III
LA QUOTIDIANITÁ
1 “Bei mi’ tempi !” Ricordi di infanzia.
Il termine “infanzia” è qui usato in maniera impropria, non è delimitato da precisi riferimenti temporali: non sta ad indicare strettamente il periodo che va dalla nascita ai dodici anni ma, più in generale, quello dalla nascita fino al momento del matrimonio (o comunque dell’ “età da marito”) quando cioè la donna diventa il punto di partenza per un nuovo nucleo familiare. Nelle testimonianze la differenza tra infanzia, adolescenza, fanciullezza e giovinezza non è marcata, i termini “bambina”, “ragazza”, “ragazzina”, “piccina”, “bimba”, “bimbetta”, sono tutti sinonimi: si è “bimbe” finché non si diventa “donne”, si gioca e si lavora e addirittura si comincia a frequentare la scuola praticamente senza limitazioni di età. Se questo vale sia per i bambini che per le bambine, per le bambine si aggiungono i problemi scaturiti dalla “differenza di genere”. Le “bimbe” sono donne in miniatura, dalla personalità spesso spiccata, sulle quali molto spesso gravano i pesi delle contingenze storiche e culturali. Sarà evidente, dal confronto tra le testimonianze, come le esperienze dell’infanzia, benché costituite quasi per tutte dai soliti eventi, siano narrate in modo piuttosto
differente tra di loro. Questo avviene in primo luogo perché qualunque narrazione della propria vita racchiude in sé tre atti sociali: fornisce una testimonianza, interpreta ciò che le è accaduto, e rende esplicita la posizione che si ritiene di occupare nel mondo1; in secondo luogo perché, dove il ricordo del “dato” accaduto sbiadisce, la memoria supplisce con una sorta di continuo dialogo interno e che accompagna e rivede le percezioni e le sensazioni vissute.
Rina: Io ho preso ‘l latte dalla zia Clara perché… siamo nati insieme io e mio cugina; ogni tanto veniva la zia e dice che mi dava ‘l latte perché mamma... io sono nata In-desiderata.
Chiara: Addirittura!
Rina: Indesiderata, sì sì!! Eh! Perché gli toccò le...rimase incinta di me, mamma, e gli toccò levare il latte al bimbo ch’era piccolo, ci corre un anno solo io e Poldino. E allora la nonna specialmente non m’ha accolto perché se no...ava [aveva] dovuto dare il latte, ‘n lo so, di capra...al bimbo.
Chiara: Ah, perché era il figlio maschio, il primo figlio…
Rina: Perché essendo incinta di me forse il latte gli era andato via, non lo so, o non glielo poteva dare… ‘Nfatti nella fotografia si vede che c’ha ’ bottoni aperti qua, nella gonna mamma, hai visto? C’hai fatto caso? E nonno Rigoletto [suo padre] che tiene il bimbo su, era piccolo
1
Anna M: [La mamma] dalle montagne della Maremma chiese il trasferimento e fu mandata a Petricci, sempre un luogo lì, a insegnare, lì conobbe il mio babbo, si fidanzarono, ‘nsomma si sposarono e nacqui io, nel ventidue, ecco, tanto per dirle come era l’istituzione d’allora, io nacqui il tredici di settembre, del ventidue, alla mia mamma, era praticamente sempre una donna che aveva partorito da pochi giorni, gli arrivò la lettera che doveva prendere servizio il primo di ottobre, sicché partimmo, “partimmo”: io avevo pochi giorni, col treno che allora durava un giorno neanche, la gita da qui a giù in queste montagne, prima col treno, i treni di allora, e poi con un mezzo di… di fortuna, che potevano andà lassù, sicché la mia mamma non aveva latte sufficiente per, per allevarmi me, in quei luoghi il dottore non c’era, c’era una levatrice, erano chiamate quelle che…, che di tanto in tanto andava su… in questi, questi monti, queste montagne, e non avendo il latte la mia mamma, non avendo su non c’era né farmacie né dottori né niente, già piccina in quella maniera, queste donne, queste povere montanare, mi facevano la pappina di aglio e olio di quindici giorni già con queste pappine perché il latte non c’era, aglio e olio con l’acqua ammollavano il pane, sicché si immagini. Poi cercarono questa levatrice, che venne, dice, lassù, io non c’ero, c’ero e non c’ero, venne lassù e allora suggerì ai miei genitori di cercare una somara perché il latte di somara somiglia, che molto si confa al latte materno, allora mio babbo tutti i giorni faceva due chilometri per andarmi a prendere il latte di somara e fui allevata con questo latte di somara.
Rosina A: Io sono nata in Venezia di Montemagno, la mia famiglia era composta dal babbo, dalla mamma e tre femmine e un maschio, io sono la prima delle tre femmine sicché ho fatto da mammina, al primo no perché ha ventisette mesi di più, ma per le altre due una ci
correva due anni e una quattordici ho fatto da mammina, veramente mi chiamavano la seconda mammina per via che la mi’ mamma andava fuori, in campagna, e io rimanevo in casa a fa’ la baby sitte. Poi molto molto giovanissime si andava col panierino a raccogliere l’olive, perché allora non c’erano le reti, col panierino così una per una per una, a una per una! E ragioniamo di… di centinaia di quintali d’olive colte tutte a mano, prendevamo anche il raccoglitore perché noi non c’arrivavamo a farle, poi tenevamo un branco di pecore e facevamo formaggio, ricotte, noi per quei tempi eravamo una famiglia che la fame non l’abbiamo sofferta, no, neanche in tempo di guerra, perché in campagna si faceva tutte le verdure, ci s’aveva tutta la frutta, ci s’aveva il formaggio, la ricotta, l’olio, il vino, ‘nsomma, delle famiglie di quei tempi con un branco di pecore e un poderino… a mezzadria però a quel tempo là, poi quando passarono degli anni il mi’ babbo lo vendettero e lui lo comprò, e si doventò proprietari di quella casa là che tutto il podere era tutto intorno alla casa, e ci sono stata fino a ventitre anni, fino a ventitre anni perché mi sono sposata a ventitre anni.
Gina: Noi c’avevamo anche le pecore, la mattina a scuola e quando si tornava, o a raccoglie’ le ulive o alle pecore
Giuliana: La tessera, mi ricordo, allora si faceva mangiare col carbone, ’ fornelli, fornelli a carbone, vendevano il carbone, poi venne la tessera del carbone
Chiara: Anche del carbone? Pensavo solo…
Giuliana: No, no, anche quella! Eh ma la tessera c’era del pane, della pasta, di tante cose, eh sì, in tempo di guerra c’era, e questo carbone mi ricordo là, dove ci sta “Le Gemelle”, nella la strada… laggiù sotto c’era uno ‘ vendeva il carbone, in fila, una coda! Per aspettà, mi
riòrdo bimbette, e per poi prende’ due tre chili per uno ce ne dava, mica di più. Eh no, ce n’era tanta gente, mi ricordo, ci sono stata anch’io per in là a falla. Quando uno arrivava lì, poi magari uno arrivava lì allora lo avevan finito.
Bianchina: Allora io sono…Bianca, Bianca di nome, di cognome Berrugi, èramo quattro in famiglia, papà ‘nsomma mi’ babbo era ‘l custode del cimitero, mia mamma facea le materasse , poi c’avevo un fratello, io sono del ventinove, mio fratello del ventidue [intende “trentadue”], ci correva tre anni, poi la mia infanzia è stata sempre un…. un disastro, fra miseria, miseria e miseria, sempre! Perché c’era sempre stata anco dei mali ‘n casa mia, ‘nsomma, mi’ padre era contadino, c’avea l’ulivi, ci mandava a scola (…) e allora, voglio dire, la nostra famiglia era una famiglia normale ‘nsomma, soltanto che poi venne, capitò, la guerra.
(…) Il giorno di Natale, la mi’ ma’, l’ho detto mi’ padre era sempre stato uno che piangeva facile, ‘ceva: “O Anna, cosa si dà a questi bimbetti? ‘un c’abbiamo niente” dice, povera la mi’ mamma, dice: “Vai dalla tu’ mamma –la mi’ nonna sa<rebbe> questa, la madre di mi’ padre- vai da tu’ mamma e dinni se ti dà du’ patate, una menata di fagioli, perlomeno per …” quando arrivò mi’ padre laggiù dalla su’ mamma, dice: “O mamma” allora si dava del voi ? ‘ce: “O mamma, ce l’avete una menatina di patate…di fagioli, o du’ patate? -‘ce- ho bimbi senza mangià, ‘un c’hanno nulla” e lui siccome con mi’ padre ‘un ci se n’è mai detta, c’aveva una simpatia, un’antipatia… ‘un lo so perché, e sì [che] era figliolo, dice: “Mandali nei campi come le pecore e gli fai mangià un po’ d’erba” queste sono sacre sante parole! Mi’ padre venne a casa e lo vidi subito piangeva, ero una bimbetta ma ero sveglia. Allora dice la mi’ mamma: “Che t’ha detto la tu mamma?” ‘ce: “sai cosa m’ha detto, Anna? Mandali
nei campi a pasce’ l’erba ‘ome le pecore” sicchè ‘un lo so che Natale si passò, ‘un lo so. Però ci s’aveva un po’ d’olio, però se ‘un ci s’aveva niente da mangià. Allora si prendeva la farina, si macinava col grano, si colava col colino si faceva un po’ di farinata e si condiva con l’olio, questo era il nostro mangiare. A volte si poteva mangià le… le patate.
Asia: Sempre a lavorare! Fin da bimbina così! Quando avo cinque anni, ho cominciato a andà alle elementari, facevo la spesa nella Corte e ‘ndavo a San Lorenzo, là, lassù, a portà la spesa, quando tornavo da scuola. Piccinina! E diceva la mia mamma: “Prendi il pane, prendi questo, e lo porti a casa quando esci”
Anna M: Io quand’ero piccola, perché la mia mamma andava a scuola [come maestra] e già era rimasta in istato interessante dell’altra mia sorella, sicché dovevo, mi portavano al seminario, lassù all’Oasi del Sacro Cuore, piccina piccina, c’era una donna che era al servizio delle suore però che stava giù nella Corte e radunava tutti i bimbi e ci portava in fila su, ma io piccina di due anni e mezzo già cominciai ad andare. Un pezzo di strada… perché allora ci prendevano, non gli pareva vero alle suore di avere quella mensilità che pagavamo… e mi ricordo che mio babbo un pezzo di strada me lo faceva fare in collo, mi portava in collo e poi andavo con tutti gli altri bimbi, perché come le ripeto la mia mamma allora restavano a scuola sia la mattina che il pomeriggio, non è come ora che fanno mezza giornata, no, faceva tutto il giorno, tutto il giorno, la mattina faceva, secondo di cosa gli toccava, la mattina faceva la prima… faceva la terza e il pomeriggio faceva la prima e viceversa l’anno dopo faceva [il contrario] ecco. Quelli che erano un po’ più grandi lo faceva la mattina e… e la collega lo stesso. Tutto il giorno a scuola, è
logico che io fui incanalata subito dalle suore finché poi dopo fece… c’era il Cardinale Maffi che fece l’asilo, fece l’asilo lì e seguitavamo a andà lì.
Giuliana: Ma poi mi riòrdo che noi siccome fra tanti un po’ po’ s’era malati, allora ‘ termometri che ‘un s’è spaccato ‘un glielo dico! ‘nsomma se n’è spaccati parecchi e poi mi ricordo c’era bisogno delle punture e io mi ricordo da bimbetta, allora ce le venivano a dare, chi le sapeva dare, diamine, e poi dopo, dai dai, cominciai presi questa siringa ‘n un guanciale, si provava a buà [bucare] un guanciale pe’…
Chiara: Per imparare
Giuliana: Sì, infatti io avevo quindici anni e imparai a dare le punture e da allora l’ho sempre date, l’avevo date anche sa Dio a chie! Sì allora c’era la siringa di vetro e non erano come ora <che> si prendano e si buttano via, l’aghi erano, si compravano, no lo stesso ago, tanti aghi ci voleva. Perché si bollivano, però poi quando erano usati due o tre volte andavano buttati via. E anche le siringhe io ne ho rotte tante (…) e si sa, da bimbette un po’, non c’è l’attenzione di quando siamo più grandi.
Milena: Io sono nata a Montemagno e sono stata, da bimbetta io amavo tanto ‘ cavalli, e mi’ babbo prendeva dei cavalli e poi li… rigovernava, così, li preparava e poi li rivendeva, ‘nsomma era, il mio babbo faceva un po’ esta cosa qui, prima, e… allora io avevo, a quel tempo quanto?… ott’anni, sì, ero sempre dietro, ero attaccata molto al mio babbo io e…gli stavo sempre dietro, e venne con questo cavallo che doveva passare un, in una strada, che aveva paura dell’acqua, c’era un bo… come un bozzo d’acqua,e allora mio babbo mi dette la frusta e gli feci…dice: “Tocca ‘l cavallo così fa il salto”
nel fa’ ‘l salto esto cavallo andò giù a questo burrone e ‘l mio babbo n’andò dietro reggendolo, capito? Reggendolo, io: “ ‘l mi’ babbo, ‘l mi’ babbo!” Cominciai a urlare “ ‘l mi’ babbo, ‘l mi’ babbo!” e… ne ebbi una malattia che non ho avuto figlioli. Dallo spavento del mio babbo io la mattina la mamma mi fece il bagno, la mia mamma e mi trovò un po’ la pancia gonfia e ‘nfatti mi fecero, allora c’era il dottor De Angeli e mi fece la puntura esplorativa e ci uscì l’acqua e quindi mi hanno dovuto curare per questa peritonite, che poi io sposata però la mia mamma dice che non l’aveva mai voluto sapere ma il professor Ferrarini, che in quel tempo era il più bravo diceva che: “Peccato che è una bimba” forse con quello aveva voluto dire che non avrei avuto figlioli. Tant’è vero quando io e il mio marito s’era innamorati, mia mamma glielo disse, dice: “ Io non l’ho mai voluto sapere però…” ma lui diceva che non gli importava, avrà avuto la speranza che poi glieli facessi, no comunque… ci sono vissuta bene, lui non m’ha mai detto, anzi ero io che ne [glie] lo dicevo: “Forse se lo sapevi, non m’avresti sposato” “Ma io t’avrei sposato anche dieci volte!” diceva sempre.
Erano in poche le bambine che avevano la fortuna di possedere una vera bambola, che il più delle volte era appartenuta alla madre, normalmente si ricorreva alle bambole di stoffa confezionate in casa
Rina: C’avevo ‘na vecchia bambola di mamma, che poi s’era tutta rotta, era di cartapesta, li s’erano rotte le mani, ma la faccia era bella, chi lo sa dov’è andata a finire… Avea cert’occhioni celesti…
Chiara: Ma di cartapesta?
Chiara: Ah, ceramica...
Rina: Eh, è una specie di ceramica... E poi me l’ero fatta da me di stoffa, la bambola.( …) ‘nvece a Livorno, poi s’andava a Livorno ar mare e passando sul piazzale c’era un mercatino, mi comprai una volta un lettino, per i bambolotti di celluloide... eh…era un bel lettino di ferro fatto con tutti i ricciolini
Chiara: Quella bambola è la sua?
Paola: Era della mi’ mamma, della mi’ nonna… e come si chiamava? Lina! Io l’ho conosciuta come Lina, sì, mi’ mamma diceva Lina.
Rosina A: I giochini fatti proprio… con le bambole oppure ‘ disegni per terra, con una, una ciarina [un dischetto di pietra] allora si diceva noi, la settimana… le bambole quelle già al tempo mio forse usavano un po’ meno, ma ‘nsomma intendevano di prende’ dei cencini e facevano la testa, poi l’occhini, le braccina, erano bamboline per…insomma per divertire un po’ i figlioli. I giochi erano all’aria aperta, a nascondino, ci si girava d’intorno, a ‘ quattro cantoni, e ‘nsomma tutti i giochettini
Fortunata: Si giocava con questi, noi generalmente da bimbetti si giocava… le bimbe si giocava con tutti questi ciottolini e con le conchine piccine così si faceva il bucatino, per i vestitini delle bambole. Le bambole ce le faceva la mi’ mamma, di stoffa, e poi le riempiva di segatura
Rosina: Come quelle che ci sono ora
Fortunata: Non c’era altro ci si metteva la segatura Rosina: Poi si giocava in terra a settimana, a saltare Fortunata: La fune era un’altra, si giocava a fune
Rosina: A rimpiattino. La sera d’estate quando si stava fuori era bello, perché prima si stava fuori, non c’era le macchine, si giocava per le strade
Fortunata: Noi ci s’aveva una scala grande fuori della terrazza sicché la gente passava, si fermava e si mettevano a sedere sugli scalini lì, passava altra gente della nostra vicinante [nostro vicinato] e tutti fuori lì a chiacchiera fino alle dieci, undici
Rosina: Era più bello d’ora. Ora c’è la televisione e…
Giuliana: Eh, la mi’ mamma, sì, quando poi s’era bimbetti così, mi ricordo s’era, eravamo contenti, ‘un ci s’avevano mai lì con noi , erano sempre a lavoro, a mezzogiorno ci si trovava a mangiare, la sera s’era tutti contenti, e ecco tutti uniti, era bello, sì. (…) E la sera, prima di tutto c’era il fuoco acceso perché non c’era niente riscaldamenti, e il lume perché ‘un c’era luce, ci s’aveva quei lumi a petrolio, poi dopo a carburo vennero, un puzzo! Affumicava tutto! Ma per… poi s’andava a letto presto perché… e d’estate allora magari uno stava fòri, al fresco, così, si par<lava>, sa, tra figlioli poi ci si diverte, queste cose qui, sì. (…) E si giocava a rimpiattino, queste cose vì [qui], e a quell’ora i nostri divertimenti erano quelli, ‘n c’era né televisione, ‘n c’era niente.
Chiara: Qualche bambola, forse
Giuliana: Ah, le bambole, sì, qualche bambola sì.
Più che i giocattoli si ricordano con piacere i giochi all’aria aperta, il ritrovo con gli amici d’estate o dopo la scuola; il momento del gioco è la prima opportunità per inserirsi attivamente nel microcosmo del paese, ne rimane
tagliato fuori chi, come Paola, poiché appartenente ad una classe sociale più alta, condivide gli svaghi solo con i propri familiari
Chiara: E invece dei suoi giochi?
Paola: E i giochi con mio fratello, mio cugino, con questa gente qui sempre. Chiara: Andava d’accordo con suo fratello?
Paola: Sa, da bimbetti…da bimbetti.
Chiara: Aveva un gioco preferito? Come giocavano le bimbe?
Paola: Come giocavano… con le bambole o… il solito. Rimpiattini, i soliti giochi.
Chiara: E qualcuna delle sue amiche se la ricorda? Ma, non saprei io, all’inizio, poi non è che ce n’abbia poi avute. Le mie cugine ci saranno state, si giocava un po’ insieme, più che altro con loro.
Anna A: Poi per divettissi c’era un gruppo di ragazze, no? Allora si giocava con le noci co’ ‘ bottoni, si tiravano, chi le tirava più forte, chi le…
Chiara: Come le biglie?
Anna A: Sì, e poi c’era la settimana, si faceva… e poi si cantava, la sera si faceva certi cori! E si cantava tutte le canzoni che c’erano a quell’ ora, eran belle, ora ‘n son più belle. Ci si radunava tutti insieme si faceva nascondino, si faceva… così, si faceva l’altalena con le fune, poi si saltava, così, questi i nostri divertimenti. Infatti tanti giovani, via giovanotti, ragazze ci si riuniva tutti nel mezzo di via Cava.
Rina: Ero ragazzina, no? Ero ragazza, c’era Ilva mi ricordo, Guidotti, con me, m’era venuta a trovare perché s’andava a scuola ‘nzieme, no? Allora nonna tutti i venerdì, venivano i soliti poveri, allora
c’erano ‘ poveri tra le quali la nonna di Bruna della bottega che aveva… Bruna la Ghegga, la Priscilla la chiamavano, è venuta anche lei e “Signora Eugeniaaa!”, la chiamavano, allora nonna metteva tutti soldi spiccioli sulla finestra, quando suonavano ‘i si tirava qualche cosa dalla finestra, oppure dalle scale se era la porta aperta e questa volta ‘uesta vecchiettina che mi pare era di Navacchio, veniva a piedi a fare ‘i giro a tutte le porte e... io penso guadagnav... ’nzomma, avevano poi alla fine, a tutte le porte, anche un centesimo, ora ‘un mi ricordo che soldi erano, soldini… erano dei soldini’ com’è? Che c’erano? Centesimi? Centesimi, le lire… e chesta vecchiettina così: “Fatemi la carità” faceva, io gliela tirai: “Nata d’un cane, m’hai acceàto un occhio!” l’avevo presa propio nell’occhio! Io e Ilva ci mettemmo... c’era, su quel canapè là, c’era la stanza di nonno con le bandiere, no? Ci mettemmo sur sofà a ridere, a ridere... ’un ze ne poteva più! … “Nata d’un cane m’hai acceàto un occhio!” S’era io e Ilva, si moriva dal ridere, mamma mia, non ci riusciva chetarci più. Era lei scema che non l’aveva chiappato!
La curiosità per un animale esotico chiama a raccolta i bambini che escono da scuola, il pappagallo brasiliano della testimonianza che segue, dopo aver subito gli sberleffi dei marinai, diventa oggetto degli scherni persino di un bambino con difficoltà di linguaggio che gli insegna una canzone che sfata ancora una volta il mito del bambino smaliziato e innocente. È il paradigma della crudele legge del più forte che permea ogni età della vita dell’uomo: in un ottica un po’ verghiana, il bambino logopatico schernisce l’unico più debole di lui, il pappagallo, il quale, non disponendo di un essere più debole
su cui rifarsi, non ha altra alternativa che fingere di essere un gatto e tentare la fuga
Rina: Prima s’andava a scuola…poi ci s’aveva il pappagallo, quando si sortiva da scuola tutti i ragazzi (ride) ci venivano dietro! Non lo sapevi del pappagallo? Ehhh! Erano scenate col pappagallo perché poi mi voleva bene solo a me; se io lo chiamavo gli dicevo “vieni!” e lui si metteva sul dito piano piano piano piano s’accovacciava qua (indica la spalla) e faceva “hehhhhhhhh!” (ride). L’aveva portato un signore dal Brazile in regalo a mio nonno. Aveva paura de’ berretti perché si vede…diceva nonno: “Si vede, durante il tragitto i marinai gli tiravano il berretto...” e come vedeva un berretto si faceva tutte le penne così “hehhhhhh!” era buffo! (…)Verde! C’avea delle penne gialle e rosse...era bellino! Aveva imparato ‘na canzoncina... veniva un cugino di mamma fratello di tutti i Cei, no? quelli del pane, ’nzomma, quelli là... che parlava un po’ male... e allora lui quando veniva faceva: “Povero Cecco!” gl’avea insegnato “ <Ho> fatto cacca e piscia a letto”! I ragazzi da scuola venivano perché lui poi quando vedeva qualcuno cantava ‘uesta canzoncina; poi faceva il verz’ al nonno; c’avevamo una gatta, che la chiamava Minina: “Minina!” quando la chiamava nonno per dargli da mangiare, “Vieni!” e lui aveva ‘mparato a chiamà: “Minina!”, “O dov’è la gatta?” allora si sentiva che lui faceva: “Mininaa!” La lingua bl-l-ll! Così con la lingua… <co>m’è buffo! “Fammi il verzo del gatto, come fa ‘l gatto? Miao!” e faceva: “Miao!” … “miao” proprio faceva, “miao!”. Un giorno scappò e montò sulla pergola e fra ’l verde delle foglie dell’uva ‘un si vedeva! Cominciò a fa’ il gatto… “Ah, costì sei?!”. Povera bestia... ’na botta... era sul trespolo, non si
sa... se dormiva, cosa successe… si sentì ‘na botta, s’andò a vedere era a terra morto.
Da che mondo è mondo i bambini sono golosi e, soprattutto in tempi di ristrettezze economiche, è facile che caramelle e frutti secchi diventino un premio agognato, in qualche caso un sogno proibito
Anna M: Io addirittura, i miei genitori, c’erano le bimbe che quando andavamo… s’andava sempre dalle suore, la domenica più che mai perché c’era da prende’ le funzioni, che duravano un’eternità, un’eternità, il vespro addirittura, poi sì, tutte le funzioni… però passavano le bimbe che avevano ‘ soldi ‘n tasca , passavano da un venditore che c’era lì nella piazza centrale, c’era un’omo chiamato Manino, la su’ nonna se lo ricorda, c’era esto Manino, che vendeva su un banchettino caramelle, mentine, seme, noccioline, tutte queste cose che per allora erano cose prelibate, e quelle che avevano la possibilità, che avevano qualche soldo in tasca se le comprava, e io mi ricordo dato che non me li davano, perché non me li davano, proprio per principio, a queste bimbe che avevano la fortuna di avere una caramella gli dicevo: “Mi fai fare una ciucciatina?”
Bianchina: Noi [lei e il fratellino] l’unica cosa che per Natale noi s’andava, mi’ padre andava al Rosselmini e scoteva tutte le pine, e il fattore dava le pine, noi si mettevan al foco, si mettevan sul foco, si allargavano, e si mangiava pinoli noi, l’unico sfogo era mangià ‘ pinoli, e basta, però la gola quando s’era mangiato pinoli…pe’ riempissi! ‘un c’era niente da mangiare, eh, oh! Mi’ padre poveromo
‘un lavorava, al cimitero in quel tempo di guerra non gli davano nemmeno cinque lire.
Chiara: Mi racconti di quando giocavi alla Certosa?
Rina: Ah. eh. Abbiamo conosciuto padre Clodoveo…eh... Che non ci si poteva entrare mi ricordo, mi misero una tuta a pantaloncino la prima volta, poi ci andavo sempre, così col nonno, perché nonno sapeva le lingue, nonno Arturo, sapeva il francese, sapeva l’inglese e quando veniva un frate nuovo lo mandavano a chiamare perché andasse a spiegare le cose secondo la lingua che era...
Chiara: Faceva il traduttore, l’interprete
Rina: Eh. Sì, ma ero piccola però, che s’andava là, ci metteva le pasticche di menta grosse così sopra le finestrine e dice, ci son le finestrine così per mettere il piatto da mangiare, no? Che bussano, quelli aprono… Ci metteva queste pasticche di menta e faceva: “Io so che la Befana ha portato qualcosa...” allora via a corza, s’andava a fare ‘l giro di tutte le finestre per trovare ‘ste pasticcone di menta!
Un giorno particolare era quello della Prima Comunione, sacramento che aveva luogo successivamente o contemporaneamente a quello della Cresima
Fortunata: Le prime scarpe per la Cresima io le ho avute, allora la Cresima ci si metteva presto, si faceva presto eh, non grandi come ora, Comunione Cresima insieme oppure si faceva la Cresima e dopo la Comunione
Rosina S: Non si faceva la Comunione se non s’era fatta la Cresima, prima era così. Io mi ci mise<ro>, a quattr’anni mi ci misero alla Cresima
Fortunata: Io invece ero già grande
Rosina S: La Comunione ci s’aveva il vestito bianco lungo, le scarpe bianche, belle, mi ricordo sempre, le scarpine bianche di pelle
Fortunata: I primi tempi usava le scarpe nere, nere di pelle lucida Rosina S: Non noi
Fortunata: No, non noi, mamma
Rosina S: Vestito bianco e scarpe nere perché bianche non usavano. Invece noi con le scarpe bianche. Ma pensa, noi ci s’aveva le calzine bucate [ricamate], mi ricordo,le calze fino quassù, bianche… che che ce le mettevano a fa’ col vestito lungo? Poi il velo….
Fortunata: I vestiti stretti stretti qui e poi larghi
Rosina S: Il mio invece era tutto a nido di vespa fatto, tutto a nido di vespa in vita, qui in fondo alle maniche era… e al collo non mi ricordo cosa c’era
Fortunata: Poi cominciò a usare i vestiti col cerchio in fondo, per allargarli, alla Comunione… si faceva a gara a chi lo faceva più bellino. E poi si faceva la festa a casa, la Comunione si faceva la mattina alle sette, dalle sei digiuni, e poi si faceva colazione tutti insieme e poi desinare, fra i parenti, la festa era per tutti.
Chiara: Il suo primo ricordo dell’infanzia qual è?
Auretta: Mi ricordo quando feci la Prima Comunione che, che anche quella la feci male io, perché era morto un nonno in casa, un fratello, e sicchè non ho goduto neanche quella. (…) Il primo [fratello] che era del dodici, cascò di bicicletta, s’ammazzò. Venendo giù da Tre colli così, c’era, ci stava un mio zio che qui alla Pieve aggiustava le biciclette no? Se mancava ‘ freni, se mancava, no? Gli dettero una
bicicletta che disse se n’a [gliela] portava a aggiustare, a accomodà quaggiù, e invece lui ci montò sopra, non c’era ‘ freni, quando arrivò che veniva ‘n su un camio o ‘l pulma ‘un lo so, pe’ cercà di scansassi, s’appoggiò al muro che laggiù c’era un burrone, cascò di sotto… a ventitre anni, aveva. N’aveva arrivato la cartolina doveva andare in Affrica, in Affrica militare, insomma lo richiamavano, era sotto le armi, invece s’ammazzò, all’ora che io avevo sett’anni, ecco però anche lì feci la Comunione fatta male ‘na ‘osa ‘on l’artra, era morto lui, era… sa… sicchè, ho cominciato sempre a sta’ male, (ride) feste poche… ‘un usavano!
Paola: La Prima Comunione io… La Prima Comunione mi ricordo questo, che io, la mia mamma me la voleva far fare a… dalle suore Giuseppine perché c’era stata anche lei, lei c’aveva studiato alle Giuseppine, e mi mandò a Pisa dai miei cugini e io lì mi prese un affare come ora [si riferisce alla tosse] mi ammalai e quando fecero tutte le bimbe non la potei fare. E allora una domenica dopo, insieme a una bimba che…c’era, non so se c’era dei contrasti fra i genitori, non so, affari così un po’, gliela volevan far fa’ da sé, mi misero inseme a quella bimba lì e mi fecero fare la Comunione insieme a quella lì. Vestita…col vestito lunghino, il velo, come queste bimbe così. (…) E la feci con questa bimba perché questa bimba, questi genitori, c’era questi contrasti non so cosa c’era, insomma, gliela volevano far fa’ per conto suo, era una bimba grande anche, era grandetta anche e allora me la fecero fare con, mi accoppiarono con quella lì.
La festa di sant’Ermolao, il patrono del paese, si aspettava con trepidazione più che il Natale. Le vie del centro di Calci sono punteggiate di bancarelle,
bambini e adulti curiosano tra le merci e spendono gli spiccioli messi da parte proprio per questa occasione. L’unica voce dissonante è quella di Paola per la quale la chiassosa fiera con i suoi giochi e i suoi venditori non era poi così attraente allora, così come non lo è ora
Chiara: E la fiera di Sant’Ermolao?
Paola: Sempre la solita, suppergiù sempre la solita, insomma le solite carrozzine, le solite cosine, l’ho sempre vista così io.
Fortunata: Eh, la fiera di sant’Ermolao, quella era meglio di ora. Gina: La prima domenica d’agosto
Fortunata: E c’era un po’ di tutto, allora i negozi anche per comprare le pentole, ste cose qui non c’ <erano>
Rosina S: C’era il banco delle pentole…
Fortunata: C’era ‘ maiali, c’era anche il reparto dove vendevano questi animali
Rosina S: Vestiari, vestiti, maglie, no?
Fortunata: Queste conche per il bucato…il lavello, allora non c’era mica in questa maniera qui, eh! Allora c’erano le pile di sasso e ci s’aveva ‘ catini di terra e ci…si teneva due, uno per rigovernare, l’altro per sciacquare, e si compravano nella fiera. Quando eravamo bimbetti c’erano ‘ ciottolini tipo così (indica un posacenere)
Rosina S: I ciottolini di terra
Fortunata: Fatti di terra, brocchine di terra cotta, vasini…
Rosina S: Il fischio! Si faceva fiiii! Il fischietto di terra. Le conchine anche…
Rina: Eh, prima era bella [la fiera], durava quattro giorni, il sabato c’era la processione già tutti i fischi, fiii! Fiii!... i ragazzi che compravano i fischi e invece niente, è finito tutto. Si sentiva la fiera... eh.
Chiara: Ma c’erano i banchi come adesso?
Rina: Tanti però, fino su al campo sportivo, allora la stazione, poi c’era nella piazza del Poggio c’era l’ombrellone, c’erano, eh… co’ cavalli. E giravano i bambini mon… salivano… la giostra! (…) La processione ‘l sabato andava fino a Castelmaggiore che dice c’era là la sorella di sant’Ermolao.
Chiara: E che si mangiava quand’era la fiera di sant’Ermolao?
Rina: Eh, un po’ di tutto... L’anatra, mi pare l’anatra era più… La nonna ci faceva guadagnare ‘ soldi per conservarli per sant’Ermolao, allora ci faceva levare i pinzi alle patate (ride), tutti i servizietti, no? E ci dava venti centesimi, andare a far la spesa, “Un centesimo, mettilo da parte, poi per sant’Ermolao…” ... bei mi’ tempi! Mah! E allora? piano piano passano... Ora pe’ sant’Ermolao ‘un c’è quasi niente, e lunedì era giorno di fiera e il martedì il fierino, lo chiamavano ‘l fierino perché allora venivano ‘ piatti, vendevano ‘ piatti quelli che urlavano, li mettevano insieme, li buttavano su per aria li richiappavano (ride).
Giuliana: La festa di sant’Ermolao, prima da bimbette, allora s’era contenti quando veniva sant’Ermolao perché ci portavano a vedere, c’erano tutti i banchetti, tutti i divertimenti, tutti queste cose qui, era, era una festa come ora può esse’… certo eh, sant’Ermolao ora ‘nsomma ai figlioli ‘un gli fa neanche… sì, divertimenti, ma poi, ma a quell’ora che non c’era niente era bello.
Ai tempi di scuola sono legati i ricordi più articolati, le narrazioni si fanno più lunghe, il discorso più autonomo.
La scuola materna era appannaggio delle Suore dell’Oasi del Sacro Cuore che accoglievano i bambini per l’intera giornata nella struttura riservata ai seminaristi di Pisa2; dietro il compenso di una piccola mensilità offrivano un primo piatto caldo, il secondo era invece a carico delle famiglie
Chiara: A ricamare dove hai imparato? Rina: Eh dalle suore!
Chiara: Lì a scuola?
Rina: Sì, eh, sì, ci facevano fare io mi ricordo il primo lavoro completo una mutandina fatta a mano, una mutanda fatta a mano. Chiara: Ma le suore erano quelle lassù?
Rina: Su! Lassù, sì. Al seminario, al seminario. Chiara: Al colle no?
Rina: Eh, là su.
Chiara: E passavate la mattinata lì e basta?
Rina: Eh, s’andava la mattina e si tornava..alle quattro, alle cinque.. D’inverno prima...e faceva...e s’andava io e Carolina,
la mattina c’era una... una ragazza diciamo invecchiata senza sposarsi, e cominciava a prendere i bambini dalla Corte e li portava
2
Anna M: al seminario che prima era chiamata Oasi del Sacro Cuore, era chiamato il seminario perché ci venivano i sacerdoti che allora c’erano più vocazioni, venivano nell’estate a…era del seminario quella cosa lì, del seminario di Pisa, e nell’estate
venivano questi probandi, chiamiamoli così, ma sa, venivano a flotte ce n’erano eh, penso che tante, come si può dire? Tante vocazioni fossero dettate dalla necessità (ride) non lo so, non lo so. Comunque dicevano: “intanto lì si mangia e ci facciamo una cultura che un domani può servire, senza pagà niente”, ecco che poi dopo magari lasciavano l’abito e…
fin lassù; si vedeva la mattina esta sfilata di bambini dietr’a questa Ida si chiamava… Ida… e li portava a scuola.
Chiara: E le suore erano buone?
Rina: Eran buone. (…) Si mangiava questa...<minestra> nelle scodelle tonde, no? fat<ta>...nelle tazze. Si mangiava il primo, quell’ era ‘l primo, e poi quello che si portava nel panierino... E Carolina poverina sempre pane e fichi secchi, poi c’era l’artra bambina che si chiamava Maria e avea perzo ‘l papà in guerra del ’15-’18 no? ...e...e la mamma gli metteva pane e insalata…sempre! Un cantuccio di pane con l’insalata dentro, condita!, però l’insalata, e allora noi una volta si chiese: ma perché quella mangia sempre pa…’ce perché la mamma è rimasta se… il papà non ce l’ha e la mamma va lavando per guadagnare qualche soldo va a lavare i panni alle persone; infatti c’era ‘n’ altro lavatoio laggiù sotto a…al seminario e lei lavava panni alle persone andava nelle case a prendere i panni sporchi, li lavava e poi glieli riportava asciutti e quello era ‘l lavoro… figurati un po’ quel che poteva guadagnare... e alla figlia gli dava ‘r pane con l’insalata condita dentro.
Delle insegnanti ci si ricorda persino il nome, temuta o stimata, la maestra diventa un punto di riferimento, un modello cui si aspira e del quale si ripetono gli atteggiamenti quando si gioca; c’è sempre qualcuno che si innamora della maestra, ma c’è anche chi narra sul suo conto storie dalle tinte fosche che non vengono smentite nemmeno da vecchi.
Nonostante la maggior parte degli insegnanti delle scuole elementari non fosse di modi particolarmente affabili, per molte bambine la scuola rappresenta una passione e l’opportunità di un riscatto sociale, per questo in
molte testimonianze si riscontra l’amarezza per aver dovuto interrompere il corso di studi per aiutare la famiglia con il lavoro che il più delle volte non era compatibile con i pochi ritagli di tempo libero che concedeva la frequenza scolastica
Rosina A: A scuola si andava, si faceva tutti la prima, la seconda, la terza, la quarta, la quinta andavano giù [dalla frazione di Montemagno a quella della Pieve], c’era due aule, una c’era due… prima e seconda, terza e quarta, poi la quinta andavano giù, io ho fatto la quarta qui a Montemagno.(…)
Chiara: Cosa insegnavano a scuola?
Rosina A: E insegnavano le cosine di quei tempi, e si cominciava perché allora a quel tempo mio non si andava all’asilo, no? Ora quando vanno all’asilo, quando alla scuola materna… si cominciavano le aste, le astine, e i puntini, anche i puntini sì, proprio. Chiara: E la maestra?
Rosina A: E la maestra veniva da Pisa, si chiamava Maria Gherarducci, quella che ho avuto io, e qui c’era dei signori proprietari che a quei tempi là, perché questa casa qui era di proprietà di un profess<ore>, ci han fatto un professore e un dottore, era una famiglia bene di quei tempi insomma questa casina, e allora qui c’era, ci stava la maestra dal lunedì al sabato, ava dato la sua retta, gl’avevano dato una camerina, e questa Maria Gherarducci ci faceva scuola a noi, una donnina con un ciuffino, bellina, minuta Chiara: Era buona o severa?
Rosina A: No, no era buona, questa Maria Gherarducci era brava. C’era quell’altra, come si chiamava? Boccolini…Boccolini e il nome?… Poi ne capitò una cattiva, che dice che con una seggiolata
aveva mezzo ammazzata anche su’ madre, e una mia sorella che era molto vivace, ci capitò questa maestra che eran vivace tutt’e due e n’ha toccate tante (botte) da questa maestra! Lei una bimba vivace molto che…e la maestra mezza mattarella, e poi si seppe, dice, che prendeva a seggiolate anche la su’ mamma. E questa Maria Gheraducci mi voleva bene perché… dico quel che ho saputo ora in vecchiaia da un’amica mia che veniva a scuola, lei pure alle elementari era una ripetente, la Bruna (…), s’era dal dottore, il dottor Colucci, e disse: “Vede dottore, quella lì –dice- quando s’annava a scuola l’avrei infilata!” “O cotesta?!” dissi io, dice: “Sa dottore perché? Ci fossi arrivata io a fare quello che faceva lei!” lei era un po’una signorotta di quei tempi, signorotta, c’aveva il babbo meccanico e ci aveva la casa di suo, era già... E lei dice: “Ogni volta che s’andava coi voti non raggiungevo mai i su’ voti e io non la potevo vedere” perché io andavo alle pecore, andavo a coglie’
Asia: Eh, sono andata, da bimba, sì, mi mandava a imparà a cucire, che io ho fatto la terza elementare e basta! Nemmeno alla quinta, mettiamo! Il diploma di quinta non ce l’ho.
Auretta: Io son sempre stata in casa, no, prima andavo a cucire, da un sarto, sì, da uomo
Chiara: Quindi prima al podere e poi a cucire?
Auretta: No, io no, non ci lavoravo, più che altro l’altre due mie sorelle e i fratelli, un pochino loro, io ero la più piccola e sicché andavo a imparare a cucire. Eh, ho fatto dalla prima fino alla quinta, son sempre stata promossa anche se non ero tanta brava (ride). Le maestre ce n’era più d’una allora, io ho fatto dalla prima alla quarta da una signora che si chiamava Giuseppina e la quinta dal suo
marito. Marito e moglie erano lui maestro e lei maestra, sì, Scaramelli si chiamavano, la Scaramelli.
Chiara: Classi miste?
Auretta: Le classi erano miste, sì, insomma, miste, la quinta era la quinta, la quarta era… eran divise… c’erano anche al pomeriggio, perché c’era i supplenti, se una magari la faceva la mattina, se mancava l’insegnante la facevano il pomeriggio.
Rosina S: Lei [la sorella Fortunata] quando eravamo… quando s’andava a scuola, noi s’è fatta la quinta elementare eh, lei la prima avviamento al lavoro…
Fortunata: Io la prima avviamento al lavoro
Rosina S: Non erano medie, allora si chiamava avviamento al lavoro Fortunata: Io avviamento al lavoro feci la prima, poi s’ammalò il mio babbo, c’era da raccattà l’ulive e mi levarono da scuola
Rosina S: Però lei voleva fa’ la maestra
Fortunata: Eh, mi garbava fa’ la maestra, andà a scuola e fa’…
Rosina S: Ci s’aveva noi un salottino su, a piano terreno c’era la cucina, su c’era il salottino, c’era la tavola com’è qui, le seggiole, la sentivi, noi eravamo giù, “Silenzio! Bimbi! Chetatevi!”
Fortunata: Sempre! A otto, otto nov’anni!
Rosina S: “Fate silenzio!” come faceva la maestra a scuola! Fortunata: Poi ho avuto tre figliole e si sono diplomate tutte e tre Rosina S: Ha fatto tutte e tre maestre… lei s’è sfogata con le figliole! Chiara: Dove avete fatto le scuole? Qui a Calci?
Rosina S: A Castelmaggiore… la maestra si chiamava… Todeschina! Tassi, oh, mi viene in mente anche il cognome!
Fortunata: E la mia si chiamava… Gina: La mia la Soldoni
Fortunata: Ah, la Soldoni, Adele Soldoni. (…) era una Pugliese, è andata in pensione a Castelmaggiore.
Gina: La mi’ sorella invece aveva la Giorgi
Rosina S: La Giorgi… Edoardo c’aveva la Giorgi! Che gli garbava a lui la Giorgi! ci s’era ‘nnamorato! (ridono)
Chiara: Le classi erano miste? Fortunata: Le classi erano miste, sì
Chiara: Ma erano anche di diversa età o…
Fortunata: No, no, la prima, la seconda, la terza…ognuno secondo…eran separati.
Chiara: Ed eran severe le maestre?
Fortunata, Gina, Rosina S: eh, sì eran severe! Mamma mia! a voglia! Fortunata: Con le bacchettine e chi…
Rosina S: No, io non ne ho mai prese
Fortunata: Eh, ma chi trasgrediva, gli faceva mettere le mani sul banco e…
Rosina S: E ‘un era mìa come ora!
Fortunata: O sennò mandavano a chiamare i genitori Chiara: Che forse era anche peggio
Fortunata: Eh! Le bacchette c’erano a casa!
Rosina S: Ma s’aveva una soggezione delle maestre, tutti alzati, quando veniva qualcuno in casa [classe], tutti zitti, non volava una mosca
Fortunata: Ora danno del tu anche ai professori! Rosina S: Per andà al bagno bisognava fa’ così Gina: S’alzava la mano
Rosina S: S’alzava la mano e si stava zitti, “vai” [diceva la maestra],se volevi andare in bagno.
Chiara: E la vostra materia preferita? Fortunata: Io matematica
Rosina S: Io italiano, io la matematica ero dura!
Gina: Io ‘n posso di’ niente: ho fatto la terza e basta! (ridono) Che passione potevo avere?! La terza e basta, Milena solamente…anche Grazietta eh! Sempre tra ‘ campi
Rosina S: Eh, c’avevate le pecore Gina: Eh! Diamine, le pecore!
Rosina S: Eh i bimbetti li mandavano…
Gina: Eh, ‘un avevo avuto tempo di prende’ la strada (ridono) Fortunata: Sembrano quasi cose impossibili
Rosina: Sembran novelle
Gina: Dice bene la mia sorella Grazietta: si sente di’ degli Albanesi? Dice: “Perché? Noi siamo stati meglio degli Albanesi? No!” non proprio!
C’era anche qualche famiglia che poteva permettersi di istruire i propri figli a casa, privatamente
Paola: La scuola io ho fatto l’Istituto Britannico a Firenze prima, e poi feci questo corso a… a Roma, e vinsi questo… questa borsa di studio, e poi mi iscrissi alla scuola di servizio sociale.
Chiara: Ma non ha studiato qui a Calci? Non so, dalle suore...
Paola: No, no, noi si faceva la scuola privata in casa, le elementari private in casa, e poi le medie a Pisa, s’andò a Pisa noi, e presero una casa a Pisa e si fecero a Pisa.
Chiara: Quindi le elementari in casa privata, e chi veniva a farle lezione?
Paola: La maestra, c’era una maestra che veniva, si chiamava… come si chiamava? La madre del dottore laggiù, come si chiamava?
Come si chiamava il dottore? Quelli laggiù che stavano…La figliola c’è sempre, la… Scaramelli! Era lei, la Scaramelli, faceva lezione a tutte le meglio famiglie di Calci, poi dopo di noi, si vede aveva preso l’esempio da noi, andò da Giulio Ruschi, poi andò da Annamaria Giunti, poi insomma tutti i privati.
Chiara: E si ricorda che cosa le faceva fare?
Paola: Eh, la sera faceva lezione, veniva la sera, la mattina c’aveva scuola, di pomeriggio faceva queste lezioni private perché anche loro erano domestici, allora il figliolo studiava, si vede anche loro ave<vano> un po’ bisogno di guadagnare e tirà avanti, c’avevano anche la figliola.
Un momento di svago per bambine e genitori era quello della preparazione della recita organizzata nelle scuole per festeggiare il Natale o nei sanatori per regalare qualche momento spensierato alle degenti ed ai loro parenti. Recite e poesie rimangono impresse in maniera pressocché indelebile nella memoria a lungo termine
Anna M: E mi ricordo che alle suore per dargli aiuto perché non è come ora che vogliano i contributi per le scuole… allora facevamo le recite, eh , si recitava, si recitava e veniva, venivano saloni affollati a vederci recitare, perché in quel tempo ‘un c’era niente, era un divertimento fuor della norma, e aiutavamo le suore in questo modo, ‘nzomma, non è che si facesse sempre le recite, comunque nel periodo del carnevale, nel periodo precedente, che precedeva il Natale, ‘nzomma facevamo le recite noi bimbe, io mi ricordo che ‘nzomma riuscivo abbastanza bene sicché ero quasi sempre la
protagonista di alcune commediole. E ‘nzomma facevamo queste cose sempre per dare aiuto alle suore.
Rosina A: S’andava a scuola, si faceva le nostre cosine, e appunto io riuscivo sempre bene, ero sempre soddisfatta, e poi quando s’andava, si faceva il presepe, per Natale, a scuola si faceva il presepe, bellino si faceva in un angolo tutto il presepe, e poi tutti ci si diceva la nostra poesia, e quella me la ricordo sempre, poi venivano anche i genitori a vedere questa piccola festicciolina e tutti portavamo un oggetto per donarlo al Bambino, io c’avevo una gallina in un cestino, viva, una gallina piccolina l’avevano messa in un paniere e l’avevano legata proprio sopra con la testina fuori, poi c’era un’altra, l’Erica c’aveva un’altra una formina di formaggio, quest’anno me lo ricordo, poi chi c’aveva una cosa e chi un’altra, e io dicevo, quando toccò a me, dicevo : “ Ed ecco la gallina con in testa il ciuffetto, era la prediletta, ma per il Santo Fanciulletto volentieri me ne privo, e tu che doni al bambino?” . E poi un’altra volta si, c’era le poesie e si diceva l’addio all’anno vecchio, anche questa me la ricordo: “l’anno vecchio se ne va e mai più ritornerà, io gli ho dato una valigia di capricci e impertinenze, di lezioni fatte male, di bugie, disobbedienze, e gli ho detto: “porta via! questa è tutta roba mia!” anno nuovo avanti! Avanti! Ti fan festa tutti quanti, agli amici e ai genitori rendi lieti i loro cuori, anno nuovo benedetto, d’esser buono ti prometto!” che buffoncella eh?! Perché mi ricordo più, delle volte, le cose di quei tempi che le cose che ho mangiato ieri sera. Sì e poi , ho detto, non sono mai stata bocciata alla scuola.>>
Milena: Da bimbetta, l’ho detto, stetti male, e poi sono stata, mi ordinarono il mare ma il mio babbo aveva amicizia con la Casini che in quel tempo c’aveva il figliolo (…) e invece di un mese mi ci tenne
quasi un anno, il professor Ferrarini, ci stetti quasi un anno… a Marina bocca d’Arno, erano come un ospedale, ecco, poi le bombe tirarono giù tutto. E io stavo dalla parte dei malati e poi la profilassi era la parte dove stavano meglio, dopo qualche mese mi mandarono di là ecco, e lì cominciai a recitare (ride), sì, perché c’era le ragazze più grandi, io ‘un volevo mai fa’ la, la cameriera, la donna di servizio, volevo fa’ sempre la signora! (ride) Sì, mi garbava fa’ la signora, e stetti un anno a Marina e recitavo (…) allora il mi’ babbo, poverini, venivano da Montemagno col cavallo, ‘l barroccino, soffrire tutto quel freddo, e poi io ero a recitare e loro poverini li mettevano in prima fila e ci stavano poìno. Si recitava le recite che ci insegnavano loro, no? Mi ricordo una volta io feci una recita, Adolfo [il marito] diceva: “Fammela un po’ come faceva” e allora era delle amiche, io c’avevo, ero fidanzata con un ufficiale…sempre pezzi grossi perché io volevo sempre… (ride) e allora la mamma, la mamma la faceva questa signora qui che… Armida, faceva la mamma mia, e allora lei invitava le amiche e… No, le facevano belline, sai? Teatrini bellini… E la mamma mia invitava altre ragazze mi venissero a trovare perché io non volevo più uscire perché m’era… Non avevo più notizie del fidanzato, hai capito? E allora io ‘un volevo più uscire, e allora… Fiorello si chiamava e c’era una bella fotografia di un giovane ufficiale, le preparavano bene perché… ma ‘un s’ andava mica dov’ero io, eh, a recitare, s’andava allora si diceva ‘n quel tempo laggiù da padre Agostino,no? (…) noi s’era a Bocca d’Arno e si diceva, a piedi, eh, ci s’andava! Era tanto più lontano. E il mi’ babbo poverino per vedermi mi venivano a vedere recitare, quando era la domenica ‘ [che] toccava la recita io dovo [dovevo] recitare! E allora mi venivano a trovare est’amiche, mi consolavano, e allora io dicevo, come la feci bene esta parte! Che era tutto ‘l teatro ‘n piedi, allora Adol<lfo> diceva:
“Come dicesti?” e io facevo, parlavo con quest’amiche perché mi, mi, erano loro che mi interrogavano e io dicevo: “No, no, è impossibile, io non posso uscire” e poi feci a un certo momento: “Ma tu…” io mi chiamavo Annabella, senti ‘he nomi eh! E Fiorello lui, che quando vedo Fiorello3 mi viene sempre in mente! (ride) e io lì piangendo feci: “Ma tu Fiorello l’ami sempre la tua dolce Annabella?” (ride) dice che la feci tanto bene questa parte! Tutti in piedi allora ‘l mio babbo lì, proprio, capito? Piangendo io, così, ma mi venne proprio da piangere, non è che mi ci mettessero la roba perché piangessi, m’ero proprio immedesimata e poi vedè il mi’ babbo, la mi’ mamma, ‘nsomma non lo so, ma dice che la feci proprio bene questa parte, piangendo quasi!
Il termine “infanzia”4 indica letteralmente il momento in cui “non si parla”, ma più che indicare un’incapacità linguistica, si riferisce al “non avere voce in capitolo”. L’infanzia finisce, convenzionalmente, a dodici anni. Dodici anni è l’età in cui, secondo la tradizione cristiana, Gesù parlò nel tempio tra i dottori, il momento in cui lascia le vesti di bambino per indossare quelle del Messia. Non a caso, per ovviare all’inconveniente dell’individuazione di un termine post- quem da cui far partire l’autorità divina, i vangeli apocrifi presentano un Gesù bambino in fasce già parlante.
Il bambino ripete poesie, simula i discorsi durante il gioco, fa domande; Di contro l’adulto è colui che ha facoltà “di dire la propria” per questo motivo
3
intende il conduttore televisivo
4
“Infante: dal latino infans da in- negativo e fans, participio presente di fari parlare.” Dizionario etimologico, edizione aggiornata, Rusconi libri, 2004, Trento
un bambino che “discuta” crea stupore e viene catalogato come un bambino particolarmente “sveglio” o capriccioso.
Nella testimonianza che segue, Bianchina, che all’epoca dei fatti narrati doveva avere intorno ai nove anni e il fratello tre di meno, racconta di come, in occasione della sprezzante provocazione di alcuni parenti, si sia comportata “da adulta” con l’approvazione del fratellino
Bianchina: Ora ‘na volta mi’ padre aveva franto…siccome io birbante, ero anche birbante, e venne i parenti da Titignano, Titignano sai dov’è? Per andare a Pisa…Navacchio, quei posti lì, erano possedenti, avevano un podere, avevano dei fagioli, c’avevano di tutto, grano granturco, ma però non…
Valentina: Non sganciavano
Bianchina: ‘na volta vennero, no?, a casa mia, si vede seppero che aveo franto, mi’ padre siccome era un po’… bono… vennero loro, Morino si chiamava, Morino mi riòrdo era, eh. ‘ce: “Sai Marino, ho brezzato tre quintali di fagioli” brezzato vuol dire che l’aveva sgusciati, messi al sole, e poi co’… co’ la pala la tira su e il vento porta via le foglie e rimane… è la brezzatura perché poi li fai seccare al sole e poi li mettono, li mettono nei granai, (…)E lui venne lì dice: “Sai Marino, ho brezzato tre quintali di fagioli che sembra amido” io mi scappò la pazienza: “Io ho franto –gli dissi io- due barili d’olio ma ‘un te ne do nemmeno tre gocce per isfà [disfare] ‘l mal d’occhio!”. Loro si guardarono come di’ “Ha capito che noi s’è presa quasi pe’ i’ sedere” perché vieni i casa mia, sai che c’è la miseria, porta ‘na menata di fagioli, mi’ padre poi è costretto, se voleva a datti una bottiglia d’olio. Allora lui mi disse, dice: “Mamma mia
Marino, o cos’ha la tu’ figliola?” ‘ce: “La mi’ figliola è più furba di me, perché io t’avrei dato anche una bottiglia d’olio ma non te la do perché a venì ‘n casa mia a di’ este cose qui, lei siccome sa che non c’è nemmeno niente da mangiare” capito? Io, allora il mi’ fratello mi riòrdo dice: “Hai fatto bene: si deve morire di fame però nemmeno di dire che loro vengano a portarsi via l’olio” perlomeno prendi dieci etti, cinque, du’ lire, cinque lire, cinque centesimi a quei tempi, niente! Loro pensavano di venire a casa da me a prendemmi per il sedere, e dissi: “ ‘un ti do nemmeno tre gocce d’olio per isfà il mal d’occhio!” Allora s’usava isfà il mal d’occhio, lo sai come si fa? Chiara: No, non lo…non lo so come si fa
Bianchina: Allora nell’antichità si prendeva, anche ora lo fanno, una scodella coll’acqua, ci si metteva tre gocce d’olio, se queste gocce d’olio si sfacevano, vuol di’ che quella aveva il mal d’occhio. Allora usava a que’ tempi farlo. Io dissi: “Allora mi’ padre ha franto due barili d’olio, ma ‘un ti do neanche tre gocce per isfà il mal d’occhio” basta. Loro si guardarono, dopo poìno ‘ce: “Via, noi si va via, eh?” via andate e sortite un po’, un po’ da’ coglioni così… proprio parlando… eh! vieni a prendermi in giro ‘n casa mia, sai le condizioni che sono, c’ho du’ figlioli in tenera età…
Ventina: …Porta qualcosa!
Bianchina: Ecco! Poi perché, si dice, l’amicizia si mantenga un regalo vada e uno venga, no soltanto per prende’! Ecco.