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CAPITOLO PRIMO Analisi della seconda parte del Fedro

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CAPITOLO PRIMO

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1. Fedro: composizione e “leggende”.

Quello del Fedro è stato un destino particolare dato che, per riprendere le parole di Derrida, “ha dovuto aspettare circa venticinque secoli perché si smettesse di considerarlo un dialogo composto male.”1 L’essere “composto

male” è un’espressione che fa riferimento essenzialmente alla struttura stessa del dialogo che, per molto tempo, è stata considerata piuttosto disarmonica e questo essenzialmente perché al suo interno sono presenti tre grandi argomenti: l’eros, trattato nella prima parte, la retorica, trattata nella seconda, e il rapporto tra discorso orale e discorso scritto, affrontato nelle pagine finali. A prima vista questi tre temi si legano male tra loro, o per lo meno questa era l’idea già diffusa presso gli antichi e riportata da Diogene Laerzio, secondo la cui testimonianza “si dice” che il Fedro sarebbe opera di un giovane Platone, addirittura il suo primo dialogo2. In altre parole, la presunta mal composizione dell’opera sarebbe legata all’inesperienza dell’autore. In epoca moderna questa “leggenda” viene ripresa da Schleiermacher, che pensa di avvalorarla sostenendo che un Platone maturo non avrebbe mai criticato la scrittura, come invece sembra accadere nella parte finale del Fedro. In particolare, per Schleiermacher il Fedro sarebbe il primo dialogo composto da Platone, proprio per la sua critica verso i punti deboli, gli svantaggi della scrittura ai quali, con il tempo, lo stesso Platone avrebbe trovato la soluzione nella forma dialogica delle sue opere. Non è difficile notare, a mio avviso, che una tale interpretazione perde di vista due punti importanti:

- Il Fedro stesso è un dialogo

1 Derrida, J., La farmacia di Platone, Milano, Jaca Book, 1985, p. 53. 2 Ibidem.

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- “Solo una lettura cieca e grossolana ha potuto lasciar correre la voce che Platone condannasse semplicemente l’attività dello scrittore”3

Da ciò risulta evidente che la questione sia più complicata di quella proposta da Diogene Laerzio e da Schleiermacher, anche perché non dobbiamo assolutamente dare per scontato che le tre parti nelle quali il dialogo dovrebbe essere diviso siano realmente mal legate, cosa che, per riprendere le parole di Derrida, solo un lettore cieco e superficiale potrebbe credere realmente.

2. Il punto di partenza della mia riflessione.

Per Trabattoni lo scopo del Fedro “sarebbe quello di mostrare la differenza tra filosofo e retore, fondata sul fatto che il filosofo dispone di determinate

conoscenze di cui il retore è mancante, e che tali conoscenze gli permettono di essere molto più persuasivo del suo concorrente.”4 Per dimostrare questa tesi,

che io ritengo pertinente, dobbiamo cercare di rispondere ad alcune domande:

- La persuasione non è lo scopo della retorica? Perché, allora, il filosofo risulta più persuasivo del retore? Qual è il rapporto tra filosofia e retorica? E quello tra filosofia e persuasione?

- Come si lega il tema della retorica (o della filosofia) a quelli dell’eros e della riflessione sulla scrittura?

3 Derrida, op. cit., p. 54.

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3. Retorica: techne o tribe?

A 258 d Socrate afferma che lo scrivere discorsi, di per sé, non è un male, ma lo è scrivere e parlare in modo brutto e riprovevole, quindi si chiede quale sia la natura dello scrivere bene e dello scrivere male. La domanda diretta di Socrate riguarda la scrittura, ma dato che viene fatta allusione sia all’attività dello scrivere che a quella del parlare, possiamo affermare che in questo punto del dialogo non viene posta alcuna differenza netta tra situazione scritta e situazione orale, e questo essenzialmente perché per adesso l’attenzione viene posta sulla questione circa la verità contenuta dal discorso, sia esso scritto o orale. In particolare, Socrate si interroga se un discorso ben detto e di successo non debba presupporre, nella mente di colui che lo pronuncia/scrive, la conoscenza della verità dell’argomento trattato. La risposta di Fedro illustra molto bene l’opinione più diffusa tra gli stessi retori, i quali sostengono che al fine della persuasione non sia necessaria la conoscenza del bene, del giusto e del bello in sé, ma solo la conoscenza delle opinioni che i più hanno di questi. La tesi di fondo è che la persuasione, vero e unico obiettivo della retorica, può venire solo dalla conoscenza dell’opinione e non dalla conoscenza della verità: il retore può convincere la folla solo facendo leva sulle opinioni della folla, prescindendo dalla verità (259 e4 – 260 a4).

Per Socrate questo è uno scenario molto preoccupante: che cosa succederebbe, si chiede, se un retore, ignorando il bene e il male, cercasse di persuadere una città ignara delle stesse cose? Per la precisione: cosa succederebbe se il retore, dopo aver fatto uno studio sulle opinioni della massa, lodasse il male come se fosse il bene, persuadendo la città a fare il male

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anziché il bene? Il risultato, come osserva Fedro, sarebbe molto sconveniente (260 c6 – d2).

Le parole di Socrate presuppongono che la folla ignori il bene e che, proprio per questo, tenda a chiamare bene ciò che in realtà è male; in questo caso il discorso del retore risulterebbe altamente ingannatore. In realtà, si può propriamente parlare di inganno solo se presupponiamo in colui che parla la conoscenza della verità, che viene appositamente tenuta nascosta, ma il retore non conosce la verità. Non la conosce perché non ritiene sia necessaria per il suo scopo e, di conseguenza, se non la ritiene necessaria significa che non l’ha indagata, fermandosi al piano della mera doxa. In questo senso, quindi, il retore non è un vero ingannatore della folla, ma al massimo un ingannatore di se stesso.

Già a questo punto Socrate, attraverso la domanda rivolta a Fedro, ci pone davanti a due tipi di retorica: una retorica tradizionale, che possiamo definire “cattiva”, perché ha di mira solo la persuasione della folla e si basa sulla doxa, ed una retorica “buona” basata sulla conoscenza dell’oggetto del quale si discute. Di per sé, quindi, la retorica non sembrerebbe né un be ne né un male, ma un mero strumento nelle mani del retore.

A questo punto della discussione Socrate finge l’entrata in scena della retorica stessa, che si lamenta del fatto che su di lei è stato dato un giudizio ingiusto: questa, infatti, non forza nessun amante della verità ad apprendere l’arte del dire, ma consiglia di rivolgersi a lei solo dopo aver acquisito la verità. In fine sottolinea che senza di lei, ovvero senza l’arte del dire, nessuno che conosca il vero sarà più facilitato a persuadere (260 d4 – 9). Affermare che la retorica non forza nessun amante della verità ad apprendere l’arte del dire può sembrare

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un’affermazione dissonante, perché, a mio parere, sembra suggerire che l’intento socratico sia quello di distinguere nettamente non tra due tipologie di retorica, bensì tra due attività: l’apprendimento dell’arte del dire, da un lato, e il raggiungimento della conoscenza della verità, dall’altro, e che l’entrata in scena della retorica sia funzionale a smentire questa opposizione, precisando l’importanza di un legame tra le due. In più, qui troviamo l’importante considerazione sulla potenza della persuasione: la verità, da sola, non basta, quindi, implicitamente, si afferma che la persuasione è necessaria alla diffusione della verità. Ma l’osservazione socratica va avanti: ciò che è stato appena detto sarebbe valido solo se la retorica fosse un’arte, techne, ma questa è soltanto una pratica, tribe (260 e2 – 5). Da questa battuta sembrerebbe che tutta la retorica non sia nient’altro che una tribe, ma in questo modo, a mio avviso, verrebbe annullato il consiglio espresso dalla retorica stessa, ovvero il volgersi a lei solo dopo aver acquisito la verità. Come stanno le cose? La spiegazione ci viene data dallo stesso Socrate, ma attraverso le parole di un fantomatico Spartano: “Una vera arte della parola – dice lo Spartano – senza essere connessa alla verità, non esiste, né mai esisterà.” (260 e5- 7).

Eccoci, dunque, ad una prima conclusione: nell’ottica di Platone, quella descritta da Fedro, ovvero quella che i retori pretendono di insegnare sotto compenso, non è la vera retorica, non è la vera arte della parola, ma solo una pratica, una tribe, poiché è degna di essere definita arte solo quella retorica che non prescinde dalla verità.

Ora, la distinzione tra una retorica “cattiva”, definita come tribe, ed una retorica “buona”, definita come techne, in realtà non esiste prima della riflessione

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platonica sulla retorica. Questo è, a mio avviso, un punto che dovrebbe essere tenuto presente, perché implica che prima della riflessione platonica la retorica fosse soltanto una e propriamente quella che Platone indica come falsa.

4. La conduzione dell’anima.

Ma è solo il rapporto con la verità a fare la differenza? E quali sono le implicazioni?

Subito dopo la precisazione dello Spartano Socrate ci presenta la definizione della retorica come psychagogia, ovvero come arte per dirigere le anime attraverso la parola, non solo nei tribunali e nelle altre riunioni pubbliche, ma anche nelle conversazioni private (261 a7 – b2). Il termine che qui viene usato, techne, ci fa subito pensare che la definizione riguardi la vera retorica, ovvero la retorica propriamente detta e che, quindi, solo questa sia pensabile come

psychagogia. Il collegamento è sicuramente pertinente, ma quel “dirigere le

anime” mi appare come un’espressione troppo vaga, che può benissimo adattarsi anche per una definizione della cattiva retorica. A cosa mirano i retori, secondo Fedro? A che cosa mira, ad esempio, il discorso di Lisia? Alla persuasione, ovvero a dirigere le anime degli ascoltatori verso l’assenso della tesi proposta nel discorso. Certo, la cattiva retorica dirige le anime verso l’approvazione di una doxa, mentre la buona retorica, deduciamo, deve condurre le anime verso la verità e nel passo che stiamo analizzando si parla di techne, quindi si parla necessariamente della vera retorica, quella basata sulla verità e che conduce alla verità. In ogni caso, a mio avviso, non deve essere dimenticato il fatto che qualsiasi parola, qualsiasi discorso ha insito in sé il

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potere di trascinare le anime, quindi qualsiasi discorso può essere pensato come psychagogia. Se così non fosse non si capirebbe, del resto, l’urgenza platonica di distinguere tra una cattiva ed una buona retorica, tra una tribe ed una techne della parola. A dettarne l’urgenza, in altre parole, potrebbe essere proprio la potenza della parola che, per se stessa, non è né un bene né un male, ma solo uno strumento nelle mani di un retore che, a sua volta, può essere un buono o un cattivo retore.

Parlando di persuasione abbiamo risposto ad una delle nostre domande iniziali: dato che sia la retorica che la filosofia hanno a che fare con discorsi e in particolare con discorsi pensati per essere rivolti ad altri, ne risulta che entrambe sono strettamente legate a quella potenza insita nella parola stessa che è la forza persuasiva, intesa come capacità di portare l’anima dell’ascoltatore ad abbracciare una tesi piuttosto che un’altra. Se questo è il quadro, possiamo dedurre che:

- Sia la filosofia che la retorica hanno interesse a curare la capacità persuasiva dei loro discorsi

- Entrambe hanno un grande influsso e, di conseguenza, una grande responsabilità verso l’opinione pubblica che, in un modo o in un altro, riescono ad influenzare

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5. Dalla persuasione al pharmakon

Nell’ Encomio di Elena, Gorgia descrive così la potenza della parola:

“La parola, che persuade l’anima, una volta persuasala, la costringe ad obbedire alle cose dette e ad acconsentire alle cose in corso.”

Ma qual è la natura di tale potere?

“La potenza del discorso ha con la disposizione dell’anima lo stesso rapporto che ha la disposizione dei farmaci (ton pharmakon taxis) con la natura dei corpi. Come alcuni farmaci fanno uscire dal corpo certi umori, ciascuno il proprio, e gli uni fermano la malattia, gli altri la vita; così alcuni discorsi affliggono ed altri rallegrano; gli uni terrorizzano, gli altri imbaldanziscono gli uditori; altri con una cattiva persuasione drogano l’anima e la stregano (ten psychen epharmakeusa

kai exegoeteusan).”5

Gorgia propone un parallelo tra il farmaco e il discorso, da un lato, e il corpo e l’anima, dall’altro: così come il farmaco può sia curare che uccidere il corpo, il discorso può avere, sull’anima, sia un effetto positivo che negativo. Il discorso, quindi, ha una natura ed una dynamis ambivalenti, proprio come il farmaco, al quale viene paragonato. E non è un caso che proprio lo stesso termine greco pharmakon racchiuda in se stesso questa ambiguità. Nel testo sopracitato di Gorgia ho tradotto il termine con “farmaco”, per cercare di lasciargli un significato quanto più generale possibile, in modo che il tema dell’ambivalenza emergesse pian piano: per un greco leggere pharmakon significa considerare, nel medesimo attimo, tutte le sue sfaccettature di “rimedio”, “veleno”, “droga”,

5 Per questi due passi tratti dall’ Encomio di Elena di Gorgia mi sono basata sulla traduzione data da

Derrida in, Derrida, op.cit, pp. 108 – 109, tranne per la traduzione del greco pharmakon, come spiego nella parte seguente.

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“filtro”. Pharmakon, quindi, come ciò che può dare la salvezza e ripristinare la vita, ma anche come ciò che procura la morte, e se questo è anche il potere del discorso, del logos, è assai legittimata l’attenzione che Platone vi pone.

Ed è proprio il concetto di pharmakon che per Derrida costituisce il filo conduttore di tutto il Fedro.

All’inizio del dialogo Fedro ricorda un mito, quello del rapimento della giovane Orizia da parte del dio Borea. Socrate, dando una spiegazione razionalizzante del mito, come del resto era in voga tra i sofisti del V secolo, ipotizza che il racconto narri una vicenda tutto sommato banale: “la giovane, mentre giocava con Farmacea, fu sospinta giù per le rupi che sono qui intorno da una ventata di Borea, e così dopo la sua morte si raccontò che fosse stata rapita da Borea.” (229 c6 – d) Ciò che ci interessa in questo passo è la presenza di una seconda fanciulla, denominata Farmacea. Ora, come sottolinea Derrida, “Farmacea (Pharmakeia) è anche un nome comune che indica la somministrazione del

pharmakon, della droga: del rimedio e/o veleno” e “con il suo gioco, Farmacea

ha trascinato alla morte una purezza verginale ed una interiorità intatta.”6

Si vede bene che fin da subito non solo Platone ci presenta, anche se in maniera leggermente velata, il termine pharmakon, ma ce ne presenta tutta la forza ambigua del concetto, legandolo, non a caso, al gioco ed alla morte. E proprio questi ultimi, il gioco e la morte, ritorneranno a più riprese nel corso del dialogo, costituendo un invisibile filo conduttore che, senza staccarsi dal pharmakon, di cui sono aspetti portanti, ci guideranno fino alla fine del Fedro, ovvero fino alla questione del rapporto tra discorso orale e scrittura.

6 Derrida, op.cit, p. 57.

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Ma il veleno, la droga, è anche il discorso di Lisia che Fedro nasconde sotto il mantello. E’ questo biblion, infatti, che riuscirebbe a far viaggiare Socrate per tutta l’Attica, proprio lui, Socrate, che non esce mai dalla città e che non la abbandona neanche per fuggire alla morte; ma è proprio questo il potere del

pharmakon, che “operando per seduzione fa uscire dalle vie e dalle leggi

generali, naturali o abituali.”7

“Ora, tu hai scoperto, forse, la droga (to pharmakon) per farmi uscire; perché come quelli che menano avanti le bestie affamate agitando sui loro occhi una frasca o un frutto, così tu mostrandomi i discorsi dei libri mi dai l’idea che mi porterai in giro per tutta l’Attica e per ogni altro posto ti venga voglia.” (230 d4 – e)

Socrate, all’inizio del dialogo, si definisce un “amante di discorsi”, un uomo che “ha febbre di ascoltare discorsi”; la bramosia per i discorsi è resa, in questo passo, dal fatto che Socrate stesso si paragoni ad una bestia affamata, ad una bestia che ha finalmente trovato il proprio cibo. Ma il libro, non ce ne dimentichiamo, è un veleno, è un pharmakon, che seduce e conduce via, lontano dalla strada abituale, e se il libro è soltanto un veleno, allora non può saziare il vero amante di discorsi.

Lo sviamento e l’inganno emergono, quindi, come altre caratteristiche portanti del pharmakon.

7 Derrida, op. cit., p. 58.

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Se parliamo di discorsi contenuti nei libri, allora parliamo di scrittura; e se il libro, che contiene discorsi scritti, è definito pharmakon, allora questa deve essere anche la caratteristica della scrittura.

“E’ insomma per un caso o per risonanza se, prima ancora che la presentazione esplicita della scrittura come pharmakon intervenga al centro del mito di Theuth, i biblia e i pharmaka sono già associati con un’intenzione piuttosto malevola o sospettosa?”8

6. Il discorso come zoon e la dialettica.

Ma torniamo al Fedro, al punto in cui l’avevamo lasciato. La domanda iniziale di Socrate era questa: qual è la natura di un buon discorso? Finalmente arriva la risposta: “un discorso deve essere costruito come un essere vivente; deve avere un suo proprio corpo, cosicché non manchi né di testa né di piedi, ma abbia le sue parti di mezzo ed i suoi estremi, composti così da essere in armonia tra loro e con l’intero” (264 c2 – 5). Il discorso di Lisia, al contrario, non solo non è composto in questo modo, ma viene addirittura paragonato all’epigramma scritto per Mida di Frigia, per il quale “non c’è alcuna differenza se si comincia – a leggerlo – dal primo o dall’ultimo verso.” (264 e1- 2). In altre parole, ciò che manca al discorso del retore Lisia è l’organicità, ovvero quella disposizione degli argomenti tale da mostrare il tutto come un ragionamento che da un punto iniziale x giunge, attraverso ben determinati passaggi, ognuno dei quali posto in un ben preciso luogo del discorso, ad una conclusione y. In questo punto del dialogo Socrate si riferisce esplicitamente ai discorsi, sia quelli

8 Derrida, op.cit, p. 60.

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scritti, come quello di Lisia, sia quelli pronunciati, come i suoi due discorsi sull’amore, quindi quando afferma che il logos deve essere costruito (e pensato) come uno zoon, si riferisce prima di tutto al logos in quanto discorso. A mio avviso, però, dato che il termine greco ha anche il significato di pensiero9, Socrate in un certo senso allude ad entrambi i significati; ogni discorso, logos, inteso come ciò che viene scritto e/o pronunciato, non può prescindere da quell’altro logos che è il nostro pensiero, la nostra ricerca, il nostro discorso interiore circa un determinato oggetto di conoscenza. Ogni discorso è specchio del pensiero e il pensiero è ciò che è all’origine di ogni discorso, pur essendo esso stesso discorso. Organicità e ordine del pensiero, quindi, come condizioni necessarie per un buon discorso, organico e ordinato. Se le cose stanno così, è preliminarmente necessario saper pensare bene e soprattutto aver pensato bene circa l’oggetto del discorso. Che il nostro ragionamento non sia del tutto errato, può esserne prova il fatto che a 265 d2 – 7, Socrate esponga due procedimenti che sembrano avere a che fare, prima di tutto, più con il pensiero su un oggetto, inteso come ricerca della verità su un determinato oggetto d’interesse, che con la struttura di un discorso:

9 A rinforzo possiamo citare due passi, uno tratto dal Teeteto, l’altro dalle Leggi.

“Socrate: Con il termine pensare (to dianoeisthai), dunque, intendi ciò che intendo io? Teeteto: E tu cosa intendi? Socrate: Il discorso (logos) che l’anima svolge tra sé e sé riguardo a ciò che prende in esame (…) Secondo me, questo suo pensare non assomiglia a nient’altro che a un dialogare, ponendo a se stessa domande, e traendo da sé le risposte, affermando e negando. E quando, nello stabilire una definizione, sia che vi arrivi con lentezza, sia che la colga di slancio, l’anima raggiunge una conclusione ormai costante e non abbia più esitazioni, allora noi stabiliamo che quella sia la sua opinione. Sicché io definisco l’avere opinioni un discorrere e l’opinione un discorso pronunciato (Host’egoge to doxazein

legein kalo kai ten doxan logon eiremenon), non certo rivolto a un’altra persona, né detto a voce alta,

ma in silenzio, rivolto a se stessi.” (Teeteto, 189 e6 – 190 a6)

“Ateniese: (…) ma d’altra parte senza il discorso l’anima mai è venuta ad essere, né è, né mai poi verrà ad essere dotata di intelligenza e di intelletto.” (Leggi, 963 e)

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- abbracciare in uno sguardo d’insieme e condurre ad un’unica forma ciò che è molteplice (synopsis)

- smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali (diairesis)

Per farci capire meglio Socrate usa, come esempio, i suoi due discorsi precedentemente pronunciati: il tema di entrambi è l’amore, definito come una forma di epithumia, ma anche di mania. Il primo discorso, quello costruito sulla falsariga della tesi di Lisia, espone gli aspetti e gli effetti negativi dell’eros inteso come epithumia, mentre il secondo discorso, dopo un’attenta suddivisione della mania in quattro “sottoinsiemi”, illustra gli effetti positivi dell’eros, inteso come mania inviataci dagli dei. L’importanza di dare una definizione dell’oggetto in questione, in questo caso l’eros, è preliminare per poter costruire un discorso organico e ben strutturato, ma prima di poter giungere ad una definizione esauriente è necessario intraprendere un percorso di ricerca e di analisi dell’oggetto in questione, alla fine del quale l’oggetto della ricerca, ora diventato l’oggetto della nostra conoscenza, ci appare strutturato come un organismo vivente, composto da varie parti, magari contrarie tra di loro, ma che compongono un tutto organico. Il discorso scritto e/o pronunciato è solo un prodotto successivo, finalizzato ad esporre all’ascoltatore/lettore la nostra ricerca ed a persuaderlo della sua legittimità.

Tornando al testo, Socrate si dichiara innamorato di questi procedimenti, ovvero della suddivisione e della riunificazione, proprio per essere in grado di parlare e di pensare, e coloro che sono capaci di fare altrettanto li definisce dialettici. Ma non è certo questo il nome con il quale devono essere chiamati coloro che seguono l’insegnamento di Fedro e di Lisia (266 b3 – c2). In questo modo la

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vera retorica, definita precedentemente psychagogia, viene legata alla dialettica e contrapposta in maniera decisiva alla falsa retorica, quella praticata e insegnata da retori come Lisia, i cui discorsi mal strutturati rivelano, nella migliore delle ipotesi, una cattiva analisi della verità e un errato approccio del pensiero verso l’oggetto di conoscenza.

A questo punto Fedro prende la parola, in maniera decisiva, affermando di concordare con Socrate nel dover definire dialettici coloro che conoscono i procedimenti della suddivisione e della riunificazione; questi, però, non hanno niente a che fare con Lisia e, di conseguenza, “il procedimento retorico ci sfugge ancora” (266 c6 – 9). In altre parole, Fedro non ha colto la distinzione socratica tra vera e falsa retorica, e non ha compreso che l’unica retorica autentica può essere solo quella che pratica il metodo dialettico.

Tutta la discussione è pensata primariamente per Fedro, l’ascoltatore, quindi Socrate, se vuole essere persuasivo, deve adattare l’argomentazione alle capacità del giovane, cercando di fargli capire ciò che gli sfugge. E’ questa, a mio avviso, una delle motivazioni che spingono Socrate al parallelo tra medicina e retorica.

7. La medicina e la retorica

Socrate: Se qualcuno si presentasse dal tuo amico Erissimaco o da suo padre Acumeno e gli dicesse: “Io so applicare certi trattamenti al corpo in modo da scaldarlo, se voglio, o da raffreddarlo, o se mi pare emetici e purganti, e tutte le altre cose del genere. Poiché so queste cose pretendo di essere un medico e di poter rendere medico un altro cui io confidi la mia conoscenza di questi trattamenti”. Udendolo cosa credi che risponderebbero?

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Fedro: Non gli chiederebbero altro se sa anche a quali tipi di pazienti debba somministrarli e quando debba applicare ciascuno di questi e in che misura. Socrate: Se quello rispondesse: “Assolutamente no. Ma ritengo che chi imparerà da me queste cose sarà in grado di fare ciò che chiedi”.

Fedro: Diremmo quasi certamente che gli ha dato di volta il cervello e che per aver casualmente ascoltato qualcosa dio sa da quale libro o per aver bazzicato con dei palliativi s’illude d’esser diventato medico mentre di medicina non ne capisce nulla. (268 a8 – c4)

Un ragionamento analogo vale anche per la tragedia: Sofocle e Euripide deriderebbero colui che crede di essere un tragediografo solo perché capace di “comporre delle tirate lunghissime su un minuscolo argomento e concisissime su uno enorme” e di suscitare varie emozioni sul pubblico. Come riconosce lo stesso Fedro, la tragedia non è “qualcosa di diverso da una composizione di questi pezzi attraverso organizzazione armonica fra di essi e con il tutto” (268 d3 – 5).

Così, conclude Socrate, come colui che ha imparato le regole compositive conosce solo “i preliminari della tragedia, ma non l’arte dello scrivere tragedie”, così colui che conosce gli effetti dei pharmaka conosce solo “i preliminari della medicina, non la medicina” (269 a – 3).

Questo concetto è ben espresso da G.R.F. Ferrari: “ciò che il medico o il poeta o l’artista in generale conosce è qualcosa di più di una lista di regole” e “se l’artista deve insegnare ciò che sa, allora deve insegnare con il suo stesso

esempio.”10 La dimensione dell’importanza dell’insegnamento, legato

all’osservazione diretta del maestro all’opera, è estranea ad una concezione dell’apprendimento che si basa esclusivamente sulla trasmissione e

10 Ferrari, G.R.F., Listening to the Cicadas. A Study on Plato’s Phaedrus, Cambridge, Cambridge University

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sull’acquisizione di un sapere ridotto a formule, a regole generali, esprimibili nella rigidità dei caratteri scritti. Questo non solo è falso apprendimento, ma è anche qualcosa di dannoso e di inutile: “uno studente può anche imparare i libri a memoria senza apprendere niente e non diventando capace di mettere in pratica l’arte.”11

Dalle battute di Socrate e Fedro sopracitate, che io ritengo fondamentali per comprendere la differenza tra il vero retore e quello che potremmo definire un ciarlatano dell’arte retorica, deduciamo che:

- Ciò che un giovane può trovare nei libri di retorica è necessario all’arte, ma non è sufficiente per esserne dei veri esperti; le formule e le regole che si trovano nei manuali sono solo “necessary preliminaries”12

- Per diventare dei veri esperti è necessario qualcos’altro, che non troviamo nei manuali di retorica e che i maestri non ci insegnano

Che cos’è questo “altro”?

Fedro ci ha già detto qualcosa: per essere un medico non basta conoscere gli effetti dei pharmaka, ma è necessario acquisire la capacità di saper somministrare il pharmakon “giusto” in base alle esigenze ed alle caratteristiche fisiche del paziente. L’attenzione, quindi, non può essere rivolta solo allo strumento, cioè al pharmakon, ma anche al ricevente, in questo caso il corpo del paziente. Appare necessaria, quindi, la conoscenza del corpo, ma non solo del corpo in generale, ma anche quella di quel particolare corpo di quel particolare paziente che il medico si trova davanti. Inoltre, seguendo il parallelo con la tragedia risulta che per essere un tragediografo non basta saper scrivere e/o pronunciare dei discorsi sia brevi che lunghi, che suscitano determinate

11 Ferrari , G.R.F., op. cit., p. 77. 12 Ivi, p. 71.

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emozioni, ma è necessario acquisire la capacità di saper pronunciare e comporre un tutto armonico, un tutto in cui i vari discorsi siano disposti secondo un preciso schema ed un preciso scopo compositivo. Portiamo tutto questo nell’ambito della retorica: ciò che gli studenti trovano nei libri non è qualcosa di inutile, ma sicuramente qualcosa di preliminare all’arte. Una conoscenza esclusiva degli effetti che varie tipologie di discorso possono avere sugli ascoltatori è come la conoscenza del falso medico, quindi solo una conoscenza di sintomi o, per essere precisi, solo una conoscenza dei sintomi che quei pharmaka particolari che sono i discorsi possono provocare. Siamo così di nuovo sul piano del pharmakon, dello sviamento, dell’illusione e, perché no, del gioco di colui che si finge un retore.

Per riassumere, quali sono le mancanze del falso retore? Quest’ultimo non ha ricevuto un vero insegnamento basato, prima di tutto, sulla pratica e sull’osservazione del maestro all’opera, in quanto il suo “praticantato” si è ridotto all’apprendimento mnemonico di formule e regole stilistiche13

. Ora, un vero maestro, deduciamo, insegna ai propri allievi anche l’importanza dell’acquisizione di un senso del tutto e un tale senso non può essere ottenuto senza un’analisi ed un’indagine degli ascoltatori o meglio, della loro anima, in quanto ciò che riceve il logos del retore.

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Tale critica all’insegnamento retorico tradizionale, basato sull’apprendimento mnemonico, la troviamo anche in Aristotele, el. Soph., 183b – 184b. Qui di seguito riporto, in particolare, il giudizio aristotelico sugli effetti di un tale insegnamento:

“In realtà, essi fornivano non già l’arte, bensì i prodotti dell’arte, pensando così di ammaestrare, e comportandosi come un individuo, che sostenesse di trasmettere la scienza di non aver male ai piedi, ed in seguito, senza insegnare né l’arte del calzolaio né come sia possibile procurarsi gli strumenti in vista di tale scopo, fornissero invece una ricca scelta di calzature di ogni tipo. Costui infatti verrebbe incontro ad un bisogno, ma non trasmetterebbe un’arte.” (Aristotele, el. Soph., 184 a – b)

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8. I requisiti del buon retore ed il secondo parallelo tra medicina e retorica. Grazie al parallelo con la medicina e la tragedia, Fedro sembra aver iniziato a comprendere il ragionamento socratico. A questo punto, però, Socrate finge un probabile rimprovero che Pericle avrebbe potuto rivolgere proprio ai due, invitandoli ad essere più indulgenti verso coloro che “per il fatto di ignorare la dialettica, sono poi incapaci di definire la retorica, e se, in conseguenza di ciò, per il fatto di possedere le premesse necessarie a quest’arte, s’immaginano di aver inventato la retorica e insegnandola ad altri s’immaginano d’aver compiutamente istruito nella retorica, mentre ritengono che usare ciascuno di questi artifici in modo persuasivo e comporre insieme l’intero – una bagattella da nulla – questo lo debbono trovare i discepoli da se stessi quando si trovino a parlare” (269 b4 – c5).

Nelle parole di Pericle c’è sì un invito all’indulgenza, sicuramente ironica dal punto di vista socratico, ma emerge anche la presa di consapevolezza dell’importanza della dialettica, senza la quale è impossibile definire la retorica e quindi è impossibile coglierne l’essenza. In altre parole chi non conosce la dialettica non solo non può essere un vero retore, ma inganna se stesso, pensando che tutto quello che c’è di importante da conoscere sia racchiuso nei manuali, ed inganna anche i propri allievi, ritenendo che la capacità di comporre un buon discorso, organico ed idoneo agli ascoltatori, sia qualcosa di facile da

ottenere, qualcosa che l’allievo può raggiungere prescindendo

dall’insegnamento e dall’esempio del maestro.

“Ma allora”, chiede Fedro, “in che modo e da chi si potrebbe acquistare l’arte della vera eloquenza e persuasione?”

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Socrate: (…) se è nella tua natura (physis) di essere eloquente diventerai un famoso oratore, solo che tu vi aggiunga la conoscenza (episteme) e la pratica (melete). Ma se tu manchi in una di queste cose, sarai in quella un oratore imperfetto. Quanto all’arte di questo tirocinio non mi pare che la via per arrivarci sia quella seguita da Lisia e da Trasimaco. (269 d4 – 8)

Talento naturale, conoscenza e pratica sono, quindi, i tre requisiti necessari per la formazione di un buon retore. G.R.F. Ferrari, nella sua riflessione in proposito, sottolinea come Socrate, con l’enunciazione dei tre fattori, prenda le distanze dalla retorica tradizionale, il cui errore, agli occhi di Ferrari, è proprio quello di non integrare la teoria con il talento naturale e la pratica: “la conoscenza di un corpo di teorie da sola non fa un artista.”14

Ma così facendo Socrate non solo prende le distanze dai retori “tradizionali”, ma propone anche un’integrazione dei tre fattori e, prendendo in considerazione anche il talento e la pratica, “dà maggior valore a ciò che non è suscettibile di una esplicita formulazione.”15

Ma cosa si intende per integrazione dei tre fattori?

Torna nuovamente in ballo il parallelo tra la medicina e la retorica e se nel passo precedente le mancanze del falso retore erano state esposte solo implicitamente, adesso Socrate ci espone la questione in maniera chiara, esplicita e funzionale a quello che possiamo definire come il suo tentativo di riforma della retorica.

14 Ferrari, G.R.F., op. cit, p. 75. 15 Ibidem.

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Lo scopo del medico è procurare salute e forza nei corpi, e questo obiettivo viene raggiunto attraverso un’idonea somministrazione e prescrizione di medicine, pharmaka, e diete; lo scopo del retore, invece, è infondere persuasione e virtù nelle anime, e questo obiettivo viene raggiunto attraverso i ragionamenti, logoi, e le norme di condotta. Ma, come insegna Ippocrate, non si può conoscere la natura del corpo prescindendo da quella del tutto e lo stesso vale per l’anima (270 b4 – c2)

Non è mia intenzione, in questa sede, analizzare tutti i possibili significati e tutte le possibili implicazioni di quel tes tou olou physeos, ma mi limito a considerare la battuta di Fedro come esclusivamente finalizzata a sottolineare l’importanza del dover considerare l’anima come un tutto, ovvero come un sistema composto da varie parti, proprio così come i medici ippocratici considerano il corpo. Detto questo, ecco ciò che per Socrate è necessario al fine di poter acquisire la vera arte retorica:

1. “Descrivere in tutta precisione l’anima e farci vedere se di natura essa è una ed uniforme, o se, analogamente al corpo, è poliforme.” (271 a5 – 8)

2. “Se è semplice bisogna indagare quale potenza abbia di natura ad agire e su che, o quale capacità abbia ad essere influenzata e da che; se invece è composta, dopo aver enumerato le sue parti, bisogna considerare ciascuna parte come nel caso che fosse semplice e vedere per ciascuna con quale parte abbia naturale capacità di agire e su che o con quale parte abbia naturale capacità di essere influenzata in che e da che” (270 c9 – d7), il che, riassumendo, significa “mostrare

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su che e su che cosa ha capacità naturale di agire (poiein) o da che cosa ha capacità di essere influenzata (pathein).” (271 a10 – 11)

3. “Classificare i tipi di discorsi e i tipi dell’anima e i vari modi in cui le anime sono influenzate” e “dimostrare per quale ragione tal anima è necessariamente persuasa da tali argomenti mentre tal altra rimane incredula. (271 b – 5)

4. Tenere presente tutto questo nel momento della pratica, in modo da utilizzare determinati discorsi con determinate anime, al fine di ottenere determinati risultati.

Così deve pensare colui che vuole diventare un buon retore: “Questo è l’uomo e questa è quella natura di cui un tempo sentivo ragionare a scuola: ora mi è presente in realtà e devo rivolgergli questi argomenti in questo modo per persuaderlo di ciò.” (272 a – 3)

5. Comprendere quando sia opportuno (kairous) parlare e tacere e quando sia il momento giusto (ten eukairian) o sfavorevole (akairian) per usare i vari stili di discorso.

Da notare che per Socrate solo dopo tutto questo e, in particolare, solo dopo aver appreso l’opportunità o meno del parlare, si può affermare di essere giunti “alla completa perfezione dell’arte” (272 a8)

Mi appaiono incisive le parole di G.R.F. Ferrari: “I ciarlatani conoscono solo gli effetti o sintomi che le loro droghe produrranno nei pazienti (…). Ma il medico ippocratico indaga sulle cause corporee dei sintomi e sul perché degli effetti delle droghe.” Lo stesso ragionamento vale anche per la retorica: il ciarlatano è colui che “conosce solo come procurare certi sintomi nei suoi ascoltatori”, mentre il vero retore è colui che “comprende le motivazioni psicologiche (…), il

(23)

perché un certo tipo di discorso ha certi effetti su certi tipi di anime.”16

Il motivo di questa differenza è da ricercare nella diversità degli obiettivi: mentre la fals a retorica mira ad una persuasione momentanea, superficiale, apparente e basata su una doxa che viene presentata come la migliore, l’arte retorica ha di mira una persuasione a lungo termine e il raggiungimento della virtù attraverso la verità. Questo secondo tipo di persuasione è qualcosa di duraturo, di intimo, che ha a che fare con l’accordo che l’anima dell’ascoltatore dà al logos proposto dal retore. Ecco perché il ciarlatano non solo prescinde dalla verità dell’oggetto del suo discorso, ma non ha nessun interesse a procurare un assenso duraturo. Il che, in altre parole, significa che il ciarlatano non ha nessuna cura per l’anima e per la crescita morale e psicologica dell’ascoltatore. Ciò che fa la differenza, quindi, è la conoscenza dell’anima: “In assenza di una teoria dell’anima, quella del ciarlatano è solo una conoscenza dei sintomi esterni del comportamento umano, non una conoscenza delle loro cause nascoste, interne.”17

L’oratore socratico, quello che G.R.F. Ferrari definisce “reformed orator” non si ferma ai sintomi, ma “si chiede di cosa sono sintomo i sintomi” e la risposta ci è ormai chiara: “i sintomi dicono al retore qualcosa di qualcos’altro: l’anima.”18

Torniamo ai 3 requisiti del buon retore e vediamo se sono stati soddisfatti dall’argomentazione socratica:

- L’ episteme da acquisire riguarda in primo luogo la natura dell’anima, le sue capacità di agire e patire, e le relative motivazioni. In secondo luogo, però, bisogna riconoscere che non tutte le anime agiscono o

16 Ferrari, G.R.F., op. cit., pp. 77 – 78. 17 Ivi, p. 78.

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vengono influenzate alla stessa maniera, quindi è necessaria una conoscenza dei vari tipi di anime e dei vari tipi di discorsi. Questa è una conoscenza generale, tipologica, ma i discorsi del retore non si rivolgono mai all’uomo o all’anima in generale, bensì sempre ad un tipo particolare di uomo e di anima, quindi una mera conoscenza tipologica non basta; - é necessaria la pratica, intesa prima di tutto come osservazione diretta,

in base alla quale il retore possa riconoscere quale tipo particolare di uomo si trova davanti e quali tipi di discorso possono influenzarlo e persuaderlo.19

Dove si colloca, allora, il talento naturale? Nelle capacità di:

- Riconoscere nell’ascoltatore che ci sta davanti la tipologia di uomo e di anima “studiata a scuola”

- Riconoscere il momento giusto per utilizzare questa o quell’altra tipologia e struttura di discorso

- Riconoscere quando sia il caso di parlare o di tacere

La conoscenza del retore socratico è indubbiamente maggiore di quella del ciarlatano, ma in ogni caso la conoscenza, da sola, non basta all’arte. L’accento maggiore è posto proprio su quelle due caratteristiche, pratica e abilità, che no n possiamo trovare nei manuali, semplicemente perché non sono esprimibili in regole o formule fisse; la pratica, ovviamente, non è qualcosa di cui un testo scritto possa render ragione, ma qualcosa di plurale, di multiforme che l’allievo deve vivere in prima persona; il talento naturale, l’abilità, invece, è

19 Possiamo pensare alla conoscenza dell’anima in generale come ad una conoscenza preliminare,

acquisita la quale è necessario volgersi alla conoscenza delle varie tipologie di anime. Neanche questa, però, è sufficiente, dato che gli individui reali devono essere pensati come casi particolari contenuti all’interno delle varie tipologie di anime.

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essenzialmente qualcosa che già si possiede, dalla nascita, oppure qualcosa che può essere esercitato ed incrementato, ma in ogni caso nessuna parola è in grado di esprimere ciò che nella mente di ognuno fa scattare il riconoscimento, perché questo è qualcosa che “just happens” e “non è il semplice risultato della conoscenza.”20 E’ in questo senso che, secondo G.R.F.

Ferrari, l’integrazione socratica di episteme, physis e melete, necessaria alla nuova e vera arte retorica, pone in realtà l’accento su ciò che “non è esprimibile in formule.”21 E’ vero che senza una conoscenza preliminare il talento naturale

non potrebbe esplicarsi, quindi in ogni caso è vero che il talento deriva dalla conoscenza, ma non è una sua conseguenza necessaria e meccanica, e del resto la conoscenza varrebbe a ben poco se pretendesse di prescindere dal talento. In sostanza, quindi, Socrate “fonde conoscenza e riconoscimento nell’arte.”22

9. Maggiore attenzione sul poiein dell’anima.

Fin qui, seguendo il ragionamento di G.R.F. Ferrari, abbiamo considerato il passo che inizia a 270b come modalità di esplicare ciò che è necessario al buon retore, quindi l’attenzione è stata posta sulle conoscenze e sulle abilità di quest’ultimo. Questo è indubbiamente legittimo, ma forse il testo platonico può dirci qualcosa in più.

20 Ferrari, G.R.F., op. cit., p. 78. 21 Ivi, p. 75.

(26)

Per Murray, in particolare, autori come G.R.F. Ferrari e Hackforth danno scarsa importanza, per non dire nessuna, alla capacità d’azione dell’anima23

.

Al verso 271a10 Socrate enuncia la seconda capacità richiesta al retore, ovvero il “mostrare con che e su che cosa – l’anima - ha capacità naturale di agire (poien) e da che cosa ha capacità di essere influenzata (pathein).”

Nel nostro ragionamento precedente, che non a caso seguiva G.R.F. Ferrari, l’importanza della conoscenza della natura dell’anima era finalizzata a capire come poter influenzare l’anima stessa, portandola così alla persuasione.

Nell’ottica di Murray questa analisi prende in considerazione solo il pathein dell’anima, tralasciando il poien, ovvero la capacità di agire. E lo stesso si può dire per l’analisi di uno dei maggiori commentatori inglesi di Platone, Hackforth, per il quale “il riferimento alla dynamis tou poiein ha solo lo scopo di non farci pensare all’anima in generale come qualcosa di puramente passivo; questa, infatti, muove sia se stessa che il corpo in vari modi; ma ciò è irrilevante nel presente contesto.”24

In altre parole per Hackforth il riferimento alla capacità d’azione è qualcosa di irrilevante, di superfluo ai fini della teoria della retorica. Murray, al contrario, vuole mostrare che “per Platone qualsiasi deficienza nello studio del retore sul movimento dell’anima ha come risultato un’arte retorica zoppa sia nella teoria che nella pratica.”25

Ma perché lo studio dell’attività dell’anima dovrebbe far parte degli studi del retore? Quest’ultimo, come sappiamo, “deve rivolgere il “discorso giusto” al “tipo giusto di anima” se desidera ottenerne la persuasione”26

Ora, che esistano varie tipologie di anime e che ogni tipo di anima sia riconoscibile negli individui umani

23 Murray, J., Plato’s Phychology of Rhetoric: Phaedrus 270D-272B, in “Echos du monde classique”, Vol.

34, No. 9, 1990, p. 17.

24 Ivi, nota 2, p. 18. 25 Ivi, p. 18. 26 Ibidem.

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sulla base dei loro comportamenti individuali, sono idee che troviamo nella Palinodia socratica. Qui la relazione tra l’anima e l’agente umano non è descritta come “somiglianza degli individui alle tipologie di anima”, ma come l’attività di anime incarnate in involucri fisici. E Socrate sottolinea che sembra sia il corpo a muovere se stesso; in realtà è mosso dall’anima.”27 Se così

stanno le cose, “il vero retore studia le azioni degli individui, uomini e donne, come manifestazioni dell’attività dell’anima.”28 Per concludere, Murray afferma

che: “Platone ritiene lo studio delle azioni personali un modo per comprendere qualcosa a proposito delle anime e, di conseguenza, qualcosa sul modo migliore per persuaderle.”29

In altre parole, se la tipologia di anima influenza le azioni degli individui, allora analizzando queste azioni possiamo risalire all’anima e, se sappiamo quale tipo di anima abbiamo davanti, siamo anche in grado di scegliere i discorsi per lei più persuasivi. Detto questo, risulta chiaro che un buon retore, se vuole veramente persuadere i propri ascoltatori, non può prescindere dalla conoscenza della loro anima e una via per ottenere questa conoscenza è proprio l’analisi delle azioni dell’individuo, in quanto riflessi dell’anima, in quanto determinate e stabilite dall’anima stessa.

A mio avviso la riflessione di Murray, ponendo l’accento sulla capacità attiva dell’anima, apre una buona strada, che però non percorre fino in fondo, almeno nell’articolo citato30. Qui, infatti, viene sì invocata l’importanza del pathein

dell’anima, ma la cornice generale del ragionamento è la persuasione e questa

27 Murray, op. cit., p. 19.

28 Ivi, p. 20. 29 Ivi, p. 21.

30 Murray, J., Plato’s Phychology of Rhetoric: Phaedrus 270D-272B, in “Echos du monde classique”, Vol.

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rimane ancora intesa come qualcosa che l’anima subisce. E’ vero che, nell’ottica platonica, a dirigere e a determinare le azioni del corpo è l’anima, ma la sua capacità d’azione, in generale, non si riduce soltanto a questo.

10. Il consenso attivo dell’anima.

E’ ora il caso di introdurre la prospettiva di Trabattoni, ma per comprenderne al meglio il ragionamento a proposito della capacità d’azione dell’anima, è necessario fare un piccolo passo indietro, tornando al paragone tra medicina e retorica.

La riflessione di Trabattoni parte da un’osservazione interessante: se nel Gorgia il retore viene paragonato al cuoco, nel Fedro viene paragonato al medico. Perché questo cambiamento? Apparentemente, suggerisco io, si potrebbe pensare che lo scopo sia motivato esclusivamente da ragioni di carattere funzionale, nel senso che cambiando la struttura e la situazione drammatica del dialogo vengono a cambiare anche gli esempi scelti da Socrate per illustrare i propri ragionamenti. Nel nostro caso, dato che Fedro, come sappiamo dal

Simposio, è l’amante di un medico, Erissimaco, potrebbe risultare calzante

tirare in ballo il paragone con la medicina. La considerazione non è sicuramente errata, ma ovviamente i testi platonici suggeriscono qualcosa in più e Trabattoni vi rintraccia un cambiamento dell’atteggiamento di Platone stesso nei confronti della filosofia.

Dal Gorgia emerge una concezione della filosofia come episteme, ovvero come scienza, intesa in senso forte; la filosofia è scienza nel senso tecnico e meccanico in cui lo è la matematica, in cui contano soltanto la conoscenza degli

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oggetti e la correttezza formale delle procedure. Una tale scienza, per essere persuasiva, non ha bisogno di nient’altro se non di se stessa: questa, infatti, risulta persuasiva in modo automatico, semplicemente perché vera. Nel Fedro, invece, emerge un concetto di episteme meno forte: la scienza filosofica, per essere tale, non può più accontentarsi della correttezza formale e della conoscenza dei suoi oggetti, ma deve badare anche a quegli oggetti verso i quali la sua stessa conoscenza è destinata. In altre parole, dato che la filosofia è una scienza degli uomini per gli uomini, uno dei suoi interessi portanti dovrebbe essere l’attenzione verso l’uomo, inteso come colui che dovrebbe riceverne i contenuti. Da qui l’attenzione per la persuasione: “la capacità di persuadere è dunque considerata nel Fedro non come un’abilità pratica distinta dalla scienza, per quanto utile; è considerata, al contrario, come parte integrante della scienza stessa, e condizione necessaria affinché si possa davvero parlare di sapere”. E “la scienza, se vuole essere persuasiva, deve mutuare alcuni procedimenti tipici della retorica.”31

Parlando di capacità persuasiva non può non tornarci alla mente quel passo già citato dell’Encomio di Elena in cui Gorgia descrive la parola come pharmakon, ovvero come strumento capace di provocare, negli ascoltatori, determinate reazioni. Ovviamente il pharmakon di Gorgia è molto diverso da quello di Platone: se il primo agisce come le medicine, ovvero a livello fisiologico, procurando meccanicamente delle reazioni fisiche irriflesse, al contrario “la parola – platonica - induce i suoi effetti tramite la persuasione, cioè suscitando nel destinatario un consenso che si sviluppa come moto spontaneo, e no n come irriflessa reazione fisica”. E “se è vero che la parola conduce l’anima, la

31 Trabattoni, op. cit., p. 83.

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conduce però solo mediante il consenso di chi è condotto”, quindi trovare i mezzi giusti affinché l’anima venga persuasa significa “trovare i mezzi più adatti affinché la parola filosofica sia davvero persuasiva.”32 Per essere più chiari: il pharmakon di Gorgia mira a suscitare negli ascoltatori degli effetti immediati e provvisori, che nascono in maniera irriflessa ed irruenta, e che sono funzionali ad ottenere un’approvazione momentanea; il pharmakon di Platone mira a infondere conoscenza nell’anima, quindi mira a qualcosa di duraturo, e per ottenere ciò è necessario che la parola filosofica faccia nascere nell’anima un moto attivo e spontaneo di consenso, così da persuaderla dei suoi contenuti. In questo secondo senso, quindi, la persuasione è intesa proprio come consenso dell’anima e per consenso si intende l’aderenza dell’anima ai contenuti che le vengono proposti. Solo così si può parlare di vero apprendimento e di vero sapere. In questo senso la prospettiva di fondo del Fedro rimane fedele all’ammonimento presente nel Simposio, in cui si afferma che non si può pensare di acquistare il sapere così come si versa l’acqua da una coppa all’altra (175d) e questo perché “l’anima possiede una spontaneità di cui la coppa è priva.”33

Come osserva ancora Trabattoni, nel Fedro Platone non sta distinguendo tra una parola o dottrina che coglie e dice il vero ed una sua techne applicativa capace di rendere questa verità persuasiva secondo i casi e le tipologie di anime. “Se così fosse, nella seconda parte del Fedro Platone non starebbe identificando la vera retorica con la dialettica (come ritengo io), ma starebbe piuttosto promuovendo la nascita di una retorica filosofica distinta dalla scienza

32 Trabattoni, op. cit., p. 84. 33 Ibidem.

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filosofica, e intesa come sua techne applicativa. Ma nel Fedro, come abbiamo visto, la techne è la scienza.”

Da questo punto di vista la filosofia non solo non è intesa come episteme nel senso forte del Gorgia, ma viene addirittura “declassata” al rango di techne, diventando tutt’uno con la stessa capacità persuasiva: “la coppia di variabili vero/falso prende vita sempre e soltanto attraverso il consenso/dissenso che l’anima accorda a determinate proposizioni.”34 Questo non vuol dire che la

verità in se stessa non esista o che non esista prima del consenso dell’anima: per Platone la verità esiste, come possiamo capire dalla Palinodia, e un contenuto di verità rimane sempre tale, indipendentemente dalla capacità umana di coglierlo o di ricordarlo, ma al fine dell’insegnamento e dell’apprendimento ciò che conta è il consenso che un’anima dà ai contenuti di verità. A tal proposito ritengo che il concetto di “prendere vita” risulti determinante per comprendere il vero intento platonico, ovvero l’insegnamento. L’interesse di Platone è quello di un educatore e per un educatore ciò che conta è la capacità degli allievi di comprendere i contenuti che vengono proposti. Comprendere significa aderire con l’anima, cioè dare il proprio consenso a un determinato enunciato, che viene riconosciuto come vero e fatto proprio. Per un educatore, quindi, la questione della verità in sé è qualcosa di secondario, perché il primo interesse è per l’allievo, cioè per la sua anima o meglio, per quei moti della sua anima che, attraverso l’assenso e il dissenso, vivificano i contenuti di verità. Il che, in altre parole, è come dire che la verità non ha importanza di per sé, ma la acquista solo nel momento in cui viene accettata,

34 Trabattoni, op. cit., nota 23, p. 160.

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compresa, fatta propria. Senza il consenso dell’anima rimane qualcosa di sterile, di morto, di non importante per l’uomo.

Alla luce di ciò, possiamo capire meglio la differenza tra filosofo e retore. Il retore si disinteressa della verità dell’oggetto e tiene conto dell’interlocutore solo in maniera superficiale, perché il suo scopo non è quello di educare e, di conseguenza, non sa e non vuole persuadere in modo stabile e duraturo.

Portando a termine il ragionamento iniziale, penso di poter concludere che un buon retore debba riconoscere che la capacità di persuasione non è qualcosa che l’anima subisce, bensì è il risultato del suo assenso verso il logos proposto. E l’assenso non è nient’altro se non un moto spontaneo di adesione. In altre parole, quindi, l’anima non subisce l’effetto delle parole in modo passivo, ma decide di aderirvi attivamente, quindi è alla prospettiva di tale adesione che il buon retore deve mirare.

11. Il mito di Theuth e Thamus.

A 258d Socrate ha affermato che di per sé lo scrivere non è un male, ma il fatto che un’azione x non rappresenti un male non implica necessariamente che tale azione sia opportuna sempre e comunque. In altre parole, quindi, adesso dobbiamo analizzare “la questione dell’opportunità e inopportunità dello scrivere” (274 b6 – 7) e lo strumento scelto da Socrate può risultare curioso e singolare, in quanto “un racconto degli antichi” (274 c) e, per la precisione, un mito egiziano, i cui protagonisti sono il dio Theuth e il re Thamus.

Un giorno Theuth, che “fu l’inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente

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delle lettere dell’alfabeto” (274 c8 – d2), si recò presso il re d’Egitto Thamus “e gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani” (274 d5 – 6). Il re, però, più che essere interessato alle arti in sé, voleva essere informato sulle possibili loro utilità e su questa base lodava quelle invenzioni che gli apparivano positive, mentre biasimava quelle il cui uso gli appariva negativo. Quando Theuth dovette spiegare l’utilità dell’alfabeto furono queste le sue parole:

“Questa scienza (mathema), o re, renderà gli Egiziani più sapienti (sophoterous) e arricchirà la loro memoria (mnemonikoterous) perché questa scoperta è una medicina (pharmakon) per la sapienza e la memoria (mnemes

kai sophias).” E il re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza

creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei padre, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio (lethen) nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente (oukoun mnemes alla hypomneseos pharmakon eures). Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza (sophias de tois mathetais doxan, ouk aletheian porizeis) perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento (aneu didaches), si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti (doxosophoi ghegonotes anti sophon).” (274 e7 – 275 b2)

Questo mito è generalmente considerato il centro della seconda parte del Fedro, quindi il luogo privilegiato della critica platonica della scrittura, il luogo in cui a fili del dialogo iniziano ad allacciarsi, e la sua interpretazione è considerata

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fondamentale non solo per la comprensione del dialogo in sé, ma anche per la comprensione di tutta la riflessione platonica.

12. Conoscenza e informazione.

Per Mulhern35 il mito di Theuth è essenziale in quanto contenente una morale filosofica, che consiste nella distinzione tra conoscenza ed informazione.

“Theuth sta raccomandando la propria invenzione sulla base del fatto che sapienza e memoria saranno le conseguenze del suo utilizzo”, ma “la sapienza – sophia – è generalmente presentata da Socrate come una qualità del soggetto, come una virtù morale, e non solo come una qualità della mente”36,

quindi nella raccomandazione del dio è sì implicita una valutazione morale, dato appunto il riferimento alla sophia, ma tale raccomandazione, come vedremo, risulta fuorviante. Non a caso il re Thamus distingue tra l’invenzione (e quindi l’esistenza) di un artefatto, da un lato, e l’utilizzo dell’artefatto con le relative conseguenze, dall’altro. “L’alfabeto è uno strumento del saper leggere e scrivere (…) e questa abilità, come ogni altra abilità, non ha nessun valore morale intrinseco.”37 In breve, quindi, ad avere una natura strumentale non è

solo l’alfabeto in quanto artefatto, in quanto prodotto dell’ingegno del dio, ma anche l’attività che ne consegue, ovvero il saper leggere e scrivere, ed entrambi, in quanto meri strumenti, sono privi di qualsiasi valore morale, perché quest’ultimo dipende solo dalla modalità del loro utilizzo, dagli intenti che si celano dietro al loro uso. Ne consegue che le parole del dio sono fuorvianti

35 Mulhern, J.J., Socrates on Knowledge and Information (Phaedrus 274b6-277a5), in “Classica et

mediaevalia”, Vol. 30, 1969, pp. 175 – 186.

36 Ivi, p. 180. 37 Ibidem.

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perché attribuiscono un valore morale ad un mero strumento, suggerendo l’incremento di una virtù morale attraverso l’apprendimento meccanico dell’utilizzo di uno strumento. Non a caso per Thamus gli effetti della scrittura non sono quelli descritti dal dio che, quindi, alludono a degli esiti falsi.

Ma qual è l’utilizzo di questa invenzione e quali sono i suoi esiti? La scrittura permette la registrazione di informazioni attraverso un mezzo particolare, l’alfabeto, su un altro mezzo particolare, il papiro, la tavoletta di cera o la pietra. Una volta che un’informazione viene trasferita dalla memoria umana alla tavoletta, si avrà la sensazione di averla messa al riparo, al sicuro dalla possibilità di oblio, perché una volta scritta l’informazione può essere letta e riletta, quindi rievocata, richiamata alla memoria quante volte si vuole. Ma è proprio questo l’esito negativo della scrittura perché, fidandosi dello scritto, gli uomini ne diventeranno dipendenti, quindi la loro memoria lungi dall’essere incrementata, dipenderà da un oggetto esterno. Per questo la scrittura, anziché un mezzo per incrementare la memoria, viene definita un farmaco per richiamare alla memoria. Per di più “una volta che sia possibile registrare informazioni su un mezzo diverso dalla memoria umana, il ruolo dell’insegnante (living teacher) diminuirà.”38

Gli allievi di Theuth, infatti, non si recano da lui per apprendere una disciplina, ma per apprendere solo uno strumento e il loro sapere sarà solo un sapere superficiale ottenuto attraverso la lettura di libri, “their learning will be superficial book learning.”39

Per riassumere, secondo l’analisi di Mulhern il re Thamus:

1. Critica i presunti valori che la scrittura dovrebbe produrre

38 Mulhern, op. cit., p. 183.

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2. Mostra “le sfavorevoli conseguenza – della scrittura – nella vita mentale di un individuo”

3. Suggerisce che “i suoi valori educativi sono tutt’altro che genuini”40 Inoltre bisogna considerare che le informazioni scritte hanno solo l’apparenza della permanenza, prima di tutto perché in realtà la loro possibilità di permanenza è legata a quella del mezzo che le contiene, sia esso papiro o pietra, e inoltre il loro mezzo espressivo, ovvero i segni grafici, deve essere interpretato, quindi in ogni caso “la permanenza del mezzo informativo non implica l’attendibilità e la permanenza della conoscenza di queste informazioni.”41

Concludendo, “una delle cose che Socrate ci sta suggerendo è che la registrazione di informazioni in un mezzo relativamente permanente no n produce attendibilità e permanenza nella nostra conoscenza”, quindi la morale filosofica ricavabile dal mito di Theuth è che “l’informazione non è identica alla conoscenza. Questa morale ha due corollari: il primo è che un’esplosione di informazione non equivale a un’esplosione di conoscenza (…); il secondo corollario è che non vi è alcun impedimento logico al fatto che ciò che è conoscenza per un determinato uomo possa essere mera informazione per un altro.”42

La riflessione di Mulhern ha messo in ballo due importanti concetti, quello di insegnamento e la differenza tra conoscenza ed informazione, ma dal mio punto di vista questa analisi, benché importante, non è del tutto soddisfacente; come direbbe Socrate, dobbiamo ricominciare e fare un giro più lungo.

40 Mulhern, op. cit., p. 183.

41 Ivi, p. 185. 42 Ibidem.

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13. Thot, Theuth e i pharmaka.

La riflessione di Derrida sul mito prende le mosse dall’analisi dei suoi personaggi, Theuth e Thamus.

“Nel Fedro il dio della scrittura è un personaggio subordinato, un secondo, un tecnocrate senza poteri di decisione, un ingegnere, un servitore astuto e ingegnoso ammesso a comparire davanti al re degli dei. (…) Theuth presenta una techne e un pharmakon al re, padre e dio che parla e comanda con la sua voce assoluta. Quando questi avrà fatto sentire la sua sentenza, quando l’avrà lasciata cadere dall’alto, quando avrà prescritto nell’atto stesso di lasciar cadere il pharmakon, allora Theuth non risponderà.”43

Ma chi è Theuth?

All’inizio del mito Socrate, descrivendolo, fa riferimento all’ibis, quindi possiamo pensare a Theuth come al dio egizio Thot, generalmente rappresentato con la testa di ibis. Ora, nella mitologia egiziana viene descritto come il figlio del dio-re, di Ammon-Rê: “Io sono Thot, figlio maggiore di Rê”44

; Rê, invece, è il dio sole, il dio creatore che genera attraverso la mediazione del verbo45. E dato che, seguendo il racconto di Socrate, Thamus “abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone” (274 d2 – 4), non è difficile vedere in lui una sorta di trasfigurazione proprio del dio-re, Ammon-Rê. Da ricordare, inoltre, che il senso acquisito dal nome Ammon è “il nascosto”46, ma “Ammon-Rê è anche un uccello, un falco (“Io sono il grande

43 Derrida, op. cit., p. 76.

44 Ivi, nota 14, p. 76. 45 Ivi, nota 15, p. 76. 46 Ivi, nota 16, p. 76.

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falco uscito dal suo uovo”). Ma in quanto origine di tutto, Ammon-Rê, è anche origine dell’uovo. Lo si designa ora come uccello-sole nato dall’uovo, ora come uccello originale, portatore del primo uovo”47, quindi, come osserva Derrida, “qui

abbiamo ancora un sole nascosto, padre di tutte le cose, che si lascia rappresentare con la parola.”48 Andiamo avanti. “La subordinazione di Thot, di

quell’ibis, figlio maggiore dell’uccello originale, è messa in rilievo in diversi modi: nella dottrina menfica, ad esempio, Thot è l’esecutore, per la lingua, del progetto creatore di Horus49. Porta i segni del grande dio-sole. Lo interpreta come il suo portavoce. E come il suo omologo greco Ermes.”50

Thot, quindi, si qualifica come “il dio (del) significante. Ciò che egli deve enunciare o far sapere con le parole, Horus l’ha già pensato”; il compito di Thot è “trasmettere il messaggio, un pensiero divino già formato, un disegno bloccato. Il messaggio non è, rappresenta soltanto il momento assolutamente creatore. E’ una parola assolutamente seconda e secondaria.”51 Inoltre, in quanto colui che dà voce al

pensiero divino, in quanto colui che trasferisce (o trascrive) il pensiero divino in parole, Thot è anche colui che “introduce la differenza nella lingua ed è a lui che si attribuisce l’origine della pluralità delle lingue.”52 Ma Derrida non dimentica di

sottolineare il ruolo portante che il dio ibis svolge anche negli inferi: è lui, infatti, a consegnare al dio Osiride il cuore del defunto, “poiché il dio della scrittura è anche, è evidente, il dio della morte.”53

Per riassumere, Thot è figlio del dio creatore, è un dio messaggero, è il portavoce del pensiero divino del dio padre, del “nascosto”, e in quanto

47 Derrida, op. cit., p. 77.

48 Ibidem.

49 Quindi Horus rappresenta il pensiero che concepisce e Thot la parola che esegue. 50 Derrida, op. cit., p. 77

51 Ivi, p. 78. 52 Ibidem. 53 Ivi, p. 82.

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