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IL SIGNIFICATO DELLA STORIA

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IL SIGNIFICATO DELLA STORIA

Che cosa significa il termine storia?: Se prendiamo in mano il Dizionario di Filosofia della Garzanti, dove possiamo trovare una definizione più approfondita del termine di quanto non potremmo fare in un qualsiasi dizionario della lingua italiana, scopriamo che al pari di tanti altri il termine storia deriva dalla culla della cultura della nostra civiltà, la Grecia antica, e più propriamente dalla parola historìa, che significa letteralmente «descrizione, resoconto», ma anche ricerca, un riferimento questo che genericamente ha conservato nella lunga evoluzione del pensiero occidentale. Già in epoca classica, infatti, il termine era lentamente divenuto più specifico fino a voler intendere «il resoconto delle azioni umane e degli eventi conseguenti» 1. I meccanismi ed i modi con cui è nata e si è sviluppata la narrazione storica propriamente detta, possono quindi aiutare ad inquadrare nel suo giusto peso e nei suoi significati profondi l’importanza rivestita da questa disciplina per il genere umano, ed il ruolo da essa giocato ai fini della trasmissione del sapere e del faticoso affermarsi della libertà di pensiero. L’«uso pubblico della storia», infatti, si attestò nel momento in cui i sovrani dell’antico Oriente, a capo di governi dalla natura sostanzialmente dispotica, «diffusero nei loro regni grandi lapidi murate in luoghi pubblici o eminenti recanti il racconto delle loro gesta». Il solo racconto possibile della storia, imposto dai sovrani ai loro popoli e spacciato come «l’unico “vero”», per molto tempo, si è svolto secondo queste modalità asettiche, unidirezionali e statiche.

Fu poi un greco d’Asia, Ecateo di Mileto, il primo «che alzò il capo e disse: “io racconto come sembra a me”». Dopo di lui giunse un altro greco d’Asia, Erodoto, che può essere considerato come il padre della narrazione storica, il quale, «in opposizione spirituale al dispotismo», ha avuto l’ambizione di scrivere di storia con le «sue forze (…) sviluppando la sua individuale “ricerca”». Fu in tal modo che Erodoto «innalzò un “monumento”» letterario alla città di Atene, raccontando le gesta «della rivolta, infelicissima, dei Greci d’Asia contro la Persia», e poi della vittoria delle città greche contro l’invasione della loro terra da parte dei persiani e che, così facendo, pose la prima pietra nell’edificazione della storia come libera ricerca del passato dei fatti umani 2. Alle guerre persiane raccontate da Erodoto

1 Storia, in AA. VV., Le Garzantine, Filosofia, Garzanti, Milano 2001, p. 1106-1109.

2 Luciano Canfora, Il presente come storia. Perché il passato ci chiarisce le idee, Rizzoli, Milano 2015, p. 19-23.

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nelle sue Storie, appartengono alcune delle battaglie più celebri ed importanti di tutta la storia dell’antichità classica, tanto che i nomi dei luoghi in cui si combatterono non solo sono rimasti familiari e ricorrenti lungo tutto il corso della cultura occidentale facendo sentire la loro eco fino a noi, ma ne hanno addirittura plasmato la mentalità e contribuito a forgiarne il sistema valoriale. Le gesta eroiche compiute dai greci durante la guerra hanno finito così per perdersi nella leggenda e per costituire un’autentica epopea. Il nome della battaglia di Maratona, ad esempio, una località situata sulla costa nei pressi di Atene, continua ancora oggi a fare sentire le sue vibrazioni nel cuore di ogni atleta che corre. La lontananza che intercorre fra i due siti, infatti, è di 42km e 195m, tradizionalmente la distanza da percorrere nelle gare di maratona ovunque esse si tengano nel mondo e scelta in occasione delle prime Olimpiadi moderne del 1896 per celebrare il ricordo di Filippide, il soldato che, come narra la leggenda, il giorno della battaglia corse lungo i sentieri dell’intero tragitto per dare la notizia della vittoria greca e per morire poi di sfinimento. Lo scontro avvenne nel 490 a.C. e, secondo il racconto di Erodoto giunto fino a noi, vi trovarono la morte 6400 persiani a fronte di solo 192 greci. L’importanza militare della battaglia nell’ambito del conflitto fu in realtà marginale, ma per i greci l’effetto morale della vittoria fu incredibile, perché dimostrò che un pugno di piccole città libere ed indipendenti poteva tenere testa all’esercito più potente del mondo, fino ad allora, universalmente considerato invincibile. Per la storia e la cultura greca, quindi, grazie al magistrale racconto di Erodoto ed alla sua straordinaria capacità narrativa, tanto che le parole dei suoi racconti scolpirono eternamente alcune delle pagine storiche più poetiche ed emozionanti di sempre, il nome di Maratona divenne immediatamente il simbolo della vittoria della libertà delle pòlis contro la servitù e la tirannide a cui volevano costringerle i persiani.

«Sulla piana stretta fra le montagne e il mare – narrava il primo grande storico – regna una strana esitazione. I persiani, sbarcati dalle loro navi, si sono schierati lungo la riva. I greci sono allineati ai piedi dei monti, a proteggere la vallata che conduce verso Atene. La larghezza dei due schieramenti è pressoché eguale. Ma i persiani sono molto più numerosi, le loro linee sono più profonde; per allargarsi quanto gli avversari, i greci hanno dovuto assottigliare molto il centro. Da tre o quattro giorni i due eserciti si fronteggiano, senza che nulla accada. Gli ateniesi stanno aspettando che arrivino i rinforzi promessi da Sparta; i persiani sperano che ad Atene prevalga il partito della resa. Finché improvvisamente Milziade, comandante degli ateniesi, dà ordine di attaccare: le falangi oplitiche greche si avventano correndo impetuosamente contro gli avversari. Lo scontro è violentissimo. Al centro, il numero dei persiani ha la meglio: sfondano le sottili linee avversarie e si gettano in avanti: Ma sulle ali le sorti della battaglia si

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rovesciano: gli opliti greci riescono a fermare i persiani e li mettono in fuga; poi convergono al centro, si lanciano all’inseguimento del nemico che si credeva vittorioso, lo assalgono alle spalle, ne scompigliano le fila. In breve i persiani rimasti sbandano, molti cadono, i superstiti fuggono verso le navi amiche. Ma non è finita. La flotta persiana si dirige verso Atene, sperando di coglierla indifesa; Milziade però ha intuito la manovra, e con una marcia forzata arriva rapidamente sulla costa meridionale dell’Attica. Alla vista delle truppe avversarie schierate ad attenderli i persiani desistono, invertono la rotta e prendono la via del ritorno» 3.

Al racconto di Erodoto si deve anche il ricordo del valore dimostrato dai greci alle Termopili, dove, sotto il comando di re Leonida, poco più di 4000 uomini, di cui 300 spartani, decisero di sacrificarsi per difendere la Grecia intera dall’invasione nemica. Stretto tra le montagne ed il mare, il passo montano delle Termopili si chiude in una strettoia dove i greci decisero di attestarsi per ritardare lo sfondamento delle truppe nemiche. Nonostante la schiacciante sproporzione delle forze, gli uomini delle varie città elleniche sotto la guida di Sparta resistettero strenuamente per tre lunghi giorni agli assalti dei persiani, finché, all’alba del quarto giorno, si trovarono di fronte ad un’amara e tragica sorpresa. I persiani, infatti, guidati da un traditore lungo i sentieri che si arrampicavano fra i monti, erano riusciti a coglierli alle spalle lasciandoli di fronte ad scelta drammatica fra la fuga o il sacrificio, fra il disonore e la gloria, fra la salvezza della vita ed il ricordo eterno. Leonida, non ebbe esitazioni e, congedati e lasciati liberi di scegliere i contingenti delle altre città, si dispose con i suoi spartani all’ultimo combattimento. Molti soldati, fra cui in particolare quelli della città di Tespie, alleata degli spartani, disobbedirono alle indicazioni del comandante e decisero di restare al fianco dei compagni con cui avevano condiviso la sorte fino a quel momento. Morirono tutti, fino all’ultimo uomo, combattendo e lottando come leoni finché ne ebbero le forze, e dando così ad Erodoto la possibilità di narrare le loro gesta in pagine indimenticabili di storia. Alla fine della guerra, una volta che la Grecia poté dirsi ancora una vota salva nella sua integrità e nella sua libertà, fu posata sul passo una lapide con incise su pietra queste parole, in ricordo di Leonida e del sacrificio dei suoi: «Straniero, porta agli Spartani la notizia che noi giacciamo qui, in obbedienza alle loro leggi».

Il racconto di Erodoto di questi fatti è uno dei più celebri dell’intera letteratura storiografica greca e con la sua rappresentazione dell’onore e dell’eroismo dimostrato dagli uomini che vollero sacrificarsi alle Termopili per la patria e per

3 Erodoto, Storie, in Marco Meschini, Roberto Persico, Popoli, tempi, storie, vol. 1, Dalla preistoria alla fine della Repubblica romana, Archimede Edizioni, Milano 2010, p. 187.

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la libertà, fu in grado d’influenzare intere generazioni di cittadini negli anni a venire, ergendo questo modello di comportamento a supremo valore morale. Nelle pagine in cui il grande storico narra i momenti conclusivi dello scontro, infatti, è palese il contrasto morale fra i persiani, che terrorizzati erano spinti all’assalto dalla frusta dei comandanti, ed invece i greci che vollero sacrificare la propria vita per una libera e consapevole scelta, in nome della libertà della propria terra e della propria civiltà.

«Allora i greci tennero consiglio e i pareri erano divergenti – racconta Erodoto in merito alle fasi più convulse e tragiche prima dello scontro finale –: c’era chi proibiva che si abbandonasse la posizione e chi premeva per il contrario. Quindi si divisero: alcuni di loro si allontanarono e, sbandatisi, rientrarono nelle rispettive città, altri erano pronti a restare lì insieme a Leonida. Ma si racconta anche che fu Leonida a congedarli: si preoccupava, pare, di sottrarli alla morte, mentre a lui e agli spartani presenti non si addiceva abbandonare la postazione che erano venuti espressamente a presidiare. Io sono pienamente d’accordo con questa versione; di più: sono convinto che Leonida, quando si accorse che gli alleati erano scoraggiati e poco disposti a condividere i pericoli, abbia ordinato loro di andarsene, pensando però che a lui la ritirata non conveniva: restando lì lasciava di sé un glorioso ricordo, senza intaccare la prosperità di Sparta. Serse, quindi, ordinò l’assalto. Molti dei barbari cadevano a frotte; dietro di loro infatti, i comandanti degli squadroni, armati di frusta, tempestavano di colpi ogni soldato, spingendoli avanti continuamente. Molti finirono in mare e annegarono, molti di più ancora morivano nella calca calpestandosi a vicenda: nemmeno uno sguardo per chi cadeva. I greci, sapendo che sarebbero morti per mano di quanto avevano aggirato la montagna, mostravano ai barbari tutta la propria forza, con disprezzo della propria vita, con rabbioso furore. Alla maggior parte di loro, intanto, s’erano ormai spezzate le lance, ma massacravano i persiani a colpi di spada. E Leonida, dopo essersi comportato veramente da valoroso, cadde in questo combattimento, e con lui altri spartani famosi, dei quali io chiesi i nomi, trattandosi di uomini degni di essere ricordati; e chiesi anche i nomi di tutti i trecento» 4.

Il primo grande autore di opere storiografiche della cultura occidentale, fu così capace di erigere un vero e proprio monumento narrativo alle città greche unite sotto la guida di Atene, proprio perché la memoria di quei fatti non si perdesse per sempre nelle nebbie del tempo. Il grande storico greco raccontava la storia di quegli eventi e di quelle battaglie «nella pubblica piazza», di fronte ad un auditorio e ad un pubblico che non solo ascoltava ed applaudiva, ma partecipava sovente anche in modo critico, al punto che lo stesso Erodoto tenne a ribadire più

4 Ibidem, p. 192, 203.

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volte che ciò che affermava nella sua narrazione storica rispettava la «pura verità». La tradizione, o se si vuole la leggenda, racconta che Tucidide, altro futuro grande storico dell’antichità classica, da bambino avesse «assistito alle letture erodotee e ne era rimasto talmente scosso e conquistato da scoppiare in lacrime», tanto che lo stesso Erodoto, notandolo, si era avvicinato al padre

«preconizzando il lui “natura ardente per la conoscenza”». Non si sbagliava, perché in un certo senso Tucidide avrebbe addirittura superato il maestro, facendo della storia quella disciplina fondamentale al genere umano che conosciamo e studiamo ancora oggi. Mentre Erodoto, pur non essendo ateniese, ma avendo scelto di vivere in quella città, aveva celebrato le gesta di Atene come baluardo della Grecia, facendo ancora della storia un uso politico, e continuando per alcuni aspetti a raccontare una “storia di regime” asservita agli scopi ed al lustro del potere, Tucidide, raccogliendo il suo testimone, seppe superarlo ed inventare «una scrittura totalmente nuova». Con lui, infatti, non solo compare per la prima volta la storia monografica, ovvero il racconto concentrato in modo specifico su un solo grande avvenimento, ma si afferma addirittura una lettura critica degli eventi ed egli giunge persino a denunciare la «tara profonda che erodeva l’impero», smascherando così «il ragionamento patriottico che ne costituiva l’architrave». La sua «scelta di non parlare per assecondare la retorica imperiale», ma di scavare nei fatti del passato per portare alla luce la verità tramite la ricerca e l’analisi, ha determinato la nascita di un nuovo «prodotto letterario», non più destinato alla fruizione del solo pubblico cittadino per la gloria del potere e della tradizione, bensì elevato all’ambizione di trasmettere nel tempo una cultura universale.

Tucidide, in tal senso, ha fatto fare alla storia, ed insieme ad essa all’indipendenza di pensiero ed alla libertà politica, un enorme balzo in avanti e ne ha stabilito, di fatto, alcune delle prime basilari fondamenta metodologiche e deontologiche capaci poi di proiettarla nel novero delle discipline scientifiche, ossia in compagnia di quel sapere votato alla ricerca della verità e dominato da una volontà di critica libera dai dogmi, dalle fazioni ideologiche e dalle idee precostituite 5.

Gli otto libri che compongono la sua monumentale Guerra del Peloponneso, sono considerati uno dei maggiori risultati letterari della narrativa storica antica e ci hanno lasciato una precisa ed imparziale ricostruzione di quel conflitto come mai era avvenuto prima di allora per qualsiasi altro evento della storia umana.

Tucidide, in primo luogo, esclude dal suo racconto ogni riferimento agli interventi divini e meravigliosi e, per la prima volta, afferma e stabilisce in modo esplicito alcuni dei principi fondamentali che dovrebbero guidare lo storico nel resoconto

5 L. Canfora, Il presente come storia, cit., p. 19-23.

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dei fatti, come l’ideale di perseguire una ricostruzione il più possibile obiettiva degli accadimenti e la volontà di vagliare in maniera critica non solo tutte le fonti o le ipotesi a disposizione, ma anche i diversi punti di vista o le opinioni politiche che sono state protagoniste di quel particolare evento storico. Con Tucidide, la storia si dota di un metodo d’analisi che compie i primi passi nella direzione di un sapere scientifico, poiché la ricostruzione degli eventi che hanno scandito le tappe della guerra avviene unicamente sulla base di avvenimenti databili e ben documentabili, attraverso la scansione dei nessi esplicativi che li legano l’uno all’altro e senza dimenticare l’investigazione della cause e dei perché le cose siano andate in un verso piuttosto che in un altro. L’autore della Guerra del Peloponneso, infatti, forte della sua esperienza diretta della guerra in campo politico e militare, dichiara apertamente di rifuggire «l’approssimazione arbitraria» e di voler al contrario prediligere un’analisi condotta «con infinita cura e precisione», che sia capace, «naturalmente nei confini del possibile» e sulla base delle testimonianze disponibili, di ricostruire una versione degli eventi il più aderente possibile a come si sono effettivamente svolti. Non solo, in Tucidide, non manca nemmeno la presenza di un atteggiamento critico infarcito di piccate polemiche sulle velleità imperiali verso cui si era indirizzato il ruolo egemone di Atene nei confronti della lega. Se, infatti, da un lato, si riconosce con soddisfazione ed orgoglio patriottico il fatto che la città avrebbe rappresentato

«nel suo complesso, una viva scuola per la Grecia», motivo per il quale «i posteri»

l’avrebbero ammirata come gli «autori di una potenza che ha lasciato profonde tracce nel mondo e ricche testimonianze» 6; dall’altro, Tucidide stesso non evita di mostrare le legittime rivendicazioni delle «città alleate di Sparta», nel momento in cui denunciano Atene come «la città che ha imposto la sua tirannide in Grecia», un atteggiamento politico destinato a minacciare «l’indipendenza di tutti», giacché

«su alcuni già domina», mentre «altri progetta d’asservire» 7. E’ stato, perciò, sull’onda di queste prime straordinarie fondamenta metodologiche che la narrazione storica ha dato origine già in epoca classica ad un’ampia letteratura di genere, sia in ambito greco prima che in quello latino poi, fra i cui protagonisti possiamo trovare le opere e gli scritti dei grandi storici del passato, i quali ci hanno permesso di conoscere e di valutare gli eventi di alcune delle più importanti civiltà antiche. Fra questi, come visto, si ricordano i nomi di Erodoto e Tucidide, ma in seguito, eredi di questa tradizione, anche Livio o Tacito, Giuseppe Flavio o Plinio il Vecchio, Tito Livio o Sallustio, Svetonio o Polibio. Fin da subito, perciò, la narrazione storica è stata ritenuta differente da quella di finzione, perché gli

6 M. Meschini, R. Persico, Popoli, tempi, storie, cit., p. 211, 230.

7 Tucidide, La guerra del Peloponneso, in M. Meschini, R. Persico, Popoli, tempi, storie, cit., p.

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storici antichi, così come poi sulla base di questo modello quelli moderni, hanno indicato come sua prerogativa specifica il fatto di voler comunicare

«quell’“effetto verità”» che la maggior parte di essi hanno da sempre considerato come «parte essenziale del compito che si prefiggevano». Non a caso, infatti, già Aristotele affermava che mentre la poesia esprime l’universale e tratta del verosimile, ossia dei fatti che possono accadere, lo storico si dedica al particolare e descrive fatti realmente accaduti. Per tentare di comprendere meglio questa vera e propria aspirazione alla ricostruzione fedele ed al racconto della verità che ha contraddistinto la storia e la sua narrazione fin dalla nascita, si deve rivolgere l’attenzione ad un’altra parola greca, enargeia, letteralmente chiarezza, vividezza o, in altre parole, ciò che è tangibile. Polibio, a tal proposito, nel momento in cui afferma che non è la stessa cosa giudicare dei fatti per sentito dire o per esserne stati testimoni, poiché la testimonianza oculare e diretta vale sempre più di qualsiasi altra, ricorre al termine enargeia come «garanzia di verità» e quale fondamento della conoscenza storica. Lo storico antico, quindi, «doveva comunicare la verità di ciò che stava dicendo servendosi, per commuovere e convincere i propri lettori, dell’enargeia», un termine che racchiudeva in sé un significato ed un fine diverso da quello degli oratori o dei poeti, i quali invece miravano a «soggiogare il loro pubblico», ovvero l’avvicinarsi il più possibile al racconto del vero. Ma ovviamente, come ha scritto recentemente Carlo Ginzburg, docente di Storia delle Culture presso l’Università Normale di Pisa, «il vero è un punto d’arrivo, non un punto di partenza» ed in tal senso gli storici «fanno per mestiere qualcosa che è parte della vita di tutti: districare l’intreccio di vero, falso, finto che è la trama del nostro stare al mondo» 8.

• Le ambiguità della definizione: Nonostante la nozione di storia possa generalmente riferirsi al racconto del passato dell’uomo e dei fatti che lo hanno riguardato, l’uso del termine nel corso del tempo e presso le varie culture ha assunto significati spesso estremamente vari e talvolta addirittura profondamente contraddittori a seconda degli ambiti o dei contesti ai quali è stato di volta in volta riferito. La conseguente trasformazione dei suoi significati e l’utilizzo sempre più diffuso del termine, infatti, hanno dato origine ad alcune ambiguità e fraintendimenti che sarebbe bene cercare di dipanare il più possibile ai fini della chiarezza e della corretta comprensione della storia come disciplina.

− Fra storia e preistoria. Prima di tutto, si deve ricordare che, a partire dalle riflessioni operate dai pensatori e dai filosofi greci – ad ulteriore testimonianza di quanto la cultura ellenica abbia

8 Carlo Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero, falso, finto, Feltrinelli, Milano 2015, p. 13, 16, 18.

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rappresentato la culla della civiltà occidentale – nella definizione di storia i concetti di azione umana e di resoconto sono rimasti centrali, al punto che la capacità dell’essere umano di raccontare sé stesso ed i fatti del mondo che lo riguardano hanno da sempre costituito il nucleo stesso della nozione di storia. Con il termine preistoria, difatti, non s’intende un’era in cui fosse assente l’uomo o la sua opera, ma si vuole indicare l’assenza di documenti scritti o di resoconti consapevoli. Ne consegue, pertanto, che la storia propriamente detta è inscindibilmente legata alla nascita della scrittura o perlomeno alla capacità dell’uomo non solo di narrare, ma anche di registrare e di voler comunicare e trasmettere gli accadimenti che lo riguardano. La storia, perciò, comincia solo quando si hanno notizie autentiche, contemporanee o posteriori a determinati avvenimenti, e quando l’uomo inizia a voler raccontare sé stesso. Questa trasformazione, che avrà un impatto profondo e duraturo nella capacità dell’uomo di produrre e di diffondere cultura, non si verifica propriamente nel momento in cui l’essere umano si costituisce in società, ma quando comincia ad incidere pensieri o notizie riguardanti se stesso su legno, pietra, papiro o altro materiale, ossia quando inventa i mezzi per dare vita ad un vero documento storico.

In base a questi parametri, però, si deve considerare che la parte di storia a noi più o meno nota nel lungo percorso dell’essere umano su questa terra è estremamente ridotta, e varia a seconda che gli studiosi indichino come parametro unicamente la nascita della scrittura, attestata a partire da circa 3.000 anni prima dell’era cristiana; o la comparsa delle prime società agricole verificatesi con la cosiddetta rivoluzione del Neolitico, che data all’incirca 9.000 anni a.C., e con la quale si arricchiscono le manifestazioni artistiche ed il culto dei morti, già emersi precedentemente, ma soprattutto si sviluppano gli scambi commerciali e le prime forme complesse di vita associata. L’alba della storia, perciò, secondo quest’accezione più ampia, coinciderebbe con la nascita dell’agricoltura, sviluppatasi in quell’area che gli storici definiscono come Mezzaluna fertile, situata fra la regione montuosa della Mesopotamia turca e la parte meridionale dell’altopiano anatolico, le cui condizioni climatiche e geografiche particolarmente favorevoli hanno reso possibile lo stabilirsi delle prime comunità umane stanziali. Parlare di agricoltura, infatti,

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significa, di pari passo, parlare di sedentarizzazione, radicamento in insediamenti collettivi e, quindi, la nascita non solo di villaggi o borghi, ma anche di quei primi agglomerati che costituivano embrioni di città, nelle forme di culle delle prime civiltà in gestazione. Comunque sia, anche prendendo come parametro decisivo il Neolitico, siamo di fronte a tempi preistorici lunghissimi rispetto a quelli della storia propriamente detti, e tutto ciò che è avvenuto prima di questo periodo può essere ricostruito solo sulla base dei reperti fossili. Della «massa enorme» di ominidi che deve aver abitato la parte orientale e meridionale dell’Africa a partire dagli australopitechi ben 5 milioni di anni fa, ci rimangono solo «i resti (neanche ben conservati) di pochissimi esemplari».

Alcune tracce più elaborate, invece, si iniziano a trovare solo in riferimento a circa due milioni e mezzo di anni fa, quando si può notare «la costruzione dei primi attrezzi di pietra e quindi il primo passo verso lo sviluppo tecnologico» 9. Oggi sappiamo che il passaggio da una dieta essenzialmente vegetariana a cui erano abituate le comunità di ominidi che conducevano una vita da cacciatori-raccoglitori, ad una carnivora sempre più varia e ricca di proteine, ha reso possibile, nel corso dell’evoluzione, lo straordinario sviluppo dell’apparato cerebrale di questi nostri progenitori, dotandoli, di conseguenza, di una struttura cognitiva sempre più elaborata e complessa. In un testo ormai divenuto un classico della storia evolutiva dell’essere umano, significativamente intitolato La scimmia nuda, Desmond Morris, racconta quali sono stati i passaggi fondamentali di questo straordinario percorso e quali le conseguenze evolutive sulla nostra specie.

«Grazie alla forte spinta intesa ad aumentare la loro abilità nell’uccidere la preda, cominciarono a verificarsi alcuni cambiamenti fondamentali. Essi [gli ominidi] assunsero una posizione maggiormente eretta, diventando così corridori sempre più veloci; le mani, liberatesi dalla necessità della locomozione, diventarono forti ed efficienti sostegni per le armi. I cervelli diventarono più complessi, più vivaci e più rapidi nel prendere delle decisioni. (…) Gli scimmioni cacciatori praticavano la

9 Piero Angela, Tredici miliardi di anni. Il romanzo dell’Universo e della vita, Mondadori, Milano 2015, p. 151, 159.

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caccia in gruppo e come migliorarono i loro metodi di uccidere, così migliorarono quelli riguardanti l’organizzazione sociale.

Fondamentalmente questo gruppo di cacciatori era costituito da maschi. Le femmine avevano troppo da fare nell’allevare i piccoli per essere in grado di svolgere un compito importante nel cacciare e nell’impadronirsi della preda. Man mano che la caccia si faceva più complesse e le scorrerie diventavano più lunghe, lo scimmione cacciatore dovette abbandonare il modo di vita vagabondo e nomade dei suoi antenati. Era necessario avere una casa di base (…) questo passo produsse effetti profondi. (…) Il suo antico modo di vivere (vagabondare e cogliere frutti) stava finendo. Adesso egli aveva effettivamente lasciato il suo Eden nella foresta; era ormai uno scimmione con delle responsabilità proprie. Cominciò a preoccuparsi di quelli che erano l’equivalente delle lavatrici e dei frigoriferi dell’epoca preistorica e a migliorare le comodità della casa: fuoco, immagazzinamento del cibo, rifugi artificiali. (…) stiamo passando dal regno della biologia a quello della cultura» 10.

A partire dall’Homo erectus, in effetti, ben 1,5 milioni di anni fa, sono attestati i primi focolari e, quindi, il controllo del fuoco, nonché, si pensa, la nascita di una prima forma di comunicazione resa possibile dallo sviluppo di un cervello più ricco, sempre più in grado di contenere, elaborare e poi trasmettere una mole crescente di informazioni. Questo momento deve avere gettato le premesse di un balzo in avanti straordinario, perché ha reso possibile la diffusione del sapere, grazie alla quale le «nuove generazioni ricevono in eredità dai loro antenati non soltanto i geni, ma anche la conoscenza». Questo lungo percorso, ci porta poi a circa 200 mila anni fa, quando compare l’homo sapiens, ossia il nostro antenato diretto, un essere anatomicamente e cognitivamente moderno, un individuo diverso ed unico nella storia dell’evoluzione, capace di sviluppare il linguaggio e di estenderne le potenzialità fino alla nascita del pensiero astratto, e soprattutto dotato di un cervello in grado di dare vita a tutte le «nostre grandi qualità mentali: l’immaginazione, la razionalità, la fantasia, l’arte, l’invenzione, la riflessione, ecc.» 11. Alla soglia dei 13.000 anni fa, la transizione dagli ominidi all’uomo moderno è ormai

10 Desmond Morris, La scimmia nuda. Studio zoologico sull’animale uomo, Bompiani, Milano 2009, p. 22, 23.

11 P. Angela, Tredici miliardi, cit., p. 166, 188.

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definitivamente compiuta e la fuoriuscita dalla preistoria, che avviene quando gli esseri umani iniziano a lasciare delle tracce consapevoli, è più o meno contemporanea alla nascita delle prime società agricole ed alle comunità di allevatori, fino all’invenzione della scrittura, un altro evento epocale che accade circa tre millenni prima dell’era cristiana.

Uno dei luoghi nel mondo in cui maggiormente si può toccare con mano quale sia stato l’impatto di questa trasformazione epocale che ha contraddistinto il cammino dell’uomo e dove ci si può rendere conto dell’unicità umana, arrivando quasi a provare la suggestione d’identificarsi completamente con il nostro passato più remoto, è la grotta di Les Combarelles I, nel sud della Francia, riconducibile a uomini dell’Era glaciale di 13.000 anni fa. Come ha scritto Ian Tattersall, uno dei maggiori archeo-antropologi americani, entrando in questo posto, dopo aver passato una stretta fessura che taglia in profondità una parete di calcare, si viene potentemente investiti dalle «raffigurazioni di trecento fra cavalli, mammut, renne, bisonti, stambecchi, leoni e molti altri mammiferi [che] si affollano lungo le pareti della grotta per quasi un centinaio di metri». Nella luce fioca della caverna, dove «le immagini sembrano prendere vita», dandoci «l’impressione che gli animali corrano a balzi lungo le pareti», si viene proiettati di centinaia di anni all’indietro e non si può fare a meno immedesimarsi con gli uomini che hanno sapientemente disegnato queste forme, con l’esistenza dura e difficile che dovevano condurre – ma allo stesso tempo così semplice, affascinante, pura e libera di fondersi armonicamente con la natura circostante – e con l’immaginario mentale con cui essi dovevano vivere, così lontano da quello dell’uomo moderno, ed a noi per certi versi inconoscibile, ma anche così vicino a ciò che siamo sempre stati nel profondo. E’ per questo, forse, che uscendo dalla grotta, «si viene divorati dai

“perché”». Queste stupende e spettacolari pitture parietali, ancora oggi, a distanza di migliaia di anni, non possono cessare di affascinarci, non solo perché ci mostrano una forma artistica

«raffinata quanto ogni altra arte finora espressa dall’umanità, e non (…) certamente meno vigorosa», ma soprattutto perché sono una delle testimonianze più imponenti del fatto che «una nuova creatura era comparsa sulla Terra».

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L’essere umano, in effetti, pur essendo «parte integrante della natura» a tutti gli effetti, si distingue dal «resto del vivente» per le sue «capacità cognitive», direttamente connesse al nostro

«interesse per concetti astratti e simbolici» e, quindi, per aver raggiunto nel tempo l’impulso irresistibile a volersi raccontare, per aver sviluppato un pensiero in grado di riflettere su se stesso, e per la sua ostinata perseveranza nell’insistere a voler lasciare testimonianze di quella «scintilla di creatività e capacità d’innovazione che costituisce una caratteristica così evidente della nostra specie» e di cui le pitture di Les Combarelles I ci mostrano come se fosse un ricordo folgorante che emerge improvvisamente dalla nostra psiche di ciò che siamo sempre stati e che, in fondo, continuiamo ad essere 12. Se il linguaggio costituisce «l’elemento centrale delle nostre straordinarie facoltà», perché è intimamente connesso alle nostre capacità di elaborazione del pensiero simbolico e di astrazione, ed è addirittura, in questo senso, il

«mezzo con cui spieghiamo tali capacità a noi stessi» ed il «più evidente dei nostri caratteri distintivi, l’unico in assenza del quale ci è impossibile concepire l’umanità così come la intendiamo per esperienza diretta», la storia, configurandosi come la disciplina che studia l’uomo a partire dalle testimonianze che ha voluto lasciare e quindi sulla base della sua inarrestabile pulsione a raccontarsi, rappresenta il filo ininterrotto più importante che possediamo per conoscere noi stessi ed il legame più diretto che abbiamo con le nostre origini e, perciò, anche con ciò che siamo nel profondo 13.

− Il ricorso alla storiografia. Dopo la grande stagione dell’epoca classica, in cui la narrazione storica non solo si era sviluppata come genere letterario, ma aveva anche trovato una prima sistemazione nelle sue fondamenta come disciplina, il significato del termine, in una fase successiva, aveva lentamente mutato di senso fino a divenire una sorta di sinonimo di tempo. Malgrado l’etimologia del termine rimanesse comunque legata alla capacità dell’uomo di raccontare sé stesso e gli eventi che lo riguardano, il significato del termine storia, in alcune accezioni, si è progressivamente staccato dal suo senso originario, ed ha finito per indicare gli eventi stessi nella loro successione temporale e nella loro oggettività. Per

12 Ian Tattersall, Il cammino dell’uomo. Perché siamo diversi dagli altri animali, Garzanti, Milano 1998, p. 7-15.

13 Ibidem, p. 55-65.

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risolvere questa ormai atavica ambiguità, in italiano, al fine di indicare il lavoro della ricostruzione storica si tende piuttosto a ricorrere al termine storiografia. Con questa parola, in effetti, si vuole intendere in modo più pertinente il tentativo di rileggere criticamente gli eventi del passato, poiché si ritiene che storia e tempo siano due concetti profondamente diversi e che per la storia non possa esistere una dimensione oggettiva. Aprendoci ad una considerazione sulla nostra possibilità di riflettere sul passato e di ricostruirlo, infatti, domina la consapevolezza che un qualsiasi evento non può essere visto nella sua supposta purezza oggettiva, poiché una volta precipitato nell’oblio del passato non può che essere frutto della memoria e dell’interpretazione dell’uomo. Già a metà del 500, infatti, il filologo-antiquario Francesco Robortello, nel tentativo di «portare alla luce l’arte e il metodo latenti nella scrittura della storia» e, quindi, di dipanare i dubbi sulla sua autentica natura, volle ribadire che il termine, malgrado le ambiguità che ne avevano trasformato il senso, restava comunque ancora profondamente legato alla sua accezione originaria. Lo storico, infatti, spiega Robortello, è «colui che “narra e spiega”»

quelle «“azioni che gli uomini stessi fanno”» 14. Tuttavia, nonostante i continui tentativi di chiarimento, la parola storia ha continuato ad essere abusata, fraintesa, ed utilizzata secondo significati diversi. Nell’accezione comune, infatti, ha finito per prevalere quell’interpretazione che intende la storia come l’oggettiva successione cronologica dei fatti del mondo a scapito del suo contenuto originario di narrazione degli eventi che hanno riguardato l’essere umano, al punto che, oggi, attraverso l’utilizzo del termine storiografia, si vuole indicare in maniera più precisa e specifica il racconto delle azioni umane e la loro eventuale lettura critica, o meglio, lo studio e l’esposizione dei fatti e degli accadimenti del passato da parte degli storici e degli scienziati che si occupano di provare a ricostruire ciò che il tempo tende inesorabilmente a cancellare.

14 C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit., p. 23, 24.

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March Bloch e gli storici degli Annales: Uno dei più grandi storici dell’epoca contemporanea e probabilmente lo studioso che più di ogni altro ha riflettuto sul significato della storia come disciplina, ponendo le basi per un’analisi approfondita del suo più intimo significato e valore è stato, senza alcun dubbio, March Bloch. Di origine ebraica, Bloch, fu costretto a nascondersi sotto il regime di Vichy e l’occupazione nazista della Francia; nel 1943, entrò a far parte della rete clandestina Franc-Tireur fra le fila della resistenza e finì fucilato dai tedeschi a Lione il 16 giugno del 1944 per mano dei reparti comandati da Klaus Barbi, un nome tristemente famoso nella storia dei carnefici del Terzo Reich. Alla sua morte, purtroppo, avrebbe lasciato incompiuta la sua Apologia, che tuttavia è stata in seguito riveduta e pubblicata dal figlio. Bloch, soprattutto, fu cofondatore degli Annales, assieme a Lucien Febvre, una delle riviste di storia più importanti degli anni fra le due guerre. Questo gruppo di storici, infatti, ha costituito un punto irrinunciabile per dare forma alla ricerca storica più recente, alla sua metodologia ed alla deontologia che dovrebbe guidare ogni appassionato del passato. Prima degli Annales, infatti, i grandi storici dell’Ottocento, guidati dall’ideale di una storia scientifica e come tale ritenuta oggettiva, ritenevano che la ricostruzione storica significasse narrare con assoluta precisione e su base documentaria gli eventi così come si erano succeduti nel tempo, cullando l’illusione che lo storico o il narratore potessero quasi scomparire di fronte alla chimera della ricostruzione obiettiva e pura del passato nelle stesse forme in cui si era svolto. In questo senso, gli eventi che erano oggetto d’attenzione dello storico, si limitavano al piano politico, militare o quello diplomatico, e per questo, in sostanza, la storiografia prodotta dalla scuola ottocentesca non era molto di più che la storia delle nazioni, dei regni, delle battaglie e dei grandi uomini che le avevano guidate e condotte.

L’iniziativa degli Annales, invece, venne immediatamente rivolta a rivoluzionare questo modo di fare storia, polemicamente stigmatizzato come largamente limitativo, perché i suoi collaboratori ritenevano che questo fosse un modello metodologico destinato ad offrire una visione piuttosto parziale di quello che sono, invece, le vicende umane, immensamente più complesse e multiformi.

Bloch ed i suoi colleghi, erano convinti che la storia non potesse condensarsi in un arido succedersi di date e di nomi, ma che dovesse prevedere, al contrario, uno sviluppo organico ben più complesso, capace d’indagare a tutto tondo le diverse dimensioni che concorrono tutte insieme a raccontare la vita degli esseri umani nel tempo. E’ da questo momento che gli storici di professione iniziano a rivolgere la loro attenzione a parametri prima abbondantemente sottovalutati, come la storia delle mentalità, della tecnica, delle scienze, dell’economia o della cultura, integrando la ricerca con il più vasto campo delle scienze umane come la sociologia, intesa come studio delle relazioni esistenti fra individuo e gruppo

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all’interno di determinati ambienti e società; o l’antropologia, a sua volta presa come lo studio sia delle caratteristiche biologiche dei diversi gruppi umani, che delle loro preferenze morali ed intellettuali. Bloch, infatti, convinto che ogni scienza, se presa in sé stessa, non potesse rappresentare altro che «un frammento del moto universale verso la conoscenza», è riuscito ad introdurre delle novità fondamentali nella storiografia contemporanea, spostando l’attenzione dall’analisi degli eventi, ad uno studio che ponesse l’accento sulla storia delle strutture 15. A cominciare dalla lezione degli Annales, oltretutto, la storia non possiede più quella dimensione eurocentrica che ne aveva fissato per tanti anni gli obiettivi di ricerca, portandola a sottovalutare le vicende dei popoli e delle civiltà extraeuropee, ed è giunta alla piena consapevolezza dell’esistenza e della ricchezza di tante altre forme di civiltà. In altre parole, è stato probabilmente grazie al suo contributo se oggi la storiografia si configura soprattutto come il tentativo analitico di comparare e mettere a confronto gli innumerevoli aspetti che concorrono a plasmare le vicende umane, indagate tramite ottiche pluriformi, interdisciplinari e diverse: da quella sociologica a quella psicologica; da quella antropologica a quella linguistica; dalla dimensione demografica a quella artistica; da quella economica a quella religiosa.

• A cosa serve la storia: Bloch inizia il suo libro riportando i pensieri e le riflessioni suscitate da una domanda di suo figlio ancora bambino – babbo, «a che serve la storia»? Questo semplice quesito finisce per porre il grande storico di fronte al dilemma della legittimità stessa della storia, del suo significato, della sua essenza come scienza o come disciplina e del suo oggetto di studio specifico. La sua prima risposta è istintiva, passionale, e riguarda la curiosità che sorge naturalmente nell’essere umano quando volge lo sguardo al mistero del passato: «Che sia possibile trovare nella storia un divertimento, pochi, penso, proveranno la tentazione di negarlo, a meno che soffrano di una spaventosa aridità d’animo», perché lo

«spettacolo bizzarro del passato offre, a chi ama la vita, innumerevoli occasioni di godimento». L’oggetto di studio della storia è proprio la

«rappresentazione delle attività umane», un palcoscenico capace di sedurre l’immaginazione di chi ricerca, di chi legge e di chi ascolta e di proiettare l’uomo stesso nell’immenso teatro del tempo e dello spazio, dove le vicende umane si colorano di avventura e delle sottili seduzioni della diversità 16. Già Plutarco, in effetti, parlando dell’abilità letteraria di Tucidide e della sua narrazione storica, scriveva che i suoi testi miravano

«ardentemente di fare dell’ascoltatore uno spettatore e di rendere vive a

15 Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1998, p. 17.

16 Ibidem, p. LXVI, 10.

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chi legge le vicende emozionanti e sconvolgenti cui i testimoni oculari assistevano» 17. La storia, perciò, è capace in tal senso di proiettarci in un istante in epoche lontane e remote e di farci rivivere eventi del passato come se fossimo stati presenti, e lo fa in un modo paradossale, perché tramite l’uso del racconto, della narrazione e, quindi, per certi versi della fantasia e della finzione, mantiene il suo carattere scientifico e non valica mai i limiti stabiliti dalla ricerca della verità. Tuttavia, per Bloch, la risposta alla domanda postagli dal figlio su che cosa effettivamente serva la storia, non può fermarsi qui, ma deve scavare ancora più in profondità e scandagliare l’essenza della materia storica per metterne a nudo quei tratti di scientificità che possano dotarla di un’autentica legittimazione.

Afferrare quale sia il ruolo o l’utilità sociale della storia, perciò, significa obbligatoriamente non solo comprenderne la natura e metterne a nudo l’essenza, ma anche confrontarla con la scienza, con il suo metodo e con le discipline che le appartengono in proprio.

− La natura della storia. La storia, sostiene Bloch, non può essere, come spesso si era sostenuto, semplicemente la scienza del passato, poiché l’idea stessa che il passato, in quanto tale, possa essere oggetto di scienza è assurda. Non può esistere, infatti, una scienza totale ed onnicomprensiva, capace di narrare e di far comprendere tutti gli aspetti dell’universo. Essa, pertanto, deve circoscrivere ed identificare con precisione il suo campo d’indagine, allo stesso modo di come la matematica si occupa dei numeri e delle forme, indicando così il suo oggetto specifico che non può che essere l’uomo, o meglio gli uomini nel tempo. La storia, così concepita, diviene la scienza dell’uomo, del tempo e del cambiamento dell’uomo nel tempo.

⇒ La storia e la scienza. La storia, oltretutto, ambisce a configurarsi come una scienza proprio perché, come tutte le scienze autentiche, riesce a stabilire nessi esplicativi tra i fenomeni, nel senso che la sua collocazione fra «le conoscenze veramente degne d’impegno», è resa possibile solo «nella misura in cui essa ci consentirà (…) una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità». Così intesa, quindi, la storia, colloca la sua scientificità non tanto nella natura del suo oggetto di ricerca – ossia nei fatti dell’uomo nel passato che, in quanto tali, non possono essere materia passibile di assoluta oggettività, al pari, ad esempio, delle cosiddette scienze

17 Plutarco, La gloria di Atene, a cura di Italo Gallo e Maria Mocci, D’Auria M., Napoli 1992, p.

51.

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dure – ma piuttosto nel metodo e nel procedimento con cui lo storico s’impegna ad indagare le vicende umane. Il suo valore, secondo questo punto di vista, lo si ritrova perciò principalmente nel fatto che così facendo essa si è assunta il compito di «aiutarci a vivere meglio», allo stesso modo di quanto aspirano a fare tutte le altre discipline scientifiche, in quanto sforzo costante e collettivo verso il «miglioramento della conoscenza» umana 18.

• L’importanza dell’insegnamento della storia: Per Marc Bloch l’insegnamento della storia nella scuola è uno dei cantieri decisivi in cui si forma non solo la coscienza storica collettiva, ma anche il terreno da cui si può plasmare una buona storiografia, cioè la capacità di riflettere, di interrogarsi e di cogliere insegnamenti dalla storia medesima. In primo luogo, infatti, il presente, per definizione, non può bastare a sé stesso, non può fornire da solo le proprie formule di comprensione, poiché esso, nella sua essenza, «non è che una perpetua fuga in avanti, una realtà che sfugge senza posa nell’istante in cui si crede di coglierla». Goethe sosteneva che il presente, in realtà, non esistesse nemmeno, poiché non vi è «nulla se non un divenire», per questo Bloch lo definisce un «infinito della durata, un punto minuscolo che sfugge senza posa; un istante che, appena nato, muore». In questo senso, una «pretesa scienza del presente», sarebbe condannata solo ad una «eterna trasfigurazione» e si trasformerebbe, «in ogni momento del suo essere, in scienza del passato», tanto che nel

«linguaggio corrente, “presente” vuol dire passato prossimo». La conoscenza storica, così, vista l’inafferrabilità del presente, diviene fondamentale per fornire agli uomini le chiavi di lettura per meglio comprendere il proprio tempo e le sue dinamiche, ed è solo grazie ad essa che possiamo elaborare un pensiero libero, critico ed approfondito rispetto all’epoca nella quale viviamo, perché, in effetti, è solo conoscendo la strada che ci ha portato fin qui che possiamo comprendere dove siamo.

La storia si rivela come un immenso continuum dove «le grandi vibrazioni sono perfettamente in grado di propagarsi dalle molecole più lontane fino alle più vicine». Ognuno di noi, razionalmente o inconsciamente, consapevole o no, reca in sé i segni e gli effetti dei profondi e radicali sconvolgimenti del passato, soprattutto delle rivoluzioni del pensiero umano e dei grandi eventi della storia, e tutti noi siamo eredi, e protagonisti allo stesso tempo, di una civiltà in costante evoluzione, in cui lentamente vengono costruite le mentalità collettive che

18 M. Bloch. Apologia della storia, cit., p. 11, 12, 13.

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ci rendono ciò che siamo, al punto che «l’incomprensione del presente nasce inevitabilmente dall’ignoranza del passato» 19. Un altro grandissimo storico del calibro di Eric Hobsbawm affermava che gli avvenimenti storici sono fondamentali per capire chi siamo e da dove veniamo, anche perché essi «sono parte della trama delle nostre vite (…) sono ciò che ha plasmato le nostre vite, pubbliche e private» 20. Tutti quelli della nostra generazione, in effetti, ricordano perfettamente dove si trovavano e che cosa stavano facendo l’11 settembre 2001 e, volenti o nolenti, ne sono in qualche modo rimasti segnati nel profondo. L’importanza fondamentale della conoscenza storica la possiamo constatare anche dal fatto che, per fare solo un esempio fra gli innumerevoli possibili, se oggi viviamo in una civiltà capitalista, fortemente influenzata dalla cultura americana e dal suo intrinseco consumismo, dove i rapporti sociali sono plasmati da una mentalità radicalmente individualista e dove la tecnica domina ogni nostra interazione con il mondo circostante, ciò si deve a nient’altro che a cause ed a sviluppi storici. E’ per questo che solamente conoscendo le tappe, le dinamiche e le motivazioni che hanno spinto l’uomo ad intraprendere questo percorso, possiamo ritenerci autenticamente liberi e consapevoli, in quanto esseri pensanti, nelle scelte che compiamo ogni giorno.

Insistendo sulla necessità per ogni generazione di fare storia, di conoscere la storia e di maneggiare il discorso storico, Bloch non esita a mettere in guardia dai rischi che si correrebbero nell’ignorare la conoscenza dei fatti umani accaduti prima di noi, poiché l’«ignoranza del passato non si limita a danneggiare la conoscenza del presente, essa compromette, nel presente, l’azione stessa» 21. Non solo, come ha scritto Fernand Braudel in uno dei testi che forse più di tanti altri ha influenzato la storiografia contemporanea, le civiltà, che si manifestano come degli autentici protagonisti della storia, sono delle «comunità» che quando si trasformano, «anche profondamente, come può implicare l’introduzione di una nuova religione», assorbono «valori antichi che sopravvivono attraverso di lei e continuano a costituirne la sostanza». Anche nel presente, infatti, se ad esempio si prendono in esame la religione cattolica e quella ortodossa, ossia il panorama culturale occidentale e quello greco- slavo, ci si rende presto conto che pur essendo entrambe le civiltà

«ammantate dell’amore di Cristo, sono in realtà divergenti», ed in ciascuna

19 Ibidem, p. LXVIII, 30, 35, 36.

20 Eric J. Hobsbawm, Il Secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1997, p. 15, 16.

21 M. Bloch, Apologia, cit., XXVI.

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di esse «le parole chiave», i simboli o i riti, «non hanno lo stesso significato». Nel mondo greco la verità «designa ciò che è costante, eterno, ciò che esiste davvero, al di fuori del mondo creato quale lo coglie la nostra ragione»; per quello latino, al contrario, «verità significa sempre una certezza, una realtà accessibile alla nostra ragione»; e ancora, in occidente la «Settimana Santa, che precede la Pasqua, è posta sotto il segno del lutto, della passione, delle sofferenze di Cristo-Uomo», in oriente, invece, essa si svolge «all’insegna dell’allegria, dei canti che glorificano la resurrezione di Cristo-Dio». Tutto ciò ci mostra come sia la storia, in realtà, a spiegare ed a rendere più chiaro il presente, a svelare il significato autentico degli usi e dei costumi che interessano il dipanarsi quotidiano della nostra esistenza. E’ nel passato che ogni nostro comportamento o rito collettivo affonda le proprie radici, al punto che, come ricorda ancora una volta Braudel, le «grandi partite del presente sono state spesso giocate, vinte o perdute, nel passato» 22. Ed è anche in questo senso che, per quanto ogni epoca abbia le sue problematiche, le sue guerre e la sua attualità contingente con cui fare i conti, è sempre la conoscenza della storia che ci aiuta meglio a comprendere ed a capire la natura dei problemi, dei conflitti, delle dinamiche sociali e dei loro significati reconditi che, di volta in volta, ci troviamo davanti.

Tuttavia, si deve anche ricordare che non tutti gli storici, come Bloch o Hobsbawm, ritengono che la storia possieda una sorta di missione educativa e che l’esempio del passato possa sempre contribuire a modificare ed a migliorare il presente. Anche se la storia come disciplina non avesse alcuna utilità pedagogica, né alcuna funzionalità pratica nel rendere la vita presente più comoda, efficiente o sicura, resterebbe inalterato il suo valore di conoscenza rispetto al lento lavoro del tempo che tende inesorabilmente a cancellare il passato ed a farlo precipitare nel mistero o addirittura nell’oblio. Come scrive Manzoni all’inizio dei Promessi sposi, la straordinaria missione della storia può risiedere semplicemente nel fatto che la narrazione storica costituisce una battaglia eterna dell’uomo contro il fluire del tempo di cui è prigioniero, ed è perciò l’unico mezzo di cui egli dispone per ricordare e far rivivere eventi che altrimenti si perderebbero nell’eternità e che, forse, resterebbero per sempre sepolti nel silenzio.

22 Fernand Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini e le tradizioni, Bompiani, Milano 1997, p. 103, 107, 108.

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«L’historia si può veramente definire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaveri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia»23.

Per Johan Huizinga, schieratosi su questa medesima linea interpretativa, la storia non può servire espressamente a dare lezioni o a trovare esempi educativi, come ha creduto per molto tempo una certa scuola di pensiero. Le nuove generazioni, lungi dal trarre lezioni dal passato, continueranno a sbagliare sulla propria pelle e, più spesso di quanto si creda, a ripetere i medesimi errori dei padri, poiché, come René de Chateubriand fa pronunciare al protagonista del suo romanzo Atala, su questa terra «siamo tutti viaggiatori e i nostri padri come noi» 24. La supposta azione educativa o pedagogica della storia, e addirittura la sua funzione utilitaristica, per certi versi, potrebbero persino essere considerate del tutto irrilevanti. Gli uomini hanno da sempre rivolto il proprio sguardo al passato non solo per trovare modelli di vita su cui edificare la propria esistenza, ma anche semplicemente per la straordinaria sete di conoscenza che alimenta la curiosità intellettuale della specie umana e per la volontà di andare costantemente alla ricerca della verità e cercare di spiegarla. In questo senso, quindi, la storia, sollevata dalla sua responsabilità morale e da un immaginario che la dipinge nelle vesti di un’insegnante anziana e severa pronta costantemente a rinfacciarci gli errori dei nostri padri ed a mostrarci le tragedie che essi hanno provocato, può anche servire solo allo scopo di comprendere e di conoscere qualcosa di più di noi stessi e degli eventi che, lo si voglia o no, continuano ad influenzare il nostro esistere nel tempo:

«No, non si tratta della tempesta del fosco presente, – scrive Hiuzinga – ma del mondo e della vita nel loro eterno significato, nella loro eterna tensione e nella loro eterna quiete. Noi ci rivolgiamo al passato per un desiderio di verità e per un’esigenza vitale (…). La vera storia, dunque, studia il passato per il significato che ha in sé e per sé. Lo scopo da raggiungere non è trarre una utile lezione per un determinato caso che si verificherà nel prossimo futuro, ma trovare un punto fermo nella vita.

Rendersi conto, sapere bene dove siamo, determinare la nostra posizione

23 Alessandro Manzoni, I Promessi sposi, Edizioni A. Barion, Sesto San Govanni (MI) 1936, p. 5.

24 René de Chateubriand, Atala, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1995, p. 85.

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in base a punti di orientamento molto distanti nel tempo: questo è il lavoro dello studioso di storia»25.

Al di là del suo valore educativo o del suo senso di monito per non ripetere gli errori del passato, sembra proprio essere stato questo aspetto della lotta contro l’oblio a cui il tempo condanna le azioni umane il ruolo primario della storia attribuitole dal suo primo grande narratore appartenente alla cultura occidentale: Erodoto. Egli, infatti, inizia le Storie affermando che le sue ricerche sono state svolte in nome della memoria,

«affinché gli avvenimenti umani con il tempo non si dissolvano nella dimenticanza e le imprese grandi e meravigliose, compiute tanto dai greci quanto dai barbari, non rimangano senza gloria» 26. Erodoto sapeva che tutto ciò che siamo è cultura, e rinunciare a comprendere ed a spiegare i contenuti della cultura nella quale ci siamo formati, significa non solo dimenticare la storia, ma abbandonare la possibilità di conoscere se stessi.

Se la cultura, intesa nel senso degli studi antropologici nella definizione ormai classica di Edward Burnett Taylor, è «quel complesso insieme, quella totalità che comprende la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine, acquisita dall’uomo in quanto membro di una società», allora essa è l’unica vera ed autentica ricchezza che possiede la specie umana 27. Ciò che contraddistingue il genere umano, in stretta correlazione con l’acquisizione del linguaggio, è perciò la capacità di creare cultura e di tramandare il bagaglio di conoscenze acquisite nel tempo da una generazione all’altra. Dato che nessuna cultura è un ambiente sigillato e chiuso in se stesso, ma è comunque un prodotto storico e sociale, tutte le culture si presentano come dei sistemi fluidi che s’intersecano e s’influenzano vicendevolmente senza sosta e che, in qualche modo, trasportano la propria eredità fin dentro ognuno di noi.

Sulla base di questo significato, perciò, possiamo affermare che la cultura costituisce l’intero spettro delle risposte apprese che riusciamo ad acquisire nell’arco della nostra esistenza e in questo senso essa rappresenta il pilastro di un percorso di «formazione collettiva e anonima di un gruppo sociale nelle istituzioni che lo definiscono», assumendo così a prima vista una portata più sociale che individuale 28. Tuttavia, definendo il linguaggio

25 Johan Huizinga, La scienza storica, in Antonio Brancati, Popoli e civiltà, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 19.

26 Erodoto, Storie, in M. Meschini, R. Persico, Popoli, tempi, storie, cit., p. 198.

27 Clyde Kluckhohn, Alfred Kroeber, Il concetto di cultura, Il Mulino, Bologna 1972, p. 422.

28 Cultura, in Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, Utet, Torino 1998, p. 248-251.

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ed i suoi significati, tramite cui non solo comunichiamo e ci esprimiamo, ma che soprattutto si rivela essere il sistema stesso grazie al quale pensiamo, la cultura, pur non essendo altro che un sistema di processi storicamente derivati, finisce per interagire nel profondo con il difficile percorso di costruzione dell’identità individuale che stabilisce chi siamo di fronte a noi stessi. Se, come aveva compreso Immanuel Kant, «soltanto la cultura può essere lo scopo ultimo che l’uomo ha il diritto di attribuire alla natura in relazione alla specie umana», allora è unicamente grazie alla storia che possiamo fare luce su quel passato che vibra ancora dentro di noi, ed è solo conoscendo la storia delle culture che ha assorbito e che continua ad assorbire la nostra mente che possiamo comprendere i come ed i perché siamo diventati ciò che siamo 29. Poiché, per usare le parole di Leonardo Da Vinci, «(…) il mondo appartiene a coloro che sanno esprimerlo verbalmente», conoscere la storia, in primo luogo, ci rende consapevoli del significato dei termini con cui pensiamo e con cui esprimiamo noi stessi, ci insegna qual è stata l’origine e quali sono state le trasformazioni dei concetti e delle nozioni con cui elaboriamo le nostre idee, e così facendo, in definitiva, ci permette non solo di arricchire la conoscenza di ciò che abbiamo appreso e della civiltà nella quale siamo stati formati, ma soprattutto di essere liberi di edificare la nostra identità 30.

• L’importanza del ruolo dello storico: Per Marc Bloch, anche il ruolo dello storico è fondamentale e si lega intrinsecamente all’essenza stessa della storia. Essa, difatti, non può essere solamente scienza del passato, ma il risultato di un costante andirivieni dello storico dal passato al presente e dal presente al passato, al fine di comprendere l’uno attraverso l’altro e viceversa. La storia semmai, così intesa, è scienza del cambiamento e dunque non esiste di per sé alcuna storia immobile, al punto che lo storico dovrà possedere quale «qualità sovrana» la capacità di

«afferrare il vivente», ossia la vita dispersa e dispiegata nel tempo 31. In tal senso, i fatti, non sono dei fenomeni oggettivi che possono esistere senza l’esistenza dello storico, ma ogni fatto che diviene storia, in quanto resoconto, non può essere altro che il risultato del lavoro e della costruzione da parte dello storico, il quale diviene un vero e proprio creatore dei fatti storici. Egli, perciò, non si può mai accontentare di ordinare gli accadimenti in un mero senso cronologico, facendo della

29 Immanuel Kant, Critica del giudizio, a cura di Alberto Bosi, UTET, Torino 1993, p. 400-401

30 Serge Bramly, Leonardo Da Vinci. Artista, scienziato, filosofo, Mondadori, Milano 2012, p.

214.

31 M. Bloch, Apologia, cit., p. 36, 47.

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storia una narrazione sterile, ma deve spingersi ad interrogare le testimonianze di quegli accadimenti, deve portare a galla l’umanità viva che ne è stata protagonista, ricostruire come questi si sono svolti e comprenderne le cause. In altri termini, adottare un metodo puramente ed asetticamente cronologico, come scrive lo storico delle relazioni internazionali Ennio Di Nolfo, porterebbe solamente «a mettere insieme cataloghi di eventi quasi sempre collegati dal loro susseguirsi, ma non da una loro composizione all’interno di un quadro problematico che li renda comprensibili», tanto che il criterio cronologico «non è, infatti, un criterio esplicativo». D’altra parte, lo storico deve ragionare diversamente ed in questo senso la sua abilità fondamentale risiede nel poter riuscire a

«costruire un discorso comprensibile», ovvero, «isolare problemi» relativi alle vicende umane nel tempo ed ai molteplici ambiti che interessano la vita dell’uomo sulla terra 32.

Inoltre, ogni evento del passato, in quanto tale, può solo essere ricordato o raccontato, e da ciò si origina il problema dell’interpretazione della storia, poiché ogni evento, appena accaduto, cessa di esistere in sé e per sé, e può configurarsi soltanto come riflesso della mente, tramite la memoria, o del mezzo che lo ha registrato o trascritto in un determinato documento. E’ quindi in quest’ottica che diventa essenziale il ruolo dello storico, la cui responsabilità nei confronti della specie umana diviene fondamentale e chiama in causa la sua onestà intellettuale. Ogni storico deve perciò possedere una spiccata capacità di interrogare e di studiare le fonti, poiché, se da un lato è innegabile che il passato sia «per definizione un dato che nulla più modificherà», dall’altro, è altrettanto vero che «la conoscenza del passato è cosa in evoluzione, che senza posa si trasforma e si perfeziona», ed ogni contributo alla ricerca della verità è un tassello in più nella ricostruzione delle vicende umane nel mondo e verso la comprensione di noi stessi 33.

− Lo studio delle fonti. La storia, volendo circoscrivere la metodologia ed il controllo con cui si organizzano la ricerca e la comunità scientifica, è una disciplina che si dedica allo studio di eventi passati riguardanti gli esseri umani sulla base dell’utilizzo e dell’indagine delle fonti, cioè di documenti, testimonianze, racconti, diretti o indiretti, che riescono a trasmettere una qualche forma di conoscenza. E’ in questo senso che essa si configura come

32 Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Laterza, Roma-Bari 2005, p.

XII, XIV.

33 M. Bloch, Apologia, cit., p. 36, 47.

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