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EPISTOLA DEDICATORIA

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Academic year: 2022

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EPISTOLA DEDICATORIA

A John Hamilton, illustrissimo e reverendissimo arcivescovo di Sant’Andrea, legato del sommo Pontefice e della Santa Sede,

preside della chiesa e del regno di Scozia, da parte di Girolamo Cardano, medico milanese.

Nessuna cosa, o sommo arcivescovo, è così degna dell’uomo e così piacevole come conoscere e sapere le cose che la natura ha nascosto fra i suoi arcani. Niente è così eccellente e magnifico come capire e contemplare la più grande opera di Dio. Poiché l’astrologia comprende entrambe queste cose, sia la più grande opera divina che è la macchina celeste, sia l’arcana conoscenza degli eventi futuri, giustamente questa disciplina è stata ritenuta da tutti i sapienti la più eccellente. Coloro che hanno affron- tato una così grande impresa, per trovare, aumentare e riverire conoscenze utilissime ai mortali, sono stati venerati come divinità dagli antichi, ignari di Dio ottimo mas- simo. Se tale errore fosse serpeggiato senza che venisse disprezzata la vera divinità, sarebbe risultato tollerabile: infatti quando innalziamo lo sguardo alle opere di Dio, quando comprendiamo le sue leggi, quando avvertiamo le cose segrete e la sua gran- dezza dalle opere, veneriamo la sua sapienza dall’ordine, la sua bontà dalla sapienza a noi concessa. Come è possibile infatti, considerando l’artefice di una sì grande mole, le leggi eterne dei movimenti, la scienza delle cose segrete a noi offerta, non temere subito la sua potenza, non ammirare la sua sapienza, non amare la sua bontà? Un filosofo aveva ammonito Augusto a recitare l’alfabeto greco, prima di intraprendere qualsiasi cosa,1 insegnando cioè, con un consiglio salutare, che bisogna interporre un intervallo di tempo alle decisioni.

Ma il consiglio sarebbe ancora più salutare se qualcuno esortasse a guardare in cie- lo, almeno una volta ogni notte, le stelle e considerare il loro splendore, movimento, ordine e grandezza: e da qui considerare quale grande artefice le abbia create. Infatti, meditando su tali aspetti spesso e ripetutamente, queste cose verranno alla mente: la memoria dell’eternità, la fragilità della nostra condizione, la vanità dell’ambizio- ne, l’acre ricordo dei delitti. Di qui il disprezzo per una vita così breve, che anche se durasse cent’anni, che cosa è mai rispetto all’immensa grandezza dell’eternità? Non è forse un piccolo punto rispetto al cerchio? Che cosa tutta quanta la felicità umana? Che se qualcuno l’ha potuta provare, sia pure tu, non è forse vento, fumo, sogno? Se qualcuno si trova in tale condizione, tutta la felicità risiede nella contemplazione e nell’ammirazione delle opere divine, e poiché l’astrologia comprende entrambe le cose, a buon diritto essa deve comprendere tutta l’umana felicità. E questa contempla- zione dell’eternità ci rassicura nelle avversità quando consideriamo il breve passaggio di questo tempo oneroso e la necessità imposta del fato, che diviene più leggera quan- do si tempera a poco a poco con un’assidua meditazione e diventa quasi familiare.

Ma ora abbandoniamo queste riflessioni e volgiamo il discorso all’umana utilità.

Che cosa ci può essere di più utile che conoscere le cose future? Che cosa di più pia- Per la traduzione tengo presente il testo della princeps (1554), riprodotto dalla successiva del 1578, alla cui paginazione rinvio per comodità, in quanto risulta consultabile on line.

1 Il filosofo stoico Atenodoro di Tarso (74 a.C.-7 d.C.), maestro e consigliere spirituale di Augusto: cfr. Plinio il Giovane, Epist. vii, 27.

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cevole che essere partecipe almeno in parte di una qualche divinità? Chi è mai un buon astrologo se non qualcuno che comunica le decisioni che avvengono nei cieli? Un autore diceva:

Lì Albumasar chiede consiglio alle stelle, ai poli, al cielo ed ai sette pianeti, e riferisce i loro consigli alle terre, armando e rafforzando le cose caduche contro le ire celesti ed il furore degli dèi.1

Ma poiché in ogni più nobile disciplina si insinuano sempre i più grandi vizi, alcuni per colpa di coloro i quali, pur non conoscendola, si vantano di saperla, altri per colpa di coloro che la conoscono, ma la usano male, anche in questa dottrina, per quanto nobilissima, si sono introdotti pessimi vizi e una schiera infinita di ciarlatani, i quali hanno deformato e sporcato l’arte al punto che di essa non sopravvive neppure una traccia. Fra tanti Albumasari, Abenragel, Alcabizi, Albubatri, Zaeli, Messalla, Bethen, Firmici, Bonatti2 di buona memoria che cosa è rimasto e sopravissuto a tanti imposto- ri? A tante sciocchezze? Ciò è avvenuto in quanto quest’arte era, come ognuno può appurare, tanto più difficile quanto più divina, e simili incompetenti hanno finto di volere ridurre in compendio quello che non riuscivano a conseguire.

In mancanza di altro, tutti facevano ricorso a costoro, ma la divina bontà, provan- do pietà per il genere umano, ci ha elargito Tolomeo, il solo che si distingue fra tante migliaia di sicofanti,3 il quale ha innalzato e portato alla luce l’arte che giaceva nelle tenebre. Egli risulta senza dubbio degno di onori erculei e anche maggiori di questi.

Con arte straordinaria, somma diligenza, grandissime fatiche, sorretto da una grande felicità e dalla lunghezza della vita, egli non solo ha descritto i percorsi delle stelle er- ranti e di quelle fisse, le loro grandezze e le loro altre passioni, ma anche i loro decreti e presagi con tanta sottigliezza di ingegno che ha tenuto alla larga tutti i mortali da questa arte, senza attrarne alcuno. Per questo è avvenuto di nuovo che si sia costi- tuita questa schiera di imbroglioni, mentre la dottrina giaceva nel libro di Tolomeo nell’abbandono e nelle tenebre. Tolomeo sapeva bene che questo sarebbe successo, ma preferì scrivere la verità in modo oscuro piuttosto che bugie e favole in modo perspicuo, con la speranza che in futuro ci sarebbe stato finalmente qualcuno capace di spiegare questi suoi monumenti. Questo libro è rimasto sepolto per 1400 anni così trascurato che, se non fosse stato difeso dal nome dell’autore, sarebbe andato perduto con grandissimo danno delle buone lettere. Né io ho affrontato volontariamente un tanto ampio campo del sapere, visto che temevo il nome di audace più che di felice espositore. Il caso e la volontà divina hanno voluto che mi persuadessi a fare ciò che non avrei fatto né spontaneamente né in modo volontario.

Ero giunto a Lione, diretto a Parigi per offrire il mio aiuto per la tua salute. Avevo portato con me solo pochi libri, sperando di ritornare in patria entro breve tempo.

1 È una citazione, con piccoli adattamenti, dall’Anticlaudianus, iv, i, vv. 62-65, poema didat- tico-allegorico del teologo e filosofo Alano di Lilla (ca. 1125-1202); cito dalla versione italiana, con testo lat. a fronte, in Alano di Lilla, Viaggio della saggezza. Anticlaudianus. Discorso sulla sfera intelligibile, a cura di C. Chiurco, Milano, Bompiani, 2004, pp. 174-175.

2 Oltre ai più famosi astrologi della tradizione araba, i cui testi erano stati pubblicati in rac- colte astrologiche fra la fine del xv e i primi decenni del xvi secolo, Cardano cita Giulio Firmi- co Materno (iv sec.), autore degli otto libri latini della Mathesis, e il forlivese Guido Bonatti, il più famoso astrologo del xiii secolo, autore di un Tractatus de astronomia più volte ristampato.

3 Il sicofante era colui che si faceva pagare per sostenere false accuse in tribunale.

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Invece mi hai ordinato di venire in Scozia e considerando questa proposta, mi sono reso conto che avrei trascorso un lungo periodo di tempo lontano. Per un caso del tutto fortuito, un tale mi aveva dato in dono questo libro di Tolomeo, mentre ne stavo cercando un altro. Appena l’ho visto, per non perdere tutto quel tempo, mi metto al lavoro; la necessità stessa aveva infuso coraggio. Compro dei libri, ne ricevo in dono altri che ritenevo necessari all’impresa. Credo che l’occasione sia stata offerta da Dio, soprattutto per il fatto che, pur avendo dei cavalli, ho preferito viaggiare in nave, per raggiungere Parigi da Lione lungo il fiume, e durante il viaggio ho dato inizio al lavo- ro senza nessun altro aiuto se non quello dei commenti dell’arabo Haly e di un com- mentatore sconosciuto.1 Tuttavia anche così ho ottenuto risultati tali che, per quanto non possa affermare di avere offerto un’esposizione completa del testo (ciò che avreb- be richiesto un lavoro infinito), mi sembra, mentre la rileggo, di averlo accompagnato con una spiegazione così incomparabile, che chi la esamini con attenzione possa di- chiararsi pienamente soddisfatto.

Pertanto, poiché adesso Tolomeo emerge chiarito per gli studiosi, non si potrebbe stampare sotto auspici migliori di quelli della tua persona, dalla cui umanità e gene- rosità è stata offerta una così grande occasione a me e a tutti i dotti di fruire del col- loquio con un uomo di tanto valore. Senza dubbio sono propenso a credere che non senza una divinità è successo che gli scritti di un così grande autore fossero riscattati dallo squallore e dalle tenebre, e al tempo stesso si desse soddisfazione agli auspici di tanti studiosi di questa arte: e che la testimonianza perpetua delle tue egregie virtù, che si irraggiano per così dire da un angolo della terra per tutto il mondo, si diffondes- se ai posteri. Dopo aver provato una simile felicità, e anche più grande, per aver ritro- vato molte cose cercate invano, nel corso di molti non solo secoli ma migliaia di anni, da tanti illustri ingegni, senz’altro a me superiori – come testimoniano i libri dell’Ars magna, del giardino dei numeri, l’Ars parva, i libri sulla sottigliezza, sulla varietà delle cose, e di musica e innumerevoli altri2 –, confidando per questi stessi commentari nella guida di uno studioso come Tolomeo, sono sicuro che nessuna ingiuria dei tem- pi potrà mai strappare o estinguere il tuo nome qui affisso. Senza dubbio conveniva che fosse onorato il ricordo tanto raro di un uomo così illustre, pio, affabile e sapien- te quale – e chiamo a testimoni gli dèi – mi sia mai capitato di vedere o ascoltare o leggere, e al tempo stesso della tua famiglia, peraltro illustrissima, che tuttavia anche soltanto la tua persona avrebbe potuto illustrare con virtù e opere così egregie.

In passato avevo in orrore il nome della Scozia, seguendo l’esempio di coloro che 1 La traduzione latina dal testo greco dei primi due libri era disponibile dal 1535, ad opera di Gioachino Camerario (Norimbergae, ap. Io. Petreium); in anni successivi si era aggiunta quella dei libri terzo e quarto: Cl. Ptolemaeus, Opus quadripartitum, adiectis libris posteriori- bus, Antonio Gogava Graviensi interprete, Lovanii, ap. P. Phalesium ac M. Rotarium, 1548. In precedenza, risultavano accessibili le traduzioni latine medievali del testo arabo con il com- mento di Aly ibn Ridwa¯n (998-1061); l’anonimo autore di un commento al testo tolemaico era generalmente identificato in Proclo (In Claudii Ptolemaei Quadripartitum enarrator ignoti nominis quem tamen Proclum fuisse quidam existimant […], Basileae, ex off. Petriana, 1559).

2 Oltre ad alcuni dei suoi testi più famosi come il De subtilitate, il De varietate rerum, l’Ars magna (l’Ars parva sarà un perduto commento all’Ars medica di Galeno, poi ricomposto: vd.

Opera, vii, pp. 143-198; per il De musica, si veda ivi, x, pp. 105-116), Cardano cita un testo dal titolo di Horti numerorum: l’allusione è oscura e forse si tratta del breve commento a Euclide De numeris proprietatum, in Opera, iv, pp. 1-12.

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cominciano ad odiare prima di conoscere. Ma adesso a quel popolo, che già di per sé è gentilissimo e civile oltre ogni aspettativa, tu aggiungi un ornamento così grande che risulta di gran lunga più nobile per merito del tuo nome. A che vale ricordare l’Accademia da te innalzata a sant’Andrea, la ribellione sedata, la patria liberata, l’au- torità difesa di tuo fratello, uomo illustrissimo e ottimo? Questi sono soltanto segni di una sì grande virtù, non prove. E la generosità nei confronti dei poveri? Per non parlare di altro. Ho preferito ricordare solo questi aspetti dell’ottimo pastore quale tu sei, per misurare da essi gli altri, piuttosto che rischiare di omettere alcuni meriti. Io che apprezzo in te ogni cosa, ammiro sopra ogni altra, come un miracolo, la tua forza d’animo. Quando ti vedo soffrire per i terribili dolori della tua crudelissima malattia, e vedo che non sei triste né spaventato dal timore della morte, ma al contrario ilare e sorridente, dico fra me: costui solamente è davvero un uomo. E se lo sono quelli a lui simili per questo aspetto, noi siamo del tutto delle ombre.

A che giova a tanti filosofi chiacchieroni disquisire sull’immortalità dell’anima, sul- la forza d’animo e poi impallidire per ogni minima difficoltà? È chiaro che quelle sono delle mere sciocchezze; tu viceversa sei forte davvero, sei davvero pio. Non ti manca pressoché nulla riguardo alle soddisfazioni della vita, dal momento che sei quasi bea- to, sempre che le cose umane possano rendere beato qualcuno: hai le più alte cariche, una famiglia potentissima, un fratello e il figlio del fratello prìncipi, ricchezze immen- se, una servitù fidata, le suppellettili più splendide, un numero pressoché infinito di amici a loro volta nobilissimi, l’amicizia dei re, l’amministrazione di grandi affari, l’al- tissima stima che ha di te il sommo pontefice, e questo per quanto riguarda i beni este- riori.1 Quanto a quelli interiori, la conoscenza di molte lingue, una erudizione così grande dei testi sacri che si può affermare che non sei secondo a nessuno, una mente pia, un animo sincero, una estrema prudenza e abilità, una pazienza ancora maggiore.

Con questo mio elogio avrei timore di venire annoverato anch’io (che a mala pena mi fido solo dei miei sensi) fra quanti inventano degli elogi dei prìncipi per assecondare i loro desideri, se molti non sapessero che non ho mai detto bugie e se la tua fama non fosse anche maggiore presso coloro che ti conoscono.

Pertanto poiché, o massimo arcivescovo, in te ci sono molte più doti di quante pos- sano essere da me manifestate, ricevi quest’opera dedicata al tuo nome e a te dovuta per la tua generosità e virtù e per una specie di nume che è più grande di tutto questo, con quel benevolo aspetto con il quale sei solito accogliere il suo autore, come un pe- gno certo ed eterno della mia benevolenza nei tuoi confronti, della mia fedeltà e del mio ossequio, perché quando sarò tornato in patria anche tu possa essere con me e io possa conservare l’immagine dei benefici da te ricevuti.

Addio. Milano, 16 giugno 1553.

1 Tutti questi aspetti fortunati subirono un tragico crollo nell’ultimo ultimo periodo della vita dell’Hamilton che, travolto da vicende politico-religiose, fu impiccato nel 1571.

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(1493-1541)

Medicina e alchimia

La medicina non è solo una scienza; è anche un’arte. Non consiste nel preparare pillole e cerotti; ha a che fare con i processi stessi della vita, che devono essere compresi prima di poter essere seguiti.

Se conosciamo l’anatomia dell’uomo interiore, possiamo vedere la natura delle sue malattie al pari dei rimedi. Ciò che vediamo con gli occhi esterni è l’ultima materia.

La natura causa e cura le malattie, ed è quindi necessario che il medico conosca i processi della Natura, l’uomo invisibile al pari dell’uomo visibile.

Il ciarlatano studia le malattie negli organi colpiti, dove non trova altro che effetti già avvenuti, e [resta] sempre un ignorante per quello che riguarda le cause. Il vero medico studia le cause delle malattie studiando l’uomo universale.

L’origine delle malattie è nell’uomo e non fuori di esso; ma le influenze esterne agiscono sull’intimo e fanno sviluppare le malattie. Un medico [...] dovrebbe conoscere l’uomo nella sua interezza e non solo nella sua forma esterna.

Ogni uomo ha in sé il firmamento intero che riproduce le costellazioni e gli consente di integrarsi nel ritmo e nel soffio eterno del cosmo.

L’uomo è più soggetto alle malattie che non gli animali in stato di libertà, perché questi vivono in armonia con le leggi della loro natura, mentre l’uomo agisce continuamente contro le leggi della propria natura, specialmente nel mangiare e nel bere. Finché il suo corpo è forte, può espellere o superare le dannose influenze continuamente causate dalla sua intemperanza, dalla sua ghiottoneria e dai suoi gusti morbosi; ma un tale continuo sforzo di resistenza implica una seria perdita di vitalità e verrà un tempo in cui una malattia ne sarà il risultato, perché l’organismo richiede un periodo di riposo e un rinnovo di forze per espellere gli elementi velenosi accumulati.

Tutte le cose sono un ente, doppio, perché divine e umane, triplo perché spirituali, e dotate

di anima e di corpo: un olio (=zolfo), una pietra (=pietra filosofale =mercurio), un

carvunculus (=sale).

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GIROLAMO CARDANO (1501-1576)

Diremo dunque che sono segreti sia le cose conosciute, ma la cui ragione non è tanto chiara da renderle necessariamente note ai più, nonostante il loro uso sia stato appreso da molte più persone, sia quelle occulte, e non ancora scoperte, di cui ci sono certi “semi” della scoperta; o poiché è necessario che vengano scoperte casualmente per l’abbondanza e l’uso frequente della cosa nella quale è situata quella forza. Invece le cose che non saranno mai messe allo scoperto e quelle che si fondano su ragioni manifeste, quand’anche non ancora scoperte, non sono degne di essere chiamate segreti.

(De secretis 1562)

GIAMBATTISTA DELLA PORTA (1535-1615)

La magia naturale

Ci sono due tipi di magia: l’una è nefanda e scellerata, perché ha a che fare con spiriti immondi, e consiste in incantesimi e malvagie superstizioni; e questa è chiamata stregoneria, un’arte che tutti i dotti e i buoni uomini detestano; non è in grado di produrre alcuna verità della ragione e della natura, ma si basa solo su fantasie e immaginazioni, che svaniscono subito e non lasciano nulla dietro di loro, come scrive Giamblico nel suo libro sui Misteri degli Egizi. L’altra magia è quella naturale, che tutti i saggi ammettono, abbracciano e venerano con grande plauso; non vi è nulla di più stimato o considerato dagli uomini dotti. I più nobili filosofi che siano mai esistiti, Pitagora, Empedocle e Platone, abbandonarono i loro paesi e vissero all’estero come esiliati e banditi, piuttosto che come stranieri; e tutto per cercare e raggiungere questa conoscenza; e quando tornarono a casa, questa era la scienza che professavano e che consideravano un profondo mistero.

Coloro che sono stati più abili nei punti oscuri e nascosti del sapere, chiamano questa conoscenza il punto più alto e la perfezione di tutte le scienze naturali, tanto che se potessero trovare o escogitare tra tutte le scienze naturali una cosa più eccellente o più meravigliosa di un’altra, questa chiamerebbero con il nome di magia.

Conoscendo bene queste cose, il mago fa congiungere il cielo e la terra, e il contadino sposa gli olmi alle viti; o, per parlare più chiaramente, egli marita e accoppia gli elementi inferiori con i loro meravigliosi doni e poteri, che hanno ricevuto dagli elementi superiori: e con questo mezzo egli, essendo per così dire il ministro della Natura, ne cava i segreti nascosti e li porta alla luce dopo averli trovati veri attraverso la sua assidua ricerca, affinché tutti gli uomini possano conoscere, lodare e onorare l’onnipotente potenza di Dio, che ha così meravigliosamente strutturato e disposto tutte le cose.

In questo libro vengono trattati i più nascosti segreti che sono sepolti nel più riposto seno della Natura, per i quali non si possono dare né principi naturali né spiegazioni probabili - ma non per questo sono superstizioni.

Cominciai a esaminare i rituali magici e le parole senza valore, e scoprii che gli effetti derivavano da cause naturali; e semplicemente sperimentando su queste cose, e arrivando alla verità, smascherai (detexi) le frodi e gli inganni diabolici.

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