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I giorni dell eternità

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Academic year: 2022

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Testo completo

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Il libro

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I giorni dell’eternità è l’appassionante conclusione dell’epica trilogia “The Century”, dedicata al Novecento, nella quale Ken Follett segue il destino di cinque famiglie legate tra loro: una americana, una tedesca, una russa, una inglese e una gallese.

Dai palazzi del potere alle case della gente comune, le storie dei protagonisti si snodano e si intrecciano nel periodo che va dai primi anni Sessanta fino alla caduta del Muro di Berlino, passando attraverso eventi sociali, politici ed economici tra i più drammatici e significativi del cosiddetto “Secolo breve”: le lotte per i diritti civili in America, la crisi dei missili di Cuba, la Guerra fredda, le prime sfide per la conquista dello spazio come simbolo di superiorità tra le due superpotenze, gli omicidi dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King, il Vietnam, lo scandalo del Watergate, ma anche i Beatles e la nascita del rock’n’roll.

Quando Rebecca Hoffmann, insegnante della Germania Est, scopre di essere stata spiata per anni dalla Stasi prende una decisione che avrà pesanti conseguenze sulla sua famiglia.

In America, George Jakes, figlio di una coppia mista, rinuncia a una promettente carriera legale per entrare al dipartimento di Giustizia di Robert Kennedy e partecipa alla dura battaglia contro la segregazione razziale. Cameron Dewar, nipote di un senatore del Congresso, non si lascia scappare l’occasione di fare spionaggio per una causa in cui crede fermamente, ma solo per scoprire che il mondo è molto più pericoloso di quanto pensi.

Dimka Dvorkin, giovane assistente di Nikita Chrušcëv, diventa un personaggio di spicco proprio mentre Stati Uniti e Unione Sovietica si ritrovano sull’orlo di una crisi che sembra senza via d’uscita.

I giorni dell’eternità è l’affascinante racconto di un’epoca ricca di svolte la cui eco si fa ancora sentire ai giorni nostri, gli anni della contestazione e dei grandi

movimenti di massa, anni in cui la lotta per la supremazia tra blocco sovietico e blocco occidentale, con il pericolo ricorrente di un conflitto nucleare apocalittico, ha influenzato la vita di milioni di persone.

Con il tocco di un vero maestro, Ken Follett ci porta in un mondo che pensavamo di conoscere, ma che ora non ci sembrerà più lo stesso.

L’autore

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Ken Follett è nato a Cardiff nel 1949 e vive a Londra con la moglie Barbara. Laureatosi in filosofia all’University College di Londra, ha lavorato come giornalista. La sua straordinaria carriera di scrittore inizia nel 1978 con La cruna dell’Ago. Uguale successo mondiale hanno poi ottenuto i successivi romanzi: Triplo, Il codice Rebecca, L’uomo di Pietroburgo, Sulle ali delle aquile, Un letto di leoni, I pilastri della terra, Notte sull’acqua, Una fortuna pericolosa, Un luogo chiamato libertà, Il terzo gemello,Il martello dell’Eden, Codice a zero, Le gazze ladre, Il volo del calabrone, Nel bianco, Mondo senza fine e i primi due titoli della nuova trilogia “The Century” (La caduta dei giganti e L’inverno del mondo), che sono stati a lungo al primo posto nelle principali classifiche.

In Italia, tutti i suoi romanzi sono pubblicati da Mondadori.

www.ken-follett.com Ken Follett

I giorni dell’eternità

I giorni dell’eternità

A tutti coloro che combattono per la libertà, in particolar modo a Barbara

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Personaggi

AMERICANI

Famiglia Dewar

Cameron Dewar

Ursula “Beep” Dewar, sua sorella Woody Dewar, suo padre

Bella Dewar, sua madre Famiglia Peškov-Jakes

George Jakes

Jacky Jakes, sua madre Greg Peškov, suo padre Lev Peškov, suo nonno Marga, sua nonna Famiglia Marquand

Verena Marquand

Percy Marquand, suo padre Babe Lee, sua madre

CIA

Florence Geary Tony Savino

Tim Tedder, in pensione, collabora come freelance Keith Dorset

Altri

Maria Summers Joseph Hugo, FBI

Larry Mawhinney, Pentagono

Nelly Fordham, vecchia fiamma di Greg Peškov Dennis Wilson, assistente di Bobby Kennedy Skip Dickerson, assistente di Lyndon Johnson Leopold “Lee” Montgomery, reporter

Herb Gould, giornalista televisivo di This Day

Suzy Cannon, reporter di cronaca rosa

Frank Lindeman, proprietario di una rete televisiva

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Personaggi storici

John F. Kennedy, 35º presidente degli Stati Uniti Jackie, sua moglie

Bobby Kennedy, suo fratello

Dave Powers, assistente del presidente Kennedy

Pierre Salinger, addetto stampa del presidente Kennedy

reverendo Martin Luther King, Jr, presidente della Southern Christian Leadership Conference

Lyndon B. Johnson, 36º presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, 37º presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, 39º presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, 40º presidente degli Stati Uniti George H.W. Bush, 41º presidente degli Stati Uniti

INGLESI

Famiglia Leckwith-Williams

Dave Williams

Evie Williams, sua sorella Daisy Williams, sua madre

Lloyd Williams, deputato, suo padre Eth Leckwith, nonna di Dave

Famiglia Murray

Jasper Murray

Anna Murray, sua sorella Eva Murray, sua madre

Musicisti dei Guardsmen e dei Plum Nellie

Lenny, cugino di Dave Williams Lew, batterista

Buzz, bassista

Geoffrey, chitarra solista

Altri

Earl Fitzherbert, detto “Fitz”

Sam Cakebread, amico di Jasper Murray

Byron Chesterfield (nome d’arte di Brian Chesnowitz), manager musicale Hank Remington (nome d’arte di Harry Riley), pop star

Eric Chapman, dirigente di una casa discografica

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TEDESCHI

Famiglia Franck

Rebecca Hoffmann

Carla Franck, madre adottiva di Rebecca Werner Franck, padre adottivo di Rebecca Walli Franck, figlio di Carla

Lili Franck, figlia di Werner e Carla

Maud von Ulrich, madre di Carla (nata Lady Maud Fitzherbert) Hans Hoffmann, marito di Rebecca

Altri

Bernd Held, professore

Karolin Koontz, cantante folk Odo Vossler, pastore protestante Personaggi storici

Walter Ulbricht, primo segretario del Partito socialista unificato di Germania (SED, comunista)

Erich Honecker, successore di Ulbricht Egon Krenz, successore di Honecker

POLACCHI

Stanislaw “Staz” Pawlak, ufficiale dell’esercito Lidka, fidanzata di Cam Dewar

Danuta Gorski, attivista di Solidarnosc Personaggi storici

Anna Walentynowicz, gruista

Lech Walesa, capo del sindacato Solidarnosc generale Jaruzelski, primo ministro

RUSSI

Famiglia Dvorkin-Peškov

Tanja Dvorkina, giornalista

Dmitrij Dvorkin, detto “Dimka”, assistente del Cremlino, fratello gemello di Tanja Nina, fidanzata di Dimka

Anja Dvorkina, madre di Tanja e Dimka

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Grigorij Peškov, nonno di Tanja e Dimka Katerina Peškova, nonna di Tanja e Dimka

Vladimir Peškov, detto “Volodja”, zio di Tanja e Dimka Zoja, moglie di Volodja

Altri

Daniil Antonov, redattore dei servizi speciali alla TASS

Pëtr Opotkin, caporedattore dei servizi speciali alla TASS

Vasilij Enkov, dissidente

Natal’ja Smotrova, funzionaria del ministero degli Esteri Nik Smotrov, marito di Natal’ja

Evgenij Filipov, assistente del ministro della Difesa Rodion Malinovskij Vera Pletner, segretaria di Dimka

Valentin, amico di Dimka maresciallo Michail Pušnoj Personaggi storici

Nikita Chrušcëv, primo segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica Andrej Gromyko, ministro degli Esteri sotto Chrušcëv

Rodion Malinovskij, ministro della Difesa sotto Chrušcëv Aleksej Kosygin, presidente del Consiglio dei ministri Leonid Brežnev, successore di Chrušcëv

Jurij Andropov, successore di Brežnev

Konstantin Cernenko, successore di Andropov Michail Gorbacëv, successore di Cernenko

ALTRE NAZIONI

Paz Oliva, generale cubano Frederik Bíró, politico ungherese Enok Andersen, contabile danese

Prima parte

MURO 1961

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Rebecca Hoffmann fu convocata dalla polizia segreta in un piovoso lunedì del 1961.

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Il mattino cominciò come al solito. Il marito l’accompagnò al lavoro con la sua Trabant 500 marrone. Le vecchie e gradevoli strade del centro di Berlino

mostravano ancora gli squarci creati dai bombardamenti durante la guerra, tranne nei punti in cui i nuovi edifici in cemento armato spuntavano come denti finti male assortiti. Hans guidava e rifletteva sul suo lavoro. «I tribunali sono al servizio dei giudici, degli avvocati, della polizia, del governo… di tutti, tranne che delle vittime dei reati» disse. «Ci si può aspettare una cosa del genere nei paesi capitalisti

occidentali, ma in quelli comunisti i tribunali dovrebbero essere al servizio del popolo. I miei colleghi non sembrano rendersene conto.» Hans lavorava al ministero di Giustizia.

«Siamo sposati da quasi un anno, ti conosco da due e non ho ancora incontrato nessuno dei tuoi colleghi» disse Rebecca.

«Ti annoierebbero a morte» si affrettò a ribattere Hans. «Sono tutti avvocati.»

«Ci sono anche delle donne?»

«No. Non nella mia sezione, almeno.» Hans lavorava nel reparto amministrativo:

nomine di giudici, ruoli delle udienze, gestione dei tribunali.

«Mi piacerebbe comunque conoscerli.»

Hans era un uomo forte che aveva imparato a trattenersi. Rebecca lo guardò e nei suoi occhi notò un familiare lampo di rabbia provocato dalla sua insistenza. Hans si controllò con uno sforzo di volontà. «Organizzerò qualcosa. Magari una sera potremmo andare tutti a bere qualcosa in un bar.»

Hans era stato il primo uomo che Rebecca avesse giudicato all’altezza di suo padre. Era sicuro di sé e autoritario, ma l’ascoltava sempre. Aveva un buon impiego – non molti disponevano di un’auto di proprietà nella Repubblica Democratica Tedesca – e chi lavorava per il governo di solito era un comunista integralista, ma Hans, sorprendentemente, condivideva lo scetticismo politico di Rebecca. E, come il padre di Rebecca, era alto, bello e ben vestito. Era l’uomo che lei aveva aspettato da sempre.

Solo una volta, durante il fidanzamento, aveva avuto dei dubbi su di lui, ma per pochissimo tempo. Erano rimasti coinvolti in un piccolo incidente stradale. Era stata tutta colpa dell’altro automobilista, uscito da una strada laterale senza fare attenzione. Cose del genere succedevano tutti i giorni, ma Hans si era infuriato in modo eccessivo. Nonostante i danni riportati dai due veicoli fossero stati minimi, aveva chiamato la polizia, mostrato agli agenti la sua tessera del ministero di Giustizia e fatto arrestare l’altro automobilista per guida pericolosa.

In seguito si era scusato con Rebecca per avere perso il controllo. Lei era rimasta spaventata dalla vena vendicativa di Hans ed era stata quasi sul punto di mettere fine alla loro storia. Ma lui le aveva spiegato che in quell’occasione era fuori di sé a causa delle pressioni al lavoro, e Rebecca gli aveva creduto. Quella fiducia era risultata ben riposta: Hans non aveva più avuto reazioni del genere.

Si frequentavano ormai da un anno, ed erano sei mesi che dormivano insieme quasi tutti i fine settimana, quando Rebecca si era domandata come mai lui non le avesse ancora chiesto di sposarlo. Non erano due ragazzini: lei all’epoca aveva ventotto

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anni e lui trentatré. Così era stata lei a fargli la proposta. Hans era rimasto stupito, ma aveva detto di sì.

Fermò l’auto davanti alla scuola dove insegnava Rebecca. Era un edificio moderno e bene attrezzato: i comunisti prendevano molto sul serio l’istruzione. Fuori dai cancelli, cinque o sei degli alunni più grandi fumavano in piedi sotto un albero.

Ignorando le loro occhiate, Rebecca baciò Hans sulle labbra e scese dall’auto.

I ragazzi la salutarono educatamente, ma lei sentì i loro occhi bramosi di

adolescenti sul proprio corpo mentre attraversava il cortile della scuola sollevando schizzi dalle pozzanghere.

Rebecca proveniva da una famiglia politicizzata. Suo nonno era stato deputato socialdemocratico al Reichstag, il parlamento nazionale, fino a quando Hitler si era impadronito del potere. Sua madre era stata consigliere comunale, sempre per i socialdemocratici, durante la breve democrazia postbellica di Berlino Est. Ma la DDR ora era una tirannia comunista e Rebecca non trovava alcun senso nell’impegnarsi in politica. Di conseguenza convogliava tutto il suo idealismo nell’insegnamento e sperava che la generazione successiva sarebbe stata meno dogmatica, più sensibile e più intelligente.

In sala professori controllò l’orario affisso in bacheca. Quel giorno quasi tutte le sue lezioni erano state raddoppiate: due gruppi di studenti stipati in un’unica aula.

Rebecca insegnava russo, ma avrebbe dovuto tenere anche una lezione di inglese.

Lei non parlava quella lingua, benché ne avesse un’infarinatura grazie alla nonna inglese, Maud, ancora energica e vivace a settant’anni.

Era la seconda volta che le veniva chiesto di tenere una lezione di inglese e

Rebecca cominciò a chiedersi quale testo utilizzare. Nel primo caso si era servita di un volantino distribuito ai soldati americani, ai quali veniva spiegato come

comportarsi con i tedeschi. I ragazzi lo avevano trovato divertentissimo e avevano anche imparato parecchio. Magari quel giorno Rebecca avrebbe potuto scrivere sulla lavagna il testo di una canzone che conoscevano tutti – per esempio The Twist, trasmessa di continuo dalla radio delle forze armate americane – e chiedere alla classe di tradurlo in tedesco. Non sarebbe stata una lezione convenzionale, ma era il meglio che lei potesse fare.

La scuola era disperatamente sotto organico per quanto riguardava gli insegnanti:

metà del corpo docente era emigrato in Germania Ovest, dove gli stipendi erano superiori di trecento marchi al mese e la gente era libera. In quasi tutti gli istituti della Germania Est era la stessa storia. E non riguardava solo gli insegnanti. I medici potevano raddoppiare i loro guadagni trasferendosi in Occidente. La madre di Rebecca, Carla, era capo infermiera in un grande ospedale di Berlino Est e si strappava i capelli per la scarsità di medici e personale. Lo stesso avveniva nell’industria e perfino nelle forze armate. Era una crisi nazionale.

Mentre Rebecca scribacchiava il testo di The Twist su un blocco per appunti, cercando di ricordare il verso che parlava di “my little Sis”, “la mia sorellina”, in sala professori entrò il vicepreside. Bernd Held era probabilmente il migliore amico di Rebecca, al di fuori della famiglia. Slanciato e con i capelli scuri, aveva quarant’anni e una cicatrice che gli attraversava la fronte, ricordo di un frammento

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di shrapnel che lo aveva colpito mentre difendeva le alture di Seelow negli ultimi giorni di guerra. Bernd insegnava fisica, ma condivideva l’interesse di Rebecca per la letteratura russa. Un paio di volte la settimana mangiavano i loro panini insieme durante la pausa pranzo. «Ascoltate tutti» disse Bernd. «Cattive notizie, temo.

Anselm se n’è andato.»

Ci fu un mormorio di sorpresa. Anselm Weber era il preside. Era anche un comunista leale, i presidi dovevano esserlo. Ma, a quanto pareva, i suoi principi erano stati travolti dal fascino della prosperità e della libertà della Germania Ovest.

«Prenderò io il suo posto» proseguì Bernd «finché non sarà nominato un nuovo preside.» Rebecca e ogni altro insegnante della scuola sapevano che quell’incarico avrebbe dovuto essere di Bernd, se fossero state le capacità a contare davvero. Ma lui era stato escluso perché si rifiutava di iscriversi al SED, il Partito di unità

socialista: in tutto e per tutto, nome a parte, il Partito comunista.

Per la stessa ragione, nemmeno Rebecca sarebbe mai diventata preside. Anselm l’aveva pregata di iscriversi al partito, ma la cosa era fuori questione. Per Rebecca sarebbe stato come entrare in un manicomio e fingere che tutti gli altri ospiti fossero sani di mente.

Mentre Bernd spiegava in dettaglio l’organizzazione d’emergenza, Rebecca si chiese quando la scuola avrebbe avuto il suo nuovo preside. Di lì a un anno?

Quanto sarebbe durata quella crisi? Nessuno lo sapeva.

Prima di iniziare le lezioni, controllò la sua casella di posta. Era ancora vuota.

Forse anche il postino si era trasferito in Germania Ovest.

La lettera che le avrebbe sconvolto la vita era in viaggio.

Durante la prima lezione discusse del poema russo Il cavaliere di bronzo con un nutrito gruppo di diciassettenni e diciottenni. Era una lezione che teneva ogni anno fin da quando aveva cominciato a insegnare. Come sempre, guidò gli studenti nell’analisi sovietica ortodossa, spiegando che il conflitto tra interesse personale e dovere pubblico veniva risolto, da Puškin, a favore del pubblico.

All’ora di pranzo si portò il suo sandwich nell’ufficio del preside e si sedette alla grande scrivania, di fronte a Bernd. Lanciò un’occhiata allo scaffale di busti in ceramica dozzinali: Marx, Lenin e Walter Ulbricht, il leader della DDR. Bernd seguì il suo sguardo e sorrise. «Anselm è un furbastro. Per anni ha finto di essere un vero sostenitore del comunismo, e adesso… via! Scomparso.»

«Tu non hai mai la tentazione di andartene?» domandò Rebecca. «Sei divorziato, non hai figli… non hai legami.»

Bernd si guardò intorno, quasi chiedendosi se qualcuno potesse sentirlo, poi si strinse nelle spalle. «Ci ho pensato… chi non lo ha fatto?» ammise. «E tu? Tuo padre lavora a Berlino Ovest, no?»

«Sì. Ha una fabbrica che produce televisori. Ma mia madre è decisa a restare qui, nell’Est. Dice che dobbiamo risolvere i nostri problemi, non evitarli fuggendo.»

«L’ho conosciuta. È una tigre.»

«È vero. E la casa in cui abitiamo appartiene alla sua famiglia da generazioni.»

«E cosa mi dici di tuo marito?»

«È devoto al suo lavoro.»

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«Quindi non devo preoccuparmi di perderti. Bene.»

«Bernd…» cominciò Rebecca. Poi esitò.

«Sputa il rospo.»

«Posso farti una domanda personale?»

«Naturalmente.»

«Tu hai lasciato tua moglie perché aveva una relazione?»

Bernd si irrigidì, ma poi rispose: «Sì, è così».

«Come lo hai scoperto?»

Bernd fece una smorfia, come per un’improvvisa fitta di dolore.

«Ti dispiace che te lo abbia chiesto?» domandò ansiosa Rebecca. «È troppo personale?»

«Non mi dispiace dirlo a te. L’ho affrontata e lei ha ammesso tutto.»

«Ma cosa ti aveva insospettito?»

«Tanti piccoli particolari e…»

Rebecca lo interruppe. «Il telefono che squilla, tu rispondi, c’è qualche secondo di silenzio e poi la persona dall’altra parte riattacca.»

Bernd annuì.

Rebecca continuò. «Tuo marito strappa un appunto e fa sparire i pezzetti di carta nel water. Nei fine settimana viene convocato a una riunione imprevista. La sera passa due ore a scrivere qualcosa che non vuole farti vedere.»

«Oh, accidenti.» Il tono di Bernd era triste. «Stai parlando di Hans.»

«Ha un’amante, giusto?» Rebecca posò il sandwich: non aveva appetito. «Dimmi sinceramente cosa pensi.»

«Mi dispiace moltissimo.»

Una volta Bernd l’aveva baciata. Era successo quattro mesi prima, l’ultimo giorno del trimestre d’autunno. Si stavano salutando e augurando buon Natale quando lui le aveva afferrato un braccio, aveva chinato la testa e l’aveva baciata sulle labbra.

Rebecca gli aveva chiesto di non farlo più, aggiungendo che le sarebbe piaciuto continuare a essere sua amica. Quando erano tornati a scuola a gennaio, entrambi avevano finto che non fosse successo niente. Qualche settimana dopo, Bernd le aveva addirittura confidato di avere un appuntamento con una vedova della sua età.

Rebecca non voleva incoraggiare false speranze, ma Bernd era l’unica persona con la quale potesse parlare, a parte i familiari, che lei però non voleva far preoccupare, per lo meno non ancora. «Ero così sicura che Hans mi amasse.» Gli occhi le si riempirono di lacrime. «E io lo amo.»

«Forse ti ama anche lui. È solo che certi uomini non sanno resistere alle tentazioni.»

Rebecca non sapeva se Hans trovasse soddisfacente la loro vita sessuale. Non si era mai lamentato, ma facevano l’amore più o meno una volta alla settimana, e a lei sembrava poco per una coppia appena sposata. «Tutto quello che voglio è una famiglia mia, come quella di mia madre, una famiglia in cui tutti si amano, si sostengono e si proteggono a vicenda. Pensavo di poterla avere con Hans.»

«Forse puoi ancora averla» disse Bernd. «Una relazione non significa necessariamente la fine del matrimonio.»

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«Il primo anno?»

«È un brutto segno, sono d’accordo.»

«Cosa devo fare?»

«Devi parlare con lui. Chiederglielo. Può darsi che ammetta, oppure che neghi, ma in ogni caso saprà che tu sai.»

«E poi?»

«Tu cosa vuoi? Hai intenzione di divorziare?»

Rebecca scosse la testa. «No, non me ne andrei mai. Il matrimonio è una promessa.

Non puoi mantenere una promessa solo quando ti fa comodo. Devi mantenerla anche contro le tue inclinazioni. È questo che significa.»

«Io ho fatto il contrario. Sicuramente mi disapprovi.»

«Io non ti giudico, così come non giudico nessun altro. Parlo solo per me stessa.

Amo mio marito e voglio che mi sia fedele.»

Il sorriso di Bernd era pieno di ammirazione, ma anche di rimpianto. «Spero che il tuo desiderio si realizzi.»

«Sei un buon amico.»

Suonò la campanella della prima lezione del pomeriggio. Rebecca si alzò in piedi e incartò di nuovo il sandwich. Non lo avrebbe mangiato, né allora né in seguito, ma, come a molti di coloro che avevano vissuto in tempo di guerra, le faceva orrore buttare via il cibo.

Si tamponò gli occhi umidi con un fazzoletto. «Grazie per avermi ascoltato» disse.

«Non ti sono stato di grande conforto.»

«Invece sì.» Rebecca uscì.

Fuori dall’aula dove avrebbe tenuto la lezione di inglese, si rese conto di non avere preparato il testo di The Twist. Comunque faceva l’insegnante da abbastanza tempo per essere in grado di improvvisare. «Chi di voi conosce una canzone intitolata The Twist?» chiese ad alta voce, varcando la soglia.

La conoscevano tutti.

Rebecca andò alla lavagna e afferrò un gessetto. «Quali sono le parole?»

I ragazzi cominciarono a cantare tutti insieme.

Sulla lavagna, Rebecca scrisse: “Come on, baby, let’s do the twist”. Poi domandò:

«Cosa significa in tedesco?».

Per un po’ dimenticò i suoi problemi.

Trovò la lettera nella sua casella di posta all’intervallo di metà pomeriggio. La portò con sé in sala professori e, prima di aprirla, si preparò un caffè istantaneo.

Appena iniziato a leggere, versò il caffè dalla tazza.

L’intestazione dell’unico foglio era “Ministero della Sicurezza dello Stato”. Era il nome ufficiale della polizia segreta: quello ufficioso era Stasi. La lettera era firmata da un certo sergente Scholz, il quale le ordinava di presentarsi nel suo ufficio al quartier generale per rispondere ad alcune domande.

Rebecca asciugò il caffè sul pavimento e si scusò con i colleghi, fingendo che non fosse successo niente, poi andò in bagno e si chiuse a chiave in uno dei box. Aveva bisogno di riflettere prima di confidarsi con qualcuno.

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Tutti nella DDR sapevano di quelle lettere, e tutti avevano paura di trovarne una nella posta. Averla ricevuta significava che Rebecca aveva fatto qualcosa di sbagliato, forse qualcosa di banale, ma che comunque aveva richiamato l’attenzione dei sorveglianti. Lei sapeva, da quello che diceva la gente, che proclamare la propria innocenza non sarebbe servito a nulla. I poliziotti si

sarebbero dimostrati sicuri della sua colpevolezza, altrimenti perché interrogarla?

Suggerire la possibilità di un errore equivaleva a mettere in dubbio la loro competenza, e ciò costituiva un altro reato.

Rileggendo la lettera, notò che l’appuntamento era fissato per le cinque di quel pomeriggio.

Cosa aveva fatto? La sua famiglia era fortemente sospetta, ovvio. Suo padre, Werner, era un capitalista con una fabbrica che il governo della DDR non poteva toccare perché si trovava a Berlino Ovest. Sua madre, Carla, era una nota

socialdemocratica. Sua nonna, Maud, era la sorella di un conte inglese.

Tuttavia era già da un paio d’anni che le autorità non importunavano la sua famiglia, e Rebecca aveva immaginato che il matrimonio con un funzionario del ministero di Giustizia avesse garantito a tutti loro una patente di rispettabilità.

Evidentemente non era così.

Aveva commesso qualche reato? Possedeva una copia dell’allegoria

anticomunista La fattoria degli animali di George Orwell, cosa considerata illegale.

Suo fratello minore, il quindicenne Walli, suonava la chitarra e cantava canzoni di protesta americane come This Land Is Your Land. Rebecca ogni tanto andava a Berlino Ovest per vedere mostre di pittura astratta. Per quanto riguardava l’arte, i comunisti erano conservatori come matrone vittoriane.

Mentre si lavava le mani, si guardò allo specchio. Non aveva una faccia

spaventata. Vide un naso dritto, un mento forte e intensi occhi castani. I capelli scuri e ribelli erano pettinati severamente all’indietro. Era alta e statuaria, e alcuni dicevano che incuteva soggezione. Poteva affrontare una classe di turbolenti diciottenni e ridurla al silenzio con una sola parola.

Ma era spaventata. A terrorizzarla era la consapevolezza che la Stasi poteva fare qualsiasi cosa. I suoi uomini non erano soggetti a vincoli, e lamentarsi del loro comportamento era di per sé un crimine. Quel pensiero le fece venire in mente l’Armata rossa alla fine della guerra. In Germania, i soldati sovietici erano stati lasciati liberi di rubare, violentare e uccidere, e avevano trasformato quella libertà in un’orgia di indicibili barbarie.

L’ultima lezione della giornata di Rebecca fu sulla costruzione della forma passiva nella grammatica russa e si rivelò un disastro, forse la peggiore che lei avesse mai fatto da quando aveva ottenuto l’abilitazione all’insegnamento. Gli studenti non poterono evitare di accorgersi che qualcosa non andava e, in modo quasi

commovente, le vennero incontro, arrivando addirittura a darle suggerimenti

quando si smarriva e non trovava la parola giusta. Con l’appoggio della scolaresca, Rebecca riuscì ad arrivare alla fine.

Al termine delle lezioni, Bernd era chiuso nell’ufficio del preside con alcuni funzionari del ministero dell’Istruzione, presumibilmente per discutere di come

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riuscire a tenere la scuola aperta con metà del personale. Rebecca non voleva andare al quartier generale della Stasi senza avvertire nessuno, nel caso avessero deciso di trattenerla, così scrisse un biglietto per Bernd, informandolo della convocazione.

Poi salì su un autobus e viaggiò lungo le strade bagnate fino a Normannenstraße, nella zona periferica di Lichtenberg.

Il quartier generale della Stasi era un brutto palazzo di uffici appena costruito. I lavori non erano ancora terminati e c’erano bulldozer nel parcheggio e ponteggi a un’estremità dell’edificio. Aveva un aspetto tetro sotto la pioggia, ma non sarebbe sembrato molto più allegro nemmeno con il sole.

Quando varcò la soglia, Rebecca si chiese se sarebbe mai uscita di lì.

Attraversò il vasto atrio, consegnò la sua lettera al banco del ricevimento e fu scortata al piano di sopra. Il livello della paura salì insieme all’ascensore. Rebecca emerse in un corridoio tinteggiato in un’angosciosa sfumatura giallo senape. Venne fatta entrare in una stanzetta spoglia, arredata con un tavolo dal piano di plastica e due scomode sedie di metallo. Nella stanza aleggiava un pungente odore di

vernice. La sua scorta se ne andò.

Rimase a sedere da sola per cinque minuti, tremando. Avrebbe voluto essere una fumatrice: forse una sigaretta l’avrebbe calmata. Si sforzò di non piangere.

Entrò il sergente Scholz. Rebecca ipotizzò che fosse un po’ più giovane di lei, forse sui venticinque anni. Aveva con sé un fascicolo sottile. Si sedette, si schiarì la voce, aprì la pratica e aggrottò la fronte. Rebecca pensò che stesse cercando di darsi importanza e si chiese se quello fosse il suo primo interrogatorio.

«Lei insegna alla scuola secondaria politecnica Friedrich Engels» disse.

«Sì.»

«Dove abita?»

Rebecca rispose, ma era perplessa. La polizia segreta non conosceva il suo indirizzo? Questo forse spiegava come mai la lettera le fosse arrivata a scuola e non a casa.

Dovette fornire i nomi e l’età dei genitori e dei nonni.

«Lei sta mentendo!» esclamò in tono tronfio Scholz. «Dice che sua madre ha trentanove anni e lei ne ha ventinove. L’ha forse partorita a dieci anni?»

«Sono stata adottata» rispose Rebecca, sollevata di poter dare una spiegazione innocente. «I miei veri genitori sono morti alla fine della guerra, quando la nostra casa è stata centrata in pieno da una bomba.» All’epoca Rebecca aveva tredici anni. Le granate dell’Armata rossa piovevano ovunque, la città era in rovina e lei era sola, disorientata e terrorizzata. Adolescente e formosa, era stata scelta per essere violentata da un gruppo di soldati. L’aveva salvata Carla, che si era offerta al posto suo. Ma quell’esperienza terribile l’aveva comunque segnata, rendendola esitante e nervosa riguardo al sesso. Se Hans era insoddisfatto, era sicuramente colpa sua.

Rabbrividì e cercò di scacciare quel ricordo. «Carla Franck mi ha salvato da…»

Rebecca tacque, appena in tempo. I comunisti negavano che i soldati dell’Armata rossa avessero commesso stupri, anche se ogni donna che nel 1945 si era trovata

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nel settore tedesco occupato dai sovietici conosceva la terribile verità. «Carla mi ha salvato» ripeté, tacendo i particolari scabrosi. «In seguito, lei e Werner mi hanno adottata legalmente.»

Scholz stava scrivendo tutto. Non doveva contenere molto quella pratica, pensò Rebecca. Ma qualcosa c’era. Se Scholz sapeva così poco della sua famiglia, cosa aveva suscitato il suo interesse?

«Lei è un’insegnante di inglese.»

«No, non è così. Io insegno russo.»

«Sta mentendo di nuovo.»

«Non sto mentendo, così come non ho mentito prima» ribatté seccamente Rebecca.

La sorprendeva scoprirsi a parlare a quell’uomo con un tono di sfida. Non era più spaventata. Ma forse era un atteggiamento troppo temerario. “Scholz può anche essere giovane e inesperto” si disse “ma ha comunque il potere di rovinarmi la vita.” «Io sono laureata in lingua e letteratura russa» riprese, tentando un sorriso amichevole. «Sono a capo del dipartimento di russo della mia scuola, ma metà dei nostri insegnanti è passata in Occidente e siamo costretti a improvvisare. È per questo che la settimana scorsa ho tenuto due lezioni di inglese.»

«Quindi avevo ragione! E nelle sue lezioni lei avvelena il cervello dei ragazzi con la propaganda americana.»

«Oh, accidenti» gemette Rebecca. «Si tratta dei consigli ai soldati americani?»

Scholz lesse da un foglietto di appunti. «Qui dice: “Tenete a mente che

nella DDRnon c’è libertà di parola”. Questa non è forse propaganda americana?»

«Ho spiegato agli studenti che gli americani hanno un ingenuo concetto premarxista della libertà» rispose. «Immagino che il suo informatore abbia

dimenticato di segnalare questo punto.» Si chiese chi fosse la spia. Doveva trattarsi di uno studente, o forse di un genitore che era stato informato della lezione. La Stasi aveva più spie dei nazisti.

«Qui dice anche: “A Berlino Est non chiedete informazioni agli agenti di polizia. A differenza dei poliziotti americani, quelli della DDR non sono lì per aiutarvi”. Cosa mi dice di questo?»

«Non è forse vero?» ribatté Rebecca. «Da ragazzo, lei ha mai chiesto a un Vopo di indicarle la strada per la stazione della metropolitana?» I Vopo erano gli agenti della Volkspolizei, la polizia della DDR.

«Non poteva trovare qualcosa di più adatto da insegnare ai ragazzi?»

«Perché non viene lei nella nostra scuola a tenere una lezione di inglese?»

«Io non parlo inglese!»

«Neppure io!» gridò Rebecca. Si pentì immediatamente di avere alzato la voce.

Scholz però non era arrabbiato. Anzi, sembrava un po’ intimorito. Era chiaramente privo di esperienza. Ma Rebecca non doveva lasciarsi prendere la mano. «Neppure io» ripeté, più calma. «Di conseguenza devo improvvisare di volta in volta,

utilizzando qualsiasi materiale in lingua inglese riesca a trovare.» Pensò che fosse arrivato il momento di mostrare un po’ di falsa umiltà. «È chiaro che ho commesso un errore e me ne scuso, sergente.»

«Lei sembra una donna intelligente» disse Scholz.

(18)

Rebecca socchiuse gli occhi. Era una trappola? «Grazie per il complimento»

replicò in tono neutro.

«Abbiamo bisogno di persone intelligenti, soprattutto donne.»

Rebecca era confusa. «Per cosa?»

«Per tenere gli occhi aperti, vedere cosa succede, farci sapere quando qualcosa non va.»

Rebecca era sbalordita. Dopo un momento, domandò incredula: «Mi sta chiedendo di diventare un’informatrice della Stasi?».

«È un lavoro importante, di grande responsabilità civica» disse il sergente. «Ed è un lavoro vitale nelle scuole, dove si forma il pensiero dei giovani.»

«Capisco.» In realtà ciò che Rebecca capiva era che quel giovane agente della polizia segreta aveva combinato un pasticcio. Aveva verificato il suo operato al lavoro, ma non sapeva niente della sua famigerata famiglia. Se Scholz avesse indagato sulle sue origini, non l’avrebbe mai contattata.

Rebecca riusciva a immaginare come fosse successo. Hoffmann era uno dei

cognomi tedeschi più comuni e Rebecca non era un nome insolito. Un principiante poco avveduto poteva facilmente commettere l’errore di indagare sulla Rebecca Hoffmann sbagliata.

Scholz riprese a parlare. «Ma le persone che svolgono questo lavoro devono essere completamente sincere e degne di fiducia.»

Quell’affermazione era così paradossale che Rebecca per poco non scoppiò a ridere. «Sincere e degne di fiducia?» ripeté. «Per spiare gli amici?»

«Assolutamente sì.» Scholz sembrò non cogliere l’ironia. «E ci sono dei vantaggi.»

Abbassò la voce. «Lei diventerebbe una di noi.»

«Non so cosa dire.»

«Non deve decidere subito. Vada a casa e ci pensi. Ma non ne parli con nessuno.

Tutto questo deve restare segreto, ovviamente.»

«Ovviamente.» Rebecca cominciava a sentirsi sollevata. Scholz avrebbe presto scoperto che lei era inadatta ai suoi scopi e avrebbe ritirato la proposta. Ma di certo, a quel punto, non avrebbe potuto riprendere a insinuare che lei fosse una propagandista dell’imperialismo americano. Forse sarebbe uscita incolume da quella vicenda.

Scholz si alzò in piedi e Rebecca lo imitò. Possibile che la sua visita al quartier generale della Stasi si concludesse così bene? Sembrava troppo bello per essere vero.

Scholz le tenne cortesemente la porta aperta e poi l’accompagnò lungo il corridoio giallo senape. Vicino all’ascensore, cinque o sei uomini della Stasi discutevano in modo animato. Uno di loro le era sorprendentemente familiare: alto, con le spalle larghe, leggermente curvo, indossava un abito di flanella grigio chiaro che Rebecca conosceva bene. Lo fissò senza capire mentre si avvicinava all’ascensore.

Era Hans, suo marito.

Perché si trovava lì? Il primo, terribile pensiero di Rebecca fu che anche lui

dovesse essere interrogato. Ma un momento dopo si rese conto, dall’atteggiamento del gruppo, che Hans non veniva trattato come un individuo sospetto.

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Allora perché era lì? Il cuore le batteva forte per la paura, ma di cosa?

Pensò che forse il lavoro al ministero di Giustizia richiedesse ogni tanto la sua presenza in quel luogo. Poi sentì uno del gruppo dirgli: «Ma, con tutto il rispetto, tenente…». Rebecca non afferrò il resto della frase. Tenente? I funzionari civili non avevano gradi militari… a meno che non facessero parte della polizia.

Poi Hans la vide.

Rebecca osservò le emozioni che gli passarono sul viso: gli uomini erano facili da leggere. All’inizio Hans aggrottò la fronte nell’espressione perplessa di chi vede qualcosa di familiare in un contesto estraneo. Poi, quando assimilò la realtà di ciò che stava vedendo, spalancò gli occhi per la sorpresa e socchiuse la bocca. Ma fu l’espressione successiva quella che più colpì Rebecca: le guance gli si

imporporarono per la vergogna e Hans distolse lo sguardo con un’inequivocabile aria colpevole.

Rebecca restò in silenzio per qualche istante, cercando di elaborare la scena.

Continuando a non capire ciò che stava vedendo, disse: «Buon pomeriggio,tenente Hoffmann».

Scholz sembrò perplesso e spaventato. «Lei conosce il tenente?»

«Molto bene» rispose Rebecca, sforzandosi di mantenere il controllo mentre un terribile sospetto iniziava a farsi strada dentro di lei. «Sto cominciando a chiedermi se non mi tenga sotto sorveglianza già da un po’ di tempo.» Ma era impossibile…

o no?

«Davvero?» chiese Scholz stupidamente.

Rebecca fissò con durezza il marito, aspettando la reazione alla sua congettura, sperando che scoppiasse a ridere e le desse subito una spiegazione in grado di sgombrare ogni dubbio. Hans aveva la bocca aperta, come sul punto di parlare, ma Rebecca capì che non aveva alcuna intenzione di dirle la verità: anzi, pensò, aveva l’espressione di chi tenti disperatamente di improvvisare una storia e non riesca a inventare qualcosa di plausibile.

Scholz stava per scoppiare in lacrime. «Io non lo sapevo!»

Continuando a fissare Hans, Rebecca disse: «Sono sua moglie».

L’espressione di Hans cambiò di nuovo e, mentre il senso di colpa si trasformava in collera, il suo viso diventò una maschera di rabbia. Poi finalmente parlò, ma non a Rebecca. «Chiudi quella bocca, Scholz.»

A quel punto Rebecca capì, e il mondo le crollò addosso.

Troppo sbalordito per attenersi all’ordine di Hans, Scholz si rivolse a Rebecca:

«Lei è quella Frau Hoffmann?».

Hans si mosse con la velocità dettata dalla furia. Sferrò un potente destro che colpì Scholz in pieno viso. Il giovane agente barcollò all’indietro, con le labbra

sanguinanti. «Stupido idiota» sibilò Hans. «Hai appena mandato all’aria due anni di lavoro sotto copertura.»

“Le strane telefonate, le riunioni improvvise, gli appunti strappati…” rifletté Rebecca. Hans non aveva un’amante.

Era molto peggio.

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Era come inebetita, ma sapeva che quello era il momento giusto per scoprire la verità, mentre tutti erano ancora scossi e confusi, prima che cominciassero a mentire e a inventare storie per giustificarsi. Si sforzò di restare concentrata e, in tono freddo, domandò: «Mi hai sposato solo per spiarmi, Hans?».

Lui la guardò senza rispondere.

Scholz si voltò e si allontanò a passo incerto lungo il corridoio. Hans ordinò:

«Andate a prenderlo». L’ascensore arrivò al piano e Rebecca entrò nella cabina mentre Hans gridava: «Arrestate quell’idiota e sbattetelo in cella!». Si voltò per parlare a sua moglie, ma le porte dell’ascensore si chiusero e Rebecca premette il pulsante del pianterreno.

Attraversò l’atrio con le lacrime che le impedivano quasi di vedere. Nessuno le rivolse la parola: senza dubbio in quel posto era normale vedere gente piangere.

Attraversò il parcheggio battuto dalla pioggia e raggiunse la fermata dell’autobus.

Il suo matrimonio era una finzione. Non riusciva a crederci. Aveva dormito con Hans, lo aveva amato, lo aveva sposato e, per tutto quel tempo, lui l’aveva

ingannata. L’infedeltà poteva essere considerata un errore occasionale, ma Hans le aveva mentito fin dall’inizio. Di certo aveva cominciato a frequentarla al solo scopo di spiarla.

Senza dubbio non aveva mai avuto la minima intenzione di sposarla.

Probabilmente, all’inizio, aveva pensato a un semplice flirt, solo un modo per insinuarsi in casa sua. L’inganno aveva funzionato fin troppo bene. La proposta di matrimonio che lei gli aveva fatto doveva averlo scioccato. Forse era stato costretto a prendere una decisione: lasciarla, e mettere fine alla sorveglianza, oppure

sposarla e continuare il lavoro. Forse i suoi capi lo avevano addirittura obbligato al matrimonio. Come aveva potuto Rebecca farsi raggirare in quel modo?

Arrivò l’autobus e lei salì. Con gli occhi bassi, andò a sedersi in fondo e si coprì la faccia con le mani.

Ripensò al periodo del corteggiamento. Quando gli aveva parlato dei problemi che le avevano creato difficoltà nelle precedenti relazioni – il suo femminismo, il suo anticomunismo, lo stretto legame con Carla –, Hans aveva sempre reagito nel modo giusto. Lei aveva creduto che avessero le stesse idee, quasi miracolosamente.

Non le era mai passato per la mente che lui stesse recitando.

L’autobus arrancava lento attraverso il panorama di vecchie macerie e nuovo cemento verso il Mitte, il centro città. Rebecca cercò di concentrarsi sul proprio futuro, ma non ne fu capace. Riusciva solo a riandare con la mente al passato.

Ripensò al giorno delle nozze, alla luna di miele e al suo anno di matrimonio, vedendo tutto come una commedia che Hans aveva recitato. Lui le aveva rubato due anni, e quel pensiero la fece talmente arrabbiare che smise di piangere.

Ricordò la sera in cui gli aveva chiesto di sposarla. Stavano passeggiando nel Volkspark a Friedrichshain e si erano fermati davanti all’antica Märchenbrunnen, la “fontana delle favole”, per guardare le tartarughe scolpite nella pietra. Lei

indossava un abito blu, il colore che le donava maggiormente, e Hans una giacca di tweed nuova: riusciva sempre a trovare bei capi, nonostante la DDR fosse una landa desolata per quanto riguardava la moda. Tra le braccia di Hans si era sentita sicura,

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protetta, amata. Voleva un uomo per sempre, e Hans era quell’uomo. “Sposiamoci”

gli aveva detto con un sorriso. Lui l’aveva baciata e aveva risposto: “Che idea meravigliosa”.

“Sono stata un’idiota” pensò furente. “Una stupida idiota.”

Ora, però, si spiegava una cosa: il rifiuto di Hans ad avere figli. Aveva detto che prima voleva un’altra promozione e una casa tutta per loro. Non vi aveva mai accennato prima del matrimonio, e Rebecca ne era rimasta sorpresa, data la loro età: lei aveva ventinove anni e lui trentaquattro. Ora conosceva il vero motivo.

Quando scese dall’autobus, era sopraffatta dalla collera. Camminò veloce nel vento e sotto la pioggia fino alla vecchia villetta in cui viveva. Dall’ingresso intravide, attraverso la porta aperta del soggiorno, sua madre che conversava seria con Heinrich von Kessel, il quale dopo la guerra era stato consigliere comunale socialdemocratico insieme a lei. Rebecca passò rapidamente, senza salutare. Sua sorella Lili, di dodici anni, stava facendo i compiti al tavolo della cucina. Rebecca sentì le note del pianoforte a coda in salotto: suo fratello Walli stava suonando un blues. Salì al piano di sopra, dove si trovavano le due stanze che condivideva con Hans.

La prima cosa che vide entrando fu il modellino di Hans. Suo marito ci lavorava da un anno, cioè da quando si erano sposati. Era una riproduzione in scala della Porta di Brandeburgo, fatta con fiammiferi e colla. Tutti i conoscenti di Hans dovevano conservare i fiammiferi usati. Il modellino, ormai quasi ultimato, troneggiava su un tavolo al centro della stanza. Completato l’arco centrale e le due ali laterali, Hans ora stava lavorando alla quadriga sulla sommità, molto più difficile da realizzare.

“Doveva annoiarsi” pensò Rebecca con amarezza. Indubbiamente quel progetto era stato un modo per passare le serate che era costretto a trascorrere con una donna che non amava. Il loro matrimonio era come quel modellino di fiammiferi: una fragile copia di un matrimonio vero.

Andò alla finestra e guardò la pioggia. Dopo un minuto, una Trabant 500 marrone si fermò accanto al marciapiede. Ne scese Hans. Come osava presentarsi a casa?

Rebecca spalancò la finestra, incurante degli scrosci che si riversavano all’interno, e gridò: «Vattene!».

Hans si fermò sul marciapiede e alzò la testa.

Gli occhi di Rebecca si posarono su un paio di scarpe da uomo sul pavimento, accanto a lei. Erano state fatte a mano da un vecchio calzolaio che Hans era riuscito a scovare. Rebecca ne afferrò una e la scagliò contro il marito. Un buon lancio e, anche se Hans provò a scansarsi, la scarpa lo colpì alla testa.

«Sei una pazza scatenata!»

Walli e Lili spalancarono la porta e si fermarono sulla soglia a fissare la sorella maggiore come se fosse diventata un’altra persona, cosa che probabilmente era vera.

«Ti sei sposato per ordine della Stasi!» urlò Rebecca dalla finestra. «Chi di noi due è pazzo?» Gli lanciò contro anche l’altra scarpa, ma mancò il bersaglio.

«Cosa stai facendo?» chiese Lili spaventata.

Walli ridacchiò e disse: «Roba da matti, gente».

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Due passanti si fermarono a guardare e un vicino di casa comparve sullo scalino dell’ingresso, osservando colpito la scena. Hans li fissò tutti con odio. Era un uomo orgoglioso e per lui era una vera agonia essere ridicolizzato così in pubblico.

Rebecca si guardò intorno, cercando qualcos’altro da scagliare contro il marito. Le cadde l’occhio sul modellino della Porta di Brandeburgo.

Poggiava sopra un pannello di compensato. Rebecca lo sollevò. Era pesante, ma poteva farcela.

«Oh!» esclamò Walli.

Rebecca portò il modellino alla finestra.

«Non ci provare! È mio!» gridò Hans.

Rebecca posò la base di compensato sul davanzale. «Mi hai rovinato la vita, tu, scagnozzo della Stasi!» urlò.

Una donna rise, uno sghignazzo sprezzante e beffardo che risuonò al di sopra il rumore della pioggia. Hans avvampò di rabbia e si guardò intorno, cercando di individuare il colpevole, ma non ci riuscì. Che si ridesse di lui era la forma peggiore di tortura.

«Rimetti a posto il mio modellino, puttana!» ruggì. «Ci ho lavorato per un anno!»

«E io ho lavorato per un anno sul nostro matrimonio.» Rebecca sollevò il modellino.

«È un ordine!» urlò Hans.

Rebecca spinse il modellino fuori dalla finestra e lo lasciò cadere.

A metà del volo, l’oggetto si capovolse, la base rivolta verso l’alto e la quadriga di sotto. Sembrò impiegare un secolo per arrivare a terra e per un momento Rebecca si sentì sospesa nel tempo. Poi il modellino si schiantò sul cortile lastricato davanti a casa, con un rumore simile a quello di un foglio che si accartocci. I fiammiferi schizzarono a pioggia verso l’esterno, quindi ricaddero sparpagliandosi sulle pietre bagnate. La base di compensato giaceva al suolo, tutto ciò che c’era stato sopra distrutto.

Hans fissò la scena per qualche istante, a bocca aperta per lo shock. Poi si riprese e puntò un dito contro Rebecca.

«Ascoltami bene» disse, e la voce era così gelida che lei, di colpo, ebbe di nuovo paura. «Te ne pentirai, te lo giuro. Tu e la tua famiglia. Ve ne pentirete per il resto della vita. È una promessa.»

Quindi risalì in auto e se ne andò.

2

A colazione, la madre di George Jakes servì pancake ai mirtilli, pancetta e grits, una specie di porridge. «Se mangio tutta questa roba, dovrò passare alla categoria pesi massimi» disse George, che pesava settantasette chili ed era stato una star dei pesi welter nella squadra di lotta di Harvard.

«Mangia sano e abbondante e lascia perdere la lotta» disse la madre. «Non ti ho tirato su per farti diventare uno stupido atleta fanatico.» Si sedette di fronte al figlio al tavolo della cucina e versò i cornflakes in una ciotola.

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George non era uno stupido, e lei lo sapeva. Stava per laurearsi alla facoltà di legge di Harvard. Aveva dato gli esami finali ed era sicuro, per quanto poteva esserlo, di averli superati. Ora si trovava nella modesta abitazione di sua madre nella contea di Prince George, nel Maryland, alla periferia di Washington. «Voglio solo restare in forma» disse lui. «Magari allenerò la squadra di lotta di una scuola superiore.»

«Questa potrebbe essere una buona idea.»

George la guardò con tenerezza. Un tempo Jacky Jakes era stata carina, lui lo sapeva: aveva visto alcune sue fotografie da adolescente, quando aspirava a

diventare una stella del cinema. L’aspetto di sua madre era ancora giovanile: aveva quel tipo di pelle color cioccolato scuro che non raggrinzisce con l’età. “Good black don’t crack” dicevano le donne negre. “Il nero vero non fa rughe.” Ma la bocca che in quelle vecchie foto si apriva in larghi sorrisi ora piegava gli angoli verso il basso in un’espressione di severa determinazione. Jacky non era mai diventata un’attrice.

Forse non ne aveva mai avuto la possibilità: i pochi ruoli riservati alle negre di solito andavano a bellezze dalla carnagione più chiara. In ogni caso la sua carriera era finita ancora prima di cominciare quando, a sedici anni, era rimasta incinta di George. Si era procurata quel viso scavato dalle preoccupazioni crescendo da sola il figlio per i suoi primi anni di vita, lavorando come cameriera, vivendo in una minuscola abitazione dietro Union Station e inculcando in lui l’etica del duro lavoro, dell’istruzione e della rispettabilità.

«Ti voglio bene, mamma» disse George «ma parteciperò comunque al Freedom Ride.»

Jacky serrò le labbra in segno di disapprovazione. «Hai venticinque anni. Puoi fare quello che ti pare.»

«No, non faccio quello che mi pare. Ho sempre discusso con te ogni decisione importante che ho preso. E probabilmente continuerò così.»

«Tanto non fai quello che ti dico.»

«Non sempre. Ma sei ancora la persona più intelligente che io abbia mai conosciuto, compresi tutti quelli di Harvard.»

«Cerchi di ammorbidirmi con l’adulazione» disse Jacky, ma George vide che era compiaciuta.

«Mamma, la Corte suprema ha stabilito che la segregazione sugli autobus

interstatali e nelle stazioni dei bus è incostituzionale, ma i sudisti sfidano la legge.

Dobbiamo fare qualcosa!»

«E in che modo pensi che possa servire questo vostro viaggio in autobus?»

«Saliremo a bordo qui a Washington e ci dirigeremo a sud. Prenderemo posto davanti, attenderemo nelle sale d’aspetto riservate ai bianchi e chiederemo di essere serviti nei ristoranti per soli bianchi. E se qualcuno protesterà diremo che la legge è dalla nostra parte e che sono loro i criminali e i sobillatori.»

«Figliolo, io so che hai ragione. Non devi convincere me. Conosco la costituzione.

Ma cosa pensi che succederà?»

«Immagino che prima o poi verremo arrestati. Ci sarà un processo e noi potremo sostenere la nostra causa davanti al mondo.»

Jacky scosse la testa. «Spero davvero che ve la caviate così facilmente.»

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«Cosa vuoi dire?»

«Tu sei cresciuto da privilegiato» rispose la madre. «Almeno dopo che il tuo padre bianco è ricomparso nelle nostre vite quando avevi sei anni. Tu non sai com’è il mondo per la maggior parte della gente di colore.»

«Vorrei che non lo avessi detto.» George si sentì ferito: quell’accusa, che gli veniva rivolta anche dagli attivisti neri, lo irritava molto. «Avere un nonno bianco e ricco che mi paga gli studi non mi rende cieco. So come vanno le cose.»

«Allora, forse saprai che farti arrestare potrebbe non essere la cosa peggiore. E se la situazione diventasse violenta?»

George sapeva che sua madre aveva ragione: forse i Freedom Riders avrebbero rischiato più del carcere. Ma voleva rassicurarla. «Ho fatto un corso di resistenza passiva» disse. Tutti coloro che erano stati selezionati per il Freedom Ride erano esperti attivisti dei diritti civili e avevano seguito un programma di addestramento speciale che includeva esercizi con giochi di ruolo. «Un bianco che fingeva di essere un razzista del Sud mi ha dato dello sporco negro, mi ha spinto e strattonato, trascinandomi fuori dalla stanza senza che io opponessi resistenza… Io l’ho

lasciato fare, anche se avrei potuto buttarlo fuori dalla finestra con una mano sola.»

«Chi era quel bianco?»

«Un attivista dei diritti civili.»

«Quindi non era una situazione reale.»

«Naturalmente no. Recitava una parte.»

«Okay» disse Jacky, e dal tono di voce George capì che sua madre intendeva esattamente il contrario.

«Andrà tutto bene, mamma.»

«Non dirò una parola di più. Hai intenzione di mangiare quei pancake?»

«Guardami» disse George. «Abito di mohair, cravatta stretta, capelli corti e scarpe così lucide che potrei usarle come specchio per farmi la barba.» Era solito vestirsi in modo elegante, ma i Riders avevano ricevuto istruzioni di esibire un aspetto ultrarispettabile.

«Stai benissimo, a parte quell’orecchio a cavolfiore.» Era a causa della lotta che l’orecchio destro di George era deformato.

«Chi mai vorrebbe fare del male a un ragazzo di colore così simpatico?»

«Tu non hai idea» ribatté Jacky, all’improvviso arrabbiata. «Quei bianchi sudisti, loro…» Con sgomento di George, gli occhi di sua madre si riempirono di lacrime.

«Oh, Dio, ho solo tanta paura che ti uccidano!»

George allungò un braccio sul tavolo e le prese una mano. «Starò attento, mamma, te lo prometto.»

Jacky si asciugò gli occhi con il grembiule. George mangiò un po’ di pancetta, tanto per farle piacere, ma non aveva appetito: era più in ansia di quanto lasciasse vedere. Sua madre non stava esagerando. Alcuni attivisti dei diritti civili si erano opposti all’idea del Freedom Ride sostenendo che avrebbe potuto provocare violenze.

«Starai parecchio tempo su quell’autobus» disse Jacky.

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«Tredici giorni, da qui a New Orleans. Faremo tappa tutte le sere per riunioni e manifestazioni.»

«Cosa ti porti da leggere?»

«L’autobiografia di Gandhi.» George voleva saperne di più su quel personaggio, la cui filosofia aveva ispirato le tattiche non violente dei movimenti di protesta per i diritti civili.

Jacky prese un libro da sopra il frigorifero. «Forse troverai questo un po’ più divertente. È un bestseller.»

Madre e figlio avevano sempre condiviso i libri. Il padre di Jacky era stato professore di letteratura in un college per negri e lei amava leggere fin

dall’infanzia. Da bambino, George aveva letto insieme a sua madre le storie dei Bobbsey Twins e degli Hardy Boys, anche se tutti gli eroi erano bianchi. Ora si passavano regolarmente i libri che avevano apprezzato di più. George guardò quello che aveva tra le mani. La copertina di plastica trasparente gli diceva che era stato preso in prestito dalla biblioteca pubblica locale. Il buio oltre la siepe. «Ha appena vinto il premio Pulitzer, vero?»

«Ed è ambientato in Alabama, dove stai andando tu.»

«Grazie.»

Pochi minuti dopo George salutò la madre con un bacio, uscì di casa con una valigetta e salì su un autobus diretto a Washington. Scese alla stazione Greyhound in centro, nel cui caffè si era riunito un gruppetto di attivisti dei diritti civili.

George conosceva alcuni di loro dalle lezioni di addestramento: erano un mix di bianchi e neri, uomini e donne, vecchi e giovani. Oltre a una decina di Riders, erano presenti anche alcuni organizzatori del CORE, il Congress of Racial Equality, che promuoveva i diritti civili e l’uguaglianza razziale, un paio di giornalisti della stampa negra e qualche sostenitore. Il CORE aveva deciso di dividere il gruppo in due metà; una sarebbe partita dalla stazione degli autobus Trailways sul lato opposto della strada. Non c’erano cartelli di protesta né telecamere: tutto era così tranquillo da risultare rassicurante.

George salutò un bianco dagli occhi azzurri sporgenti. Era Joseph Hugo, un suo compagno alla facoltà di legge. Insieme avevano organizzato un boicottaggio della tavola calda dei grandi magazzini Woolworth a Cambridge, nel Massachusetts. La catena Woolworth rispettava l’integrazione nella maggior parte degli Stati, ma era segregazionista nel Sud, come il servizio degli autobus. Joe, però, trovava sempre il modo di sparire subito prima di un confronto e George lo aveva etichettato come un codardo benintenzionato. «Vieni con noi, Joe?» chiese, cercando di eliminare lo scetticismo dalla voce.

Joe scosse la testa. «Sono qui solo per augurarvi buona fortuna.» Era solito fumare lunghe sigarette al mentolo con il filtro bianco e ne stava picchiettando

nervosamente una sul bordo di un portacenere di latta.

«Peccato. Tu sei del Sud, giusto?»

«Birmingham, Alabama.»

«Ci definiranno agitatori venuti da fuori. Sarebbe stato d’aiuto avere sul nostro autobus uno del Sud per provare che si sbagliano.»

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«Non posso, ho da fare.»

George non insistette. Lui stesso era già abbastanza spaventato. Se avesse

cominciato a discutere dei pericoli, forse si sarebbe convinto a non andare. Passò lo sguardo sul gruppo. Fu contento di vedere John Lewis, uno studente di teologia dall’aspetto tranquillo e autorevole; era uno dei fondatori dello Student Nonviolent Coordinating Committee, il più radicale dei gruppi per i diritti civili.

Il capo della spedizione chiese silenzio e cominciò una breve dichiarazione per la stampa. Mentre lui stava parlando, George vide scivolare all’interno del caffè un bianco alto sui quarant’anni che indossava un abito di lino spiegazzato. Era bello, anche se pesante, ma il viso mostrava il rossore tipico del bevitore. Sembrava un normale passeggero e nessuno gli prestò attenzione. Andò a sedersi accanto a George, gli passò un braccio intorno alle spalle e lo strinse brevemente.

Era il senatore Greg Peškov, il padre di George.

Il loro legame era noto a molti, soprattutto nel mondo politico di Washington, però mai riconosciuto pubblicamente. Greg non era l’unico ad avere un segreto del genere. Il senatore Strom Thurmond aveva pagato il college a una figlia della domestica di colore della sua famiglia: si mormorava che la ragazza fosse frutto di una relazione con il senatore, cosa che non impediva a Thurmond di essere un feroce segregazionista. Quando Greg era comparso nella vita di George, un perfetto estraneo per il figlio di sei anni, aveva chiesto di essere chiamato “zio”. I due non avevano mai trovato un eufemismo migliore.

Greg era egoista e inaffidabile ma, a modo suo, teneva al figlio. Da adolescente, George aveva attraversato una lunga fase di risentimento nei suoi confronti, ma poi era arrivato ad accettare Greg per quello che era, concludendo che mezzo padre era comunque meglio di niente.

«George» disse Greg a bassa voce «sono preoccupato.»

«Anche la mamma.»

«Cosa ti ha detto?»

«Lei pensa che i razzisti del Sud ci uccideranno tutti.»

«Io non credo che succederà, però potresti perdere il tuo impiego.»

«L’avvocato Renshaw ha detto qualcosa?»

«Diavolo, no, non sa niente di questa storia, non ancora. Ma se ti farai arrestare lo verrà a sapere presto.»

Renshaw, che era originario di Buffalo, era un amico d’infanzia di Greg e socio anziano del prestigioso studio legale Fawcett Renshaw di Washington. L’estate precedente, Greg aveva procurato a suo figlio un impiego estivo nello studio e, come avevano sperato entrambi, quell’occupazione temporanea aveva portato all’offerta di un’assunzione a tempo pieno dopo la laurea. Era un bel colpo: George sarebbe stato il primo negro a lavorare in quello studio con mansioni diverse da quelle di addetto alle pulizie.

«I Freedom Riders non infrangono la legge.» Nella voce di George c’era una punta di irritazione. «Anzi, noi cerchiamo di farla rispettare. I criminali sono i

segregazionisti. Mi sarei aspettato che un avvocato come Renshaw lo capisse.»

(27)

«Lo capisce, però non può assumere una persona che abbia avuto problemi con la polizia. Credimi, sarebbe lo stesso se tu fossi bianco.»

«Ma noi siamo dalla parte della legge!»

«La vita è ingiusta. I tuoi giorni da studente sono finiti: benvenuto nel mondo reale.»

In quel momento il capo del gruppo annunciò: «Per favore, andate tutti a comprare il biglietto e controllate il vostro bagaglio».

George si alzò in piedi.

«Non riuscirò a dissuaderti, vero?» chiese Greg.

Aveva un’aria così demoralizzata che George fu tentato di rinunciare. Ma non poteva. «No, ho deciso» rispose.

«Allora, per favore, cerca almeno di stare attento.»

George era commosso. «Sono fortunato ad avere persone che si preoccupano per me» disse. «Lo so.»

Greg gli strinse il braccio e se ne andò in silenzio.

George si mise in fila con gli altri allo sportello e acquistò un biglietto per New Orleans. Raggiunse l’autobus e consegnò la sua valigetta perché venisse caricata nel vano bagagli. Sulla fiancata dell’autobus c’erano l’immagine di un grande levriero e lo slogan: È UNA TALE COMODITÀ PRENDERE IL BUS E LASCIARE LA GUIDA A NOI. George salì a bordo.

Un organizzatore gli indicò un posto davanti. Ad altri venne detto di sedersi a coppie interrazziali. L’autista non prestò alcuna attenzione ai Riders e i passeggeri normali sembrarono solo blandamente incuriositi. George aprì il libro che gli aveva dato sua madre e lesse la prima riga.

Un attimo dopo l’organizzatore mandò una delle donne a sedersi vicino a George.

Lui la salutò con un cenno del capo. Era contento. L’aveva già incontrata un paio di volte e gli era simpatica. Si chiamava Maria Summers. Era vestita con un

semplice abito estivo di cotone grigio chiaro, accollato e dalla gonna ampia. La sua pelle aveva lo stesso colore caldo e scuro di quello della madre di George, il naso era grazioso e appiattito e le labbra facevano venire voglia di baci. George sapeva che la ragazza frequentava la facoltà di legge a Chicago e che, come lui, stava per laurearsi, per cui probabilmente avevano la stessa età. Riteneva che Maria fosse non solo intelligente, ma anche determinata. Doveva esserlo se era riuscita a entrare alla facoltà di legge superando due handicap: essere donna e nera.

George chiuse il libro mentre l’autista metteva in moto e partiva. Maria abbassò lo sguardo e disse: «Il buio oltre la siepe. L’estate scorsa ero a Montgomery, in

Alabama».

Montgomery era la capitale dello Stato. «Cosa ci facevi là?» chiese George.

«Mio padre è avvocato e un suo cliente aveva citato in giudizio lo Stato. Durante le vacanze lavoravo per papà.»

«Avete vinto?»

«No. Ma non voglio che tu smetta di leggere per me.»

«Stai scherzando? Posso leggere in qualunque altro momento. Quando mai a un tizio in autobus capita di avere di fianco una ragazza carina come te?»

(28)

«Oh, santo cielo» disse Maria. «Mi avevano avvertito che sei un adulatore.»

«Ti svelerò il mio segreto, se vuoi.»

«Okay, di che si tratta?»

«Sono un tipo sincero.»

La ragazza rise.

«Ma, per favore, non divulgare la notizia» aggiunse George. «Mi rovinerebbe la reputazione.»

L’autobus attraversò il Potomac ed entrò in Virginia sulla Route 1. «Adesso sei nel Sud, George» disse Maria. «Hai paura?»

«Ci puoi scommettere.»

«Anch’io.»

La strada era uno squarcio dritto e sottile in mezzo a chilometri e chilometri di foresta verde primaverile. Attraversarono cittadine dove gli uomini avevano così poco da fare che si fermavano a osservare il passaggio dell’autobus. George non guardò molto fuori dal finestrino. Venne a sapere che Maria era cresciuta in una famiglia di stretta osservanza religiosa e che suo nonno era un predicatore. Lui le confessò che andava in chiesa soprattutto per fare piacere a sua madre e Maria ammise che per lei era la stessa cosa. Chiacchierarono per tutto il tempo fino a Fredericksburg, ottanta chilometri di strada.

I Riders si fecero silenziosi quando l’autobus entrò nella storica cittadina dove ancora vigeva la supremazia bianca. La stazione Greyhound si trovava tra due chiese in mattoni rossi con le porte bianche, ma nel Sud la cristianità non era necessariamente un’indicazione attendibile. Quando il veicolo si fermò, George vide i bagni e rimase sorpreso nel constatare che, sopra le porte, non c’erano i cartelli SOLO BIANCHI e SOLO NERI.

I passeggeri scesero e sbatterono le palpebre nel sole. Osservando con più

attenzione, George notò spazi più chiari sopra le porte dei bagni e dedusse che gli avvisi segregazionisti dovevano essere stati tolti da poco.

I Riders misero comunque in atto il loro piano. Per prima cosa, un organizzatore bianco entrò nello squallido bagno sul retro, chiaramente previsto per i negri. Ne uscì illeso, ma quella era la parte più facile. George si era già offerto volontario come persona di colore che avrebbe sfidato le regole. «Ci siamo» disse a Maria, ed entrò nel bagno pulito e tinteggiato di recente il cui cartello SOLO BIANCHI era stato senza dubbio appena rimosso.

In bagno c’era un giovanotto bianco che si stava pettinando il ciuffo alto sulla fronte. Lanciò un’occhiata a George nello specchio, però non disse nulla. George era troppo spaventato per fare pipì, ma non poteva semplicemente uscire, così si lavò le mani. Il giovane se ne andò ed entrò un uomo più anziano, che si chiuse in un box. George usò l’asciugamano a rullo poi, non essendoci altro da fare, uscì.

Gli altri stavano aspettando. George si strinse nelle spalle. «Niente. Nessuno ha cercato di fermarmi, nessuno ha fatto commenti.»

«Io ho chiesto una Coca-Cola al banco e la cameriera me l’ha servita» disse Maria.

«Credo che qualcuno qui abbia deciso di evitare problemi.»

(29)

«Andrà così fino a New Orleans?» chiese George. «Si comporteranno come se niente fosse e poi, appena ce ne saremo andati, imporranno di nuovo la

segregazione? Questo, in pratica, ci farebbe mancare il terreno sotto i piedi!»

«Non preoccuparti» disse Maria. «Conosco quelli che governano l’Alabama e, credimi, non sono così intelligenti.»

3

Walli Frank stava suonando il piano nel salotto di sopra. Lo strumento era uno Steinway a coda che suo padre teneva accordato per la nonna Maud. Il ragazzo stava ripassando il riff di A Mess of Blues, un disco di Elvis Presley. Era in do, e ciò rendeva tutto più facile.

La nonna stava leggendo i necrologi sul “Berliner Zeitung”. A settant’anni, la sua figura era snella e dritta nell’abito blu scuro di cachemire. «Suoni bene quel tipo di musica» disse, senza alzare gli occhi dal quotidiano. «Oltre agli occhi verdi, hai ereditato anche il mio orecchio. Tuo nonno Walter, al quale devi il nome, non è mai riuscito a suonare il ragtime, che riposi in pace. Ho cercato di insegnarglielo, ma era senza speranza.»

«Tu suonavi il ragtime?» Walli era sorpreso. «Io ti ho sempre sentito suonare solo musica classica.»

«Il ragtime ci ha evitato di morire di fame quando tua madre era bambina. Dopo la Prima guerra mondiale, suonavo in un club che si chiamava Nachtleben, proprio qui a Berlino. Ogni sera venivo pagata con miliardi di marchi, che bastavano appena per comprare il pane. Ma a volte ricevevo mance in valuta straniera e con due dollari potevamo vivere bene per una settimana.»

«Cavolo.» Walli non riusciva a immaginare quella sua nonna dai capelli d’argento suonare il piano in un nightclub e accettare mance.

Entrò sua sorella. Lili aveva quasi tre anni meno di lui e in quel periodo Walli non sapeva bene come trattarla. Fin da quando riusciva a ricordare, Lili era sempre stata una spina nel fianco, come un ragazzino, ma più sciocca. Ultimamente, però, era diventata più ragionevole e, a complicare le cose, ad alcune delle sue amiche era cresciuto il seno.

Walli voltò le spalle al piano e afferrò la chitarra. L’aveva acquistata l’anno prima in un banco dei pegni a Berlino Ovest. Probabilmente era stata impegnata da un soldato americano in cambio di un prestito che poi non aveva mai ripagato. La chitarra era una Martin e, sebbene fosse costata poco, a Walli sembrava un ottimo strumento. Riteneva che né il titolare del banco dei pegni né il soldato si fossero resi conto del suo vero valore.

«Senti questa» disse a Lili, e cominciò a cantare un motivo delle Bahamas

intitolato All My Trials. Il testo era in inglese. Walli aveva sentito la canzone sulle stazioni radio occidentali: era popolare tra i gruppi folk americani. Gli accordi minori la rendevano malinconica e Walli era soddisfatto del dolente

accompagnamento fingerpicking, pizzicato, che lui eseguiva.

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