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1. Il piano per Lisbona dopo il terremoto del 1755

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Al fine di marcare la veridicità dei risultati ottenuti sulla porzione del territorio aquilano oggetto di questa tesi, é interessante analizzare mediante l’applicazione dell’analisi configurazionale e della geometria frattale, come si è modificata la configurazione urbana a seguito di alcuni eventi sismici verificatisi in Italia e in Europa.

I casi analizzati sono:

- Il quartiere di Baixa (Lisbona), 1755 - Messina, 1908

- Reggio Calabria, 1908

- Gemona (Firuli Venezia Giulia), 1976 - Verzone (Friuli Venezia Giulia), 1976

1. Il piano per Lisbona dopo il terremoto del 1755

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Durante tutta la prima metà del Settecento, che coincide con il Regno di Giovanni V (dal 1707 al 1750), su iniziativa di questi, e con l’impegno di alcuni suoi cortigiani e tecnici di èlite, si era cercato di produrre una profonda riforma urbanistica che offrisse alla città, alla monarchia e all’impero, l’immagine della monumentalità necessaria alla capitale di così vasti domini. Fin dagli inizi del XVI secolo, e poi durante la dominazione austriaca, e lungo tutto il processo di Restaurazione dell’Indipendenza (1640-1668), quello della riforma urbanistica era stato un tema ricorrente nei disegni della Corona. Ma fu solo allora, più per spirito che grazie alla prosperità finanziaria acquisita con la scoperta di importanti giacimenti d’oro e di diamanti in Brasile, che si presentava l’esplicita opportunità per porla in essere. Non va certo dimenticato che molte delle corti europee la avevano già prodotta, o stavano producendola.

Lisbona era una città davvero intollerabile, in particolar modo nella zona che, con la catastrofe del terremoto dal 1° novembre del 1755, era andata distrutta: la Baixa (la città bassa). Dalla collina si era sviluppata in modo informe su una zona di sedimenti e corsi d’acqua, secondo assi e poli consolidati fin dall’occupazione romana. Tale assetto iniziale, a dispetto dell’assestamento medievale, finì con l’essere alterato da un’inusitata quanto intensa attività motivata, in gran misura, dai processi delle scoperte e dell’espansione. Durante questo periodo la città si espandeva, allora ordinatamente, sulla collina a Ovest – attuale Bairro Alto (il quartiere alto).

Ma la parte bassa del centro urbano si comprimeva, cresceva in altezza, in densità e verso il fiume. Circa la metà dell’attuale Baixa sorge su aree conquistate al Tago. La Praca do Comercio è il risultato della riforma apportata su un largo, quello del Paco Real (Palazzo Reale), formatosi sul fiume nel XVI secolo. Ad eccezione di pochi altri punti di interfaccia tra i cittadini ed il fiume, tutto il fronte fluviale era un accumulo di insediamenti legati all’attività portuale. Fu questa zona centrale la più colpita dalla catastrofe, condividendo

1 Walter Rossa, Il piano per Lisbona dopo il terremoto del 1755: una città sotto i segno della ragione.

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con il versante adiacente, e sud della collina ad Ovest, la devastazione provocata anche dall’incendio, il vero elemento che definì i limiti di intervento del Piano del 1758, oggetto di nostro interesse.

11-1 La planimetria rappresenta il quartiere di Baixa prima del sisma del 1755.

L’affermazione della centralità metropolitana di Lisbona era, per Giovanni V, qualcosa di più rispetto ad altri monarchi europei, in quanto riuniva una dimensione religiosa,per non dire spirituale. In virtù di una serie di bolle papali e di abitudini consolidate , globalmente definite come “Patronato”, il monarca portoghese era non solo il sovrano del suo vasto impero, bensì anche il capo della relativa Chiesa. Con Giovanni V, il cappellano reale assumeva il ruolo di Patriarca, l’unico ad indossare una tiara con tre corone, uguale a quella del Papa.

Appare chiaro così che tutto il programma urbanistico e monumentale del periodo di Giovanni V sia stato un tentativo di emulare, se non addirittura soppiantare, Roma. Ad una «nuova Roma» e ad un «nuovo Giulio Cesare» fanno riferimento testi coevi. Così come si giustifica la presenza, in tutto il processo, di architetti ed artisti provenienti dallo studio romano di Carlo Fontana (1638-1714), e in particolar modo dal siciliano Filippo Juvarra (1678-1736), che finì con il trovarsi a Lisbona durante il primo semestre del 1719, lasciando in corso un notevole programma di lavori, tra le quali pontificava la costruzione di un maestoso palazzo reale e patriarcale, con basilica, giardini,ecc. Ma dall’Italia, a Juvarra veniva impedito il ritorno a Lisbona. Per questo, e per altri motivi, l’impresa veniva abbandonata.

L’impianto di questo complesso palatino aveva come scopo urbanistico l’ampliamento, verso Ovest, di una «nuova Lisbona», il che finiva col verificarsi, seppur piuttosto disordinatamente e su piccola scala. Sul fronte fluviale, Juvarra tracciava ancora un faro monumentale, con un evidente riferimento sia al faro di Alessandria che alla Colonna Traiana di Roma.

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La verità è che parte considerevole di quest’impulso veniva convogliata sui lavori del Palazzo - convento di Mafra, e su una serie di edifici e migliorie a Lisbona, di cui costituiscono un particolare esempio l’Acquedotto das Aguas Livres e il grandioso ed incessante programma di miglioria del Paco Real da Ribeira, che di fatto includeva anche una sfarzosa basilica patriarcale ed un teatro dell’opera. Innumerevoli furono i lavori di miglioria apportati al tessuto urbano e alle strutture della città, come anche i progetti di assetto stradale e sanitario. Gran parte della materialità e della memoria di tutto questo è andata persa con il terremoto e, ancor più particolarmente, con l’importanza dei successivi interventi di riforma e rinnovamento.

Appare adeguato e al contempo paradossale, che Filippo V di Spagna avesse chiesto al suo omologo portoghese, chi fosse l’architetto italiano che si era recato a Lisbona per progettare e costruire un nuovo palazzo, e che da tale consenso ne fosse risultato, non solo il viaggio a Madrid nel 1736 di Filippo Juvarra, ma fondamentalmente l’effettiva costruzione dell’attuale Palazzo Reale su progetto suo e del suo assistente, nonché successore, Giovanni Battista Sacchetti.

11-2 Filippo Juvarra. Schizzo per un nuovo Palazzo reale e Basilica Patriarcale in Lisbona, 1717 (Museo civico di Torino).

1.1 La dissertação: opzioni urbanistiche fondamentali per la Lisbona rinnovata

La catastrofe distruggeva tutto questo, ma non quanto nel frattempo era stato acquisito riguardo i problemi e l’urgente necessità di una riforma urbanistica di Lisbona. L’evento calamitoso rivelava un aspetto positivo: quello dell’opportunità urbanistica. Tuttavia, nella cultura occidentale, le opportunità urbanistiche si sono da sempre tradotte in opportunità politiche. A Lisbona erano due gli uomini pronti a cogliere l’opportunità e a condurre il processo: Sebastiâo Josè de Carvalho e Melo (1699-1782), il futuro Marchese di Pombal (come lo chiameremo d’ora in avanti) e Manuel da Maia (1677-1768), Ingegnere Maggiore del Regno. Ci interessa, qui, fondamentalmente il ruolo di quest’ultimo.

Manuel da Maia, aveva allora 78 anni e vantava oltre mezzo secolo al servizio della Corona in qualità di ingegnere militare. In tutta la sua carriera aveva lavorato su Lisbona, dai rilievi che erano serviti come base per il lavoro di Juvarra, fino alla direzione dei lavori da egli stesso delineati, dalla definizione strategica del tracciato dell’acquedotto, al sistema di raccolta delle acque e a quello di distribuzione, ecc. E così avrebbe

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continuato fino alla morte, sopraggiunta all’età di 91 anni, non senza aver garantito, nel corso di quei 13 anni, il felice avvio delle operazioni di rinnovamento urbanistico per Lisbona, per il quale aveva lavorato tutta la vita. A tal fine si era circondato di un ragguardevole gruppo di architetti/ingegneri che avevano fatto quanto egli non era più in grado di fare: disegnare e pensare attraverso il disegno.

Dalla sua stessa penna, abbiamo conosciuto il processo attraverso il quale il vecchio Ingegnere Maggiore aveva trovato la soluzione urbanistica da adottare, benché continuino a mancarci gli elementi per una piena comprensione di taluni dei suoi passaggi fondamentali. Sappiamo cosa è avvenuto tra la catastrofe e la definizione della versione finale del 12 giugno del 1758. Due anni di black-out durante i quali, tutto ci porta a pensare , così come accade oggi, che la versione tecnica si piegasse/adattasse ai conflitti e ai disegni meno chiari dei signori del Potere. Era il tempo del terremoto politico e sociale.

Con la più grande naturalezza e coerenza organica, subito dopo la catastrofe, le strutture del Potere, sostenute e gradualmente egemonizzate dal Marchese di Pombal, conferivano a Manuel da Maia l’incarico di definire il modo in cui si sarebbe dovuto procedere per ricostruire la zona della città che era stata distrutta dal ciclo completo della catastrofe (terremoto, meremoto e incendio). Manuel da Maia non soltanto era il più grande specialista in materia di urbanistica di Lisbona, ma era anche la più elevata espressione tra gli ingegneri militari, una corporazione d’èlite, con predecessori fin dagli inizi dell’espansione oltremare, ma con un ruolo fondamentale riconosciuto a partire dalla fondazione, nel 1647, della prima accademia di fortificazione, quella di Lisbona.Fu da allora che l’ingegneria militare portoghese si costituiva come un corpo fondamentale dell’Impero, con una particolare attuazione rivolta alla definizione territoriale e coloniale del Brasile, allora in grande sviluppo. Parallelamente ai rilievi e al disegno del territorio, si aveva allora la creazione di decine di villaggi, dai tracciati straordinariamente diversificati, ma sempre di assoluta regolarità geometrica.

Seguendo una metodologia cartesiana i cui passaggi possono descriversi quasi fino allo sfinimento, Manuel da Maia iniziava il proprio compito redigendo un momerandum che intitolava Dissertação, che veniva suddiviso in tre parti. Il testo è uno dei più antichi e notevoli trattati dell’urbanistica europea e ha come precedente la sua stessa riflessione del 1731 sull’opera dell’acquedotto: Considerações sobre o projecto da

conducção das Aguas; chamadas Livres….. Si tratta di un caso di innovazione metodologica, inspirato ad

una sua precedente esperienza.

La prima parte della Dissertação, consegnata solo un mese dopo la catastrofe, rapperesenta una diagnosi ed un approccio preliminare alla problematica in questione, in essa vengono discussi problemi quali i diritti di proprietà, anche alla luce del caso, non esemplare, di Londra a seguito dell’incendio del 1666. In effetti, il regime politico-economico, non permtteva di discostarsi di tanto, e portaer a termine uno qualunque dei piani elaborati nel frattempo, ma soltanto l’imposizione di talune regole di costruzione ai sensi dei due Act

of Rebuilding City.

Anche a questo veniva dedicata la seconda parte della Dissertação, avanzando una proposta di perequazione avant-la-lettre, che finirà introdotta nella legislazione sui diritti della proprietà che anticipava di due mesi, l’emanazione dl Piano,il 12 giugno del 1758. Non solo nell’atteggiamento generale ma anche nei meccanismi di compensazione e di riforma della proprietà, troviamo un’ispirazione nelle opere di ricostruzione di Catania e seguito dell’eruzione dell’Etna avvenuta nel 1669 e dei terremoti del 9 e dell’11 gennaio del 1693.

Queste ed altre catastrofi erano ben note in Portogallo, avendo dato vita a notizie e pubblicazioni. Ma anche la ricostruzione di Rennes dopo l’incendio del 1720 avrebbe ispirato alcune delle scelte adottate a

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Lisbona. Sono questi i pochi casi precedenti di ricostruzione dopo catastrofe realizzati con un nuovo tracciato sul tessuto urbano preesistente. Casi di ampliamento come quello di Torino, riferito da Manuel da Maia, non servono da esempio, trattandosi di un ampliamento e non di un rinnovamento in situ. Manuel da Maia dimostra, in diverse occasioni, di essere consapevole che il suo problema fosse nuovo.

Di fatto, subito all’inizio Manuel da Maia presentava diversi scenari, dalla ricostruzione tout-court allo spostamento della città, soluzione più consueta all’epoca benché mai per un caso di tale portata. Difendeva tuttavia l’ipotesi di radicalità immediatamente inferiore, ossia quella della ricostruzione del centro secondo un piano razionalmente rinnovatore. Il Potere approvava e ordinava di proseguire su questa linea, denunciando il proposito di ricostruire con audacia. Quasi immediatamente aveva inizio il lungo e difficile processo di mediazione e valutazione catastale dei fabbricati esistenti, e la demolizione di quanto restava in Piedi. Si rendeva infatti necessaria la demolizione di ben oltre quanto terremoto e maremoto avevano distrutto. Il Palazzo Reale stesso dovette essere demolito. Le macerie permettevano di crear un terrapieno e, ancora una volta, la crescita sul fiume.

Nel suo testo, l’urbanistica della Lisbona delle Luci analizzava i provvedimenti necessari a prevenire i rischi umani dovuti al ripetersi di una qualunque delle tre componenti della catastrofe. La bozza del 1756 presentava una serie di provvedimenti volti a garantire l’evacuazione e il ricovero sicuro delle persone.Tra questi la riduzione dell’altezza delle costruzioni, l’ampliamento delle strade e la creazione di piazze. In fondo alla drastica riduzione della densità, ed una drammatica imposizione di ordine e razionalità. Su questo doveva cedere molto;ma nella sua versione messa in atto –il piano del 1758, con più piani e maggiore densità – non andavano persi i principi fondamentali e assolutamente innovativi, come quello dell’imposizione di un’architettura di programma.

Sapendo che, come era accaduto a Londra, alcuni dei focolai di incendio si erano sviluppati nei pacifici, Manuel da Maia arrivava a proporre in merito soluzioni radicali. Di fatto, eretti contro un muro di sostegno, i forni dei panettieri non avrebbero più propagato le fiamme al resto del tessuto urbano. Di ugual proposito, e di origine ignota, era la proposta di dividere gli edifici contigui con dei tagliafiamme, ossia mediante il prolungamento – ben oltre i piani superiori – delle pareti divisorie dei lotti.

Fin dal primo momento Manuel da Maia assumeva, come decisione cruciale, l’ubicazione del Palazzo reale. Non si limitava a chiedere, ma asseriva che «il re deve lasciare» il locale abituale per trasferirsi in quello scelto nel 1719 dal padre, Juvarra e da un insieme di collaboratori, tra i quali egli stesso. Dietro sarebbero sorti i palazzi dei dignitari. Il terreno veniva limitato e riservato per quasi un secolo. Era quanto Manuel da Maia proponeva e difendeva fermamente meno di un mese dopo la catastrofe. Pombal era ancora lungi dal consolidare il proprio potere. Il Palazzo non era stato previsto tuttavia in alcuna delle piante di ricostruzione della Baixa presentate unitamente alla terza parte della Dissertação in data 31 marzo e 19 aprile del 1756. Ancora una volta, Manuel da Maio difendeva e otteneva approvazione immediata alla soluzione con il grado di radicalità immediatamente inferiore a quella più estrema – che, curiosamente, manteneva la Basilica Patriarcale nella Praça do Comércio. A rigore, non conosciamo il disegno del 1756 scelto, ma solo due disegni della sua evoluzione fino al piano del 1758. Nonostante il tracciato assolutamente regolare, la riduzione drastica del numero di templi, la sottomissione di tutti gli edifici e costruzioni – in particolar modo le chiese - alla logica della composizione urbanistica, si tratta di una soluzione che mantiene l’insieme di riferimenti minimi per la celebrazione della memoria della città distrutta.

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11 -3 Piano di Lisbona, 1758

Tutto ciò, e molto di più, ha fatto della Dissertação di Manuel da maia, il resoconto di un metodo assolutamente innovativo, di ricerca di una soluzione, la ricerca della “ragione urbanistica” e la giustificazione unica perché lo fosse, non foss’altro per la capacità illuminata di conciliare innovazione e memoria. Senza distruzione, ma anche senza memoria, non sarebbe possibile il rinnovamento. Anzi, la discussione che è implicita in tutto il testo – attorno a concetti quali: “rinnovare”, “rifondare” e “restaurare” – è anch’essa innovativa nel quadro della cultura architettonica ed urbanistica del’epoca, inserendosi con determinazione nelle riforme urbanistiche illuministe del consolato pombalino.

1.2 Il piano: la novità della riforma

L momento della conclusione della Dissertação, erano già giunte a Lisbona diverse offerte di aiuto, alcune delle quali di natura tecnica e costruttiva. Non le conosciamo in profondità, ma sappiamo che non venivano accolte. Tuttavia non è da sottovalutare l’acquisizione di conoscenze e informazioni. Sappiamo come gli architetti/ingegneri della squadra di Manuel da Maia fossero ben informati su quanto avvenisse nella professione in Europa. Oltre alla ricchezza conosciuta di talune biblioteche personali, risulta evidente dalla espressione architettonica stessa degli edifici. Sono evidenti le influenze dell’architettura francese dell’epoca. Non possiamo inoltre ignorare l’influenza romana, da cui, oltre i diversi architetti che soggiornano a Lisbona durante il Regno di Giovanni V, arrivavano diversi disegni, progetti, modelli, ecc.che costituivano quel che già alcuni avevano battezzato come il «Museo di architettura di Roma». Ma è la

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fusione di tutto questo con la tradizione portoghese che produce un’architettura che non è barocca, ma qualcosa di nuovo, razionalista.

D’altro canto, da tanto sappiamo come i sistemi di composizione algebrico - geometrici della pianta e degli edifici della Baixa di Lisbona siano in linea con l’architettura razionalista realizzata dai portoghesi in tutto il loro impero. Si verifica, come è ovvio, una sostanziale modifica di scala, e un moderato, benché consapevole, investimento sulla decorazione rigore e qualità costruttiva. Mi sembra, infatti, che l’architettura della Baixa non sia altro che il risultato della sintesi di ancora un altro aggiornamento internazionale che caratterizza tutto il lungo corso dell’architettura portoghese.

Uno degli aspetti più innovativi è quello della questione strutturale. In effetti, ben più che le soluzioni preconizzate da Manuel da maia nella sua Dissertação, la trama strutturale in legno, conosciuta come

gaiola – la gabbia -, è una soluzione della quale non si conoscono precedenti diretti o autori. Quanti hanno

indagato sul tema, hanno manifestato il proprio stupore per il semplice fatto di non esservi alcun riferimento, in nessun documento, un’unica fonte scritta o disegnata, al di là dei contratti notarili con i quali veniva commissionata. Il sistema ha dato dimostrazione di straordinaria resistenza sismica.

Paradossalmente abbiamo il disegno (sotto riportato) di un sistema infrastrutturale che non ha dato dimostrazione, ma ha avuto (ed ha ancora) una straordinaria fortuna critica: il sistema di raccolta degli scarichi fognari, come anche il profilo di una strada con piattaforme differenziate. Si tratta di una soluzione innovativa, che trova una qualche ispirazione – riferita da Manuel da Maia nella sua Dissertação – in alcune nuove strade inglesi e che sarebbe stata riprodotta/pubblicata da Pierre Patte alcuni anni dopo. Due aspetti sono rilevanti: il progetto della “pianificazione globale” e quello della “piazza del sistema”.

11-4 Pianta topografica della città di Lisbona: Tutto quello in rosso è quanto si conserva di antico: in rosso più acceso le chiese in giallo il nuovo piano.

Fin da allora, il Potere definiva il limite urbano della città, obbligando i cittadini di Lisbona a restarvi all’interno. Simultaneamente, e con promulgazione precedente a quella dello stesso piano per la Baixa, venivano sviluppati studi dettagliati per tutta l’estensione di territorio compresa all’interno di tali limiti.

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Come anche allora, poco ci importa oggi il fatto di aver determinato l’urbanizzazione e lo sviluppo urbanistico di quelle vaste aree, quanto il fatto che con ciò si sia dato un segnale assolutamente innovativo di un controllo globale del territorio oltre la Baixa. E’ chiaro che il procedimento fosse assolutamente utopistico e corporativamente demiurgico, ben inserito nei disegni elitari perseguiti dagli ingegneri militari fin dagli anni venti del diciottesimo secolo.

Inevitabilmente la città si sviluppava freneticamente in queste aree – molto più che nell’area della Baixa – sia sulla base di piani emanati dallo Stato, come anche, e come sempre, a partire dall’iniziativa privata, nonostante il divieto e la repressione che gravavano su tali azioni.

Nel frattempo, la più raffinata espressione del nuovo Potere e della sua congiura militare, è il programma della nuova piazza aperta verso il fiume e, essenzialmente, urbi et orbi, verso l’Impero. Il vecchio Terreiro do

Paço cinquecentesco cedeva il passo alla nuova Praça do Comércio. Potrei parlare dell’architettura, della

composizione, della scala, ma oggi interessa qui solo il programma e il simbolismo.

Era stata questa la direzione adottata. Il programma funzionale per la nuova piazza veniva definito da Manuel da Maia, come sede di insediamento delle divisioni dello Stato e della Borsa dei Mercati. Per questo veniva chiamata do Comércio, significato coevo di economia. L’idea di collocarvi una statua equestre del re, faceva rientrare la piazza nell’elenco delle “piazze reali” europee, segnatamente francesi, celebrando tuttavia il nuovo Stato e non la monarchia. E di fatto una nuova società ed una nuova economia nascevano dal terremoto, che non era stato soltanto geofisico, ma anche politico. Terremoto che, contrariamente ad altri processi, talvolta peraltro di gran lunga più distruttivi, era stato trasformato in opportunità dal potere pubblico dell’illuminismo e dal cartesianesimo e dalla lunga esperienza della scuola portoghese di architettura, urbanistica e ingegneria militare.

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11-5 Eugenio dos Santos e Carvalho. Real Praca do Comercio e mostra parte dell'edificio della Dogana e dell'Arsenale della marina, 1759.

Dal punto di vista disciplinare dell’urbanistica – ossia come un tutto che riunisce l’architettura – il processo di rinnovamento di Lisbona, a seguito della catastrofe dei primi di novembre del 1755, è un caso notevole, unico e precursore. Per la prima volta nella storia, si verificava la formulazione e lo sviluppo di un piano che integrasse tutte le componenti considerate oggi necessarie a tal fine – disegno urbano, legislazione specifica di regolazione, ingegneria finanziaria – ma andando anche oltre, in quanto integrava la definizione urbanistica dell’architettura, del suo volto pubblico. Con un’ipotetica eccezione per l’operato di Nerone nella Roma antica, ancora per la prima volta una grande area urbana colpita da una catastrofe risorgeva secondo un nuovo concetto e disegno totale, fatto che determinava il disegno di un’azione di riforma per il tutto.

Grandi realizzazioni urbanistiche dell’epoca, quali San Pietroburgo o Washington – casi che possono essere citati come pietre miliari – sono state realtà sorte ex nihilo, senza vincoli imposti da preesistenti condizioni che non fossero le condizioni naturali, per quanto estremamente avverse. La loro espressione è adeguata al tempo in cui si manifestavano. Nella sua globalità e diversità, il Piano di Lisbona veniva concepito e

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sviluppato su una realtà totalmente diversa, rendendo inevitabile che la memoria si costituisse elemento determinante, il che è più un fattore del suo permanente binomio anacronismo – avanguardismo.

Il Piano della Baixa che risulta dalla Dissertação e dal successivo dibattito sordo, indica una soluzione di rinnovamento che, benché compromessa, a seguito della memoria distrutta della città, avanza ben oltre il suo tempo e la soglia allora riconosciuta all’utopia. Avviene una totale integrazione tra architettura e Urbanistica, essendo la città un organo il cui controllo ideologico esercitato dal disegno e dai concetti e dall’apparato giuridico che lo sostengono, è assoluto. Ne nascerà quindi non solo una città, ma anche una società rinnovata. La qualità della soluzione ed il successo del rinnovamento di Lisbona offerto dalla catastrofe derivava dalla “luce” emessa dalla rara fusione tra “potere” e “sapere”.

Allegato 1. Mappe ricavate dall’applicazione dell’analisi configurazionale: confronto tra la conformazione

spaziale prima del sisma del 1755 e dopo il Piano di Lisbona del 1758.

Allegato 2-3. Analisi frattale ante e post sisma del quartiere di Baixa.

2. Il terremoto del Friuli del 1976

Si è parlato molto negli ultimi mesi di modello Friuli per la ricostruzione delle zone terremotate dell’Abruzzo, volendo con questo riferimento richiamare alcune delle positive linee di evoluzione del processo di ricostruzione del Friuli terremotato, che hanno permesso, a distanza di circa dieci anni dal terremoto, la piena ricomposizione spaziale e reintegrazione funzionale del complesso ed articolato territorio e degli insediamenti colpiti dal terremoto del 1976.

Il terremoto del Friuli del 1976 può considerarsi una delle più gravi calamità naturali che abbiano colpito il territorio nazionale negli ultimi secoli per intensità e vastità dei danni causati.2

Sono numerose le faglie longitudinali che attraversano il territorio friulano ad essere le principali cause della sua elevata sismicità, con particolare riguardo a quelle interessanti l’alta pianura sepolte sotto i sedimenti quaternari, che rappresentano le più interessanti dal punto di vista geodinamico. Nonostante un’ampia conoscenza della sismicità del territorio regionale, solo pochi comuni risultavano prima del L’area del Friuli colpita dal terremoto del 6 maggio ed, a pochi mesi di distanza, da quello del settembre 1976, ha interessato tutta l’area montana e collinare della regione Friuli Venezia Giulia, compresa fra i confini nazionali con l’Austria e la Slovenia e quelli regionali con la confinante regione Veneto. L’evento sismico, caratterizzato da scosse del grado 6,5 della scala Richter (corrispondenti all’undicesimo grado della scala Mercalli) a maggio, e lievemente inferiori, a settembre, ha interessato con diversa intensità un territorio pari a quasi 6000 Km2 con una popolazione valutabile attorno alle 600.000 unità, pari a circa il 50% del totale della popolazione regionale del tempo. L’area più duramente colpita è risultata, naturalmente, quella epicentrale interessando quasi 2.000 Km2 , 45 comuni ed una popolazione al tempo di oltre 130.000 unità. Ma altri 39 comuni, con una superficie di circa 1.500 Km2 ed una popolazione di oltre 100.000 abitanti sono risultati gravemente danneggiati, sia con riferimento all’assetto idrogeologico che alle strutture urbanistiche ed edilizie.

2 Terre a Nordest – Friuli Venezia Giulia 1996 a vent’anni dal terremoto, CRAF, Certro di ricerca e di archiviazione della

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terremoto classificati come zona sismica ai sensi della legge nazionale n.64 del 1974, non essendo pertanto obbligati a rispettare la rigorosa normativa prevista da questa legge per le costruzioni, che avrebbe ridotto sensibilmente il livello di danno alle strutture urbanistiche ed edilizie causato dal terremoto del 1976. I danni maggiormente pubblicizzati sono stati quelli relativi al patrimonio edilizio ed urbanistico degli insediamenti e, un settore meno noto che ha registrato danni paragonabili a quelli di altri settori è stato l’assetto idrogeologico delle aree colpite dal sisma. Il terremoto del 1976 ha, infatti, avuto la funzione di accelerare la naturale dinamica dei fenomeni di instabilità, già ampiamente presenti nella zona montana del Friuli, contribuendo ad incrementare le gravi condizioni di dissesto idrogeologico presenti nell’area colpita dall’evento sismico. Per quanto gli episodi di più intenso dissesto si sono verificati nelle aree epicentrali, danni rilevanti si sono manifestati anche in aree marginali verso i confini con il Veneto, la carinzia e la Slovenia. Tutti i versanti montani sono stati infatti interessati da estesi movimenti franosi, valutati alcuni anni dopo il terremoto in oltre 150, ai quali peraltro è necessario aggiungere il dissesto conseguente ai più estesi fenomeni di franosità potenziale.

Un quadro più definito è possibile darlo per quanto riguarda i danni alle strutture urbanistiche ed edilizie. Furono complessivamente 137 i comuni colpiti dagli eventi sismici in maniera più o meno grave; di questi per il 19 il danno alle strutture urbanistiche fu valutato superiore al 70%, per 23 fra il 40% ed il 70%, per 40 tra il 10% ed il 40% ed, infine, per ulteriori 55 inferiore al 10%. In definitiva: 45 comuni disastrati, 40 comuni gravemente danneggiati e 52 comuni danneggiati. Emblematici della prima categoria sono i Comuni epicentrali di Gemona del Friuli, Venzone ed Osoppo.

Come è possibile vedere nelle immagini sottostanti, la distruzione di questi agglomerati urbani è stata pressoché totale: i pochi episodi edilizi ancora superstiti, dopo il primo terremoto, sono andati irrimediabilmente perduti con le scosse del settembre successivo.

11-6. Rappresentazione dello stato di conservazione degli edifici dopo il sisma del 1977 nelle località di Gemona e Verzone.

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Già dopo le prime scosse di maggio questi centri hanno cessato di svolgere la loro funzione: la vita della popolazione ha ripreso, qualche giorno dopo, precariamente nelle tendopoli prima ed alcuni mesi dopo negli insediamenti provvisori predisposti con tempestività dall’Amministrazione regionale e statale.

Complessivamente i comuni disastrati registravano, prima del terremoto, secondo i dati ISTAT, un patrimonio edilizio pari ad oltre 61.000 abitazioni con circa 270.000 stanze. Il terremoto distrugge quasi 15.000 abitazioni, mentre ne danneggia gravemente altre 35.000. Poche le abitazioni indenni.

Le distruzioni alle strutture urbanistiche ed edilizie sono in generale ricollegabili alla loro distanza dalle zone epicentrali; la conoscenza, tuttavia, di alcuni aspetti quantitativi e qualitativi delle condizioni del patrimonio edilizio prima del terremoto, quali desumibili peraltro dagli schematici, e non sempre completi, dati censuari, permette di formulare anche altre ipotesi sul livello di danno non esclusivamente ricollegabile alla distanza fisica dall’epicentro del sisma. Se dai comuni gravemente danneggiati si passa a quelli disastrati si ha modo di rilevare come subiscano un incremento considerevole le abitazioni censite prima del terremoto come non occupate (dal 6% a circa il 20%) e l’epoca di costruzione del patrimonio edilizio con un incremento del patrimonio edilizio costruito prima del 1919, che passa dal 17% a quasi il 50%. Si può per tanto formulare legittimamente l’ipotesi che l’entità dei danni sia ricollegabile anche alle condizioni di fatiscenza se non di abbandono in cui versava parte del patrimonio edilizio prima del terremoto, con particolare riguardo a quello ricadente nei centri storici, i più duramente colpiti dal terremoto.

Il patrimonio storico-artistico fu gravemente colpito: furono oltre trecento gli edifici pubblici, per il culto e gli edifici privati quali castelli, ville, palazzi a subire rilevanti danni, ma sono altrettanto gravi i danni ai beni mobili di interesse storico - artistico. Il sisma ha danneggiato quasi settecento beni mobili, fra affreschi, dipinti, sculture e manufatti lapidei; beni talvolta fra i più rappresentativi della storia della cultura del Friuli.

Allegato 4. Mappe ricavate dall’applicazione dell’analisi configurazionale: confronto tra la conformazione

spaziale prima del sisma del 1977 e dopo il Piano di ricostruzione.

Allegato 5-6. Analisi frattale ante e post sisma delle cittadine di Gemona e Verzone.

3. Messina: il terremoto del 1908 e le sue conseguenze sull’impianto urbano

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La mattina del 28 dicembre del 1908 quel processo di crescita e di precisazione dei fenomeni urbani, che aveva caratterizzato gli anni dell’unità d’Italia in poi, si ferma tragicamente. Un violento moto sismico squassò la zona dello Stretto di Messina e distrusse completamente la città: ai danni del terremoto e del maremoto si aggiunsero, con riflessi tragici per la città, quelli provocati dal fuoco, che divampò tra le macerie.

Tutta la zona urbana vera e propria subì i danni maggiori, che con evidenza ed efficacia sono messi bene in risalto da una carta allegata al piano regolatore di Borzì. Vi si nota chiaramente come i punti nodali dell’impianto urbano e le caratteristiche salienti della configurazione della città antica costruita nel corso

3 Questo capitolo è stato redatto con l’aiuto delle informazioni tratte da: Ioli Gigante A., Messina, Le città

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dei secoli siano sconvolti del tutto, e come anche gli edifici e i quartieri che avevano fin qui costituito un punto di riferimento non siano riconoscibili nell’ammasso delle macerie. Cade infatti nella parte meridionale della città il Cinquecentesco Grande Ospedale e lungo il corso Cavour, una strada di importanti edifici e di esercizi commerciali di rilievo, rovinano tra gli altri la prefettura e lo storico tempio dell’Annunziata. Nella via Università i crolli sono numerosi: e il più grave interessa l’edificio che ospita l’Università.

Un’altra strada duramente colpita è la via Garibaldi, ove crollano edifici importanti; il Municipio,la Camera di commercio, la Posta, il Teatro, molte banche. La zona settentrionale della città è danneggiata in diversa misura: in modo particolare sono colpiti la chiesa di San Francesco di Paola e i quartieri vicini alle officine del gas. Nella zona meridionale le rovine sono distrutte irregolarmente: ci sono edifici che hanno subito danni rilevanti, mentre altri sono distrutti.

Un’altra zona duramente colpita è la Palazzata, prospiciente il porto, che era stata già restaurata dopo il terremoto del 1783. Dai rilievi che riproducono i palazzi del 1783, si nota che le maggiori rovine furono localizzate in quell’occasione a sud , ed esattamente comprendono tutta la zona tra il Palazzo reale e il palazzo del mercante Calapai; invece le rovine del terremoto del 1908 sono più fitte a nord, dopo il Municipio. In sostanza, cadono adesso gli edifici che il precedente terremoto aveva risparmiato, almeno in parte, e che, invece di essere ricostruiti radicalmente, erano stati troppo speditamente restaurati. Gli edifici meridionali, che, per forza di cose, erano stati ricostruiti meglio, hanno potuto resistere all’urto.

Mentre quasi tutti gli edifici di pregio che la catastrofe aveva distrutto nel 1908 sono stati ripristinati o ricostruiti nei cinquant’anni seguenti, quelli che creavano la Palazzata invece non lo furono, o meglio lo furono con impianti, stili e criteri diversi: e per questo la città non è più in grado di offrire oggi, a chi viene dal mare, il suggestivo spettacolo di un unico «teatro» che circonda il porto. In effetti, anche se si sentì il bisogno di ridare alla città una caratteristica di decoro e distinzione, mancavano nella prima metà del nostro secolo le cause che avevano determinato, nei primi decenni del seicento, la nascita del «teatro marittimo»: allora era stato il nobilato mercantile e anche l’aristocrazia agraria che avevano scelto come residenza questa zona bellissima: infatti la Palazzata formava quelli che oggi potremmo chiamare i «quartieri alti» messinesi, perché abitati dai ceti più abbienti. Dopo il terremoto, questi ceti emigreranno in buona parta da Messina, rimanendovi solo in mediocre misura: di conseguenza essi non furono più in grado di esprimersi in una produzione architettonica che riecheggiasse il passato.

Dalla descrizione fatta sopra risulta che le rovine non si distribuirono uniformemente su l’intera superficie cittadina, ma si presentarono concentrate di preferenza in certe zone. Se esaminiamo queste aree dal punto di vista della loro costituzione litologica, notiamo che esse si sviluppano sull’alluvione recente ; ed è interessante analizzare, una cartina della distribuzione delle rovine compilata dal Baratta.

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Questi, confrontando la zona devastata e la costituzione del terreno su cui poggia Messina, fa notare come il limite dell’alluvione recente, ad opera dei terreni peloritani, corrisponda esattamente al limite delle maggiori distribuzioni subite dalla città. L’alluvione recente forma la fascia pianeggiante dello sviluppo

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urbano, e su questa le rovine sono veramente imponenti. Molto significativo è l’estendersi delle rovine del rione Boccetta che poggia esclusivamente su materiali alluvionali.

Non è giusto però credere che la sola consistenza litologica del terreno messinese sia responsabile delle conseguenze del terremoto. Già le analisi degli esperti che seguirono il disastro del 1783, erano stati concordi con il ritenere che i sistemi di costruzione, pessimi e inadeguati per un territorio sismico, avevano determinato in quell’occasione il crollo di parecchi edifici. Non mancarono perciò, fin da quegli anni, suggerimenti che auspicavano all’applicazione di norme antisismiche nella ricostruzione della città. Norme tuttavia non prese in seria considerazione.

Le condizioni edilizie della città all’inizio del nostro secolo non soddisfacevano ad alcun requisito antisismico e, in effetti, i tipi di costruzione in uso tra la fine del secolo scorso e i primi anni del nostro, non garantivano alcuna solidità agli edifici. Il Baratta, nella sua ampia trattazione, esamina particolarmente tali tipi di costruzione e ne segnala i difetti. Egli scrive « anzitutto i fabbricati sono eccessivamente alti e quasi sempre non per struttura organica, ma per successive sopraelevazioni compiute ogni qualvolta le condizioni cittadine, per aumento di popolazione e di benessere, richiedevano un numero più grande di vani abitabili. Questo stato di cose porta di necessità condizioni affatto insufficienti, tanto più che le sopraelevazioni erano eseguite in un modo vizioso». Pare poi che le case costruite di recente non si trovassero in buone condizioni. I loro muri erano in genere di notevole spessore ma poco consistenti. La saldatura fra i muri maestri aveva scarsa coesione e il materiale adoperato per la loro edificazione era di pessima qualità: si trattava quasi sempre di ciottoli di fiume che per essere tenuti insieme necessitavano di malte abbondanti: ma quest’ultime erano formate di sabbia estratta dalla spiaggia e dal letto dei fiumi, sabbia che per la sua aridità, non era in grado di fare adeguata presa sui ciottoli a superficie levigata.

Il terremoto recò numerosi danni anche alla zona del porto: a tutta la costa, cioè, che circonda la falce e che va dalla Capitaneria del porto al forte di S.Salvatore. In questa striscia di terra essi consistettero soprattutto in larghe e profonde lesioni, specie nella banchina prossima alla Palazzetta, e in sprofondamenti del terreno. I danni della banchina non si distribuirono sempre uniformemente.

Infatti, in certi punti vi fu abbassamento del terreno, in altri presentò delle fessure e degli scorrimenti. La zona maggiormente colpita fu quella occidentale, compresa fra l’attuale Dogana e il palazzo municipale. Il danno assunse proporzioni vastissime specie davanti ai magazzini generali: qui il terreno cedette completamente e affondò tanto da lasciare a fior d’acqua il tetto di un carro merci. Il mare conquisto quindi una striscia di terra. Anche sulla zona falcata vera e propria il terreno cedette, data la costituzione sabbiosa di questa lingua. Proprio qui, anzi le mutazioni della linea di spiaggia divengono rilevanti. Un largo tratto compreso tra la cittadella e il bacino di carenaggio fu eroso e una fascia di circa 25m. di ampiezza fu occupata dal mare: così che la parte convessa della falce vide accentuare la sua convessità.

Il Parlamento italiano, nella seduta del 12 gennaio 1909, delibera la rinascita della città: Messina provvede a dare ai superstiti delle abitazioni più sicure ricorrendo a un mezzo molto singolare, già adottato dopo il terremoto del 1783: la costruzione di baracche di legno, che sostituiscono in maniera temporanea le case in muratura. Furono costruite circa 150 baracche che ospitavano 500 persone e intorno ad esse si accentrarono le prime forme di vita della nuova città. Nei primi mesi del 1909 le baracche si trovano così distribuite:

- Piano della Mosella 2160 a piano, 792 a due piani - Zona di Giostra 2093 a un piano

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- Provvisorie 630 - Americane 1484

Risolto il primo problema urgente, quello cioè di ricoverare almeno provvisoriamente i superstiti, Messina si preoccupò di iniziare in maniera stabile la sua ricostruzione e compì il primo atto necessario, secondo la legge del 12 gennaio 1909: preparare un piano regolatore delle costruzioni in muratura. Nel maggio 1909, fu affidato l’incarico all’Ing. Borzì, direttore dell’ufficio tecnico comunale e buon conoscitore dell’antica urbanistica messinese.

Il progetto dell’assetto urbano di Messina fu quindi un piano «burocratico», volto a rispettare le rigorose leggi antisismiche e le norme relative alla corretta strutturazione delle reti dei servizi igienici, ma fu privo di idee focali, capaci di dare carattere e fisionomia alla struttura urbana. Non introdusse nemmeno notevoli innovazioni, rispetto alle linee generali della vecchia città, di cui vennero per grandi linee conservati l’assetto distributivo e la sagoma complessiva. Si utilizzò così la superficie della città distrutta, svelandola nei quartieri tortuosi, si rettificarono i tronchi stradali, senza mutare nel complesso lo schema del sistema viario, costituito nella zona di vecchio impianto da tre strade quasi parallele al mare.

L’aspetto più saliente del piano regolatore fu costituito dall’ampliamento della città. L’area urbana è adesso raddoppiata rispetto a prima del terremoto e l’allargamento della trama urbana, prevedibile con la ripresa demografica che si sarebbe probabilmente registrata, viene proposto in varie direzioni e zone, come appare nel rilievo che accompagna l’illustrazione dei criteri del piano regolatore; precisamente lo si prevede sia sulla campagna pianeggiante della Mosella, sino al curvone ferroviario in direzione meridionale, sia sulla spiaggia settentrionale fino al torrente Annunziata.

Dopo la redazione e l’approvazione del piano regolatore del Borzì, Messina non si avvia però verso un’effettiva ricostruzione, né tutto ciò che di nuovo viene costruito in città risponde ai principi di organicità che inizialmente quel piano aveva creduto opportuno adottare. In realtà non è ancora possibile dare a Messina un assetto definitivo. Vi è soprattutto un problema di disponibilità delle superfici che impedisce il libero sviluppo della città: la vecchia zona, in cui avrebbero potuto sussistere delle remore a causa del notevole cumulo di macerie, è sgombrata ben presto, ma sorgono delle difficoltà perché non è né cosa facile né rapida espropriare le aree su cui, adesso, vengono tracciate strade o edifici pubblici. D’altra parte nella zona nuova che dovrebbe accogliere l’ampliamento, si sviluppano i baraccamenti.

Un’altra grave remora alla pronta riedificazione della città fu rappresentata dal fatto che mancò quasi del tutto l’iniziativa privata, ostacolata dalla presenza di grossi proprietari. Infatti la Curia, lo Stato, i privati più ricchi, morti gli eredi di molte proprietà, comprarono gran parte dei suoli fabbricabili.

Solo dopo il 1914, la ricostruzione di Messina subisce un notevole incremento, per opera dell’Unione edilizia messinese che, sorta in un primo tempo per coordinare tutti gli interessi dei privati, era passata alla costruzione di case di tipo economico. L’Unione infatti aveva costruito, alla fine del 1917, 437 appartamenti economici con 1394 vani, oltre 47 botteghe e inoltre 166 appartamenti per impiegati.

Questi edifici si raggrupparono in nuclei facilmente individuabili ed in genere in zone già servite da regolari strade: si accentrano cioè sul Piano della Mosella, lungo la riva destra del torrente Portalegni, sulla via Placida e nella Piazza del Duomo. Tali costruzioni sono ancora ben lontane dal consentire una apprezzabile riduzione delle baracche, il cui numero anzi era venuto crescendo, e l’opera di riedificazione subisce un più energetico rallentamento in conseguenza della partecipazione italiana alla prima guerra mondiale.

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Al termine di questa, nel 1918, tutta la zona compresa tra il Boccetta e il Portalegni ha ancora l’aspetto di un enorme piazzale. Solo pochi edifici pubblici e cioè il palazzo di Giustizia,l’Università,il palazzo della Provincia, le Poste e Telegrafi, il Municipio, l’intendenza di Finanza, la Prefettura, la Dogana e la Banca d’Italia, sono qui costruiti o in corso di costruzione. Alla fine della guerra mondiale, quindi, restano ancora le baracche la caratteristica più importante del paesaggio urbano della città dello Stretto. Tuttavia, mentre esse, subito dopo il terremoto, avevano risolto in maniera brillante il problema dell’insediamento nel territorio messinese e se si vuole anche dal punto di vista estetico costituivano con le facciate colorate, i tetti rossi, le piante rampicanti, un non sgradevole insieme, adesso logorate dal tempo mostrano tutti i difetti della loro fragile costituzione.

Allegato 7. Mappe ricavate dall’applicazione dell’analisi configurazionale: confronto tra la conformazione

spaziale prima del sisma del 1908 e dopo la ricostruzione.

Allegato 8-9. Analisi frattale ante e post sisma della città di Messina.

4. Il terremoto a Reggio Calabria nel 1908

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11 -7. Reggio Calabria prima del terremoto del 1783.

4 Questo capitolo è stato redatto con l’aiuto delle informazioni tratte da:

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Dal 1783 al 1908 l’area reggina è interessata da frequenti terremoti: Baratta fino al 1898 ne sancisce 25. Altre scosse sono registrate nel 1905; il movimento continuo della terra non mette in discussione la struttura urbana ma compromette la statica già precaria del patrimonio edilizio. Dopo quest’ultimo sisma, che colpisce in modo distruttivo alcuni paesi della Calabria, il Governo nomina una commissione per lo studio dei terremoti calabresi, presieduta dal Prof. Taramelli e inoltre una commissione di tecnici del Genio Civile che formula un regolamento approvato il 16 settembre del 1906. Tale regolamento resta frustrato e non coincide sulle tecniche di restauro e di ricostruzione dei paesi danneggiati.

Il Governo, dopo i violenti terremoti e maremoti che colpiscono in modo distruttivo l’area calabro messinese, con una prassi consolidata dagli eventi sismici italiani dell’ultimo secolo e con un’apposita legge, istituisce due commissioni. La prima, presieduta dal sen. Blaserna, ha l’incarico di analizzare la natura sismo geologica dei suoli; l’altra, presieduta dal comm.Maganzini, presidente di sezione del Consiglio superiore dei lavori pubblici, di definire le norme obbligatorie della ricostruzione.

Il primo interesse è rivolto all’analisi dei danni. Osservazioni sono compiute sulla qualità del patrimonio edilizio sia dal punto di vista dei materiali utilizzati sia delle tecniche costruttive in uso, che non corrispondevano a nessuna delle regole più elementari d’una edilizia antisismica. I sapienti regolamenti emanati dai Borboni dopo il terremoto del 1783, si erano da molto tempo completamente dimenticati. Viene esaminata anche la natura geologica del sito: i danni nella parte alta della città, costruita su un terreno alluvionale di più antica origine, sono meno gravi che in quella tra il Corso e la Marina.

Dopo il terremoto la ricostruzione fu rimandata: per un arco di tempo la vita si sarebbe svolta in una città provvisoria in cui sono soltanto fissate le coordinate di riferimento di quella futura. L’opera effettiva di ricostruzione, ebbe inizio solo all’indomani della seconda guerra mondiale. E si limitò alla sistemazione della parte vecchia dell’abitato.

La città si va formando con gruppi organici di baraccamenti, distribuiti nelle aree esterne al nucleo urbano e con tutti i requisiti e i servizi pari all’importanza del centro. Le direttrici di sviluppo sono quelle dei precedenti strumenti urbanistici: nuove ragioni di sicurezza inducono ad una espansione in orizzontale delle strutture urbane, limitate nella crescita verticale degli edifici e quindi alla ricerca di spazi di ampliamento. La «città vecchia», in larga misura distrutta, presenta per molto tempo il volto della catastrofe, anche perché si da la precedenza alla costruzione dei ricoveri rispetto allo sgombro delle macerie. Il centro della «città di legno» è S. Lucia. Il vecchio nucleo è disabitato e una precaria normalità si viene a creare nell’area settentrionale, dove sono localizzati anche i servizi baraccati. Solo la baracca ospitante il Comune resta in Piazza Italia.

Sono istituite commissioni locali, presiedute dai prefetti, incaricate di collaborare in merito alla scelta delle aree per l’ubicazione degli edifici pubblici e di stabilire le norme di priorità della riedificazione, laddove vi siano esigenze particolari in ordine a criteri di estetica da adottare. E’ previsto di avvalersi dell’opera di professionisti privati: saranno infatti presenti nell’area calabro sicula gli esponenti maturi dell’architettura italiana.

Allegato 10. Mappe ricavate dall’applicazione dell’analisi configurazionale: confronto tra la conformazione

spaziale prima del sisma del 1908 e dopo la ricostruzione.

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Lo strumento legislativo a cui si fa riferimento, per regolare le principali questioni della ricostruzione, è la vecchia legge del 1865 sull’espropriazione dei suoli per pubblica utilità, di cui vengono dilatati i tempi per occupazione temporanea. Essi diventano definitivi laddove si tratta di terreni liberi utilizzabili nella fase della ricostruzione. Ampi baraccamenti istallati con il concorso di comitati italiani ed esteri sorgono sui terreni agricoli espropriati dallo Stato seguendo le direttrici dei precedenti strumenti urbanistici. Per le aree coltivate si decide l’occupazione definitiva, che renderà inderogabile la decisione di operare nel futuro con la rotazione dei suoli e lo sbaraccamento sistematico a favore dei nuclei fabbricati e scelte meno precarie per le opere di urbanizzazione.

Vengono installate differenti tipologie di alloggi provvisori, dalla baracca comune «tipo nazionale» di modeste dimensioni allo chalet bifamiliare donato dalla Croce Rossa Svizzera.

I villaggi di legno, impostati su un’orditura regolare definita dal Genio Civile (gruppi organici di baraccamenti da trasformare poi in città stabili), prendono il nome dei comitati donatori dei manufatti: il villaggio svizzero, norvegese, il rione Friuli, S.Marco oppure dalle ditte proprietarie dei terreni espropriati o dalle località dove sono ubicati. Per i baraccamenti militari i nomi assegnati sono le lettere dell’alfabeto dalla a alla i.

Contribuiscono alla gestione dell’emergenza abitativa numerosi stati stranieri e comitati nazionali e internazionali formatisi appositamente. Agli alloggi provvisori si aggiungono i padiglioni per i servizi collettivi, differenziati sia per le dimensioni sia per l’attenzione agli elementi di decoro.

11-8. Veri e propri piani di localizzazione dei baraccamenti sviluppano la nuova città provvisoria. Nelle carte sono programmati gli insediamenti di baracche distinti per pertinenza.

Le linee generali del nuovo Piano Regolatore sono discusse e approvate dal Consiglio Comunale del 1909: prevede la ricostruzione della città «dov’era e com’era», fissa il perimetro dell’area urbana tra i torrenti

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Calopinace e Annunziata, includendo la via Reggio Campi nell’area centrale, prevede il prolungamento delle vie Aschenez e dei Tribunali e l’espansione a nord fino al torrente Montevergine.

Il progetto non tace il legame di stretta continuità tra il vecchio e il nuovo piano, anzi lo rielabora ampliando l’impianto a scacchiera e utilizzandolo sia come base su cui ridisegnare la nuova maglia, conforme alle norme imposte per i centri colpiti dal sisma, sia per localizzare i baraccamenti in modo tale da non compromettere la futura ricostruzione.

Il reperimento di aree libere è il grosso nodo da sciogliere, perché le zone esterne sono occupate dai baraccamenti e il vecchio centro è un cumulo di rovine. Si pensa di realizzare il risanamento: «ciò che per tanto volger di tempo non potè ottenersi, l’abbattimento cioè dei vecchi fetidi quartieri, ora è avvenuto per la furia degli elementi».

Queste zone irregolari della vecchia città sono destinate tra le prime all’esproprio. La richiesta in tal senso è inserita nel piano finanziario che prevede la spesa complessiva di 25 milioni, approvato nel 1910, anticipando i tempi, dato che lo strumento urbanistico a quella data risulta ancora depositato alla Prefettura per l’approvazione del Consiglio Provinciale Sanitario. La preoccupazione che si ripetano per mancanza di controllo, vicende analoghe a quelle dopo sisma del 1783, esige una programmazione edilizia pubblica messa in relazione con lo sbaraccamento. «Ognuno vede il pericolo grandissimo per l’avvenire edilizio ed estetico della città, ove i possessori di baracche potessero acquistare i suoli e su di essi costruire a loro bell’agio o modificare o trasformare gli attuali ricoveri. Rifaremo i vecchi quartieri che oggi il terremoto ha distrutto e che hanno deturpato vergognosamente, per tanto tempo, la nostra bella città». Lo schema della prima stesura del Piano è costituito dal sistema rettilineo del Corso lungo il quale si aprono gli ambiti più importanti: la piazza Garibaldi con la nuova stazione centrale progettata nel 1925 dallo stesso autore di quella messinese, Angiolo Mazzoni, i giardini, la villa comunale, piazza Duomo, piazza Vittorio Emanuele sulla quale prospettano diversi edifici pubblici, piazza De Nava destinata a verde e altri slarghi ricavati in corrispondenza di edifici di carattere collettivo, come il «tempio monumentale di San Giorgio della Vittoria» (iniziato nel 1926 su disegno di Camillo Autore). Nel prolungamento di quest’asse in corrispondenza del nodo S. Lucia – Caserta si prevede, con soluzione grafica e con dimensioni differenti dal precedente strumento urbanistico, un raccordo a verde tra la città e la nuova espansione. Il nuovo asse è utilizzato per la rotazione della più recente maglia urbana che segue la direzione differente della costa:«il Corso Garibaldi che taglia quasi longitudinalmente a metà e che taglia ad angoli retti tutte le traverse da montagna a marina, e che è collegato quasi in rettilinea colla Nazione Ionica e la Nazione Tirrenica, è solo un’arteria che costituisce essa sola, nell’apparenza e nella realtà, la vita, il movimento, la viabilità, il centro di tutto il paese». Si pone,rispetto alle norme stabilite in sede governativa, l’esigenza dell’allargamento di questa arteria principale, ma ragioni di ordine economico bloccano sul nascere questa ipotesi. L’assetto morfologico, costruendosi tale asse dritto e largo, comporterebbe una sostanziale modifica anche delle strade ad esso perpendicolari.

La larghezza delle sedi viarie del vecchio centro resta immutata, creando un contenzioso con il Genio Civile. L’allargamento comporterebbe maggiori demolizioni, riduzioni del suolo edificabile, stravolgimento delle proprietà e tempi lunghi di ricostruzione. Il Piano conferma la larghezza delle vie Torrione, Tripepi e del corso Garibaldi; mentre per i nuovi assi stradali, ricavati dalla copertura delle fiumare, è stabilita una dimensione maggiore, per le restanti nuove vie è fissata la misura di dodici metri compresi i marciapiedi. De Nava appronta lo strumento urbanistico di una città «nuova» con la stessa cultura dell’intervento derivata dall’esperienza ottocentesca dei piani regolatori edilizi e d’ampliamento. La prima stesura è da

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considerare «il disegno per gestire l’emergenza», alieno da soluzioni che possano ledere gli interessi privati e rivolto a correggere la «viziosa» disposizione degli edifici e degli allineamenti stradali. Pressante è il tentativo di definire lotti regolari, tanto da destinare a verde tutte quelle aree di risulta determinate dalla maglia geometrica imposta alla morfologia del sito.

11-9. Piano Regolatore del 1911.

4.1 L’edilizia residenziale

I tempi di realizzazione dell’edilizia residenziale a Reggio sono particolarmente lenti. Lo stato si pone come intermediario tra i cittadini e gli Istituti di credito per garantire la realizzazione dell’edilizia privata e stabilisce aiuti limitati per l’edilizia sovvenzionata da destinare ai dipendenti statali; solo in una seconda fase sovvenziona l’edilizia popolare.

Le case economiche a Reggio devono sorgere su terreni di proprietà comunale e «contenere appartamenti di non più di quattro vani, compresa la cucina». Esse sono di proprietà dello stato Comune che cura l’esecuzione dei lavori. Già nel settembre del 1910 il consiglio comunale delibera la concessione gratuita del suolo comunale a quegli Istituti che si propongono la costruzione di case popolari.

Sono stanziati circa tre milioni per la realizzazione , da parte del genio Civile, di alloggi per impiegati e il Ministero fissa alcuni criteri di base atti ad unificare la ricostruzione anche con l’altra sponda dello Stretto:

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uso del cemento armato, progettazione di palazzine, decoro dei prospetti e indicazione sulle procedure per la scelta delle ditte appaltanti dei lavori.

Solo nel 1914, si avvia, grazie alle pressioni dei deputati reggini, l’Ente Edilizio preposto a gestire la rotazione dei suoli e a progettare e costruire nuovi alloggi. L’attività dell’Ente dal 1916 al 1926 è realmente limitata non soltanto in rapporto al fabbisogno e, solo nel 1915, è approntato il primo intervento per le case ultraeconomiche nel Rione Annunziata.

Nel 1925 il Ministero nomina un Commissario e definisce un organico più ampio per l’Ente; da questo momento in poi sono presi alcuni provvedimenti organici definiti in un piano quinquennale per lo sbaraccamento e per la costruzione di «case per cittadini terremotati».

L’Ente è in possesso del censimento della popolazione alloggiata nelle costruzioni provvisorie: nel centro urbano 4300 famiglie per un totale di 17000 persone che occupano 9000 baracche. Numerose difficoltà per la messa in moto della rotazione dei suoli sono causate dalla mancanza di aree libere; nel 1921 si fa richiesta di suoli liberi «ai margini del piano regolatore». Al contempo viene avviata, con la costruzione nel 1924 dell’Opera Interdiocesana per la costruzione delle chiese distrutte dal terremoto, la saturazione delle aree urbane di proprietà ecclesiastica.

Il terremoto, infine, spinge a rompere «i confinamenti spaziali entro cui la città era stata costretta negli ultimi decenni». Reggio si espande lungo il litorale sia a sud che a nord, passando dagli oltre 45000 abitanti del 1921 agli oltre 60 mila del 1936 ma, al di là del suo ambito comunale lungo la fascia dello Stretto, numerosi comuni autonomi, coma Cannitello, catona, Campo Calabro, Fiumara animano la maglia insediativa. Nel 1927 nasce la Grande Reggio, aggregando 14 comuni con circa 60000 abitanti e facendo cessare quel policentrismo avvertito come causa di insufficienza del territorio della città, in rapporto allo sviluppo finanziario, economico, industriale e commerciale ed all’impossibilità di seguire lo sviluppo moderno dei servizi pubblici.

La Grande Reggio si mostrava «una scelta in gran parte forzata, che gonfiava artificialmente le dimensioni della città e ingigantiva, nei fatti, i problemi amministrativi e di governo di realtà molteplici e diverse». L’esperienza non ha lunga vita; più tardi le autonomie ritorneranno in vigore in gran parte dei comuni inglobati, a cominciare nel 1933 da Villa S.Giovanni. In ogni caso la città va riprendendo un ritmo di crescita reale fondato sulle attività produttive agricole (l’agrumeto in particolare), su quelle industriali (col predominio delle fabbriche dell’agrocotto), sul porto che, nel corso degli anni ’30, vede aumentare il volume dei traffici.

«Il declino della città di Reggio, consumatosi negli anni di questo secondo dopoguerra, non era dunque del tutto iscritto nelle cose». Complessa è l’evoluzione urbanistica recente: una cinta urbana composita s’aggrega via via al nucleo storico, affiancando ai tradizionali insediamenti agricoli baracche residue del 1908 e casette popolari, i cosiddetti «quartieri minimi» costruiti verso la fine degli anni ’30. Infine gran parte della crescita edilizia cittadina si verifica sulle pendici collinari negli anni ’60, contribuendo all’affermazione della questione urbana reggina.

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11-10. Disegno di Gino Zani del 1915 di case economiche per conto dell’Ente edilizio offre il modello progettuale dell’isolato. Questo si colloca, con soluzioni tipologiche differenti, su una morfologia irregolare, imponendo una maglia ordinata.

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5. Conclusioni

- LISBONA (BAIXA)

I risultati emersi dall’applicazione della VGA sulla cartografia del quartiere di Baixa, mostrano una significativa variazione di appetibilità del territorio tra la fase ante e post sisma: dalla cartografia del 1650 emerge una centralità marcata per tutta la zona litoranea, cosa che va a scomparire con il nuovo piano di Lisbona, perché proprio con quest’ultimo si vanno accentuando alcuni degli assi portanti della griglia urbana: Rue Aurea, Rua Prata, Rua Arsenal, Rua Sapateros, Rua Douradores (colore rosso, Allegato 1), spostando l’attenzione verso l’entroterra e non più sulla costa. Con il nuovo piano aumenta il valore di R2, passando da 0,465872 a 0,697329: questo comportamento è del tutto giustificato di fronte ad una nuova configurazione urbana, un impianto organico e ordinato, disposto secondo maglie regolari; inoltre riveste un ruolo centrale Praça do Comércio, mostrando un elevato indice di integrazione, a conferma della sua marcata centralità urbanistica. Prima del terremoto del 1755, la crescita urbana di Baixa si era sviluppata spontaneamente, senza seguire assi o griglie particolari, ma seguendo schemi liberi.

- REGGIO CALABRIA

Dopo il terremoto del 1908, dal nuovo piano per lo sviluppo e la rinascita della città di Reggio Calabria, emerge la centralità di Corso Garibaldi, attorno al quale si dispongono i nuovi interventi di lottizzazione disposti a scacchiera. Infatti, dall’applicazione della VGA alla cartografia di Reggio Calabria, emerge che Corso Garibaldi ha un alto valore dell’indice di integrazione.

Altre due zone risultano di primaria centralità e sono due aree litoranee accessibili oggi da Via Giunchi e da Via Candeloro (aree in rosso,

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- MESSINA

Il piano regolatore del 1909 ha previsto un notevole incremento delle aree edificate, in tutte le direzioni e facendo uso di maglie ortogonali (come a Reggio Calabria). Questo ha comportato una maggiore centralità per tutte le nuove aree edificate accentuando l’importanza e la centralità dell’attuale Via Giuseppe Garibaldi. Come è possibile notare dai risultati emersi dalla VGA, sia nella fase ante che post sisma, la fascia litoranea rimane molto integrata e diventano maggiormente centrali gli assi che attraversano le nuove aree urbane site a nord-est rispetto al porto di Messina. La crescita urbana non ha comportato una variazione dell’indice R2 , passando da 0,559844 a 0,553060, mentre dall’axial map emerge il costante valore e la costante centralità di Via Giuseppe Garibaldi sia ante che post sisma.

- GEMONA E VERZONE (UDINE, FRIULI VENEZIA GIULIA)

Completamente rase al suolo dal sisma e ricostruite sullo scheletro del vecchio impianto urbano, mostrano un comportamento completamente diverso nelle due configurazioni analizzate,prima e dopo il 1976. Dall’analisi dell’axial map del comune di Verzone, emerge un ribaltamento dei risultati in termini di indice di integrazione globale: mentre prima del sisma la line maggiormente integrata era disposta orizzontalmente, nella configurazione post sisma la line con il più alto indice di integrazione globale è disposta longitudinalmente rispetto all’intero insediamento urbano.

Le analisi effettuate su Gemona confermano la permanenza della centralità dell’asse costituito da Via di Prampero Artico e da Via XX Settembre, con un aumento del valore di R2, che passa da 0,610508 a 0,916027, a causa del vuoto creatosi con il terremoto del 1976.

Tabella 2 Tabella riepilogativa della dimensione frattale dell'agglomerato urbano delle cittadine esaminate con riferimento alle diverse soglie temporali ed ai metodi di elaborazione.

Parallelamente è stata esaminata la geometria frattale corrispondente alla consistenza planimetrica degli aggregati sopra elencati, nella configurazione ante e post sisma. I metodi adottati per la determinazione della dimensione frattale sono: analisi di dilatazione, analisi di correlazione e analisi radiale, così da ottenere risultati di maggiore attendibilità.

Nella Tabella 2 sono riportati i risultati ottenuti con riferimento alle diverse soglie temporali ed al metodo utilizzato, ed essa consente di rilevare alcuni aspetti singolari:

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- La dimensione frattale della consistenza planimetrica dell’aggregato urbano ante sisma, risulta avere dei valori molto alti, in particolare la cittadina di Baixa ha una dimensione frattale prossima a 2, come era da attendersi in ragione della compattezza del perimetro fortificato.

- I progetti di nuovi Piani Regolatori o i Progetti di Recupero delle cittadine di Gemona e Verzone, comportano una diminuzione della dimensione frattale a vantaggio di una maggiore organicità e organizzazione del territorio, dimensione che appare variamente differenziata secondo il metodo di apprezzamento di volta in volta utilizzato.

Considerando congiuntamente gli esiti dell’analisi diacronica della configurazione urbana degli aggregati di Baixa, Messina, Reggio Calabria, Gemona e Verzone, è facile osservare che le aree di più recente urbanizzazione, riedificate post sisma, hanno acquisito una omogeneità urbana completamente difforme da quella esistente prima del sisma e pertanto si può ipotizzare una correlazione tra il coefficiente di determinazione R2 e la dimensione frattale degli aggregati urbani.

Figura

Tabella 2 Tabella riepilogativa della dimensione frattale dell'agglomerato urbano delle cittadine esaminate con  riferimento alle diverse soglie temporali ed ai metodi di elaborazione

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