splendido volume, Giovanna Cordibella, Holderlin in Italia. La ricezione lette- raria, Bologna, Il Mulino, 2009). Questa è la filologia che oggi dovrebbe interessarci e, guarda caso, le sarebbe indispensabile un consumato ed esperto insieme di dispositivi che solo le rin-

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novate DH potrebbero offrire. Appunto DH non meramente e meccanicamente ‘assembla- menti’ sommatori di saperi ma amalgama capace di dar vita a un sapere nuovo, frutto di istanze epistemiche profonde dove anche la ‘tecnica’ assume su di sé il ‘pensiero’ e viceversa.

La cosa che più stride poi è che nella cultura accademica ed editoriale umanistica corrente, mentre da molti pulpiti si lanciano protocolli e litanie in cui sembra impossibile non citare le DH (persino per ottenere fondi di ricerca dai Ministeri, nei PRIN o nell’intera gamma dei pro- getti europei, ‘Europeana’ docet...) dall’altro i ‘prodotti’ scientifici ed editoriali delle nostre disci- pline sembrano immutati nei secoli: la ‘forma saggio’ specialistico continua ad essere perseguita soprattutto in modalità ‘cartacea’ (al massimo in PDF...) con uno snobismo disarmante oppure con un opportunismo concorsuale immortale ( il libro, il libro... per vincere il concorso...) all’opposto di quello che giustamente da anni fanno gli scienziati: ovvero gli studi specialistici (ne abbiamo avuto un esempio eclatante con la pandemia e le ricerche che ne sono conseguite) corrono sulla rete, su prestigiose riviste online, gli esiti dei congressi sono a disposizione della comunità scientifica il giorno dopo il congresso stesso grazie all’uso raffinato delle nuove tec- nologie, consentendo così il progresso rapido delle conoscenze; mentre noi, se va bene, diamo alla luce gli esiti di un convegno uno o due anni dopo (e spesso in solo cartaceo!). In altri paesi (giuro, sono testimone diretto) anche dopo otto anni! Al libro cartaceo gli scienziati consegnano i manuali per gli studenti, gli scritti divulgativi ma sempre integrandoli con il sistema dei dati in rete. Aggiungiamo: lo sviluppo tumultuoso imposto alle piattaforme streaming nell’ultimo anno dalla pandemia non ha solo rivoluzionato le forme di comunicazione e interrelazione sociale o lo smart working ma ha supportato la didattica a distanza nelle scuole e nelle università consentendo approcci inediti ai saperi e al loro insegnamento; ha evidenziato la possibilità di attivare congressi e seminari a distanza con ricchi apparati disciplinari squadernati secondo ine- dite prospettive e con folte partecipazioni di studiosi e studenti; ha fatto intravedere la possibilità di nuove prospettive di ricerca mentre si sta in contatto permanente con chiunque stia lavo- rando nei propri ambiti. Non è questo lo scenario perfetto per esemplificare uno dei tanti, pos- sibili campi in cui condurre il ‘gioco’ delle nuove DH senza poi neppure scomodare più di tanto le prassi degli scienziati e le loro procedure e pur consapevoli che streaming e ‘in presenza’ an- dranno sempre dosate e ‘mescolate’ in futuro fra loro?

Da tutto ciò nascono per gli umanisti/letterati tre conseguenze ormai drammatiche: in primo luogo siamo ‘senza pubblico’ (risultato massimo alla lettera per l’ottanta per cento della saggistica letteraria e filologica: i 25 lettori di Manzoni...). Ci sono monografie che vendono davvero solo venti/trenta copie e la maggior parte di esse neppure va in libreria perché i costi della distribu- zione sono altissimi e solo i grandi editori ormai se li possono permettere: parliamo di DH, di streaming, di podcast e pratichiamo il più obsoleto dei cartacei possibili senza dar vita a sistema- tiche e innovative diffusioni dei nostri ‘prodotti’ attraverso la rete e attraverso le straordinarie potenzialità del ‘digitale’ che ad esempio riviste e collane online consentirebbero (uscirà mai una monografia, che so, su Foscolo, online con link contestuali a quadri del tempo, musiche specifiche, immagini di autografi, film, ecc., cose per altro che sono ormai l’abc del digitale?).

Insomma noi italianisti, volenti o nolenti, in molti casi scriviamo cose solo per noi e per un piccolo gruppo di specialisti e talora per i Commissari di un concorso. Una giovane studiosa, Alessandra Di Tella (che ringrazio per i cortesi suggerimenti), rara avis, se non unica, ha co-

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minciato a lavorare su questo tema della saggistica letteraria nell’era del digitale e dell’e-com- merce, e forse dovremmo tenerne conto per la correttezza delle sue analisi e per le prospettive che suggerisce (La monografia digitale: pratiche, potenzialità e prospettive di rinnovamento, in

«Umanistica digitale», 3, 2018). L’editore Il Mulino con Pandoracampus sta sperimentando in queste direzioni ma con dati per ora non del tutto confortanti. Abbiamo per altri versi invece dati che confermano ciò che sostengo: con la fortunata, ventennale esperienza a Bologna della Rivista online open access che ci ospita, ovvero «Griselda» (costruita secondo le più innovative procedure digitali e a fisionomia di vero ‘magazine’ culturale) e che ha conquistato contatti in tutto il mondo, verifichiamo da molti anni e in misura crescente il numero molto alto di lettori che si avvicina a tutti i contributi presenti nel ‘magazine’, persino ai più specialistici, nell’ordine di centinaia e talora migliaia di contatti che nessuna rivista o monografia cartacea neppure lon- tanamente potrebbe garantire.

Seconda drammatica conseguenza: proprio perché non sappiamo ‘pensare’ davvero il digi- tale continuiamo a scrivere in molti casi libri e saggi zeppi di note erudite e dilaganti (che accerchiano e rendono incomprensibile il testo) e di bibliografie ingombranti: ovvero scriviamo come se la rete non esistesse e come se il mondo intero dovesse essere contenuto in quel nostro cartaceo. Peccato che tutto è già all’infinito nella rete con cui non siamo neppure più in grado di competere con il nostro inchiostro: dovremmo invece scrivere saggi o fornire edizioni criti- che ‘narrative’, comprensibili, chiare, sgombre da apparati soffocanti, indicando al lettore i siti e le vie per integrare con la rete il nostro discorso (su questo insiste da molto tempo un grande letterato e filologo come Francisco Rico). L’‘oltremondo’ virtuale esiste con la sua ‘realtà au- mentata’ (come dice Baricco) ed è lì per allearsi col nostro mondo (ci tornerò in conclusione) a dare vitalità, respiro e completezza ai nostri studi ma noi continuiamo imperterriti, come se nulla fosse accaduto, per l’antica via (e intanto predichiamo noiosissimi metadiscorsi sulle DH che neppure usiamo quando sarebbero indispensabili).

Terza disarmante conseguenza: noi italianisti italiani soprattutto pratichiamo il culto (sancito anche dalle regole concorsuali delle discipline umanistiche) della monografia e del saggio indi- viduali! Guai se in un saggio a più mani non distingui nettamente chi ha scritto cosa! Non sei valutabile per fini concorsuali, richiesta fondi, ecc. È cosa anacronistica e paradossale: da tempo remoto gli studi specialistici degli amici scienziati sono ovviamente frutto di importanti équipe di lavoro e come tali sono ‘firmati’ da più autori e solo questa tipologia di studi è valutabile nei loro settori: giacché nessuno potrebbe pensare che, nell’epoca contemporanea, una seria ricerca scientifica possa essere frutto di un solo ricercatore. Il genio singolo è ben noto ma tutti sanno che anche il più grande Nobel della Fisica lavora in gruppo e qui sta la grandezza del grande singolo e di tutti i ricercatori che collaborano in modo imprescindibile con lui. Da noi il lavoro di gruppo esiste ma sempre ‘parcellizzato’ e declamato come sommatoria di singole, ‘sacre’ mani e comunque prevale (siamo nel terzo millennio e forse dovremmo finalmente allinearci al passo delle scienze... cosa vuol dire aver dimenticato l’Illuminismo e lo spirito consociativo dell’Ency- clopédie...) il primato dell’autore singolo e solitario (talora non si comprende neppure se colle- gato a orizzonti complessivi di progetti che guardino allo ‘spirito del tempo’...). In effetti, nell’ambito degli studi di DH in senso stretto, proprio perché questa disciplina nasce profonda- mente segnata fin dall’origine dalla sua componente tecnica/scientifica, il lavoro collettivo e di gruppo ha una sua rilevanza (vedi appunto le modalità della rivista «Umanistica digitale») e c’è

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una certa contiguità, anche nelle pubblicazioni, con i lavori d’équipe delle scienze ma non al punto tale ancora da scalfire in profondità le abitudini di molti studiosi di italianistica come di altre discipline umanistiche. Un uso appropriato delle DH spazzerebbe via quindi residuali, ob- solete procedure di ricerca e di pubblicazione e ci avvierebbe con sofisticati ma semplici ‘pas- saggi’ ad una pratica di continuo lavoro di gruppo, interdisciplinare, ricco di aperture metodi- che, il tutto favorito da quanto appunto le innovazioni tecnologiche coniugate coi nostri saperi e progetti ci possono facilmente consentire. Non accenno neppure, qui, per carità di patria e per non ampliare troppo lo sguardo, al tema dell’editoria scolastica in campo umanistico e spe- cificamente letterario, forse una delle realtà dell’industria culturale più arroccata e chiusa nel nostro paese e proprio nel settore nevralgico dell’educazione e della formazione dei giovani.

Antologie e manuali monstre (fra loro ormai simili e indistinguibili) che più tradizionali di così non si può dominano la scena: apparati, note, schede preliminari e riassuntive, avantesti e do- potesti, esercizi, quiz ( tutti in sostanziale calco del mitico ‘archetipo Baldi’), un aggregato im- pervio insomma cui gli insegnanti talora rimediano, loro sì bravi, proprio cercando di far inte- ragire qualcosa di quella manualistica tradizionale, ‘dura’, con le nuove tecnologie e ravvivando la didattica per i millenials che hanno di fronte con la ‘leggerezza’ calviniana e la snellezza che il digitale, il game ormai consentono con assoluta facilità e senza che si sacrifichi nulla della serietà dell’insegnamento. Una metafora sintetizzerebbe bene questa nuova procedura didattica: di- ciamo che alla canonica frase ‘aprite il libro alla pagina...’ si potrebbe affiancare proficuamente, in stretta connessione, la frase ‘aprite lo smartphone su Google e cercate...’. Se questa interazione fosse approfondita a dovere da editori e insegnanti basterebbero volumi cartacei snelli concepiti come bussole (non casualmente già da anni ma pensando solo all’università la Carocci ha chia- mato ‘Bussole’ una sua collana di snelli volumi didattici), mappe ineludibili da cui poi dare avvio alla ‘navigazione’ di docenti e studenti secondo i loro fini didattici in fruttuosa alleanza con il vasto pelago della rete, del game, formidabili ormai nel consentire di allargare gli orizzonti della didattica e del rinnovamento dell’insegnamento letterario nelle nostre scuole di ogni ordine e grado (vedi appunto le potenzialità dischiuse dalla DAD che non vogliono dire affatto che debba sostituirsi alla didattica in presenza ma integrandosi con essa!). Gli insegnanti sarebbero più ‘liberi’ di percorrere le loro strade preferite senza soffocanti, pletorici apparati di antologie che vorrebbero precostituire percorsi e saperi in gara con una sorta di irraggiungibile modello enciclopedico alla ‘Tiraboschi’ dei nostri tempi (è da molto finita per fortuna l’era, che non rimpiangiamo, de Il Materiale e l’immaginario...). Questa è o dovrebbe essere ad esempio un’altra delle frontiere delle rinnovate DH! Non predico in astratto: il sottoscritto e Loredana Chines insieme a più giovani collaboratori abbiamo curato nel 2019 un’antologia di pagine esemplari di classici italiani per i triennalisti universitari (alias matricole digiune di letteratura...) molto snella e ricca di suggerimenti innovativi ma concepita appunto nella consapevolezza che essa avrebbe fluttuato in un mare immenso ‘fuori’ e oltre le nostre pagine e che continuamente e a livello planetario la rete arricchisce. Abbiamo così concepito un’antologia come fosse una sorta di homepage seria e documentata ma snella ed essenziale che invita ad una integrazione respon- sabile con qualsiasi direzione verso cui il docente poi voglia veleggiare nella realtà digitale e cartacea per gli approfondimenti che ritiene indispensabili. Un editore coraggioso, Pàtron di Bologna, ci ha creduto e il notevolissimo successo di vendite fa capire che forse davvero questa è una delle strade giuste per concepire libri, anche didattici, che già in sé diano per scontata e

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presupposta la cooperazione ‘pensante’ con il digitale delle humanities. Ritorno al punto: se non delimitiamo noi il ‘campo di gioco’ altri ce lo imporranno e saranno i vari giganti come Google, Amazon, Apple, Samsung, Facebook o le stesse piattaforme digitali ‘alla Netflix’ a dettare in un futuro molto vicino i protocolli dei nostri programmi didattici, a dettare la nostra ‘agenda’ (in parte consistente già avviene e quasi non ce ne rendiamo conto), a delimitare il ‘campo di gioco’

e le regole stesse del gioco!

Se quanto detto sopra è vero, allora il perimetro delle DH è ben lungi dal ridursi a qualche astratta disputa su codificazioni, metalinguaggi, filologismi vecchi riverniciati con qualche banca dati nuova ma è ben altro ed è a questo altro cui dovrebbero puntare italianisti e DH nei corsi di laurea e negli insegnamenti (coinvolgendo negli statuti dei corsi di laurea in DH come alleati essenziali in questa ‘ripartenza’ gli esperti disciplinari di letteratura, filologia, immaginario filmico e televisivo, media, pedagogia, musica, ecc.): come facciamo altrimenti ricerca e didat- tica (come formiamo ad esempio i futuri insegnanti) nel rapporto con l’immenso mare, infinito, della ‘realtà aumentata’, esito ultimo della rivoluzione tecnologica che ebbe inizio in California negli anni Settanta del secolo scorso? È decisivo, ad esempio, che l’insegnamento della lettera- tura italiana all’università e nelle scuole faccia i conti con l’universo parallelo e sconfinato che la realtà digitale ci ha dischiuso: anche questo è DH. Ovvero studiare DH vuol dire in primo luogo confrontarsi ad esempio con tutta la serialità narrativa che i supporti digitali hanno dila- tato verso confini impensabili solo fino a un ventennio fa; vuol dire capirne i meccanismi e capire come questa nuova frontiera della narrazione digitale stia cambiando gli statuti stessi della narrativa e della letteratura (cfr. in merito un mio ultimo intervento sul portale di «Griselda»);

vuol dire comprendere come il supporto digitale consenta di squadernare inedite dimensioni dei classici aprendo procedure inesauribili di interpretazione e al tempo stesso frugando nei tormentati percorsi (che finalmente il digitale ci consente di mappare senza fatica) della loro ricezione, magari riscoprendo testi ormai dimenticati e che pure per lunghi periodi ebbero un peso forte nel definirsi dell’immaginario moderno (penso al romanzo barocco italiano o alla millenaria tradizione della ‘Pastorale’, che ha veicolato e veicola una delle più grandi utopie di tutti i tempi, per inciso reinventata dopo la classicità dall’ultimo Dante). Vuol dire aprire oriz- zonti inaspettati all’atto stesso del ‘leggere’ e del leggere ‘ad alta voce’ come dimensione nuova e ‘attiva’ del ‘lettore’ quale l’avevano preconizzata, che so, Borges, Carmelo Bene, Calvino, Stei- ner, Raimondi e che il digitale rende finalmente possibile al suo massimo (ciò che sta accadendo in contemporanea con la musica infatti). Vuol dire in definitiva che le DH, lungi dall’esaurirsi in ‘ancella’ (ma in realtà ‘serva/padrona’) della letteratura, della filologia, dell’archivistica o della paleografia per fini che già prima definivo solo raramente fondati in modo solido, rappresentano oggi il volano imprescindibile per ‘fare’ letteratura, cinema, televisione, archeologia, musica, arte e per ‘insegnare’. Il grande fumettista italiano, ma di fama mondiale, Tanino Liberatore (autore anni fa dello splendido Lucy sulla storia dell’australopiteco da cui si pensa che sia disceso, a partire dall’ Africa, l’homo sapiens) ha detto in una illuminante intervista a ‘Robinson’ del 24 dicembre 2020: «... avevo portato a termine il mio studio sui pennarelli, mi ero stancato e non sapevo più come andare avanti. Quindi il digitale è stata un po’ una liberazione. Il computer mi permetteva effetti speciali altrimenti complicatissimi con altre tecniche. Ed erano utili per rag- giungere il massimo del realismo possibile». Ovvero il computer modificava dall’interno le pro- cedure stesse dell’atto creativo e performativo dell’artista: di questo si stanno occupando a fondo

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oggi i corsi di laurea in DH o gli stessi corsi di Lettere o DAMS? Stiamo attivando corsi/labo- ratori obbligatori di ‘scrittura creativa’, di pratiche teatrali e televisive/filmiche (da sempre pre- senti nei paesi anglosassoni) che sappiano indirizzare studenti e futuri insegnanti verso fertili contaminazioni tra gloriose discipline di antica data e mondo digitale? La domanda è retorica perché so già che la risposta è: no. E allora se non siamo in grado di occuparci di questo di che cosa ci occupiamo di così più importante? C’è davvero qualcosa di più importante? La partita, come sempre, è sulla conoscenza del mondo e su come tentare di insegnarla a docenti e studenti;

e la conoscenza del mondo, mai come oggi in epoca ‘pandemica’ (che ci ha costretto a rivedere molte certezze esistenziali), si nutre di arte, di letteratura, di ‘letture’, di musica, di serialità tele- visiva e cinematografica e soprattutto di rivoluzionari apparati digitali che si connettono stret- tamente, quotidianamente e prodigiosamente a quei saperi e alle loro procedure creando ‘co- munità’ e ‘socialità’ di portata ancora incalcolabile (devices, piattaforme, social, podcast, TV di- gitali, e-commerce, streaming, ecc.). Sono apparati che hanno in comune una strepitosa vocazione a realizzare l’utopia, cara a Marinetti e ai futuristi già un secolo fa, della ‘simultaneità’: mai come oggi io posso ‘creare’ con disinvolta forza perché sono in simultanea connessione con ogni sorta di dati, di saperi, di performances e usando contemporaneamente, e fra di loro ‘linkati’, molteplici devices. Qui non si tratta di qualche gioco di prestigio mirabolante, qui siamo di fronte a una

‘simultaneità’ inedita, e mai prima di oggi neppure concepibile, in grado di mutare profonda- mente gli statuti stessi di ogni disciplina e le modalità del fare ‘arte’ o qualsivoglia intrapresa creativa (quindi anche la politica o l’economia...) tale da cambiare il mondo con impressionante

‘velocità’ (altro mito dei futuristi!). Saremo in grado di collocare noi e le DH all’altezza indi- spensabile per questo compito che finalmente darebbe loro solido fondamento epistemologico e sociale? Questa è la domanda che, almeno come studiosi di letteratura, di filologia, di lingui- stica, di immaginario, di musica dovremmo porci: il dibattito è appena all’inizio; se sappiamo impostarlo con spregiudicata trasgressione promette bene!

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