Burnout Scolastico:
1. Fattori predittiviParlando del burnout scolastico è evidente che si tratta di un costrutto multidimensionale. Per poterlo misurare occorre individuare degli indicatori comportamentali, ossia quei parametri che indirettamente ci dicono il profilo stressogeno del soggetto. Maslach e Jackson (1981) enfatizzano l’aspetto psicologico del burnout rispetto alla dimensione fisica, da qui l’interesse per fattori interpersonali (supporto sociale), interni (personalità) e ambientali (carico di lavoro). Numerosi sono gli studi che hanno cercato di individuare una correlazione tra il tipo di personalità e le tre aree del burnout: Mills e Huebner (1998) hanno dimostrato l’esistenza di una correlazione diretta significativa tra il tratto “Estroversione” di personalità e il senso di realizzazione personale e una correlazione inversa tra il livello di “Estroversione” e l’Esaurimento Emotivo. Per quanto concerne il tratto “Nevroticismo” troviamo opinioni diverse: Mills e Huebner (1998) riportano una relazione significativa tra questo tratto e tutte e tre le aree del burnout, mentre Zellars et al. (2000)
individuano una correlazione significativa solo con l’area “Esaurimento”.
Interessanti sono le evidenze raccolte da Jacobs e Dodd (2003) che, all’interno del loro studio trasversale, hanno raccolto 149 studenti universitari (103 donne e 46 uomini) provenienti da un’Università di privata nel Midwest. Tra i vari scopi vi era quello di indagare la personalità somministrando una sezione dello SNAP (Clark, 1993): il General Temperament Survey (Clark & Watson, 1990) comprendente 90 item che indagavano specificamente il Nevroticismo,
l’Estroversione e il tratto Disinibizione inteso come mancanza di coscienziosità e confrontarlo con il livello di burnout mediante Il Maslach Burnout Inventory (Maslach & Jackson, 1981). Il loro campione riportò un livello basso/moderato di burnout. Dal punto di vista della personalità, emerse che livelli alti di Nevroticismo correlavano positivamente con una condizione di
Esaurimento Emotivo, Depersonalizzazione e bassi livelli di Realizzazione Personale. In accordo con il pensiero di Clark (1993) il temperamento nevrotico riflette condizioni di stress cronico e nervosismo che, se sperimentate, danneggiano il sonno e impediscono la concentrazione,
instaurando un circolo vizioso. Inoltre il Nevroticismo, oltre a essere correlato con il burnout, lo è anche con la personalità di Tipo A (Shaufeli e Enzmann, 1998). Un temperamento positivo è correlato con il senso di realizzazione personale (Zellars et al., 2000) poiché sentirsi estroversi,
ottimisti e accomodanti impedisce all’eustress di trasformarsi in distress. Per quanto concerne il tratto Disinibizione, che comprende l’impulsività e la scarsa coscienziosità, Jacobs e Dodd (2003) non hanno riconosciuto una correlazione significativa rispetto al burnout, mentre Dahlin e Runeson (2007) hanno stabilito che il tratto Impulsivo fosse predittivo sia di un grave livello di burnout che di comportamenti maladattivi (Gustavsson, 2003). All’interno dello studio di Jacobs e Dodd (2003) la Personalità è emersa come il più potente predittore di burnout, più del supporto sociale e del carico di studio percepito.
Altrettanto numerosi sono gli studi compiuti al fine di verificare l’esistenza di una correlazione tra la dimensione del supporto sociale e le tre aree del burnout.
Per supporto sociale s’intende il contenuto funzionale delle relazioni sociali, la sua finalità è sempre quella di aiutare il ricevente, ed è fornito consapevolmente (Irwin G. Sarason & Barbara R. Sarason, 2009).
Non esiste una teoria unitaria che spieghi adeguatamente il legame fra sostegno sociale e salute, uno dei modelli principali vede in Cassel (1976) e Cobb (1976) i principali esponenti. Loro
considerano il sostegno sociale come un fenomeno capace di produrre un effetto tampone contro lo stress, in modo tale che chi dispone di maggior sostegno sarà anche più resistente allo stress (buffering effect).
Le ricerche sul sostegno sociale hanno proceduto impiegando misure quantitative/strutturali o qualitative/funzionali, le prime, come la misura del livello d’integrazione sociale, cercano di
quantificare e descrivere la struttura della rete sociale nella quale la persona è inserita, le seconde sono tese a identificare le funzioni svolte dal sostegno, raccolte esaminando le percezioni che l’individuo ha della disponibilità di altre persone ad assolvere tali funzioni o dell’averne effettivamente usufruito. Per Cohen e Willis (1997) occorre integrare entrambe le tipologie di misurazione.
Fra le funzioni del sostegno House (1981) distingue:
• sostegno emotivo: implica l’espressione di empatia, amore, fiducia e cura • sostegno strumentale: aiuto tangibile.
• sostegno informativo: consigli, suggerimenti.
• sostegno di appraisal: implica fornire informazioni utili per l’autovalutazione, confronto sociale. Le due dimensioni del sostegno (rete sociale e sostegno percepito), non coincidono
(Gustave-Nicolas Fisher, 2006).
Esistono due principali ipotesi circa gli effetti positivi del sostegno sulla salute:
- 1ᵃ ipotesi: il sostegno produce effetti diretti sulla salute e sul benessere, a prescindere dallo stress sperimentato; in conformità a questa ipotesi le reti sociali forniscono all’individuo regolari esperienze positive e una gamma di ruoli stabili e socialmente gratificanti all’interno della società, e ciò incrementa l’autostima, la fiducia e incoraggia comportamenti più sani;
- 2ᵃ ipotesi: il sostegno sociale influenza la salute proteggendo l’individuo dall’impatto negativo dello stress (Cassel, 1976; Cobb, 1976) la funzione tampone può spiegarsi
attraverso due processi: 1) le persone che godono di elevato sostegno possono valutare un evento come meno stressante perché sanno di poter chiedere aiuto, se fosse necessario; 2) il sostegno può attutire l’effetto stressante rafforzando le capacità di coping.
Ancora non si sa quale delle due tesi sia la più accreditata.
Rispetto al burnout, il basso livello di supporto sociale percepito è un fattore di grande peso. Si può considerare sia come un fattore sia predittivo (Jacobs e Dodd, 2003) che come un fattore precipitante rispetto alla sintomatologia in corso, soprattutto se il tipo di supporto che manca è quello legato alla figura del professore o del tutor universitario (Huebner, 1994: Ross, Altmaier e Russel 1989). Recentemente Lyrakos (2012) ha realizzato uno studio multiculturale con follow-up a 12 mesi, che ha coinvolto 562 studenti universitari provenienti da Italia, Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Spagna e Grecia. In questo studio varie sono le ipotesi indagate, tra cui dimostrare che il livello di stress percepito si riduce in modo significativo durante l’anno di valutazione, che anche il supporto sociale percepito si riduce in modo significativo confrontando la prima misurazione con la seconda e che lo stress correlava negativamente con il supporto sociale.
Gli strumenti testistici utilizzati per le valutazioni elencate pocanzi sono stati il Daily Hassles questionnaire (24 item), al fine di misurare i livelli di ansia e le strategie di coping impiegate più frequentemente per gestire lo stress e il Social Support Questionnaire (1983) per valutare la qualità delle reti sociali che girano intorno allo studente. Tra i risultati emerge che i livelli di stress misurati inizialmente si sono ridotti significativamente nella seconda misurazione (-10.37) in accordo con le evidenze in letteratura, solo gli studenti inglesi hanno riportato punteggi
rivelato significativo, ma piccolo. La letteratura ci dice che i livelli di supporto sociale tendono ad aumentare nel tempo (Ross et al., 1999; Steer et al., 1995) e qui, è il contrario, anche se
lievemente. Forse nel corso dell’anno accademico all’aumentare delle difficoltà e del carico di studio, le occasioni di socializzare e fare amicizie si riducono quindi, in caso di bisogno, gli studenti non sanno a chi rivolgersi (Cosden et al., 1997) oppure, durante l’anno si sono trasferiti in un'altra università e creare un nuovo network non è immediato oppure, semplicemente, hanno troncato i rapporti di amicizia fino ad allora esistenti (Steer et al., 1995). Anche Watson et al. (1998) ci dicono che lo stress correla negativamente con il supporto sociale: all’aumentare del livello di supporto sociale, si riduce lo stress. Anche lo studio di Lykaros (2012) conferma che la ricerca di supporto sociale è una valida strategia di coping che concorre alla riduzione dello stress. Un altro valido studio, meno recente, che indaga la correlazione tra sostegno sociale e burnout è di Jacobs e Dodd (2003) che oltre a valutare il rapporto stress-personalità, stima il rapporto stress-supporto sociale. A tal fine i partecipanti furono sottoposti alla compilazione del Multidimensional Scale of Perceived Social Support (MSPSS) (Zimet, Dahlem, Zimet & Farley, 1988) composto da 12 item strutturati in tre sotto-tipi di supporto: da parte di Amici, da parte della Famiglia e da parte di qualcun altro significativo. Dall’analisi dei risultati emerge che bassi livelli di supporto sociale correlavano con alti livelli di Depersonalizzazione e bassi livelli di Realizzazione personale. Tra i tre tipi di supporto indagati la possibilità di chiedere aiuto a un gruppo di amici sembra essere il tipo di sostegno più protettivo sul piano della Depersonalizzazione.
Una delle realtà più significative, dove il supporto sociale è auspicabile, è rappresentato dal gruppo dei pari. Il gruppo di amici è uno dei contesti sociali più importanti per l’adolescente (Magnusson e Stattin, 1998) quindi l’influenza che i pari possono esercitare nel confronti del soggetto non è da sottovalutare. Brown (1989) distingue tra tre tipi di gruppo che l’adolescente può strutturare: una relazione diadica (dyads), dove c’è maggiore intimità tra i membri ed è tipicamente femminile, una combriccola (cliques) che è formata da un gruppo ristretto oppure una comitiva (crowds) composta da un numero maggiore di ragazzi e ragazze con un minor livello di intimità. Tra i fattori che sono presi in considerazione in fase di creazione del gruppo troviamo: l’età, il genere (Cairns e Cairns, 1994), l’etnia, gli interessi in comune, il successo scolastico e la motivazione (Chen et al., 2003), il livello di distress interno (Hogue e Steinberg, 1995) o la presenza di specifici comportamenti esternalizzanti (fumo, alcol) (Espelage et al., 2003).
Kiuro et al. (2008) all’interno del loro studio si chiedono se il genere e il successo scolastico siano predittivi rispetto al fenomeno del burnout scolastico e se fossero in grado di prevedere un
incremento o un abbassamento dei livelli di stress durante l’ultimo anno della scuola comprensiva. Per misurare il successo scolastico Kiuro et al. (2008) monitorarono la media dei voti ottenuti ad ogni semestre, più alta era la media, maggiore era il livello di successo scolastico. Tra i risultati emerse che quegli studenti che avevano bassi livelli di rendimento, mostravano più alti livelli di stress e rischio burnout; questo risultato è in linea con quello che mostrarono studi precedenti secondo i quali il fallimento scolastico correla con un’affettività distimica e distress (Cole et al., 1999; Seroczynski et al., 1997) e lamentele circa lo stato di salute (Hurrelmann et al., 1992). Inoltre, i gruppi formati da ragazzi/ragazze con scarso rendimento scolastico risultano esposti in modo netto al burnout (Kiuru et al., 2008). Per quanto riguarda l’indagine di genere emerge che i gruppi formati da ragazza, rispetto ai gruppi formati da ragazzi, sono più esposti al burnout, al distress e ad una sintomatologia internalizzante ((Hoffmann et al., 2004) perché hanno standard più elevati. Questo risultato, indirettamente, ci dice che le ragazze manifestano livelli di
rendimento scolastico più elevato quindi il voler essere brave, è un arma a doppio taglio: da un lato, stimola il loro engagement proteggendole dal burnout, ma dall’altro, un eventuale fallimento le destabilizza di più, predisponendole all’esaurimento emotivo e al cinismo (Kiuru et al., 2008). Al di là di questi due antecedenti, fortemente correlati, la domanda più generale che Kiuro e i suoi collaboratori si sono posti era comprendere il peso dell’influenza dei pari sul livello di stress percepito dallo studente durante l’anno scolastico. Da questo studio emerge che l’appartenenza ad un gruppo “di successo” protegge i membri durante l’anno e mantiene stabilmente bassi i livelli di stress. Alla base di questo fenomeno possono esserci tre spiegazioni: 1) all’interno di un gruppo volenteroso e studioso, i membri possono supportarsi tra loro dandosi consigli rispetto allo studio ed ad altre difficoltà; 2) la negoziazione e il confronto di gruppo favoriscono le attività
accademiche; 3) l’imitazione è una delle strategie sociali di adattamento più efficaci (Bandura, 1977). Al contrario, un gruppo di pari poco studioso e centrato sui doveri accademici influenza negativamente lo studente, mettendolo a rischio il singolo rispetto allo sviluppo del burnout e alimentando internamente un clima di frustrazione ed esaurimento (Hogue e Steinberg, 1995). Possiamo concludere che il gruppo sociale di appartenenza influenza notevolmente l’andamento scolastico e i livelli di distress di ogni singolo componete, sia in positivo che in negativo, e che i fattori più associati al rischio di burnout sono la co-rimuginazione (Rose, 2002), una scarsa qualità del rendimento scolastico, l’essere femmine e la scarsa autostima (Kiuru et al., 2008).
Un altro fattore degno di indagine, che rientra tra i fattori interni insieme alla personalità, è il livello di autostima e di autoefficacia. Fu Albert Bandura a proporre il concetto di autoefficacia definendola come la capacità di credere nelle proprie abilità, come base della fiducia in se stessi (Amoretti, 2008). Le persone con elevata autoefficacia hanno aspirazioni più alte e sono più determinate nello sforzo ad ottenere ciò che vogliono. L’autostima invece “è la componente della personalità che comprende le nostre autovalutazioni positive e negative” (Amoretti, 2008), non è un tratto unidimensionale e fisso, bensì dinamico e flessibile poiché risente delle nostre
esperienze e dei nostri stati d’animo (Baumeister, 1998). L’autostima, self-esteem in inglese, risente molto anche dell’aspetto culturale (Twenge e Crocker, 2002).
Il rapporto che esiste tra stress e autoefficacia merita la nostra attenzione. Macan (1983) trovò che gli studenti che sperimentavano alti livelli di autoefficacia, fronteggiavano meglio lo stress. Inoltre, si sostiene che se gli studenti sono molto stressati, il loro livello di soddisfazione contagia tutte le aree del loro vivere quotidiano (Brown, 1996). Lykaros (2012) nel suo studio già citato, indaga anche il senso di autoefficacia degli studenti mediante la somministrazione del
Rosenberg’s Self Esteem Scale (Rosemberg, 1965) che gli permise di rilevare che lo stress correla negativamente con l’autoefficacia, confermando le evidenze scientifiche (Abouserie, 1997). In letteratura emergono altre correlazioni importanti: il carico di studio, l’ansia per gli esami (Abouserie, 1994), l’uso di alcol e di marijuana (Magid et al., 2009) e le strategie di coping
disfunzionali (Dwyer & cummings, 2001). Per quanto concerne il carico di studio, che nel burnout professionale diventa carico di lavoro, molte ricerche hanno dimostrato l’esistenza di una
relazione diretta positiva. Per alcuni autori questa correlazione sarebbe vera solo nel caso dell’Esaurimento Emotivo (Male & May, 1997), per altri sarebbe vera per tutte e tre le aree (Greenglass, Burke and Fishenmaum, 2001). Occorre fare una distinzione tra la percezione
soggettiva del “carico di studio” e la valutazione oggettiva di questo. Jacobs e Dodd (2003) hanno sottoposto i loro studenti al Subjective Workload e al Objective Workload: due questionati brevi formati rispettivamente da quattro e da tre item che indagano entrambe le componenti suddette. Dai risultati emerge che l’Esaurimento Emotivo e la Depersonalizzazione correlano positivamente con una percezione soggettiva gravosa del carico di studio.
Ci sono due tipi di risposta allo stress: la valutazione cognitiva (appraisal) e il coping. L’appraisal è il tipo di reazione che lo studente manifesta ogni volta che si trova dinnanzi a un evento
paura, ansia, agitazione e così via. Nel caso di pensieri “neutrali”, questi mantengono eutimica l’affettività dello studente e la risposta allo stress sarà meno reattiva e marcata (Clark et al., 1990). Secondariamente all’appraisal abbiamo il coping, ma sappiamo che in condizione di stress intenso e continuo, il repertorio di strategie di coping messo in atto dallo studente può rivelarsi disfunzionale. Tra le strategie di coping più critiche adottate dagli studenti che frequentano i college statunitensi troviamo l’uso di sigarette, di alcol e di marjuana. Magid et al. (2009) hanno individuato una correlazione positiva significativa tra stress, affettività negativa e uso di sigarette. La stessa correlazione risultava indebolita se all’uso di alcol, gli studenti, valutati settimanalmente per 35 settimane attraverso vari questionari, aggiungevano l’uso di altre sostanze di abuso come l’alcol e la marjuana. Gli strumenti impiegati per misurare l’affettività negativa sono stati due: un test per misurare il grado di distress generale (Russel, 1980) e una serie di item, estrapolati dal CES-D (Radloff, 1977), per la valutazione della tristezza. Per la misura dello stress sono state impiegate tre misurazioni: il Perceived Stress Scale (Cohen & Williamson, 1988), 14 eventi stressanti presi dallo studio di Gable, Reis e Eliott (2000) e altri item presi da Towbers e Cohen (1996) che descrissero eventi obbiettivamente stressanti. L’uso di sigarette, alcol e marjuana fu monitorato ogni settimana con una sondaggio inviato tramite web. Lo studio di Magid et al. (2009) rappresenta il primo studio ad aver investigato la relazione tra stress, fumo e tristezza. In letteratura emerge che l’uso settimanale del tabacco è positivamente correlato sia con il distress emotivo, che comporta rabbia, irritabilità e frustrazione (Kassel, Stroud & Paronis, 2003), sia con la percezione di vivere una condizione generale di distress che con la depressione (Kassel, 2000). Magis et al. (2009) sottolineano che il legame più forte sussiste tra uso di sigarette e “subjective stressful events” più che con gli eventi oggettivamente reputati stressogeni (sfera sociale ed accademica). Secondo alcuni autori, l’azione del fumare, oltre a configurarsi in molti casi come una maniera per ridurre lo stress percepito e una strategia di coping è anche un campanello di allarme, un segnale di stress non verbale (Nichter et al., 2007) anticamera di una condizione di burnout.
L’uso di fumo o di altre sostanze non è l’unica strategia di coping disfunzionale tipica degli
studenti stressati. Se in condizione di crisi lo studente sceglie l’evitamento al posto dell’approccio, nega l’esistenza di una difficoltà, rimprovera se stesso, incolpandosi, oppure scaricando su altri la responsabilità di un suo errore finirà con aumentare il suo carico di stress anziché gestirlo
(Lyrakos, 2012). Le migliori strategie sono rappresentate dalla ricerca di supporto sociale, la distrazione momentanea rispetto al focus e l’approccio (Van Golder et al., 1999).
Lyrakos (2012), all’interno del suo studio multiculturale, indaga la correlazione esistente tra sei strategie diverse di coping e lo stress, misurato con il Daily Hassles questionnaire (Lazarus e Folkman, 1981). Il profilo di coping era ottenuto somministrando il CCS.
I sei tipi di strategie indagate rispetto alla frequenza d’uso erano: approccio (focus sul problema), accomodamento, svalutazione, evitamento, ricerca di supporto sociale e riduzione dei sintomi. Dallo studio emerge che lo stress è altamente correlato con la strategia della svalutazione, dell’evitamento mentre l’approccio, la ricerca di sostegno sociale e la riduzione dei sintomi si riducono drasticamente (p-value<0.001). Questi risultati sono confermati anche in altri studi (King et al., 1991; Parkes et al., 1994).
Riuscire a identificare lo stile di coping dello studente durante l’università permette di predire il grado di engagement sul posto di lavoro e il rischio personale di esposizione al burnout. Al fine di comprendere quali strategie hanno un impatto negativo sul burnout professionale e quali su un buon engagement lavorativo diamo uno sguardo in letteratura. Salmela-Aro, Tolvanen e Nurmi (2009) hanno condotto uno studio longitudinale di 17 anni che ha coinvolto 292 studenti universitari sottoposti a sei misurazioni: tre durante il percorso universitario e tre durante post-università. Durante le prime tre misurazioni, i soggetti compilarono il SAQ (Achievement Strategy Questionnaire), una batteria di 10 scale scelta per la presenza di due scale in particolare: la success expectation scale (ottimismo) e la task-avoidance scale (evitamento del compito). Nelle ultime tre misurazioni chi aveva trovato lavoro compilarono il Maslach-Burnout Inventory-General Survey (Schaufeli, Leiter, Maslach, & Jackson, 1996) e nelle ultime due misurazioni compilarono anche l’Utrecht Work Engagement scale (UWES; Schaufeli et al., 2002) un questionario che valuta il grado di engagement attraverso tre sotto-scale: scala Vigore, scala Dedizione e scala
Coinvolgimento. Il Vigore si compone di 6 item, la Dedizione da 5 e il Coinvolgimento da 6. Prima di presentare le ipotesi e i risultati di questo studio cerchiamo di descrivere il background
letterario. Quando si parla di strategie di coping miranti al successo, occorre distinguere tra strategie realmente funzionali e disfunzionali. Riassumiamo questa distinzione attraverso due costrutti principali: ottimismo (optimism) ed evitamento del compito (task-avoidance) (Salmela-Aro, Tolvanen e Nurmi, 2009).
Molte teorie suggeriscono che i soggetti fanno uso della task-avoidance quando prospettano un fallimento. Una delle strategie che rientra in questa tipologia consiste nell’attribuirsi una sorta di disabilità, un handicap (Jones & Berglas, 1978), la procrastinazione, il rimandare (Lay, Knish, &
Zamatta, 1992) e l’adozione di uno stile motivazionale maladattivo (Galloway, Leo, Rogers, & Armstrong, 1995). Secondo Martin, Marsh, Williamson & Debus (2003b) alla base di queste strategie vi è il tentativo di proteggere la propria autostima dal fallimento, secondo Miller (1987) la ragione sta nel voler ridurre l’ansia mediante uno stato di indotto “ottundimento”. L’uso di queste modalità d’interazione con lo stress rischiano di impedire un adattamento funzionale (Johnson, 1995), infatti risultano correlate con una bassa soddisfazione universitaria (Eronen et al., 1998).
Al contrario adottando strategie che rientrano nella categoria dell’ottimismo, come un coping centrato sull’azione (Aspinwall & Taylor, 1992), la messa in atto di strategie orientate in modo oculato (Mantzicopoulos, 1990), un’intensa attività di problem-solving e pianificazione (Nurmi, Salmela-Aro & Ruotsalainen, 1994) e la maturazione di uno stile motivazionale adattivo (Pintrich, Roeser, & DeGroot, 1994) lo studente matura resilienza e mantiene alto l’entusiasmo verso il suo studio. Dal punto di vista dello stress affrontare lo stressor con una delle suddette strategie è associata a bassi livelli di esaurimento e cinismo, e alti livelli di efficacia professionale (Leiter, 1991). L’Ottimismo è stato riscontrato positivamente correlato con l’efficacia personale e l’engagement lavorativo e negativamente con l’esaurimento emotivo e il cinismo (Mäkikangas, Kinnunen, & Feldt, 2004). In particolare il coping centrato sul problema è correlato a bassi livelli di burnout (Mitchell & Hastings, 2001) ed elevato engagement (Rothmann & Storm, 2003).
Una possibile spiegazione a tale meccanismo è che le strategie ottimistiche e le attività focalizzate sul problema rinforzano le credenze di auto-efficacia e autostima professionale, che poi portano a resistere meglio di fronte a nuovi ostacoli ( Baumeister , Campbell, Krueger e Vohs , 2003) e rendendo più alta la qualità delle prestazioni (vedi Betz , 2004; Quaresima) abbassano il livello di burnout.
Tornando allo studio di Salmela-Aro et al. (2009), ecco i due quesiti da cui partono le ipotesi di partenza:
1) Può lo stile di coping adottato durante gli studi universitari predire un burnout professionale ad inizio carriera lavorativa ?
Ipotesi1: Uno stile di coping ti tipo ottimistico, predice un basso livello di burnout professionale ad inizio carriera lavorativa.
Ipotesi2: Uno stile di coping ti tipo “task-avoidance” porta a un alto livello di burnout lavorativo ad inizio carriera lavorativa.
2) Può lo stile di coping adottato durante gli studi universitari predire un buon engagement professionale ad inizio carriera lavorativa?
Ipotesi3: Uno stile di coping ti tipo ottimistico, predice un basso livello di engagement lavorativo ad inizio carriera professionale.
Ipotesi4: Uno stile di coping ti tipo “task-avoidance”, predice un basso livello di engagement lavorativo ad inizio carriera professionale.
I risultati confermano le evidenze scientifiche suddette: i soggetti che mostrarono uno stile di coping centrato sul problema riferivano più alti livelli di work engagement e bassi livelli di burnout, in particolare bassi livelli di esaurimento e cinismo (Mäkikangas et al., 2004); coloro che invece mostrarono un coping di tipo evitamento, più pessimistico tendevano a mostrare livelli più alti di esaurimento e cinismo. L’ottimismo risulta essere una sorta di “buffer” rispetto al fenomeno burnout (Salmela-Aro et al., 2009).
Questo studio offre anche un altro spunto interessante. Oltre a dimostrarci l’importanza dello stile di coping come fattore predisponente di un buon engagement oppure dello sviluppo di burnout in un contesto lavorativo, ci spinge a riflettere sulla possibilità di intervenire su queste modalità di fronteggiare gli eventi.
Interventi volti a modificare le strategie dei giovani adulti sono rari . Tuttavia, le strategie di coping centrate sul raggiungimento di un buon rendimento, in teoria, sono più malleabili e modificabili rispetto a molti altri costrutti di personalità. Pertanto, sulla base dei risultati dello studio attuale emerge il compito di promuovere interventi volti a sostenere l'engagement e a prevenire il burnout nel corso della prima carriera mediante la promozione dell'uso di strategie ottimistiche
con corrispondente riduzione nel task-avoidance (Salmela-Aro et al., 2009).
Per quanto riguarda il fattore ansia, uno degli studi più significativi è stato pubblicato da Everson et al. nel 1993. Everson e i suoi collaboratori costituirono un campione formato da una 196 studenti universitari del primo anno e confrontarono il livello di ansia elicitato da quattro materie diverse, in fase di esame. In letteratura emerge che gli studenti sono generalmente più ansiosi quando devono affrontare materie scientifiche rispetto a materie umanistiche (Naveh-Benjamin et
al.,1987); ecco che Everson et al. scelsero Inglese, Scienze Sociali, Matematica e Scienze naturali. Il test scelto per valutare i livelli di ansia fu il Worry-Emotional scale (Morris, Davis e Hutchings, 1981) mentre quello che dava un’idea del livello di difficoltà percepita per ciascuna materia era il Perception of Difficulty Attitude scale. Quello che emerse fu che le due materie che mettevano più in agitazione gli studenti erano Matematica e Scienze Naturali, rispetto a Inglese e Scienze Sociali. Tra le difficoltà percepita e i livelli di ansia vi era una correlazione positiva bassa, forse a causa della concorrenza di altri fattori più significativi. Non emersero differenze di genere.
Altro fattore degno della nostra attenzione è il genere: essere maschi o femmine predispone diversamente al burnout. In generale, gli studi sulle differenze di genere a scuola hanno messo in luce la maggiore efficacia del percorso scolastico delle ragazze rispetto ai ragazzi, sia in
termini di rendimento che di qualità delle relazioni sociali (Pomerantz, Altermatt e Saxon, 2002). Questo è dovuto all’importanza che le ragazze attribuiscono alla successo scolastica e che, come conseguenza, le espone ad un maggiore rischio di stress rispetto ai maschi (Matud, 2004) e di sintomi internalizzanti, come ansia e depressione (Hoffmann, Powlishta e White, 2004; Pomerantz et al., 2002; Nolen-Hoeksema e Girgus, 1994). Le ragazze sembrano essere più esposte burnout (Jose e Ratcliffe, 2004).
Nonostante ciò, Salmela-Aro, Savolainen e Holopainen (2009), con i loro due studi longitudinali che coinvolgono studenti di scuola superiore rispettivamente di 15 e 17 anni, mostrano risultati in contrasto con la letteratura: sia all’interno del primo studio che del secondo non emergono differenze statisticamente significative rispetto al genere per quanto riguarda il rischio di
sviluppare burnout. Le femmine soffrono di più rispetto ai maschi, ma non in modo significativo in quanto non sono più esposte agli eventi stressanti, bensì più vulnerabili alle conseguenze negative Kessler and McLeod (1984).
Le femmine hanno la dedizione e l’impegno, come punti di forza, che possono trasformarsi in fattori di vulnerabilità rendendole più fragili davanti ad un insuccesso scolastico (Geet et al., 1994). Anche Fiorilli et a. (2014) nel loro studio, che coinvolgeva 247 ragazzi (132 maschi e 142 femmine) tra i 13 e i 17 anni, non hanno evidenziato differenze statisticamente significative tra i
due gruppi sia a livello multivariato (λ di Wilks = .99; F = .78; p > .10; η2 parziale = .009), sia per i tre fattori dello SBI presi singolarmente. Ciascuno dei due gruppi ha una numerosità superiore a 100 e, data la bassa potenza osservata, sarebbe necessaria una numerosità campionaria molto superiore per evidenziare in modo significativo tale differenza.
In questo capitolo abbiamo chiarito quali sono i principali fattori predittivi che, insieme,
concorrono ad aumentare il rischio di sviluppo del burnout scolastico, ma anche professionale. Personalità, disponibilità di un supporto sociale, percezione soggettiva del carico di studio/lavoro, valutazione oggettiva del carico di studio/lavoro, lo stile di coping, il senso di autoefficacia e il genere sono alcune delle variabili che più potentemente concorrono sia all’emergere del burnout, che alla valutazione dell’engagement del soggetto. Abbiamo anche elencato alcuni degli strumenti quantitativi più utili per misurare questi due costrutti.