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A nonno Vincenzo, che mi diceva sempre:«studia, studia!» Some mute inglorious Milton here may rest (Thomas Gray,

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A nonno Vincenzo, che mi diceva sempre:«studia, studia!» Some mute inglorious Milton here may rest (Thomas Gray, Elegy Written in a Country Church-Yard)

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Premessa

Come e perché ‘auctor in fabula’, come e perché la letteratura delle

donne

If a story begins with finding, it must end with searching (Penelope Fitzgerald, The Blue Flower)

Il presente studio sulla rappresentazione dell’autore-personaggio scaturisce da un più generale interesse per i meccanismi dell’intertestualità letteraria, già al centro della mia tesi di laurea specialistica, il cui argomento verteva sulle traduzioni del Tieste di Seneca e di A Dream Play (titolo originale, Ett Drömspel) di August Strindberg della drammaturga contemporanea Caryl Churchill. All’inizio del corso di dottorato di ricerca, la mia intenzione era di continuare ad investigare le riscritture contemporanee di opere canoniche, questa volta concentrandomi sul genere della narrativa, in particolare quella ‘postmoderna’. Difficile risultava, tuttavia, individuare un argomento più specifico a cui indirizzare la mia attenzione. Durante una visita alla ‘British Library’ di Londra, mi sono imbattuta in due volumi che hanno segnato una svolta decisiva nel percorso delle mie ricerche: Refracting the Canon (2004), raccolta di studi sulle rivisitazioni contemporanee del passato nel cinema e nella letteratura, curata da Susana Onega e Christian Gutleben, e Nostalgic Postmodernism (2001) di Christian Gutleben, sul romanzo neo-vittoriano. Leggendo questi studi, mi sono resa conto che alle riscritture della tradizione si accompagnava un fenomeno in particolare: molto spesso erano le voci autoriali ad esser resuscitate insieme alle opere. La conferma della centralità di questo topos è poi giunta dalla lettura di una raccolta di saggi sulla rappresentazione dell’autore come personaggio nella letteratura inglese contemporanea, curata da Paul Franssen e Ton Hoensealaars, The Author as Character (1999). ‘Auctor

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in fabula’, dunque, parafrasando il famoso titolo di Umberto Eco, è diventato il tema della mia ricerca

Ulteriori approfondimenti bibliografici hanno fin da subito evidenziato la scarsità di studi specifici sulle rievocazioni di autori del passato in veste di personaggi nella narrativa femminile contemporanea e il passo successivo è stato quello della scelta delle tre autrici: Jeanette Winterson, Penelope Fitzgerald e Antonia Susan Byatt, le cui opere qui analizzate risalgono all’ultimo decennio del Novecento.

Ho deciso di concentrarmi sulla rappresentazione dell’autore come personaggio nel romanzo inglese femminile degli anni Novanta perché questo mi permette di trattare temi riconducibili, più in generale, alla problematica tipicamente postmoderna del rapporto tra fact e fiction. L’approccio alla produzione letteraria mi ha spinto ad approfondire, in via preliminare, il dibattito teorico sull’autore della seconda metà del Novecento, ripercorso nel primo capitolo della presente ricerca. Dopo il celeberrimo saggio di Roland Barthes, La mort de l’auteur (1968), pareva ormai perentoriamente sancita l’impossibilità di cogliere in modo univoco e definitivo il significato nel testo, essendo il testo stesso riconosciuto come una rete fitta e intricata di discorsi di cui è impossibile rintracciare l’origine. Di conseguenza, per l’intellettuale degli ultimi anni del Novecento la questione della ricerca di una nuova modalità di trasmissione di una memoria culturale tanto importante per la formazione dell’identità appare quanto mai cogente.

Proprio alla fine del secolo scorso i teorici sembrano infatti rendersi conto che la riduzione post-strutturalista della realtà in termini di meri discorsi e vuoti simulacri, insieme all’atto della cancellazione delle intenzioni dell’autore, ha come conseguenza estrema una generale dichiarazione di morte della letteratura. Le operazioni letterarie degli scrittori della fine del secolo scorso sembrano dunque indirizzate a un’azione riparatrice delle cancellazioni epistemologiche post-strutturaliste, al fine di dimostrare come, dietro la specifica visione del mondo offerta dall’opera letteraria, si nascondano sempre precise ideologie ‘politiche’ che un’analisi letteraria eccessivamente disfattista nei confronti dei significati autoriali rischia di ignorare. La riconsiderazione delle intenzioni dell’autore si collega poi alla questione della ridefinizione del canone letterario, problema che si affaccia sempre più insistentemente all’attenzione degli intellettuali nel mutato clima culturale e sociale di fine secolo, nella cosiddetta ‘seconda

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fase postmoderna’, segnata da profondi cambiamenti sociali, tra cui il fenomeno dell’ibridazione culturale e l’affermazione di nuove categorie di soggetti che rivendicano una propria tradizione letteraria. Si trattava di fenomeni nei confronti dei quali il panorama critico e teorico del momento non poteva restare indifferente. È in questo contesto che entra in gioco la critica femminista: la morte del predecessore letterario non sembra interessare le donne, costantemente impegnate semmai in un’opera di recupero, e non di annientamento, di una propria storia letteraria. Le donne, inoltre, risultano particolarmente interessate a svelare i meccanismi di potere che hanno determinato una definizione del canone ‘al maschile’, a discapito non solo del punto di vista dell’autrice, ma anche di tutti i soggetti ‘marginali’ che non sono definibili secondo gli schemi della cultura patriarcale.

Per quanto riguarda più specificamente la produzione letteraria, su cui si concentra il secondo capitolo del mio lavoro, lo sperimentalismo caratteristico degli inizi del postmodernismo, di cui il post-strutturalismo costituisce una delle tante articolazioni, durante gli anni Novanta perde qualcosa del suo carattere sovversivo, giungendo ad una prevedibile fase di ritorno critico sui propri percorsi. Anche nel campo della letteratura, come a livello teorico, la valenza morale della trasmissione letteraria assume un peso determinante. La cosiddetta letteratura postmoderna, caratterizzata inizialmente da una forte predisposizione ludica e autoreferenziale, sposta progressivamente la propria attenzione sul problema della responsabilità etica e politica della trasmissione del passato. Non si tratta, però, di un anelito alle vecchie conoscenze assolute: si riconosce certamente che la rappresentazione del passato non può che essere parziale e problematica, ma si afferma la necessità di cambiare le convenzioni della mimesi. A questo corrisponde, a livello letterario, un ritorno all’autore-personaggio, considerato nella sua funzione generatrice della mimesi letteraria tradizionale. Trattare l’autore come personaggio significa rifiutare la totale ‘depersonalizzazione’ dell’autore della fase post-strutturalista, senza tuttavia tornare al mito romantico del genere individuale. Significa piuttosto instaurare una doppia conversazione tra il momento culturale cui appartiene l’autore “evocato” e il momento (contemporaneo) in cui egli viene rappresentato, in un meccanismo produttivo di rifrazione (termine, come si vedrà, introdotto da Onega e Gutleben) tra passato e presente. Nelle opere che ho esaminato, la ricreazione dell’autore come personaggio è legata non tanto ad avvenimenti della sua vita personale, quanto alle condizioni in cui egli produce i suoi testi. Tornare all’autore

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come personaggio significa anche riconsiderare, in termini gadameriani, la

Wirkungsgeschichte di un testo letterario che fa parte della tradizione: ogni volta che ci

avviciniamo ad una determinata opera, portiamo con noi anche la storia dei suoi effetti che si sono sedimentati nella nostra memoria culturale. È proprio sull’origine di questi sedimenti che la riflessione etica di fine Novecento sente la necessità di concentrarsi e lo fa, paradossalmente, restituendo una qualche identità ontologica all’autore. I postmodernisti sanno che è impossibile trovare la verità: la verità è sempre un’evenienza complessa e la resa del passato è sempre influenzata dai capricci della memoria (soprattutto se parliamo dell’idea di autore, percepita in modo diverso nel tempo e nel momento presente). Per questo, a livello letterario, si assiste ad un ritorno all’autore riconsiderato nei particolari termini di generatore della tradizione letteraria. L’impulso di mettere in scena e riscrivere le vite di questi autori è parallelo a quello di rileggere e riscrivere i loro testi. L’analisi della produzione letteraria della fine del secolo scorso conferma quindi che la ripresa dell’autore fa parte di un più generale progetto di recupero delle origini della cultura letteraria.

Il secondo capitolo si divide in due parti: nella prima si dimostra l’accoglienza apparentemente entusiastica da parte della letteratura postmoderna degli anni Sessanta e Settanta della teoria della morte dell’autore. Le produzioni narrative di questo periodo attuano una profonda sperimentazione ludica sull’elemento autoriale, attraverso la realizzazione di un effetto trompe l’oœil di entrata in scena dello scrittore come personaggio di carta nella propria opera, azione che dovrebbe indicare la cancellazione totale del suo dominio sui significati dell’opera stessa, ma che, di fatto, finisce paradossalmente per riportare al centro dell’attenzione l’identità dello scrittore che si voleva cancellare. La questione della ridefinizione dello statuto ontologico dell’autore è poi al centro della seconda parte del capitolo, che segue da un punto di vista diacronico le evoluzioni con cui la narrativa maschile si rapporta al personaggio autoriale, in questo caso riportando in vita un predecessore della storia letteraria.

Lo studio preliminare del panorama teorico e letterario sulla ricomparsa novecentesca del personaggio-autore nella letteratura inglese dimostra non soltanto una più generale necessità di celebrare l’importanza della letteratura in un’epoca di profonda scepsi epistemologica come quella della seconda metà del Novecento, reduce dai traumi collettivi della Storia, la cui tragicità risulta al limite della narrabilità, ma serve anche ad esaltare la versatilità e l’originalità con cui si presentano le ricreazioni femminili

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degli autori della tradizione. Si tratta di un argomento che occupa la seconda parte della presente dissertazione, che si concentra ulteriormente sull’ultimo scorcio del secolo passato, in cui vengono pubblicate tre importanti opere femminili: Art and Lies (1994) di Jeanette Winterson, The Blue Flower (1995) di Penelope Fitzgerald e il racconto di Antonia Susan Byatt ‘The Conjugal Angel’, tratto dalla raccolta Angels & Insects (1992).

Al centro di Art & Lies vi è un’originale variazione in chiave queer del topos dell’autore come personaggio e, più in generale, della ricreazione di alcuni dei protagonisti della memoria culturale, tra i quali il celebre pittore Picasso, che nel romanzo è una pittrice, le cui aspirazioni artistiche sono ostacolate da un ambiente familiare estremamente repressivo, e il compositore tedesco Händel, che nell’opera è un ex-seminarista ossessionato da un tragico passato. L’operazione di riesumazione dell’autore è qui complicata dal fatto che il romanzo intende ricostruire un’identità estremamente frammentata, quella della poetessa Saffo, le cui opere sono state in parte distrutte dall’azione violenta e tirannica della cultura patriarcale. Nel romanzo wintersoniano la parola poetica, specchio della soggettività emarginata di Saffo, si mescola con la voce e le intenzioni della stessa Winterson, in un intricatissimo gioco metaletterario che finisce per celebrare la funzione sciamanica dell’autore e quella consolatoria dell’arte. Infatti, così come la parola di Saffo, nella diegesi, interviene a curare le ferite dei personaggi fittizi, che hanno anch’essi subito episodi di violenza ed emarginazione, la lettura di Art & Lies vuole restituire uno spessore significativo alla realtà contemporanea in cui è immerso il lettore, i cui orientamenti culturali sono spesso il frutto di bugie illusorie. Ne consegue un estetizzante capovolgimento del classico binomio arte-vita.

The Blue Flower di Penelope Fitzgerald, invece, sembrerebbe a prima vista ricreare

lo stile realistico della narrazione ‘biografica’ che, tuttavia, è soltanto all’apparenza meno sperimentale rispetto a quello di Jeanette Winterson. Al centro del romanzo vi è il percorso di formazione dello scrittore tedesco Novalis. Man mano che la trama prosegue, i toni dimessi del romanzo lasciano spazio a un’implicita ma radicale sovversione della tradizione, data dalla caratterizzazione tutt’altro che riverente del predecessore maschile, un soggetto immaturo, irrimediabilmente concentrato su se stesso e che, ventenne, si innamora di una ragazzina di appena dodici anni. D’altra parte, però, in linea con l’atteggiamento ambiguo e paradossale della historiographic

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metafiction, Fitzgerald rende omaggio all’autore come artista e alla sua opera romantica,

di cui sono rielaborati i principi estetici in una felice intersezione con le istanze della letteratura postmoderna: ne risulta una celebrazione assoluta della forza infinitamente creativa del’arte.

In modo simile alle due opere precedenti, ‘The Conjugal Angel’ di Antonia S. Byatt, posa il proprio sguardo sulle dinamiche di emarginazione del punto di vista femminile nella storia letteraria ufficiale. Al centro del racconto vi è un personaggio femminile, Emily Tennyson, che deve combattere con gli spettri del passato, in particolare contro la resa implicitamente dissacratoria della propria immagine nei versi di In Memoriam, il celebre poema del fratello, Lord Alfred Tennyson, ammirato in tutta la tradizione letteraria occidentale. In una rielaborazione produttiva del tema del cordoglio al centro dell’opera tennysoniana, ‘The Conjugal Angel’, esempio originale della letteratura appartenente al filone neovittoriano cui si accenna più volte nella presente ricerca, instaura un rapporto particolare con l’epoca vittoriana, che non si riduce a un’appropriazione parassitica delle istanze culturali ed estetiche ottocentesche. Si tratta, semmai, di un’interrogazione continua sul senso della fine della conoscenza oggettiva e della pienezza di un passato che viene costantemente rimpianto dal genere postmoderno della historiographic metafiction.

L’analisi delle opere di queste autrici dalla personalità poliedrica e carismatica conferma l’originalità delle soluzioni contenutistiche e formali offerte dalla scrittura femminile, sempre desiderosa di affermare se stessa, non senza aver prima instaurato un dialogo necessario e produttivo con le mille e più sfaccettature del soggetto autoriale maschile.

Data la vastità e la complessità dell’argomento qui trattato, la presente ricerca non ha, né può avere, alcuna pretesa di esaustività. Le questioni aperte dalle conclusioni serviranno a dimostrare l’inevitabile parzialità del mio sguardo. Esso attende quindi il riscontro del lettore che, mi auguro, possa ritrovare nell’elaborato una panoramica abbastanza interessante delle tematiche affrontate e, perché no, offrire nuovi spunti alla ricerca.

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CAPITOLO PRIMO

Il personaggio autore: vicende teoriche

Nulla ethica sine aesthetica (Iscrizione sulla facciata principale della ‘Escuela Superior de Música Reina Sofia’di Madrid)

I.1 La lunga riflessione novecentesca sull’autore

Un’indagine sulla rappresentazione dell’autore come personaggio nella letteratura contemporanea comporta necessariamente la trattazione di una serie di questioni teoriche, a capo di una lunga riflessione che vede lo sgretolarsi, nel corso del Novecento, di alcune certezze epistemologiche fondanti, tra cui il concetto tradizionale di auctor, quel soggetto autoritario, detentore del testo e del suo inespugnabile significato. Nel corso del secolo, così, la parola autoriale è stata prima rinnegata e poi rivalutata, soprattutto alla luce della ricerca di nuovi metodi di trasmissione della memoria culturale. Più precisamente, negli ultimi anni del secolo scorso, la critica letteraria, soprattutto quella femminista, si è scagliata contro le decisioni di alcune istituzioni prestigiose – tra cui la Columbia University – riguardanti la scelta degli autori da includere nel canone della letteratura e, di conseguenza, nei programmi di studio accademici. È nel momento in cui la società si apre maggiormente alle diversità geografiche e culturali, che gli intellettuali avvertono la necessità di rinnovare alcuni aspetti del canone, a partire dalla riconsiderazione critica delle opere, che mostrano, adesso, nuove sfumature di significato politiche ed ideologiche, precedentemente sfuggite al vaglio dell’analisi critica: si tratta, in sostanza, di riesaminare la parola dell’autore. Gli avvicendamenti del canone, la riconsiderazione dei suoi protagonisti, di cui si parlerà più avanti, dimostrano le intersezioni teoriche e culturali che

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inevitabilmente si insinuano tra le righe di qualsiasi disquisizione sul soggetto autoriale. Le stesse opere letterarie, al cui centro vi è la rappresentazione del personaggio-autore, analizzate nel secondo capitolo della presente ricerca, risultano fortemente influenzate dalla teoria e dalla cultura in cui sono inserite, giungendo a conclusioni interessanti non soltanto sul ruolo dell’autore nell’epoca contemporanea, ma anche, più in generale, della produzione letteraria.

Paradossalmente, l’autore diventa un motivo sempre più ricorrente nelle narrazioni contemporanee dopo che, nella seconda metà del Novecento, il semiologo e critico letterario francese Roland Barthes ne ha pronunciato il necrologio. La sua teoria della morte dell’autore, tuttavia, rappresenta l’approdo di una riflessione già iniziata dalla trattazione estetica modernista nella prima parte del secolo scorso. Ad essa, infatti, risale la prima intuizione sull’impersonalità della voce autoriale elaborata poi in maniera più approfondita dalle teorie post-strutturaliste. Per gli scrittori modernisti inglesi, il discorso autoriale non è più l’espressione di una soggettività, ma si realizza come un «network of textual relations»1, costituito, cioè, da una sovrapposizione corale di voci diverse della tradizione letteraria. Quest’ultima resta sempre un parametro di confronto significativo e ingombrante per i modernisti. La trattazione del rapporto tra passato e letteratura è anche al centro di Tradition and the Individual Talent (1921), il famoso saggio critico di uno degli scrittori più rappresentativi del modernismo, Thomas Stearns Eliot, le cui idee hanno avuto un’ampia risonanza sugli sviluppi successivi della ridefinizione teorica del concetto di autore. Per Eliot, «authors are least original where they would be most so»2, ossia in quelle opere dove il discorso dell’autore accoglie il punto di vista delle voci dei precursori letterari. Questa sorprendente prima formulazione di una teoria dell’impersonalità autoriale va considerata nel suo più generale contesto storico e culturale. Scott Lash3 sottolinea l’influenza decisiva dei mutamenti sociali sulla nascita dell’estetica modernista, sorta in concomitanza con l’instaurarsi di una nuova organizzazione sociale ‘struttural-funzionalista’, in cui si realizza, cioè, una «differenziazione strutturale»4 delle varie sfere dell’esistenza. Lash osserva che, sebbene i primi mutamenti decisivi per la nascita della corrente modernista avvennero già a partire dalla metà del XIX secolo con la graduale disgregazione della

1Thomas Stearns Eliot citato in Seán Burke, Authorship: From Plato to the Postmodern: A Reader,

Edinburgh: Edinburgh University Press, 1961, p.66.

2Ibidem.

3Cfr. Scott Lash, Modernismo e postmodernismo: i mutamenti culturali delle società complesse, Roma:

Armando Editore, 2000, p.232.

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stabilità dell’identità borghese, è solo con il passaggio al secolo successivo e il velocizzarsi del progresso tecnologico nelle principali città occidentali, come Londra, Parigi e Berlino, che si realizzarono le condizioni ideali per la nascita di nuovi

movimenti estetici5. Di fatto, lo stabilirsi dell’era tecnologica nei primi decenni del XX

secolo coincise con un radicale mutamento della Weltanschauung, che influì sul modo in cui vennero concepite l’arte e la letteratura. Le nuove leggi di mercato avevano provocato una lacerazione nel soggetto creativo, sempre più diviso tra il ruolo disinteressato dell’artista e colui che deve trarre un sostegno economico dalla propria attività. La differenziazione della società modernizzata avrebbe dunque comportato una ridefinizione dell’idea di autore in opposizione alla concezione tradizionale del genio romantico della Biographia Literaria di Coleridge, che era ancora in grado di trasformare in poesia le proprie emozioni, «recollected in tranquillity»6. L’estetica romantica attribuiva una grandissima importanza all’individualità del soggetto7, alle sue esperienze personali e a tutte quelle forze interiori che lo spingevano a creare opere di straordinaria originalità. Dai romantici in poi, la componente biografica dell’autore ha giocato un ruolo chiave nell’interpretazione del senso dell’opera. Con l’avvio dei processi di differenziazione sociale durante la modernizzazione tecnologica, questo stretto rapporto tra arte e vita viene messo profondamente in discussione. Se, da una parte, il progresso sociale e tecnologico contribuì a una più netta separazione dell’autore dal resto della massa degli individui della società, d’altra parte, essa influì sul modo in cui gli artisti iniziavano a concepire la propria attività letteraria, sempre più distaccata dalla sfera personale. Da questo momento in poi, l’autore non è più l’eroe romantico, ma l’intellettuale che, pur elevandosi al di sopra dell’ordinarietà del quotidiano, non desidera più assumere il ruolo del protagonista leggendario. È così che Eliot giunge a formulare affermazioni importantissime sull’autore e sul suo modo di creare poesia: «the progress of an artist is a continual self-sacrifice, a continual extinction of

5Cfr. ivi, pp. 231-232. 6

L’espressione è ovviamente tratta dalla Preface alle Lyrical Ballads di William Wordsworth, un vero e proprio manifesto di poetica romantica.

7 Andrew Bennett specifica, tuttavia, che la critica post-strutturalista non ha considerato che, per i

romantici, la trasformazione delle proprie ‘emozioni’ in poesia era un procedimento particolarmente sofferto e difficoltoso:«this insistence on immediacy may be understood to be the result of its very impossibility. (…). Or, to put it differently, the theory of authorship that is deconstructed in poststructuralist theory is, in its prime instance, already undermined by its own irreducible internal tensions. The Romantic-expressive theory of authorship, indeed, contains within itself its own refutation» (Andrew Bennett, The Author, London & New York: Routledge, 2005, p. 62).

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personality»8; la poesia «is not a turning loose of emotion, but an escape from emotion» e, cosa più importante, essa non è «the expression of personality, but an escape from personality»9. La teoria di Eliot dell’impersonalità autoriale ritrova una risposta interessante nella produzione letteraria a lui contemporanea, in particolare nell’Ulysses di James Joyce, in cui l’identità autoriale si sovrappone a quella dei personaggi fittizi: si tratta di un espediente narrativo che, come si approfondirà nel capitolo successivo, costituirà il primo, importantissimo passo verso la metariflessione sul rapporto tra il soggetto e l’opera nella narrativa postmoderna. Tuttavia, la vera e propria rivoluzione della concezione classica avviene soltanto a partire dalle riflessioni linguistiche e filosofiche post-strutturaliste, nate in concomitanza con i movimenti di rivolta politica sorti in Francia, che raggiunsero l’apice nel maggio del ’68. È importante quindi soffermarsi su queste riflessioni, poiché esse hanno giocato un ruolo fondamentale per gli sviluppi successivi della definizione del rapporto tra il testo e l’autore. Gli esponenti del post-strutturalismo – tra i quali spiccano le personalità di Roland Barthes, Julia Kristeva, Michel Foucault, Maurice Blanchot e Louis Althusser – portarono alle estreme conseguenze la definizione già introdotta dalla corrente di pensiero strutturalista del mondo in termini di ‘sistema di segni’. Essi si accanirono innanzi tutto contro l’idea tradizionale di un significato stabile del testo letterario, soprattutto dopo i risultati, nell’ambito delle scienze linguistiche, degli studi semiologici condotti da Ferdinand de Saussurre e Louis Trolle Hjemslev, che per primi avevano messo in discussione l’univocità del rapporto tra significante e significato del segno linguistico. Nelle sue lezioni, raccolte poi dagli studenti nel Cours de linguistique générale (1916), Saussurre decretava l’arbitrarietà del significato, concepito non più come un valore intrinseco del segno, bensì generato dai rapporti sintagmatici e paradigmatici che i segni intessono tra loro in un sistema estremamente complesso. Le scoperte linguistiche sull’impossibilità del dominio autocosciente dei significati da parte del soggetto, troverà poi conferma nella psicanalisi: Sigmund Freud e Jacques Lacan scindono infatti la coscienza del soggetto in due luoghi altrettanto incontrollabili, l’inconscio e il subconscio.

Dunque, la riflessione post-strutturalista sull’autore scaturisce in primo luogo dalla riflessione novecentesca sul linguaggio e ne accentua l’idea dell’instabilità del rapporto tra significato e significante, precisando poi che essa deriva da una visione ideologica,

8 Thomas Stearns Eliot, ‘Tradition and the Individual Talent’ in Seán Burke, Authorship, pp.73-80, qui p.

75.

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quella di stampo capitalistico-autoritario. È necessario, anche in questo caso, ribadire il carattere politico della nuova riflessione culturale della seconda metà del secolo scorso che, come precisa John Brandt10, se agli esordi si accompagnò a un semplice e vago spirito di contestazione sociale, alla fine degli anni Sessanta, con la nascita della rivista

Tel Quel, divenne dichiaratamente sovversiva, grazie anche all’influsso del pensiero

marxista e anticapitalista. Per i post-strutturalisti il linguaggio è uno degli strumenti principali attraverso il quale l’individuo costruisce e comunica la propria visione del mondo: tutte le teorie basate sull’idea di un rapporto univoco tra i due elementi principali del segno, non farebbero altro che perpetrare i metodi repressivi e anti-rivoluzionari tipici dell’ideologia borghese e capitalistica, interessata a reprimere ogni possibile focolaio di sovversione sociale e mantenere quindi il proprio dominio. In contrasto con la visione unitaria e dispotica del segno linguistico, i post-strutturalisti esaltano la pluralità dei significati, in un percorso infinito a ritroso che rimanda sempre ad altri discorsi pronunciati in precedenza, che non giungono mai ad un significato originario. È necessario specificare, a questo punto, che, per i post-strutturalisti, i meccanismi infiniti attraverso i quali il segno linguistico espleta la propria funzione referenziale riguardano non solo il discorso linguistico in generale, ma in particolare il testo letterario: è in esso che avviene la massima esplosione dei significati, come sottolinea Jacques Derrida in Of Grammatology (1967). Julia Kristeva, in ‘The Bounded Text’ (composto nel 1969), definisce il testo letterario non come un sistema ordinato e coerente di significati, ma «a site of struggle»11 tra varie ideologie. La studiosa propone quindi un nuovo approccio all’analisi testuale, da lei denominato semianalysis, che possa valorizzare il procedimento infinito dell’interpretazione letteraria, opposto alla visione ideologica capitalista dell’opera come un prodotto finito, volto a soddisfare l’appetito del lettore famelico che, una volta consumato il proprio pasto, decide di passare immediatamente a quello successivo. Allo scopo di rimediare al’idea della ‘letteratura come feticcio’, Kristeva parte dalla rielaborazione del concetto bachtininano di dialogicità per giungere poi alla sua celebre teoria dell’intertestualità, dove il testo è ridefinito in termini di «permutation of texts, an intertextuality in the space of a given text»12. Anche Roland Barthes accoglie questa idea dell’opera letteraria come campo di

10

Cfr. Joan Brandt, Geopoetics: The Politics of Mimesis in Poststructuralist French Poetry and Theory, Stanford: Stanford University Press, 1997, pp. 15- 24.

11 Graham Allen, Intertextuality, London & New York: Routledge, 2000, p.34.

12 Julia Kristeva, ‘The Bounded Text’ in Leon S. Roudiez (ed), Desire in Language: A Semiotic Approach

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battaglia tra diverse ideologie, per formulare poi le proprie personali teorie. Se, infatti, il processo dell’ideazione letteraria è determinato da ciò che Kristeva definisce come una sorta di ‘semiotica della produttività’, ossia un sistema di concatenazioni infinite di significati all’interno del testo, e se non è più possibile rintracciare il significato originario del discorso letterario, il concetto stesso di soggetto, responsabile dell’ideazione personale (illusoria) dei significati, perde consistenza. Come già aveva dimostrato Saussurre, i segni linguistici non si collegano direttamente ai referenti del mondo reale, ma rimandano piuttosto ad altri segni. Di conseguenza, anche l’‘io’ del discorso letterario non avrà più un proprio referente al di fuori del testo. Quest’ultimo, però, è, anch’esso luogo di rinegoziazione continua dei significati. Nel 1968 il teorico inneggia così alla morte del concetto illusorio dell’Autore come unico generatore del significato, risultato dall’idea tradizionale di un solo Dio creatore del Verbo. Dunque, anche per Barthes come per Kristeva, la nozione tradizionale dell’Autore sarebbe il risultato del trionfo dell’ideologia borghese e capitalistica, che riduce l’opera letteraria alla stregua di una merce di consumo. Lo studioso definisce quindi l’individuo che dà vita alla genesi letteraria un modern scriptor, mero soggetto dell’enunciazione linguistica, che nasce simultaneamente con il suo testo. L’identità dell’autore, considerata fino alla riflessione barthesiana un’istanza autonoma e unitaria, si frantuma adesso in «a multidimensional space in which a variety of writings, none of them original, blend and clash»; anche il testo diviene «a tissue of quotations, drawn from the innumerabile centers of culture»13. In altri termini, per Barthes la soggettività creatrice dell’opera è a sua volta costituita da una pluralità di voci, di altri discorsi, altre affermazioni: in una parola, altri testi, dal significato originario ormai perduto. Esiste, tuttavia, un luogo in cui la molteplicità del significato può ritrovare ancora un barlume di unitarietà: il lettore, «that someone who holds together in a single field all these traces by which the written text is constituted»14. Quest’ultimo è però ugualmente «without history, biography, psychology»15. Sebbene la critica abbia espresso delle perplessità riguardo alla soluzione ‘semplicistica’ di Barthes alle problematiche da lui proposte, che consiste nel sostituire un mito con un altro, ossia l’autore con il lettore, quest’ultimo un soggetto altrettanto ‘frammentato’, è qui necessario specificare che la dichiarazione di morte autoriale da parte del critico sarebbe, in definitiva, un atto

13 Roland Barthes, ‘La mort de l’auteur’; traduz. inglese, ‘The Death of the Author’ in Burke, Authorship,

pp.125-130, qui p. 128.

14 Ivi, p. 129. 15

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politico di liberazione della letteratura dallo stato di ‘merce’ in cui era caduta con il trionfo dell’età borghese. Come afferma Barthes alla fine della sua riflessione critica, «to give writing its future it is necessary to overthrow the myth: the birth of the reader must be at the cost of the death of the Author»16. Il bersaglio principale della speculazione barthesiana riguarda, dunque, più che l’autore in sé, i metodi della critica tradizionale, basati sulla «prassi che considerava la biografia dell’autore come un passaggio obbligato»17 per interpretare il significato di un testo letterario. Barthes non è il solo a giungere a conclusioni decisive per gli sviluppi successivi della riflessione critica e letteraria sulla categoria autoriale. Il suo celebre saggio compare insieme ad un altro scritto fondamentale, pubblicato un anno più tardi: “Qu’est-ce qu’un auteur?” di Foucault (1969). I due saggi costituiscono quindi una tappa obbligata per qualsiasi ricerca che voglia affrontare uno studio approfondito sull’autore. Pur auspicando anch’egli un futuro in cui, per comprendere un testo letterario, non sarà più necessario considerare le intenzioni dell’autore, rispetto a quella di Barthes, la critica di Foucault non è tanto incentrata sulla giustificazione dell’assenza di un significato unitario del testo, quanto, piuttosto, sulle conseguenze che derivano dal non concepire più l’opera come l’espressione diretta della soggettività del suo possessore. Rispetto a Barthes, quindi, Foucault sembrerebbe quasi guardare con sospetto a una dichiarazione tout

court della ‘morte dell’autore’. Già nelle prime righe del suo saggio, il teorico

introduce il concetto di ‘funzione-autore’ che, se da un lato contribuisce alla depersonalizzazione del soggetto, dall’altro ne riafferma in qualche modo la presenza nel testo, poiché le caratteristiche di questa funzione sono determinate proprio dal nome di colui che ha composto l’opera. In altri termini, il nome dell’autore costituisce per lo studioso una sorta di ‘etichetta’ sotto la quale è possibile raggruppare una serie di testi che hanno tutti delle caratteristiche comuni. A una variazione, stabilita dalla critica, delle proprietà anche di una soltanto di queste opere, può corrispondere una totale rivalutazione di tutta la produzione letteraria attribuita a una determinata funzione autore18. Foucault, tuttavia, si guarda bene dall’identificare la funzione-autore con

16

Ivi, p.130.

17

Alessandro Iovinelli, L’autore e il personaggio: L’opera metabiografica nella narrativa italiana degli ultimi trent’anni, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2005, p. 13.

18 Scrive infatti Foucault: «if we proved that Shakespeare did not write those sonnets which pass for his»,

e «if we proved that Shakespeare wrote Bacon’s Organon by showing that the same author wrote both the works of Bacon and those of Shakespeare, that would (…) entirely modify the functioning of the author’s name» (Michel Foucault, ‘Qu’est-ce qu’un auteur?’; traduz. inglese, ‘What is an Author?’ in William Irwin (ed.), The Death and Resurrection of the Author?, Westport, Connecticut & London: Greenwood Press, 2002, pp. 9-22, qui p.13).

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l’immagine dello scrittore in carne ed ossa: «it would be just as wrong to equate the author with the real writer as to equate him with the fictitious speaker; the author function is carried out and operates in the scission itself, in this division and this distance (…). All discourses endowed with the author function do possess this plurality of self»19. La pluralità degli ‘ego’ – tra i quali, ad esempio, il narratore, l’autore implicito, l’autore reale – con cui si realizza la funzione-autore è l’ultima delle sue quattro caratteristiche fondamentali individuate da Foucault 20 . È soltanto per quest’ultima caratteristica che la riflessione dello studioso si riallaccia a quella di Roland Bathes: per Foucault l’idea di autore è mutata nel corso del tempo e la sua definizione in termini di funzione è il modo attuale per definire il suo nuovo ruolo all’interno del testo. Risalire però dal testo alle intenzioni originarie di colui che ha creato i significati resta un’operazione impossibile, proprio per questa molteplicità dei ruoli che l’autore riveste nel discorso letterario. Il teorico, così, pur senza rinnegare totalmente la figura autoriale, raggira in qualche modo l’ostacolo della sua incessante ricerca: si tratterebbe di un inutile e dispendioso spreco di energie, poiché, in fin dei conti, le questioni legate al rapporto tra opera e autore possono essere moltissime, fino ad abbracciare la più importante di tutte: «What difference does it make who is speaking?»21.

I. 2 La morte dell’autore e la teoria postmoderna

Con la demolizione del mito dell’unità del significato autoriale, i saggi di Barthes e Foucault hanno segnato un vero e proprio passaggio verso un nuovo orizzonte culturale, accompagnato da un nuovo tipo di produzione letteraria che nasce, all’incirca, nalla seconda metà del Novecento, definita come ‘postmoderna’. Da almeno un ventennio a questa parte, diversi studi critici hanno intuito il rapporto strettissimo tra il tema dell’autore e il dibattito postmoderno: Aleid Fokkema, ad esempio, parla dell’ideatore del testo letterario in termini di «postmodernism’s stock character», mentre Paola

19

Ivi, p. 17.

20

Precisamente, le quattro caratteristiche della funzione-autore sono: a) Il principio di ‘autorialità’ che lega la funzione-autore alla sua opera; b) il fatto che la funzione-autore non possa essere attribuita a tutti i tipi di discorso, né si manifesta allo stesso modo in tutti i testi di tutte le epoche; c) la funzione-autore non si definisce tale mediante una sua attribuzione diretta all’opera letteraria, ma mediante dei meccanismi molto complessi che legano la funzione all’opera; d) la funzione-autore non si collega all’individuo in carne e ossa che ha scritto l’opera, ma comprende tutte le posizioni che il soggetto assume all’interno di essa, realizzandosi in una vera e propria «plurality of self» (cfr. Bennett, Author, p. 22).

21

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Splendore intende il personaggio-narratore come un «segno di riconoscimento del romanzo contemporaneo», contestualizzandolo nella postmodernità22. Affermare che l’autore è uno dei concetti chiave della riflessione postmoderna sulla letteratura complica ulteriormente il quadro critico in cui si inserisce la presente ricerca, per via dell’ardua definizione della nozione stessa di postmodernismo, che abbraccia le diverse branche della conoscenza, dagli studi filosofici alle scienze cognitive. Se, da un lato, parte della critica tende oggi a considerare la postmodernità una fase ormai conclusa, dall’altro è pur vero che l’eco di una valutazione culturale così ampia e articolata ha esercitato e continua a esercitare tuttora una forte influenza sulla produzione letteraria, da sempre specchio del mondo che la circonda. In linea di massima si può comunque affermare che la ridefinizione radicale dell’idea di autore avvenuta durante il postmodernismo passa per la già esplicata problematicità novecentesca con cui si guarda all’idea del soggetto in quanto luogo unitario da cui ha origine una visione di mondo.

È stata inoltre già ribadita l’influenza del trionfo dell’era meccanica sul nuovo approccio alla realtà da parte degli intellettuali: già negli anni Trenta del secolo scorso Walter Benjamin aveva attirato l’attenzione del panorama filosofico e intellettuale del tempo sull’influsso inesorabile dei metodi emergenti di riproduzione del reale su quella che il filosofo, in ‘The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction’ (1936), chiama l’’aura’ dell’opera d’arte, ossia il suo valore estetico. Le nuove tecniche di ricreazione della realtà, quali il cinema e la fotografia, minano il ruolo sino a quel momento indiscusso dell’arte come specchio mirabile del mondo: essa comincia così a ripiegarsi su se stessa, in quell’‘autoripensamento’ critico tipico della postmodernità. Ed è sempre in ambito estetico, del resto, che si hanno i primi riferimenti al postmodernismo, come ad esempio nel titolo del saggio di architettura di Joseph Hudnut e Walter Gropius del 1945, ‘The Post-Modern House’, termine ripreso poi dal celebre urbanista Charles Jencks per indicare la particolare commistione di tecniche classiche e moderne nell’ideazione architettonica degli anni Settanta23. In quest’ultimo periodo, l’affermazione definitiva dell’era meccanica, la conseguente computerizzazione dei mezzi tecnologici e il diffondersi sempre più capillare dei mass media, fanno definitivamente crollare le certezze epistemologiche sulle quali si erano basate la

22 Paola Splendore, Il ritorno del narratore, Parma: Pratiche Editore, 1991, p.13.

23 Cfr. Charles Jencks, ‘Post-Modernism Defined’, in Bran Nicol (ed.), Postmodernism and the

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percezione e l’organizzazione del mondo sino ad allora. Il concetto di ‘postmoderno’ permea sempre più le diverse sfere della cultura, stravolgendone sensibilmente i presupposti. Sono diversi gli studi critici che hanno attirato l’attenzione su questa invasione, da parte del postmodernismo, della vita degli esseri umani, tra i quali uno dei più importanti è sicuramente l’ultra-citato Postmodernism, or the Cultural Logic of Late

Capitalism (1991) di Fredric Jameson. Secondo il celebre teorico, il postmodernismo

sarebbe il risultato della logica capitalistica che influenza i discorsi pronunciati dalla società odierna24. Ancor più recentemente, Bran Nicol dichiara invece che dagli anni Settanta a oggi la critica ha finalmente raggiunto quella distanza necessaria per poter definire in modo abbastanza preciso gli orientamenti del postmodernismo, che si configurerebbe come:

[A] mode of cultural awareness informed by the convinction that everything is in fact cultural, nothing in life (identity, history, even reality, ecc.) is natural or given.

Everything is constructed, mediated, put there by someone for a particular reason25

L’artista che vive la condizione postmoderna26 è dunque quasi sempre ossessionato dalla sofferta presa di coscienza del valore ‘artificiale’ e ‘costruito’ di quei modi di pensare e agire dell’uomo contemporaneo spesso considerati naturali e scontati, ma che non sono altro che il frutto delle imposizioni del sistema capitalistico, che per riaffermare costantemente se stesso e preservare i propri ‘valori’ nel tempo si serve del potere efficacemente persuasivo e invadente dei mass media. Inoltre, la digitalizzazione degli strumenti scientifici e tecnologici impiegati nei procedimenti di duplicazione degli oggetti del mondo esterno ha favorito lo scambio sempre più rapido e immediato di una gran quantità di informazioni e di immagini dislocate dal contesto originario tra individui residenti nei punti più distanti e disparati del globo terrestre: dalla

24 Cfr. Fredric Jameson, Postmodernism, or the Cultural Logic of Late Capitalism, London & New York:

Verso, 1991. Un altro studio sul postmodernismo in tutte le sue sfaccettature culturali è quello di David Harvey, The Condition of Postmodernity: An Enquiry into the Origins of Cultural Change,Oxford: Blackwell, 1989.

25 Nicol, Postmodernism and the Novel, pp. 3-4. 26

È sempre Jameson ad attirare l’attenzione sulla situazione paradossale cui si trova l’artista postmoderno: egli è cosciente dell’influenza della logica capitalistica che domina il suo stesso discorso, ma avverte contemporaneamente l’esigenza di smascherarla, tentando di sovvertirla proprio attraverso uno smantellamento delle strutture di pensiero soggiacenti i suoi stessi discorsi (Cfr. Jameson, Logic of Capitalism).

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masterizzazione dei cd musicali fino alla clonazione, l’uomo contemporaneo fa i conti con un costante riciclo di immagini la cui origine risiede in una dimensione talmente ‘lontana’ da risultare intangibile. Così, uno dei maggiori critici che si sono dedicati all’analisi del fenomeno postmoderno, Jean Baudrillard, ha adottato il termine filosofico dei ‘simulacri’ per definire le costituenti dell’epoca contemporanea, nuclei concettuali svuotati della propria entità ‘primeva’, ormai dispersa27 nell’‘iperreale’, la dimensione evanescente in cui essi abitano28 e si imbrigliano nella rete dei rimandi intertestuali infiniti. La perdita contemporanea del referente è un evento quanto mai angoscioso che ha comportato, sempre per Baudrillard, il necessario recupero dei cosiddetti ‘miti d’origine’, miti che la società consumistica e capitalistica si ricrea da sola, conferendo loro una falsa aura di ‘autenticità’29. È quindi proprio il versante culturale e filosofico a reagire più intensamente a questa finta ontologia del reale, sbandierando sempre più un ‘pensiero debole’, che «rinuncia [esplicitamente] a ogni fondazione metafisica»30, basata cioè su dei parametri di giudizio assoluti. E valore di assolutezza è in particolare negato proprio al termine filosofico di ‘ente’, ossia l’essere, lo stato di cose. Dopo l’annuncio nietzschiano della ‘morte di Dio’ e il rifiuto heideggeriano dell’essere cartesiano come fondamento, Gianni Vattimo attira l’attenzione sulla necessità di una sua ridefinizione costante in un dialogo continuo, libero e aperto tra gli individui. Lo scioglimento di tutti i valori della società dalla logica della metafisica deriva dal rinnovato modo di intendere il soggetto pensante, che, a partire da Nietzsche e Heidegger, è spogliato delle caratteristiche di stabilità ed eternità che gli venivano attribuite dal pensiero tradizionale. Vattimo privilegia l’interpretazione della verità su ogni sua affermazione certa. Se, inoltre, l’essere è un valore continuamente rinegoziato nelle varie epoche della storia, anche il suo rapporto con il linguaggio è caratterizzato dal differimento. Ed è qui che entra in gioco la riflessione linguistica, la cui ridefinizione del soggetto è entrata a far parte della riflessione postmoderna proprio

27 Cfr. Jean Baudrillard, ‘The Precession of Simulacra’, in Nicol, Postmodernism and the Novel, pp.91-

109.

28 Baudrillard è attento inoltre a distinguere il processo di simulazione tipico dell’epoca contemporanea

(definito l’‘arte’ di fingere di avere ciò che non si ha), dalla dissimulazione, ossia «to pretend not to have what one has». L’oscuramento della distinzione tra ciò che è reale e ciò che è immaginario e la morte «of the divine referential» è dunque una minaccia sempre costante dell’epoca contemporanea (cfr. ivi, pp.92-94).

29

Il procedimento attraverso il quale la società capitalistica crea e diffonde i propri miti è ben esplicato dal volume ormai noto di Roland Barthes: si tratta dei cosiddetti ‘miti di oggi’, tra i quali, ad esempio, i valori di coerenza e oggettività. Cfr. Roland Barthes, Mythologies; traduz. it. di Lidia Lonzi, Miti d’oggi, Torino: Einaudi, 2005.

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tramite la mediazione dei post-strutturalisti. Dopo la comparsa del saggio provocatorio barthesiano, è difficile non concepire l’autore stesso come un soggetto ‘discorsivo’, la cui enunciazione si disperde nei meandri della parole saussurriana. La ‘mort de l’auteur’ ha dunque contribuito a quella ridefinizione successiva dei processi di origine e determinazione del significato che tanto si avvicina all’incertezza epistemologica postmoderna. Nonostante la contestualizzazione postmoderna delle ricreazioni contemporanee dell’autore comporti non poche difficoltà all’interno della presente ricerca, poiché ciò significa fare i conti con le problematiche più disparate, è necessario partire proprio da questa fase culturale per analizzare il tema dell’autore-personaggio, che fa la sua prima comparsa nei testi della letteratura proprio nelle sembianze di un’identità di carta, «bound up with conceptions of what it means to author a text»31. La perdita della dimensione autentica del reale esperita dalla società postmoderna, tecnologica e consumistica, si riversa indubbiamente sulla concezione dell’artista, che giunge alla sofferta consapevolezza di non essere più in grado di definire in maniera oggettiva il proprio target. L’artista postmoderno esperisce continuamente la natura ‘artificiale’ del proprio modo di intendere la realtà, così come tenta costantemente di prendere coscienza di come i propri stessi comportamenti e le proprie credenze siano spesso dominate dalla psicologia capitalistica e consumistica. Quando si tratta quindi di rappresentare l’individuo nella fiction, gli autori si scontrano con due nodi estremamente problematici e strettamente collegati al centro della riflessione contemporanea: essi riguardano, precisamente, il modo di intendere il soggetto nel contesto storico e la definizione del suo percorso biografico.

Tra le varie motivazioni che spingono gli scrittori contemporanei a instaurare un dialogo con un «forebear» letterario32 occupa sicuramente un posto di rilevanza il rinnovato interesse per la disciplina storica, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. L’autore realmente esistito, infatti, non costituisce soltanto un modello cognitivo, la cui rappresentazione fittizia comporta il riferimento a problematiche psicologiche ed epistemologiche; si tratta anche di un personaggio noto, e proprio per questo, la sua descrizione implica inevitabilmente anche la trattazione di determinate questioni che hanno a lungo interessato la critica storiografica. Tra le tante tematiche affrontate della presente ricerca, rientra necessariamente lo sguardo sulla trattazione dei

31 Séan Burke, ‘Introduction: Reconstructing the Author’, in Authorship, pp. xvi-xxx, qui p. xvi.

32 Cfr. Paul Franssen & Ton Hoenselaars (eds.), The Author as Character: Representing Historical

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‘fatti’, costantemente al centro delle preoccupazioni estetiche contemporanee, almeno a partire dalla fine degli anni Settanta. Il motivo, poi, si accompagna a una graduale riaffermazione della funzione mimetica della letteratura, che tende a smorzare i toni audaci degli anni Sessanta e Settanta, senza rinunciare comunque ad esiti originali. Per quanto le periodizzazioni possano spesso rivelarsi mendaci nella definizione di fenomeni così multiformi nello spazio e nel tempo come quelli letterari, sembra utile, qui, abbracciare la distinzione puramente convenzionale, ormai accolta all’unanimità dalla critica, tra una prima e una seconda fase della letteratura postmoderna, perché essa permette di percepire in maniera più o meno immediata l’evoluzione cui è andato incontro il romanzo inglese degli ultimi vent’anni del secolo scorso, giunto a riconsiderare in prima misura proprio il ruolo dell’autore in quanto personaggio storico e protagonista della letteratura. Si distinguerà, quindi, tra una fase più ‘narcissitica’, dissacrante e ludica – quella degli anni Sessanta e Settanta – e una seconda, manifestatasi intorno agli anni Ottanta, dai toni più ‘riflessivi’, cui saranno dedicate rispettivamente due parti distinte del capitolo successivo.

Vari studiosi hanno riscontrato che, dopo il 1979 in particolare, la letteratura inglese ha acquisito la consapevolezza di entrare in una nuova fase, avvalendosi di proposito di un’estetica differente da quella che aveva caratterizzato il periodo immediatamente successivo al dopoguerra33. Il cambiamento di rotta del romanzo britannico è stato determinato da diversi fattori concomitanti. In politica, con il governo di Margaret Thatcher, il mito dell’individualismo borghese raggiunge l’apice e influenza tutti i settori della vita sociale, nonché i rapporti umani. La letteratura si trova a fare i conti con un mondo la cui scala dei valori è cambiata radicalmente, e la sensibilità degli artisti non può restare indifferente a questi stravolgimenti del sociale. Nella seconda fase della letteratura postmoderna, così, storia e mito vengono continuamente interpellati e reinterpretati alla luce di un dialogo incessante con il presente, e il loro costante ripensamento giunge a investire, come si vedrà, anche e soprattutto le opere del passato che sono parte integrante del canone letterario. Inoltre, la rinnovata attenzione agli autori del passato e al significato delle loro opere deve molto anche a un’altra importante rivoluzione intellettuale nell’ambito degli studi teorici storiografici, i cui esiti hanno innescato un acceso dibattito tra gli stessi critici letterari. Alla base del

33 Cfr. Richard J. Lane, Rod Mengham and Philip Tew, Contemporary British Fiction, Cambridge: Polity

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pensiero storiografico di fine Novecento, vi è il capovolgimento dell’idea classica di derivazione aristotelica della netta distinzione tra discorso storico e discorso letterario, per cui il primo riporterebbe i fatti nell’ordine in cui sono avvenuti, mentre il secondo si occuperebbe degli eventi così come dovrebbero essere. In Metahistory (1973), opera tra le più influenti sulla ridefinizione della storia, Hayden White confuta quest’idea ribadendo che, al pari di quello fittizio, il discorso storiografico poggia necessariamente sulla base della selezione dei fatti nella ricostruzione degli avvenimenti, per cui è praticamente impossibile per lo storico coglierne la verità oggettiva. Anche la storia, insomma, come la letteratura, nel riprodurre il proprio oggetto di interesse, è preda dell’effetto degli artifici retorici del linguaggio. In modo simile allo scrittore, che spesso presenta all’interlocutore una rielaborazione personale e originale delle vicende inscenate, molte volte lo storico si affida alla propria immaginazione per colmare i tanti vuoti che necessariamente si incontrano nell’analisi documentaristica degli eventi34. La storiografia non tratta i fatti storici nella loro oggettività, dunque, ma può soltanto mirare a un’interpretazione soggettiva degli stessi. Un’idea di storia così sovversivamente lontana dal ‘vero’ ha condotto, alla fine del secolo scorso, a una vera e propria crisi dello storicismo: la posizione di White rientra senza dubbio nella riflessione cognitiva postmoderna per la «vanificazione della certezza della storia»35, derivante dall’affermazione di una metodologia ‘debole’ nella resa discorsiva degli avvenimenti, che si ricollega a quel crollo epistemologico che è cifra stessa dell’approccio contemporaneo alla realtà. Inoltre, la perdita di fiducia nella conoscenza empirica della storia provoca l’insinuarsi dell’elemento ideologico nell’interpretazione dei fatti. Per White, l’atto di privilegiare, nel resoconto storicistico, talune versioni degli avvenimenti su altre, dipende sempre dall’influenza del contesto culturale in cui vive lo storico. White, come Foucault, ammette l’influsso delle dinamiche di potere nella foresta narrativa. Questo valore, per così dire, ‘anti-fondazionalista’, che accompagna le nuove teorie della storia, insieme al generale clima postmoderno di fine delle certezze ideologiche e metodologiche, instilla un «dubbio ontologico globale»36, che incombe sulle speculazioni intellettuali del periodo, ma allo stesso tempo porta verso

34 Un’influenza decisiva sull’elaborazione delle teorie storicistiche di fine millennio è esercitata

dall’opera di Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872), dove il filosofo già concepiva la storia in termini di ‘arte tragica’, dubitando dunque dell’efficacia di veridicità dell’interpretazione documentaristica, a capo, più tardi, dalle teorie postmoderne sul discorso storiografico.

35 Hayden White, Storia e narrazione, traduzione a cura di Daniela Carpi, Ravenna: Longo, 1999, p.30. 36

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quell’esistenzialismo che libera l’umanità dal ‘peso della storia’. Diverse sono state le reazioni alla riflessione di White: come è facile immaginare, le maggiori obiezioni provengono proprio dall’ambito storiografico. Se non esiste alcun modo di trattare i fatti nella loro oggettività, ma è possibile solo un’interpretazione parziale e soggettiva di essi, allora viene negata anche la veridicità di quegli accadimenti che hanno segnato irrimediabilmente la storia dell’umanità37. L’idea di una concezione debole della storia sembra comunque ricevere più tardi un’ulteriore conferma da un’altra tappa fondamentale nella crisi dello storicismo, avvenuta dopo il 1989, con il crollo del blocco sovietico e la caduta del muro di Berlino. Da quel momento in poi, tutte le ideologie di destra e sinistra che avevano segnato i conflitti precedenti sembrarono convergere. Così, di fronte alla prospettiva dell’acquietamento di ogni conflitto, apparvero una serie di studi, tra cui il popolare The End of History and the Last Man (1992) di Francis Fukuyama, che inneggiavano alla ‘fine della storia’38, oltre che alla fine della modernità, già annunciata dal pensiero di Vattimo. Anche se i successivi conflitti nei Balcani dimostrarono che la fine della storia era ben lungi dal verificarsi, il clima intellettuale degli anni Ottanta si incamminava verso la morte delle cosiddette grandi narrazioni39, a favore di un’attenzione rivolta più al piano dei fatti ‘locali’ o alla storia delle minoranze etniche, come si ribadirà più avanti. Ciò avviene soprattutto in ambito letterario, che, al contrario della storiografia, raccoglie in maniera entusiastica e ‘produttiva’ la teoria di White. Di fatto, la riflessione storiografica della fine del XX secolo, avvicinando la storia non più alla scienza, bensì alla letteratura, restituisce indirettamente un valore di prestigio alla scrittura letteraria. Quest’ultima può finalmente recuperare una certo vantaggio sul discorso storiografico, grazie alle più libere e ampie possibilità offerte dalla trattazione immaginaria degli eventi, tipica del discorso artistico. Se inizialmente la fine della storia, insieme al presagio sinistro di un’imminente catastrofe nucleare nel periodo che seguì la Seconda Guerra Mondiale sembrò ridurre le narrazioni a una mera sperimentazione ludica postmoderna – non

37

È il caso, ad esempio, del problema scottante che ha riguardato il modo in cui narrare l’orrore dell’Olocausto, così estremo da sfociare nell’assurdo. Alcuni storici sono giunti addirittura ad affermare provocatoriamente che un evento dalla portata così vasta non è mai esistito, accentuando ulteriormente la disputa sulla questione dell’organizzazione della narrazione di avvenimenti storici cruciali e il conseguente frapporsi dell’ideologia nel punto di vista del discorso dello storico.

38 Cfr. Theo D’haen & Hans Bertens (eds.), History and Post-War Writing, Amsterdam: Rodopi, 1990,

pp.259-263.

39 Cfr. una delle più influenti opere critiche sul dibattito postmoderno, Jean-François Lyotard, La

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essendovi, apparentemente più nulla da raccontare40 ‒ successivamente, negli ultimi decenni del Novecento, ritorna con toni piuttosto riflessivi la trattazione della storia. Sin dai tempi di Walter Scott, il materiale storico è stato un utile accompagnamento alle trame degli scrittori, svolgendo una funzione di garante di veridicità e conferendo un’aura di prestigio agli avvenimenti narrati. Anche nella letteratura inglese degli anni Ottanta la storia occupa un posto di rilievo, ma con modalità differenti. Il romanzo dell’ultimo Novecento che riflette sui contenuti storici sfrutta la natura testuale dei fatti, interrogandoli e ridefinendoli continuamente alla luce del presente, soprattutto quelli che si ricollegano direttamente alla sfera letteraria. Da sempre, tra le funzioni della narrativa vi è quella di contribuire a definire un’idea di cultura con la quale la comunità dei lettori tende a identificarsi41, ed è per questo che la riflessione su come la letteratura debba oggi fare i conti con gli avvenimenti passati non può non interessare gli scrittori contemporanei in modo serio e impegnato. Diversi sono i critici letterari che hanno sottolineato il valore etico della narrativa inglese che fa i conti con il presagio della fine della storia. Per Berthens e D’haen, a partire dal dopoguerra, lo scrittore si domanda se sia ancora possibile trovare dei valori di riferimento in questa percezione parziale degli eventi, e se l’arte possa sempre rivestire un qualche ruolo di rilevanza sociale nel periodo contemporaneo42. Una delle voci più ragguardevoli a proposito è quella della canadese Linda Hutcheon, che, in A Poetics of Postmodernism (1988), difende il romanzo dai critici che ad esso negano qualsiasi forma di impegno serio nei confronti della realtà, in particolar modo quella storica. Per Hutcheon, in particolare, la letteratura postmoderna sarebbe dominata da aporie aperte, contraddizioni non risolte «certainly manifest in the important postmodern concept of ‘the presence of the past’»43, tema centrale del romanzo del periodo. Hutcheon conia l’espressione historiographic

metaficion per indicare il nuovo tipo di romanzo storico postmoderno e le principali

questioni da esso esplorate. Come suggerisce il termine, il metaromanzo storiografico

40 La narrativa del secondo dopoguerra riflette anche sul modo in cui può rapportarsi con ciò che per

convenzione costituisce l’evento irrappresentabile per eccellenza, ossia la catastrofe della fine del mondo. Jacques Derrida ha però osservato che la catastrofe possiede in sé un alto statuto di discorsività, non essendovi, propriamente, nessun altro modo di rappresentare un evento di tale portata, se non attraverso l’espediente della fabulazione, che sprigiona, riccamente articolata, dall’immaginazione del narratore-interprete. Da qui deriva l’ulteriore sperimentazione della letteratura del dopoguerra sulle conclusioni dei romanzi: The Burning Book (1983) di Maggie Gee costituisce uno degli esempi più lampanti al proposito (cfr. Steven Connor, The English Novel in History, 1950-1995, London: Routledge, 1996, pp.199-245).

41 Cfr. ivi, p. 5.

42 D’haen & Bertens, History and Writing, pp. 13-14.

43 Linda Hutcheon, A Poetics of Postmodernism: History, Theory and Fiction, London: Routledge, 1988,

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riflette, in una forma ancora in parte ludica, sul proprio statuto di narrazione degli eventi e dei personaggi storici, dunque di costruzione artistica e linguistica dei fatti da parte di un narratore che, ancora una volta, può giungere a una visione soltanto parziale e soggettiva degli avvenimenti. Il carattere contraddittorio del genere è dovuto alla sua apparente adesione iniziale ai motivi e alle convenzioni che intende poi sovvertire: non è tanto la realtà storica ad essere rinnegata, piuttosto è messa in questione la capacità del discorso narrativo di riportare una conoscenza diretta della storia, senza cioè nessuna mediazione intertestuale. Questo particolare genere narrativo postmoderno riflette dunque sulla natura ‘testuale’ della conoscenza della storia, giocando sulla labilità dei confini tra narrazione e fatti, già puntualizzata dagli studi di White, quindi sull’abbattimento della distinzione aristotelica tra storia e narrazione, confermando la scossa che il postmodernismo intende dare alle fondamenta di qualsiasi conoscenza epistemologica, empirica e positivista. Nei termini di Hutcheon, «it is this very separation of the literary and the historical that is now being challenged in postmodern history and art»44. Se, infatti, ogni conoscenza degli eventi è mediata dai testi, non solo sorge il problema di stabilire quali fonti documentaristiche si avvicinino più di altre alla verità di un determinato avvenimento, ma anche ammettere che non può più esservi la verità, bensì molteplici verità. È così che il resoconto artistico, nelle sue ampie possibilità immaginative, appare potenzialmente più ‘produttivo’ rispetto al discorso storico specifico sugli avvenimenti del passato. Il problema di stabilire in che modo sia possibile fare i conti con il passato si riversa anche sulla trattazione della figura di un autore celebre, tema spesso centrale della historiographic metafiction , che indaga in modo particolare sugli episodi salienti della sua vita e che sono riconducibili anche alla sua biografia.

I.3 Biografia e fiction

Prima delle interrogazioni novecentesche sullo statuto ontologico del soggetto, l’attendibilità del resoconto biografico non era messa in discussione. Al contrario, in tempi più recenti, la presa di coscienza delle molteplici sfaccettature in cui è possibile descrivere l’individuo ha condotto alla visione della biografia come un «resoconto di fatti collegati alla vita di un personaggio illustre, con l’analisi e l’interpretazione della

44

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sue attività»45. Quest’ultima definizione ridisegna la ricerca del biografo in termini di un discorso a metà strada tra lo scientifico e l’interpretazione personale, la cui forma si incrocia inevitabilmente con le rappresentazioni fittizie sull’autore, quest’ultimo intenso come identità nota, oltre che puramente letteraria. Sarà quindi necessario indagare brevemente sul confluire graduale e reciproco tra biografia e fiction avvenuto dalla seconda metà del secolo scorso, dovuto principalmente alla nuova concezione della soggettività quale nucleo inafferrabile, vero e proprio ‘testo complesso’ da conoscere autenticamente quanto la storia della sua vita. Ciò permetterà di comprendere più a fondo le peculiarità e gli intenti degli scrittori contemporanei che inseriscono sempre più spesso, nelle loro trame, figure di autori-personaggi.

Analogamente alla biografia, il romanzo dell’autore-personaggio spesso ne segue la vita, e non di rado, lo scrittore contemporaneo si identifica con il predecessore letterario rappresentato nella sua opera. Questo peculiare meccanismo può ricondursi all’ulteriore ibridazione novecentesca che ha investito il resoconto narrativo sulla vita del soggetto: il soggetto biografato è altrettanto sfuggente quanto l’io autobiografato, così che anche la distanza tra biografia e autobiografia si annulla quasi del tutto46.

Phyllis McCord è stato uno dei primi teorici che negli anni Ottanta ha ribadito la vicinanza tra autobiografia e biografia, giungendo a sostenere che non esiste alcuna differenza tra i due tipi di racconto, entrambi volti a scandagliare un soggetto dotato di un alto valore di ‘finzionalità’. L’analisi di McCord sembra ricollegarsi alla dichiarazione di Hayden White sullo statuto ‘narrativo’ delle fonti documentaristiche, così che qualsiasi tipo di resoconto sulla vita di una personalità nota si trova sullo stesso livello ontologico di un racconto meramente fittizio. Più precisamente, di fronte alle innumerevoli questioni sollevate dalle riflessioni epistemologiche novecentesche, si può affermare che è l’influenza del dibattito filosofico, storiografico e postmoderno «sulla percezione e la conoscenza della realtà, la relatività del vero» e «la funzione filtrante del linguaggio »47 ad apportare una nuova visione al racconto di una vita – sia quella del sé, sia quella di un individuo ‘esterno’ a noi stessi –, quest’ultimo derivante a sua volta

45 Enciclopedia Treccani online, http://www.treccani.it/enciclopedia/biografia/ (ultima consultazione:

febbraio 2013).

46

Si dimostrerà nel secondo capitolo che l’auto-rappresentazione dello ‘scrittore cartaceo’ è stata, già negli anni Sessanta e Settanta, metafora dell’idea post-strutturalista e postmoderna di una soggettività internamente scissa, resa da una scrittura autobiografica altrettanto frammentata.

47 Lucia Boldrini, Biografie fittizie e personaggi storici: (Auto)biografia, soggettività, teoria nel romanzo

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