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TEOLOGIA SPIRITUALE E TEOLOGIA DOGMATICA

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TEOLOGIA SPIRITUALE E TEOLOGIA DOGMATICA

SAVERIO CANNISTRÀ

Articolerò la mia esposizione in tre momenti: nel primo cer­

cherò di mettere a fuoco il problema fondamentale del rapporto tra teologia e spiritualità, che è un problema "teologico”, dal quale dipende ogni possibile impostazione del rapporto tra teo­

logia dogmatica e teologia spirituale. In un secondo momento mi soffermerò, nel modo più sintetico possibile, sull’opera di due studiosi della tradizione spirituale, che hanno lavorato con metodologie e risultati diversissimi, ma che si caratterizzano entrambi per l’attenzione al particolare concreto, più che per un teorizzare astratto dalle singole esperienze spirituali. Cercherò, infine, di sintetizzare e concretizzare il senso del discorso svolto esprimendo ciò che mi pare la teologia dogmatica, e più ampia­

mente la chiesa, possa legittimamente attendersi dalla tradizio­

ne spirituale e dal suo studio rigoroso.

1. Il problema teologico del rapporto tra teologia e spiritualità Il primo e fondamentale problema consiste nel mettere in rapporto due entità diverse, ma in qualche modo collegate: l'una ha a che fare con il "dogma”, o con l'aspetto oggettivo della fede (la fides quae); l’altra ha a che fare con la "spiritualità", della quale - al di là della vaghezza del termine e della necessità di ulteriori specificazioni - si potrà dire che riguarda piuttosto l’a­

spetto soggettivo, esperienziale della fede (la fides qua), l’appro­

priazione personale del dato rivelato. Ciò che nella precompren­

sione ordinaria ancora oggi corrente appare evidente, anzi scon­

tato è l'eterogeneità dei due poli o sfere messe a confronto: da un lato i contenuti della fede rivelata e insegnata con autorità dal magistero, avvertiti come rigidi e non a disposizione del creden­

te, qualche volta neppure nella formulazione verbale; dall’altro il variegato mondo che appartiene a una "esperienza cristiana vis­

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suta”: testimonianze di vita, insegnamenti sulla preghiera, tecni­

che di meditazione, indicazioni sul cammino di maturazione spirituale, descrizioni di stati mistici, spunti di riflessione e di dottrina che insistono più che sulle verità di fede, comprese intellettualmente, sugli aspetti relazionali di comunione con Dio e con il prossimo. A me sembra che, per porre correttamente il rapporto tra dimensione oggettiva e dimensione soggettiva della fede, si debba innanzitutto superare o perlomeno problematiz­

zare l'ovvietà di tale precomprensione, che è il portato di una lunga storia e che, separandole, non rende giustizia né alla teo­

logia, in particolare dogmatica, né alla spiritualità. Certamente, la distinzione tra polo oggettivo e polo soggettivo, così come tra teoria e prassi è irriducibile, e dev’essere considerato deviante qualsiasi tentativo di superarla: sia nel senso della svalutazione della prassi a vantaggio della teoria, considerata unico luogo della verità (in una delle tante forme di intellettualismo o di gno­

sticismo), sia nel senso del riassorbimento della teoria nella prassi, nel vissuto esperienziale (in una delle tante forme di irra­

zionalismo e di misticismo, più o meno entusiastico). La distin­

zione necessaria dovrebbe, però, essere tracciata, mettendo insieme in luce i rapporti che collegano in modo non solo stret­

to, ma inseparabile i due versanti, al punto che senza l’apertura dell’una all’altra si snaturerebbe l'identità tanto della dimensio­

ne oggettiva della fede, quanto della sua dimensione esperien­

ziale. Ciò equivale a prendere sul serio il fatto che le verità di fede sono per l'assimilazione soggettiva, ed hanno quindi sempre una valenza salvifica. Pertanto, come già aveva affermato il Vaticano I, il connetterle "con il fine ultimo dell’uomo” (DS 3016) e, si vor­

rebbe aggiungere, con il cammino che a tale fine conduce, è una delle vie che aprono la ragione credente all’intelligenza dei misteri della fede. Basti pensare all’enorme arricchimento e rivi- talizzazione del trattato su Dio a cui ha portato il considerare il mistero del Dio trino come mistero storico-salvifico, non riguar­

dante dunque solo Dio in sé, ma innanzitutto l’agire salvifico di Dio, Dio con e per l'uomo e, corrispondentemente, l’uomo con e per Dio. Né si può negare che la riflessione teologica è stata pre­

ceduta su questa strada dall’esperienza spirituale di alcuni cre­

denti. Come insegna il Vaticano II, in un testo decisivo della Dei Verbum, "la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano (experiuntur) delle cose spirituali” (DV 8).

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D’altro canto, la fides qua è per la fides quae. L’esperienza spiri­

tuale cristiana non può essere concepita come qualcosa di pura­

mente soggettivo, un sentimento religioso di devozione, sotto- missione e adesione a Dio che si sviluppa indipendentemente dall’oggettiva verità della fede. Essa è, invece, assimilazione del mistero cristiano, penetrazione in esso come in una realtà viva e sperimentabile in tutta la ricchezza di dimensioni costitutive dell’esistenza umana, non solo in quella intellettuale. Colpisce in questo senso il riferimento costante della mistica autentica alle fonti oggettive della rivelazione: alla Parola di Dio, alla liturgia, ai sacramenti, alla vita della chiesa.

Per parlare al modo di Calcedonia, tra dimensione oggettiva e soggettiva, tra conoscenza teorica (scientifica?) e comprensio­

ne esperienziale (sapienziale) del mistero cristiano non è da porre una alternativa dualistica (che è almeno potenzialmente conflittuale) o una identificazione, ma un’unità “senza separa­

zione e senza confusione”, e per questo ricca di relazioni. Il rife­

rimento alla formula calcedonese non è casuale. Quel modo di esprimersi (si noti: di tipo negativo, non affermativo, il che indi­

ca la percezione di un mistero) è adeguato a definire non solo il rapporto tra umanità e divinità di Gesù Cristo, ma sulla base di esso tutto ciò che consegue all’evento dell’incarnazione, com­

preso il rapporto tra fede e ragione, che è a fondamento dell'im­

presa teologica. Troppo spesso in passato si è pensato alla teolo­

gia come all’applicazione al dato di fede di una ragione filosofi­

ca esterna, una ragione che nasce e si sviluppa in modo separa­

to dalla fede e ubbidisce a una logica ritenuta "neutra”. Al con­

trario, l’evento di Gesù Cristo, così come è all’origine della fede, è anche all’origine di un modo nuovo di pensare, che è capace di elaborare categorie nuove di pensiero e modi nuovi di conosce­

re, giudicare ed esprimere, più conformi alla verità dell’incarna­

zione. Per questo oggi si parla di “ragione teologica”, che ha caratteristiche diverse da una ragione filosofica "neutra” (penso più ancora che alla ragione della metafisica classica, alla ragio­

ne razionalisticamente intesa della modernità). Qualcosa di ana­

logo si potrà dire anche riguardo al rapporto tra teoria e prassi, tra sapere e sperimentare. Il sapere teologico è sempre un sape­

re della fede e con la fede, e dunque suppone una "esperienza”

ed è orientato a un ulteriore sperimentare: è un sapere teorico, ma che deriva da una prassi divina, in cui il credente si coinvol­

ge liberamente, ed orienta a una prassi umana rinnovata. Come non ci può essere quindi un sapere teologico completamente

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avulso dalla dimensione pratica (che vuol dire salvifica, e quin­

di pastorale e spirituale), così non ci può essere una esperienza spirituale che sia completamente separata dalla teoria, ossia che si sottragga per principio a qualsiasi possibilità di comunicazio­

ne e di verifica sulla base di un linguaggio e di una storia comu­

ne a tutti i credenti, e potenzialmente a tutti gli uomini. Questa, credo, non sarebbe buona mistica o buona spiritualità, ma cat­

tivo misticismo e cattivo spiritualismo.

Mantenere la distinzione senza perdere di vista l’unità è, naturalmente, assai più facile a dirsi che a farsi, come prova la ormai secolare controversia sulla teologia spirituale, su cui hanno abbondantemente riferito gli interventi precedenti. Una considerazione, per quanto semplice e ovvia, non dovrebbe comunque essere trascurata. Se per "spiritualità” noi intendia­

mo un capitolo del trattato di antropologia teologica (più o meno al modo di Stolz o anche di Garrigou-Lagrange e della scuola tomista), mi sembra che non abbiamo ancora incrociato il fenomeno "spiritualità", l'esperienza spirituale in quanto con­

cretam ente vissuta e osservabile, vorrei dire “gustabile”.

Ugualmente, se per studio della vita spirituale intendiamo una disciplina vicina alla teologia morale e ancor più alla teologia pastorale, che cerca di definire una tipologia del cammino spiri­

tuale a fini prevalentemente pratici, per dirigere le anime. Mi sembra decisivo, invece, che la teologia si incontri non con una idea già molto teologizzata della spiritualità o con un proget­

to/modello di vita spirituale dedotto da fonti teologiche, ma con l’esperienza spirituale in se stessa. Ciò che può essere racchiuso sotto il nome di spiritualità (o di contemplazione o di mistica) a tutto assomiglia tranne che alla materia di un trattato di teolo­

gia dogmatica: è una realtà viva, estremamente varia, comples­

sa, asistematica e soprattutto in continuo divenire, insomma una realtà che porta, insieme all’imprevedibile soffio dello Spirito, i segni della storia e della "carne”. Lo studio teologico della spiritualità dovrebbe dunque essere condotto in maniera da rispettare il particolare approccio alla realtà e le specifiche forme espressive, che sono caratteristiche della tradizione spiri­

tuale. Ciò richiede una metodologia prevalentemente induttiva, o meglio ermeneutica. Nella seconda metà del nostro secolo abbiamo avuto alcuni esempi di tale approccio alle esperienze spirituali. Due di essi mi paiono particolarmente istruttivi per un ripensamento del rapporto tra teologia dogmatica e teologia spirituale.

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2. Due esempi di approccio alle singole esperienze spirituali Parlando di lettura in chiave teologica di concrete esperien­

ze spirituali, il primo nome che viene in mente probabilmente è quello di von Balthasar. A lui risale l’idea di svolgere l’agiografia come una sorta di "fenomenologia soprannaturale”, ed è questo di fatto per lui il compito della teologia spirituale. L’esistenza di un santo (o almeno di alcuni santi donati da Dio alla chiesa) è il

"fenomeno” del disegno di Dio sulla storia, che si rende visibile nella particolare missione affidata a quel santo. Tale missione e carisma non deve, tuttavia, essere cercato - scrive von Balthasar - "in un’astrazione della vita, in una concettualizzazione del concreto, in una spersonalizzazione di ciò che è personale, ma sulla scorta del metodo fenomenologico, che, per quanto è pos­

sibile all'uomo, nel fenomeno concreto coglie L'essenza”, la

“forma”, l’intellegibile nel sensibile. Solo che qui l’intellegibile è qualcosa di soprannaturale e la sua contemplazione presuppone la fede, anzi la partecipazione alla vita della santità’’1. Mi sembra un contributo particolarmente importante e liberante per la teo­

logia in genere, e in particolare per la teologia spirituale, l’invito di Balthasar a superare, come dice Moioli, "una sorta di dicoto­

mia tra esperienza ed ontologia"2 rivalutando il concreto, il par­

ticolare, il fatto storico anche in una prospettiva ontologica.

"Quanto si svolge tra Dio e il mondo: concretissime tra Cristo e la Chiesa [...] non sono solo "fatti” storici, ma il centro dell’es­

sere che si è fatto evento, atto (actualitas essendi)”3. Se l’oriz­

zonte anche ontologico della teologia è definito dall’evento di rivelazione in atto tra Dio e l’uomo, tra Gesù Cristo e la sua chie­

sa, la teologia non può essere concepita come una scienza che compie operazioni di logica formale su concetti astratti, ma è piuttosto capacità di percepire la vita e la gloria di Dio laddove essa si manifesta. Per questo motivo la teologia dei santi è pre­

ziosa perché richiama al realismo e all’attualità dell’evento della rivelazione, mentre la teologia dogmatica "manterrà sempre la tendenza a m ettere così tra parentesi e a intendere la Rivelazione storica meno come un avvenimento in atto, da

1 H. Ur s v o n Balthasar, Sorelle nello Spirito, Milano 1974, 22-23.

2 G. Moio li, Teologia spirituale, D TI, I, 47.

3 H. Ur s v o n Balthasar, Teologia e santità, in Id., Verbum caro, Brescia 1985, 215.

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cogliere e da ascoltare sempre nel suo hic et nunc, che non come un dato presupposto, ed è questo a costituire la materia della riflessione teologica. Contro questo atteggiamento i Santi si sono sempre posti sulla difensiva, ritornando a spingersi nell’at­

tualità defl’evento della Rivelazione”4.

Quando, però, si passa ad esaminare la realizzazione del progetto nel dettaglio, emergono non poche perplessità e inter­

rogativi riguardo al modo di procedere di von Balthasar. Si pensi ad esempio alla sua interpretazione di Teresa di Gesù Bambino, tutta dominata - com'è noto - dalla convinzione che Teresa è stata sottratta dall’ambiente familiare e dal suo confessore alla solidarietà con i peccati degli altri uomini. La stessa dottrina della "piccola via” diventa, nell'interpretazione di von Balthasar, non la via dei poveri e dei peccatori, ma quella dei forti, dei generosi, degli adulti nella fede5. Scrive, infatti, von Balthasar:

"La piccola via di Teresa è una via di perfezione, una via per anime che hanno generosamente deciso di amare, di non fare propriamente altro che amare”6. E ancora: "Anziché rimprove­

rare alla piccola via di Teresa un troppo basso punto di parten­

za, una facilità eccessiva, si potrebbe obiettare che essa comin­

cia troppo in alto, che presuppone troppo”7. Come è potuto suc­

cedere che un teologo profondo e acuto come Balthasar sia arri­

vato a interpretare il messaggio di Teresa in questo modo, che è quasi l’opposto del suo senso ovvio (e diciamo pure: autentico)?

Anche questo è abbastanza noto: su di lui ha influito in maniera determ inante, come egli stesso riconosce, il pensiero di Adrienne von Speyr, che tra l’altro tradusse in tedesco Storia di un'anima, ma che soprattutto aveva una sua comprensione

“mistica” di Teresa, come di altri santi8.

4 Ivi, 2 2 5 .

5 Cfr. C. De Me e st e r, Dynamique de la confiance, Paris 199 52, 3 93: "[La piccola via non è] quella della fiducia di un’anima che si sente impotente, ma dell’amore che obbedisce a un doppio ritmo di demolizione e di costruzione.

La necessità d’essere bambina non deriva dal suo stato di imperfezione, ma è descritta come la preoccupazione di soltanto amare [...] In questo senso, l’impotenza non è considerata come un punto di partenza, ma come un effet­

to voluto. Secondo il teologo svizzero, i peccatori sono esclusi dalla ‘piccola via”’.

6 Balthasar, Sorelle nello Spirito, 2 0 3 . 7 Ivi, 2 1 3 .

8 Cfr. De Me e st e r, Dynamique de la confiance, 3 9 0 -3 9 2 .

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Aggiungo solo un altro brevissimo esempio. Il capitolo di Gloria dedicato a Giovanni della Croce si apre con un paragrafo intitolato "La perfetta avventura”9. L’autore gioca sul termine ventura usato da Giovanni nella poesia Noche oscura: “Oh dicho­

sa ventura!”. Il fatto è che ventura non significa affatto “avven­

tura (Abenteuer)", ma - come del resto anche in italiano - “sorte, fortuna” o "caso, accidente”. Che dire allora delle divagazioni balthasariane fondate su questo equivoco linguistico? Che dire anche della sicurezza con cui egli opta per la redazione A del Cantico, ritenendo la redazione B una interpolazione tardiva deH'unica autentica redazione A?

Al di là dei dettagli (che, tuttavia, non possono essere consi­

derati marginali) emergono da questi esempi tutti i rischi della impostazione di von Balthasar, che è quella di una lettura del dato concreto "daH’alto” di una determinata prospettiva teologi­

ca o addirittura di una personalissima esperienza mistica, come quella della von Speyr. Concordo pienamente con l'osservazione critica di Moioli a questo proposito: “La struttura della “feno­

menologia” proposta, per cui essa ricalca in sostanza il movi­

mento dell’"apparire” della figura o della partecipazione e perciò discende "dall’alto”, è davvero particolare. Il rischio ci sembra, quanto meno, quello di fare del "fenomeno” un’occasione per riproporre il disegno. E forse anche di “consumare” semplice- mente o di trapassare il fenomeno, per soffermarsi sull’intenzio­

nalità raggiunta: cioè Dio nel santo”10. In effetti, tutte le volte che si legge l'interpretazione che Balthasar dà di una qualsiasi figu­

ra (teologo, santo, poeta, filosofo), si ha l’impressione che essa serva più a illustrare la teologia balthasariana, che non a cono­

scere il pensiero dell'autore in questione. Questo scavalcamento del dato storico troppo velocemente interpretato alla luce di una determinata visione teologica può far venire in mente la tenden­

za della scuola alessandrina con i suoi rischi di eccessivo allego- rismo, platonismo, monofisismo.

Decisamente "antiocheno” può essere definito, invece, l’ap­

proccio alla spiritualità di un autore assai meno noto e studiato di von Balthasar, e cioè Michel de Certeau. Per de Certeau la spi­

ritualità, prima di essere qualsiasi altra cosa, è parte di una sto­

9 H . U r s v o n B a lth a s a r , Gloria, III: Stili laicali, M ila n o 1976, 97ss.

10 Moioli, Teologia spirituale, 4 8 .

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ria. Davanti agli occhi dello studioso ciò che si mostra di un’e­

sperienza spirituale è il suo “corpo” storico. Storia è qui intesa non tanto come succedersi di fatti, ma in una più ampia pro­

spettiva culturale e, più precisamente, linguistica (si sente qui l'influsso della scuola storica delle Annales, dell’antropologia strutturale di Levi-Strauss e della psicanalisi di Lacan).

Dimensione linguistica e, mediante il linguaggio, culturale e sociale, non costituiscono solo la superficie della spiritualità, una sorta di rivestimento esterno da superare per giungere al nocciolo duro interno (ontologico? teologico?). Il linguaggio è il

“fenomeno” dell'esperienza spirituale, cioè non l’apparenza superficiale, al di là della quale va ricercata la realtà, ma la manifestazione stessa della realtà, il suo "simbolo reale”, per usare un’espressione che si applica alla teologia dei Padri. Scrive de Certeau: “Si dirà che ciò significa guardare le cose solo dal­

l’esterno e vedere solo il superficiale della spiritualità, con quel­

le lenti deformanti che sono una sociologia delle religioni o una storia del solo “sentimento” religioso. Ma l’essenziale non è fuori del fenomeno, il quale è del resto la forma della coscienza; esso struttura l'esperienza dell’essenziale nei cristiani e negli stessi mistici”11. Uno studio della spiritualità che, nella pretesa di attingere l’essenza della contemplazione o della mistica per una via più diretta (dogmatico-deduttiva o mistico-induttiva), non sia attento a questa sua corporeità storico-linguistica, perde di vista il fenomeno e con il fenomeno perde la possibilità di incon­

trare la cosa stessa. “In ogni spiritualità l’essenziale non è in qualche altra cosa, estranea al linguaggio del tempo. È questo stesso linguaggio che lo spirituale prende sul serio; è in questa situazione culturale che “prendono corpo” il suo desiderio e il suo rischio; è per suo mezzo che trova Dio e lo cerca ancora, che esprime la sua fede, che sperimenta simultaneamente un collo­

quio con Dio ed un colloquio con i fratelli”12. Se la spiritualità si esprime in linguaggi culturalmente situati, è anche vero che nella spiritualità la cultura di una società esprime la sua coscien­

za più profonda, la sua risposta ai problemi fondamentali dell’e­

sistenza: “Una dialettica culturale definisce ogni volta il proble­

ma che per lo "spirituale" diventa il problema della sua unione

11 M. d e Ce rteau, Culture e spiritualità, in “Concilium” 1966, n° 9, 60-86 (cit. 65-66).

12 Ivi.

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con Dio. Una spiritualità risponde alle questioni di un tempo e vi risponde sempre negli stessi termini di queste questioni, per­

ché sono quelle di cui vivono e di cui trattano gli uomini di una società, e i cristiani come gli altri [...] Più che ad elaborare una teoria, essa tende a manifestare come vivere dell’Assoluto nelle condizioni reali fissate da una data situazione culturale”13.

La sottolineatura dell’omogeneità linguistico-culturale tra la spiritualità e la società di una determinata epoca non deve tut­

tavia far dimenticare ciò che appare come una costante della tradizione spirituale, e cioè il suo carattere di "rottura” rispetto all’ambiente, sia quello della tradizione religiosa, sia quello della società mondana. Come caratterizzare questa rottura? De Certeau parla di “sorpresa”, intendendo con ciò - mi sembra - la scoperta, originata da un “desiderio eccessivo”, di un vuoto, di un’assenza: Dio è assente, non è qui, è altrove: "E mistico colui o colei che non può cessare di essere in viaggio e che, con la cer­

tezza di ciò che gli manca, sa di ogni luogo e di ogni oggetto che non è quello lì, che non può risiedere qui né contentarsi di quel­

lo là. Il desiderio crea un eccesso. Esso va oltre, passa e perde dimore. Costringe ad andare più lontano, altrove. Egli non abita da nessuna parte. È abitato"14. Il mistico è testimone di una regione che non sta né sulla terra, né in cielo, una regione nella quale il corpo e la parola non sono riducibili a meri segni, ma acquistano la consistenza di mistiche dimore. Il suo scaturire da un desiderio inappagato, da una pungente nostalgia che mette in cammino al di là delle forme e dei luoghi ordinari di relazione con l’Assoluto dà alla spiritualità un carattere perennemente dinamico. Per una sorta di "principio di indeterminazione” l’e­

sperienza spirituale non può mai essere fissata in una forma:

essa rimane un movimento cangiante. La trasformazione del movimento in oggetto spirituale può restituire al più la "lettera”

della spiritualità, ma non ne manifesta ciò che ne era lo "spiri­

to”. Avviene per la spiritualità un po’ come per il linguaggio metaforico, di cui del resto spesso gli autori spirituali si avval­

gono: non è possibile tradurlo in un equivalente concettuale.

L’enunciazione non metaforica non ha infatti quel di più di senso caratteristico del discorso metaforico, che instaura una relazione tra il parlante e l’ascoltatore.

13 Ivi, 66-67.

14 M. de Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Bologna 1987, 404-405.

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La complessa proposta di M. de Certeau potrebbe essere sin­

tetizzata dicendo che egli ha tentato una lettura culturale della spiritualità e una lettura spirituale della cultura. Non ho né la competenza, né l’intenzione di valutare qui criticamente il suo lavoro, che ho appena cominciato a conoscere. Ciò che del suo lavoro mi sembra un risultato anche teologicamente di grande interesse è l’esempio di un approccio all’esperienza spirituale con un metodo che la rispetta nella sua individualità, storicità, e, diciamo pure, nella sua sempre rinnovata capacità di spiazza­

mento. Nella conclusione di un suo celebre saggio sulla parola

"mistica” nel XVII secolo de Certeau accenna ai diversi tentativi di difendere la mistica (nata appunto allora come “sostantivo") dagli attacchi di ecclesiastici e teologi. In genere, si batté la stra­

da del concordismo, cercando di ricondurre il “modus loquendi mysticorum” al linguaggio degli scolastici. Soprattutto i carme­

litani scalzi, fin dalla prima generazione della riforma teresiana (con Tommaso di Gesù), “aprirono nella teologia dei capitoli consacrati alla vita mistica, alla contemplazione, alle grazie straordinarie, e diedero loro delle “resolutiones scholastico- mysticas” nel più puro stile della Scuola”15. Pur apprezzando la ricchezza di questi contributi, bisogna riconoscere che essi erano "come affascinati dall'ambizione di sopprimere la diffe­

renza, di livellare il linguaggio, oppure, soprattutto nel XVIII secolo, di creare una sorta di “tertium quid" eclettico e unifica­

tore [...] Ma la soluzione rischia di essere ingannevole"16. In effetti, i mistici non hanno mai preteso di dire qualcosa di nuovo o di diverso da ciò che la chiesa predica e insegna. La loro novità consiste in una maniera nuova di dire le stesse cose, che dipen­

de dall’aver fatto una esperienza nuova di esse. In ogni linguag­

gio si esprime un tipo di esperienza. Il linguaggio della Scolastica è diverso da quello della mistica perché esprime una esperienza diversa. "Non sono le concessioni o le "concordanze”

che rendono l’uno o l’altro [linguaggio] più capace di esprimere l’unica Verità, ma al contrario lo sviluppo del tipo di esperienza che si esplica in ciascuno dei due. In un certo senso, più essi sono fedeli alla loro differenza “fondamentale”, più la verità che

15 M. d e Cer tea u, "Mystique” au XVIle siècle. Le problème du langage

"mystique", in L’homme devant Dieu. Mélanges offerts au P. H. de Lubac, II, Paris 1964, 290.

16 Ivi, 291.

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perseguono per le loro vie proprie riunirà, alla line, 'S. Dionigi con i suoi mistici e S. Tommaso con i suoi teologi’”17.

3. Il lavoro della teologia spirituale: dall'esegesi alla sintesi sistematica

Mettere in luce la differenza fondamentale tra linguaggio degli spirituali e linguaggio dei teologi è probabilmente il primo compito a cui deve rispondere uno studio teologico della spiri­

tualità. Mi domando allora se la teologia spirituale non debba lavorare in maniera non troppo dissimile dalla teologia biblica (o da altre teologie positive). E necessaria innanzitutto una ese­

gesi dei testi e degli autori, che ne ascolti con rigore storico-filo- logico il messaggio, tenendo conto delle particolarità dei generi letterari e dei linguaggi impiegati. Da questa fase analitica ci si può attendere lo sviluppo di un’arte ermeneutica degli autori e dei testi spirituali: non semplicemente una storia della spiritua­

lità, ma uno studio sistematico del linguaggio, del lessico, della semantica, della retorica, della produzione di simboli, che si svi­

luppi sia sull’asse diacronico, sia su quello sincronico (cogliendo ad esempio le "isoglosse" del linguaggio spirituale di una deter­

minata epoca storica). Solo passando attraverso questa esegesi ed ermeneutica teologica degli autori spirituali mi sembra che si possa giungere a una fase di ricomposizione sintetica dei temi teologico-spirituali fondamentali. Certamente, la teologia spiri­

tuale più tende all’unità e alla sistematizzazione, astraendosi dalle modalità proprie del linguaggio spirituale, più si avvicina alla teologia dogmatica e morale, e diventa più che un'altra teo­

logia, un altro compito della teologia: quello di giungere alla verità della fede a partire dalla comprensione di coloro che ne hanno fatto un’esperienza viva. Proprio in questo tendere dalla storia alla teologia, dal particolare all’universale, dalla prassi alla teoria si esercita, per dirla con Hegel, lo "sforzo del concet­

to” della teologia spirituale.

17 Ivi. L’espressione citata è tratta da Dieg o d e Je s ú s, Apuntamientos y advertencias en tres discursos para más fácil inteligencia de las frases místicas y doctrina de las obras espirituales de nuestro venerable Padre fray Juan de la Cruz, riedito da P. Silverio di S. Teresa in S. Jua nd e la Cru z, Obras, I, Burgos 1929, 347-395 (cit. 391).

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Vorrei aggiungere un’ultima notazione. Più la teologia spiri­

tuale rimane fedele alla sua particolarità, più essa si apre a incontri che ne dilatano il suo significato e valore. In questo transitare dall’esperienza del singolo credente alla verità rivela­

ta al mondo la teologia spirituale è in grado di superare molte barriere e steccati: sia quelle che si erigono accademicamente tra discipline e facoltà, sia quelle (ben più pesanti) che separano le chiese cristiane. Forse è proprio dalla tradizione spirituale che la teologia dogmatica si attende orientamenti decisivi per impa­

rare un modus loquendi più autenticamente teologico, fondato su una ontologia non della sostanza, ma della relazione, e un modo di pensare, che non precede, ma segue l’ascolto della paro­

la. Mi ha colpito leggere in una testimonianza autobiografica di un teologo luterano, dotato di una forza speculativa non comu­

ne, come Eberhard Jungel, che il pensare a Dio come a colui che in Gesù Cristo si è avvicinato all’umanità più di quanto l'uma­

nità possa essere vicina a se stessa (l'agostiniano Deus interior intimo meó) ha avuto "per il mio pensiero teologico una specie di funzione chiave e mi ha aperto anche le porte della mistica, di una mistica in senso stretto. Ammetto certo che [...] ho sempre solamente guardato attraverso questa porta e che non vi sono mai entrato. Ma può darsi che lo faccia, prima o poi. Forse in questo aspetto posso ancora cambiare”18. Al di là di ogni osser­

vazione di merito, che qui non ho il tempo di svolgere, mi sem­

bra bello che alla parola "mistica” si apra nella mente di un teo­

logo così rigoroso e coerente come Jungel la prospettiva di un possibile cambiamento. In ultima analisi, è questo soffio di libertà, questo vento che rimescola salutarmente le carte che noi tutti ci attendiamo dalla spiritualità, e in particolare chiunque di noi si dedichi in modo sistematico allo studio della teologia.

18 E . Jü n g e l in J. Moltm ann (ed .), Biografia e teologia. Itinerari di teolo­

gi, B r e sc ia 1998, 17.

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