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7. STRAVINSKY, MESSIAEN E PÄRT: TRE AUTORI PER TRE MESSE
Igor Stravinsky, Olivier Messiaen e Arvo Pärt, dunque, secondo il loro intento, hanno composto delle messe liturgiche: i primi due per il rito pre-conciliare, l'ultimo per il post-conciliare; il secondo per organo solo, il primo e il terzo per coro e strumenti.
Dei tre, Stravinsky, non si sa con quanta consapevolezza, segue l''onda lunga' del rinnovamento musicale per la liturgia, iniziato sotto Leone XIII, culminato nel Motu proprio di Pio X e proseguito con Pio XI: un vero e proprio movimento cultu(r)ale, con il quale si cerca di gettare le basi per la creazione, la formazione, lo sviluppo e il riconoscimento di uno stile propriamente liturgico.
Forse, è possibile affermare che i membri della gerarchia ecclesiastica, preposti all'emanazione d’istruzioni, norme e regolamenti in materia liturgica, così come i pontefici, non siano esperti di musica; che, poi, questi prelati, facilmente influenzabili, si circondino di pochi collaboratori musicisti, magari facenti parte di un'unica 'corrente' di pensiero; che, infine, da un punto di vista musicale, ciò che è promulgato non si basi su elementi storici ed estetici pienamente attendibili. Una cosa, però, è certa: se la massima autorità della Chiesa, in un documento ufficiale, dà la definizione di «musica sacra» o «liturgica», è perlomeno doveroso prenderne atto. È plausibile, naturalmente, dibattere, per esempio, in merito ad un presunto carattere reazionario o progressista di uno scritto magistrale; ad una certa interpretazione di un passo ritenuto poco chiaro; ad eventuali variazioni o cambiamenti che dovrebbero essere apportati in campo normativo. Non dovrebbe essere ammissibile, però, contraddire o boicottare deliberatamente alcun documento ufficiale: ciò, infatti, equivarrebbe a mettere in dubbio tutto l'apparato organizzativo della liturgia cattolica e, di conseguenza, la stessa dottrina della Chiesa.
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Per Stravinsky, dunque, la conferma di aver raggiunto, con la sua Mass, un autentico stile musicale liturgico, può giungere solo attraverso il confronto con i regolamenti ecclesiastici del tempo. Il principale documento di riferimento, perciò, è il Motu proprio di Pio X.
«Santità», «bontà» e «universalità» sono i tre requisiti che, secondo l’Istruzione, devono essere propri di ogni musica che aspiri alla più completa ‘liturgicita’ (I, 2). La Mass stravinskyana, in questo senso, può ben definirsi «santa», perché presenta una scrittura sobria, fredda, asciutta, che non fa emergere elementi apprezzabili di natura profana. È «buona», nel senso che il livello artistico che vi è profuso raggiunge livelli eccelsi, elevando il fedele ad una più intima partecipazione liturgica. L’«universalità», infine, deriva direttamente dalla qualità precedente. Non è determinata, in questo caso, tanto dalla forma, dalla scrittura e dallo stile, quanto dal rendere percepibile, all’ascolto, un linguaggio ‘oggettivo’, eterno, arcaizzante ma moderno, diatonico ma dissonante, che trascende la mondanità e tocca la sfera del divino. Per questo, se necessario, nella Mass ricorrono situazioni che possono apparire eccessivamente ‘dure’. Stravinsky, infatti, evita tutto ciò che è inutile o d’intralcio al raggiungimento dello scopo: in particolare, compromessi di natura eufonica; in generale, pericoli che derivano dall'accostarsi ad ambiti solo in apparenza utili o necessari - uno per tutti, l’‘espressione’ romanticamente intesa -.
Il pontefice, inoltre, individua nel gregoriano il modello supremo della musica sacra, tanto da determinare la già citata «legge», secondo cui la maggiore o minore liturgicità di un’opera consiste nell’avvicinarsi o allontanarsi dalla monodia ecclesiastica, sia nell’«andamento» sia nell’«ispirazione» sia nel «sapore» (II, 3). È chiaro che, nella Mass, il ritrovare l’«andamento» o il «sapore» di un canto gregoriano debba essere inteso in un senso più ampio: ad esempio, evitando la simmetria, adattando la musica al testo, privilegiando un procedere solenne, attraverso la ricerca di una sinuosa linea melodica, utilizzando, infine, successioni armoniche ‘ambigue’ o modaleggianti.
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Per quanto riguarda l’«ispirazione», invece, la vicinanza col canto piano è più tangibile. Nella Mass, infatti, l’ispirazione è pura, perché non è subordinata a commissioni o ingerenze esterne, ma dettata solo da un’esigenza interiore. L’intento, poi, è nobile, perché è quello di ‘ripulire’ la nuova musica liturgica da tutti i fronzoli e gli orpelli, siano essi baroccheggianti, neo-rococò o melensamente romantici. La destinazione, inoltre, è chiara, poiché è indirizzata fin da subito all’ambiente liturgico. La musica, infine, è schietta, giacché è stata concepita per rivestire il testo dell’Ordinarium.
Il documento papale, dopo il gregoriano, propone come ottimo modello di repertorio liturgico la Scuola rinascimentale romana, che ha in Palestrina il suo centro vitale (II, 4). Stravinsky, indirettamente, lo cita, con alcune sezioni della Mass, a cappella, in assoluto diatonismo e in stile imitativo-contrappuntistico: l’«Amen» del Credo ne è un limpido esempio.
Per fugare ogni perplessità, qualora apparissero forzati gli accostamenti al gregoriano e alla polifonia romana, la Mass sarebbe inscrivibile, senza ombra di dubbio, al genere della «musica più moderna», che, rispondendo ai tre requisiti iniziali - santità, bontà, universalità -, potrebbe essere certamente accolta nei sacri riti (II, 5).
Seguendo con ordine il contenuto del Motu proprio, è incredibile verificare come Stravinsky si sia attenuto a questo in modo scrupoloso. Non sappiamo, si ribadisce, se il musicista russo conoscesse il documento: quello che interessa, però, è che si comporti come se lo avesse letto e meditato.
Nella Mass, la lingua utilizzata è il latino, l’unica ammessa nella liturgia. Le sezioni di testo non sono mai mutate, rispetto alla successione ufficiale, né sono cambiate, anche parzialmente, con altri testi, né sono omesse, in tutto o in parte. Più nel particolare, non ci sono alterazioni o cambiamenti che riguardano l’ordine delle parole. Ogni vocabolo non è mai ripetuto inutilmente e le sillabe sono tutte ben collegate. Il testo sacro è sempre perfettamente intelligibile, per i presbiteri, ma anche per tutta l’assemblea.
Stravinsky, inoltre, ad ogni parte dell’Ordinario riserva sempre un suo peculiare carattere, rispettandone i requisiti di funzionalità liturgica, anche in
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ossequio ad una tradizione plurisecolare: il Credo, ad esempio, è caratterizzato musicalmente dallo stile sillabico, che permette di percepire con la maggiore chiarezza possibile il significato ‘canonico’ del testo. In generale, ogni singolo movimento mantiene l’unità che gli è propria, da un punto di vista testuale e musicale: di conseguenza, non ci sono «pezzi separati».
Tra le sollecitudini, fra l’altro, dedica un capitolo ai cantori. La Mass, naturalmente, si adegua alle direttive riportate. Nel complesso, infatti, conserva, come richiesto, «il carattere di musica da coro» (V, 12). Non ci sono parti solistiche di rilievo, nel senso che non predominano, quantitativamente, su quelle destinate, invece, alla schola; anzi, sono in netta minoranza. Le voci singole sono utilizzate, in alternanza con il coro, «preferibilmente» (1) nel Gloria e, in modo obbligato, solo nel Sanctus. L’organico della schola, infine, non prevede le donne per le due parti più acute, poiché «dovrebbero essere impiegate le voci di bambini». (2)
Per quanto riguarda l’organico di ‘accompagnamento’, Pio X privilegia, come da tradizione, l’organo, senza vietare l’utilizzo di altri strumenti (non sono da lui specificati), purché permessi dalla competente autorità territoriale. Quelli utilizzati da Stravinsky - 2 oboi, corno inglese, 2 fagotti, 2 trombe e 3 tromboni - sembrerebbero fuori luogo in un contesto liturgico. Il contenuto dell’Ordinatio quoad Sacram Musicen, il già citato regolamento della Sacra Congregazione dei Riti, è stato ripreso, testualmente o in sintesi, dal Motu proprio, anche se passato attraverso le Norme generali della medesima Congregazione. (3) L'articolo 12 dell'Ordinatio, oltre all'organo, specifica gli ammessi nelle sacre celebrazioni: «trombe, flauti, timpani ed altri strumenti di simile specie, che furono già in uso presso il popolo d’Israele».
Il termine biblico ugab è per lo più tradotto in italiano con «flauto»: a questo si riferisce anche il testo magistrale. La parola ebraica, in realtà, indicava un generico strumento a fiato: comprendeva, perciò, sia quelli ad insufflazione diretta, come lo stesso flauto, sia quelli ad ancia, semplice o doppia, come l’oboe. I tromboni fanno parte della medesima famiglia delle trombe; il corno inglese e i fagotti, invece, della stessa dell’oboe. Tutti gli
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strumenti della Mass, quindi, sono utilizzabili, per nobile e antichissima tradizione, nelle celebrazioni liturgiche.
Ancora in sintonia con il Motu proprio, la parte strumentale sostiene e non sovrasta mai il canto. La partitura non presenta né lunghi preludi né ampi «intermezzi» (VI, 17).
La durata della Mass è tendente alla sinteticità - intorno ai 17 minuti -, proprio perché «non è lecito per ragione del canto e del suono fare attendere il sacerdote all’altare più di quello che comporti la cerimonia liturgica». Il Gloria e il Credo, come prescritto, in rapporto alla lunghezza del loro testo, sono in effetti «relativamente brevi» (VII, 22).
La Mass di Igor Stravinsky, perciò, per tutti questi motivi, rappresenta una tipologia esemplare, anche se non unica, di messa liturgica pre-conciliare, aderente in tutto alle «leggi» del Motu proprio «Tra le sollecitudini» di Pio X.
Questo fondamentale documento, però, non tratta della «messa per organo» vera e propria, genere nel quale è inquadrata la Messe de la Pentecôte di Olivier Messiaen. Il Motu proprio, infatti, mantiene «il Re degli strumenti» come quello privilegiato per accompagnare il canto, «sebbene la musica propria della Chiesa sia la musica puramente vocale» (VI, 15). Pio X ridimensiona il ruolo dell’organo solo quando deve interagire con la schola, ma, naturalmente, non proibisce che sia utilizzato da solo. Per questo, i documenti anteriori alla Messe e ad essa più vicini sono rappresentati dall’Ordinatio del 1884, dalle Norme del 1894, già citati, e dal Cerimoniale dei Vescovi. Di quest’ultimo, Leone XIII, nel 1886, promulga la 5a edizione tipica, che, per la parte riservata all’organo, non si discosta, nelle linee fondamentali, dall’originario seicentesco. (4
) Le parti della Messe de la Pentecôte, perciò, sono quelle canoniche, rispondenti al modello della messa organistica, senza considerare, naturalmente, le sezioni dell'Ordinarium, un tempo eseguite alternatim: Entrée, Offertoire, Consécration, Communion e Sortie.
Nel Motu proprio si prescrive, anche per l’organo, di attenersi ai medesimi principi richiesti per il genere vocale: «partecipare di tutte le qualità
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che ha la vera musica sacra» e, in più, «essere condotto secondo la propria natura» (VI, 18). In generale, significa obbedire ai requisiti di «santità», «bontà» e «universalità»; in particolare, mantenere un’«indole legata, armonica e grave». (5)
Queste ultime qualità si ritrovano in abbondanza nella Messe. Riguardo alle precedenti, non è possibile obbiettare che questa sia anche «buona», cioè artisticamente irreprensibile: del maestro francese, la sbalorditiva realizzazione compositiva non ha bisogno di ulteriori commenti. Qualche dubbio, però, potrebbe sorgere, almeno a livello teorico, a proposito della presunta «santità» e «universalità» dell'opera.
Dei due, il primo requisito prevede l’assenza di elementi 'laici'. Questi, anche se indirizzati verso una finalità liturgica cristiana, non solo sono presenti nella Messe, ma anche sottolineati, con evidenti didascalie, dallo stesso Messiaen: il riferimento è al canto degli uccelli, ma, soprattutto, ai ritmi indù utilizzati nell'Offertoire. Tritîya, caturthaka e nihçankalîla, infatti, non solo sono elementi musicali 'profani', rispetto alla confessione cattolica, ma, in più, impersonano motivi ritmici sacri per la religione induista, con molta probabilità la più antica di quelle praticate tutt'oggi. Messiaen, cioè, mentre ricerca «archetipi» ritmici «smarriti dall'uomo occidentale», aderisce anche al «concetto del primitivo come momento di purezza originaria, che contiene in sé una scintilla divina», in una sorta di «universalismo religioso». (6)
L'«universalità» del cattolicesimo si basa sulla tradizione e sulla forza della collettività. Il cammino della Chiesa procede lungo i secoli con una sorprendente regolarità, nonostante le molte vicissitudini e i non pochi periodi bui che ha dovuto attraversare. Gli interventi dei singoli pontefici non sono mai improvvisi, ma sempre dettati da una particolare condizione storica e sociale.
Stravinsky, nella sua Mass, utilizza il linguaggio musicale che gli è stato consegnato dalla tradizione, che è giunto a lui attraverso il contributo di grandi nomi e di una fitta schiera di carneadi dell'arte dei suoni. Lo rende unico e personalissimo, è vero, ma sempre in sintonia con il flusso dell'evoluzione musicale, con chi è venuto prima e con chi verrà dopo di lui.
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Messiaen, invece, più che formare una propria, spiccata personalità, in mezzo ad una multiforme collettività, sembrerebbe arroccarsi su posizioni individuali, in una sorta di forzato 'eremitaggio' musicale. Si richiama alla tradizione e alla contemporaneità, per estrarne il proprio «miele»; in realtà, i vari elementi desunti sono da lui completamente 'defunzionalizzati', forse utilizzati al solo scopo di giustificare la propria opera come naturale anello evolutivo della storia. (7) La sua musica, perciò, è «universale» più nelle intenzioni che nei fatti.
Il maestro francese, quindi, è per lo più attratto dalla sperimentazione personale, che investe e rivoluziona tutti i parametri musicali, dal ritmo alla melodia, dall'armonia al timbro: non a caso, è stato il primo ad aver utilizzato la serialità integrale. I suoi campi di ricerca non conoscono confini, né storici né geografici né di ambito disciplinare. In una parola, è uno dei più grandi musicisti del secolo scorso, il vero padre della musica d'avanguardia del Secondo Novecento. In questo suo più che legittimo ruolo, però, non è mai stato pienamente riconosciuto dalla maggior parte della critica, anche di quella più recente, quasi sicuramente per il suo 'reazionario' impegno come organista di chiesa. Appare incredibile come, tutt'oggi, sia possibile ritenere inconciliabili, a prescindere dai risultati ottenuti, attività militante cattolica e avanguardia artistica. (8) Messiaen, ad ogni modo, non si tira indietro, non 'abiura', non rinnega la fede per convenienza: la sua statura etica e morale, perciò, è difficilmente eguagliabile.
In quest’onnicomprensiva attività, però, sembra che Messiaen intervenga solo dove intravede la possibilità di riempire dei 'vuoti' o di trasformare, del tutto, la componente musicale, passandola al setaccio della sua forte personalità. Dove la lotta sembra dura anche per lui, preferisce non affrontare la 'battaglia', indirizzando le forze verso altri obiettivi. Appare perlomeno sorprendente, infatti, che un musicista della sua statura liquidi il problema del repertorio vocale sacro contemporaneo senza mezzi termini, delegando al solo canto gregoriano la dignità di rappresentazione in ambito liturgico. (9) Il maestro avignonese, in questo, è molto più intransigente di Pio X, che, pur riconoscendo la superiorità della monodia ecclesiastica, aveva
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lasciato praticabile la possibilità di utilizzare «la musica più moderna» nei sacri riti (II, 5).
È già stato rilevato che Messiaen, nella maggior parte dei suoi lavori, infonde, con forza, la sua personale esperienza di cattolico praticante. Quasi tutta la sua opera, perciò, rientra nell'ambito musicale di genere sacro. Al contrario dei documenti magistrali, però, Messiaen pone al livello più basso di questa tipologia la musica «liturgica», perché, celebrando Dio in se stesso, è 'relegata' al tempio, al culto e al «suo proprio Sacrificio». Ad un'altezza superiore, poi, si colloca la musica «religiosa», poiché non ha confini di tempo, spazio e materia, ritrovando Dio in ogni essere, in ogni oggetto e in ogni dimensione, tanto sulla Terra quanto nell'Universo intero. Al grado più alto, infine, è situata la cosiddetta musica «colorata», (10) giacché inebria, potenzia ed eleva i nostri sensi più nobili ad un livello soprannaturale: udito, vista, sensibilità, immaginazione e intelligenza sono proiettate al di là del concetto, del ragionamento e dell'intuizione, conducendo direttamente alla «fede». (11)
Tutto questo, perciò, sembra spiegare lo scarsissimo impegno profuso dal 'cattolicissimo' Messiaen in campo musicale liturgico: solo un mottetto (O Sacrum convivium!) e la Messe. L'ambito di maggior interesse e 'prestigio', infatti, è per lui rappresentato dalla sfera «religiosa» e, ancor più, «colorata»; se pure il ruolo di protagonista è affidato all'organo, lo strumento liturgico per eccellenza.
Segnaliamo una curiosità: il volume Dal Pruno al melarancio di Donella, già citato, si occupa, da un punto di vista della musica liturgica, del periodo compreso fra il Motu proprio e la Sacrosanctum Concilium (1903-1963). La pubblicazione, fra l'altro, riporta un «Dizionario dei protagonisti», cioè dei musicisti liturgicamente attivi in questo periodo, con note biografiche e notizie concernenti il loro operato: «compositori, direttori di coro, organisti, organari, gregorianisti, liturgisti, teorici, organizzatori, animatori… che abbiano lasciato un segno sensibile della loro attività». Nel dizionario non è stato «citato alcun autore-compositore che non abbia pubblicato almeno una Messa (a 1 o più
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voci) o un servizio importante (Vespri, Settimana Santa, raccolte di canti vari)». (12)
Stravinsky, avendo scritto e pubblicato la Mass, è regolarmente presente nell'elenco. Messiaen, non avendo pubblicato né messe vocali né servizi importanti, non è citato come compositore. Ci saremmo aspettati, però, una sua presenza, perlomeno in veste di organista, poiché è stato titolare in una delle chiese più importanti di Parigi, su uno degli organi più importanti di Francia, per più di sessant'anni, ininterrottamente fino all’ultimo. (13)
Donella è uno dei maggiori esperti italiani di musicologia liturgica. Il fatto di aver 'tralasciato' il nome del maestro francese è certamente frutto del caso, ma questa inconscia dimenticanza induce alla riflessione: Messiaen, personalità solitaria, è considerato un artista isolato, non solo dalla maggior parte dei critici e musicisti areligiosi, ma anche da quelli credenti, sia laici sia presbiteri, che, come lui, professano la stessa fede nella medesima confessione.
Questi, in effetti, possono forse rimproverargli, in generale, un'eccessiva individualità, per aver privilegiato, oltretutto, il genere strumentale su quello vocale, cioè sul testo sacro; in particolare, poi, nella 'liturgica' Messe, l'ostentato utilizzo di elementi appartenenti ad altri ambiti religiosi. La questione che potrebbe più sconcertare, però, è forse data da certe sue convinzioni, ufficialmente affermate e divulgate, non proprio ortodosse da un punto di vista teologico.
I documenti magistrali affermano che «il mistero della Santissima Eucaristia, istituita dal Sommo Sacerdote Gesù Cristo e rinnovata in perpetuo per sua volontà dai suoi ministri, è la somma e il centro della religione cristiana». (14) Per Messiaen, invece, il tempio, il culto e la stessa messa rappresentano dei limiti troppo angusti per la conoscenza di Dio, superati dalla totalità del mondo esterno all'uomo e, ancor di più, da quello interno, tutto proteso verso il raggiungimento del bene supremo: la fede. La 'graduatoria' fra colorée, religieuse e liturgique, in effetti, riguarda solo l'aspetto musicale, ma le argomentazioni adottate sono di tipo filosofico, se
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non propriamente teologico, e si dirigono in una direzione diversa da quella ufficiale.
In pratica, l'espressione artistica situata al più alto livello, l'unica che proietta la totalità dell'essere umano verso la comprensione dei misteri della fede, la musica «colorata», è quella teorizzata, praticata e sviluppata dallo stesso Messiaen. Il maestro, è già stato affermato, fonda gran parte della propria poetica sulla «sintesi degli opposti». In questo, è coerente anche nell'atteggiamento tenuto nei confronti della musica sacra: sorprendentemente 'umile' nel versante «liturgico», tanto da rifiutarsi di contribuire all'evoluzione del repertorio vocale; meravigliosamente 'orgoglioso' per la parte «colorata», così da arrogarsi il diritto di collegare, attraverso la fede, l'uomo e la divinità. In questo, la musique colorée è perfino superiore al canto gregoriano.
È universalmente riconosciuto che la monodia ecclesiastica rappresenti la simbiosi ideale fra testo sacro e musica, grazie anche all'utilizzo di una lingua sintetica e, al tempo stesso, armoniosa come il latino. Non poche volte, infatti, sembra che la musica scaturisca direttamente dalle parole e, al contempo, che la linea melodica non possa che essere abbinata al testo che accompagna. In altri casi, però, la tecnica della «tropatura», già trattata, e della «centonizzazione» - accostamento e 'cucitura' di sezioni melodiche preesistenti, in modo da formare nuove entità melodiche con altri testi -, tradiscono l'artificio e distruggono il rapporto fra suono e parola.
Verso la fine del Novecento, questa fondamentale relazione è resa stabile, in modo oggettivamente irreprensibile, da Arvo Pärt. Il musicista estone, infatti, riesce a determinare, in modo automatico, le durate delle note e la linea melodica, desumendole dalle sillabe e dalla punteggiatura. (15) Un bell'esempio di questa tecnica si trova proprio nella Berliner Messe.
Il rispetto e la comprensione del testo sono sempre stati le preoccupazioni principali, in materia liturgica, da parte dei documenti ufficiali, tanto nel passato quanto, ancor di più, nel nostro tempo. In questo, perciò, la Messe di Pärt è una delle opere 'più liturgiche' di tutta la storia della musica, poiché l'intervento soggettivo del compositore si limita a stabilire le 'regole
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del gioco', lasciando poi che il testo, sacro e immutabile, definisca la 'propria' linea melodica, unica ed esclusiva.
La Messe pärtiana è un lavoro post-conciliare: i documenti di riferimento, perciò, sono rappresentati dalla Sacrosanctum concilium e dalla Musicam sacram. Nella Messe, l'uso della lingua latina risponde perfettamente a quanto stabilito dalla Costituzione. La composizione dell'organico vocale, analogamente, non va contro l'Istruzione, che ammette la contestuale presenza, nel coro, di «uomini e donne».
La versione per organo si riallaccia al celebre art. 120 della Sacrosanctum, che nobilita ed esalta questo strumento, in grado «di elevare potentemente gli animi a Dio». Quella per archi, invece, con riferimento allo stesso numero, si ricollega agli «altri strumenti», ammessi nel servizio divino «a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale». Ad ogni modo, è già stato ricordato che Pio XII, nella sua Musicae sacrae disciplina, oltre all'organo, indica gli archi fra gli strumenti che, «in primo luogo», possono essere utilizzati con efficacia nell'ambito musicale sacro. (16) Questa seconda versione, perciò, per gli strumenti utilizzati, è anch'essa pertinente.
La Messe, quindi, sembrerebbe rispondere perfettamente alle richieste dei nuovi documenti, se alla liturgia post-conciliare, rispetto alla precedente, non fosse richiesto, obbligatoriamente, di far partecipare un nuovo 'esecutore' per la parte musicale: l'assemblea. La «actuosa participatio» è espressamente rivendicata dalla Musicam sacram: «Non è da approvarsi l'uso di affidare per intero alla sola “schola cantorum” tutte le parti cantate del “Proprio” e dell'“Ordinario”, escludendo completamente il popolo dalla partecipazione nel canto» (II, 16). Ancora più in dettaglio, si precisa che «il Credo […] è preferibile che venga cantato da tutti» o con «una adeguata partecipazione dei fedeli» e che «il Sanctus è preferibile che sia cantato, ordinariamente da tutta l'assemblea, insieme al sacerdote». Per l'Agnus Dei, infine, «è bene che il popolo partecipi a questo canto, almeno con l'invocazione finale» (III, 34).
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La seconda edizione del Messale Romano riformato, quella più vicina alla composizione della Messe, non può che ribadire gli stessi principi enunciati nella Sacrosancum concilium e nella Musicam sacram. In più, è specificato che il Kyrie «di solito viene eseguito da tutti, in alternanza tra il popolo e la schola o un cantore» (III, 30). Unica eccezione, quasi controcorrente rispetto ai precedenti e più autorevoli documenti, riguarda il Gloria, che può essere «cantato da tutta l'assemblea, o dal popolo alternativamente con la schola oppure dalla schola» (III, 31).
La Messe, per le parti vocali dell'Ordinario, prevede l'uso esclusivo del coro: non è assolutamente contemplato l'intervento del popolo. Questo motivo, teoricamente, sarebbe di per sé sufficiente per 'declassare' l'opera da «liturgica» a «sacra», giacché l'unica parte 'ossequiosa' delle rubriche del Messale, quindi rituale in senso stretto, è quella del Gloria. Il fatto sembrerebbe di per sé assurdo, ancor di più considerando che la scrittura pärtiana utilizza sempre un ambito diatonico-modaleggiante, con linee orizzontali formate immutabilmente da intervalli consonanti. In questo, la Messe è simile nientemeno che al gregoriano, il «canto proprio della liturgia romana». (17)
Delle tre, dunque, rispetto alla normativa ecclesiastica vigente al momento della stesura dei lavori, l'unica inequivocabilmente liturgica è la Mass di Stravinsky. Quella di Messiaen, tra l'altro, utilizza elementi propri di altre religioni. La Berliner, infine, non prevede la partecipazione attiva del popolo. Nel caso della Messe di Pärt, poi, sarebbe anche possibile 'aggirare l'‘ostacolo', interpretando le locuzioni «è preferibile», «è bene» e «di solito» e l'avverbio «ordinariamente» come disponibili ad ammettere qualche particolare eccezione. Una di queste potrebbe riguardare proprio il lavoro del maestro estone, data anche la specificità della committenza e dell'occasione per la quale è stata richiesta l'opera. Appare forse ingiusto, comunque, che un lavoro di così alti contenuti spirituali, portatore del massimo rispetto per la sacralità del testo, debba essere teoricamente estromesso dalla prassi rituale. Il problema, però, è causato dal contrasto fra teoria e pratica, fra le
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aspettative del 'legislatore' e la realtà oggettiva, fra il testo scritto e ciò che veramente si canta e si può eseguire nelle chiese cattoliche.
Tre messe così diverse nei propositi, nelle intenzioni e, soprattutto, nei risultati, sono accomunate, però, da un identico filo conduttore: sia Pärt sia Messiaen sia Stravinsky, infatti, concepiscono l'Ordinario e la messa organistica come un sistema chiuso ma circolare. (18) Ogni brano, infatti, è legato, attraverso rimandi e citazioni, agli altri, in particolare il primo con l’ultimo, cioè il Kyrie con l'Agnus, così come l'Entrée con la Sortie. Quest’accostamento degli ‘opposti’, una sorta di ‘ossimoro’ musicale, genera un cerchio musicalmente tangibile. La circonferenza continua, che dall'inizio conduce alla fine e, da questa, rimanda all'origine, è simbolo del moto incessante e perpetuo che s’identifica con l'eternità. Diversi movimenti, poi, al loro interno, riproducono in modo ‘frattale’ il ‘disegno’ del cerchio e la conseguente simbologia legata a questa forma geometrica, anche servendosi di elementi musicali associati a rapporti numerici. (19)
Per la messa in musica, però, cerchio, circolarità, moto incessante ed eternità non sembrano interessare i documenti, né antecedenti né conseguenti la riforma conciliare. Al momento, la Mass di Igor Stravinsky, la Messe de la Pentecôte di Olivier Messiaen e la Berliner Messe di Arvo Pärt, secondo il diritto liturgico, non sarebbero (più) utilizzabili nei riti odierni; ma i compositori liturgici contemporanei, proprio da queste opere, hanno l’opportunità di stillare un «miele» genuino, salubre e sapido.