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Storia delle ricerche nella regione del Fezzan (Libia)

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Academic year: 2021

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Storia delle ricerche nella regione del Fezzan (Libia)

«I francesi chiamano il primo incontro con il deserto “le baptême de la solitude”. E’ una sensazione unica, che non ha nulla a che fare con la malinconia, perché la malinconia presuppone la memoria, mentre in questo paesaggio completamente minerale, rischiarato dalle stelle come fuochi artificiali fissi, persino la memoria scompare e non resta altro che il vostro battito del cuore e il vostro stesso respiro a tenervi compagnia» (Paul Bowles).

La traduzione letterale del termine “Sahara” risulta essere “il vuoto”, pur se mai definizione fu meno appropriata;

chiunque infatti abbia avuto, durante la propria vita, la grande e meravigliosa occasione di compiere un viaggio nel deserto, può confermare questa impressione: non esistono al mondo tanti altri luoghi che, come questo, possano arricchire il genere umano con la loro essenza.

Tutto ciò doveva già sicuramente essere chiaro ai primi temerari esploratori di epoca moderna i quali, a partire dai primi anni del 1800, furono così irrimediabilmente attratti

Libia, collocazione geografica

(Castelli Gattinara, 1998)

Area del Fezzan (Di Lernia)

Distesa desertica Tadrart Acacus, sud

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dal fascino di questi luoghi remoti e dal sapore esotico, da essere addirittura disposti a mettere a repentaglio la propria vita, camuffandosi da mercanti arabi, per seguire le carovane di tribù nomadi. E’ questo il caso del tedesco Friedrich Hornemann il quale, partendo dal Cairo, raggiunse l’oasi libica di Murzuq, dove per primo raccolse numerose informazioni sulla regione desertica del Fezzan (da “Phazania”, nome con cui i Romani indicavano l’area abitata dalla mitica popolazione dei Garamanti), che occupa l’intera zona sud-occidentale della Libia e che per lungo tempo fu una delle principali vie di comunicazione fra l’Africa centro-meridionale e il Mediterraneo. Trascorsi circa vent’anni, gli inglesi Joseph Ritchie e George Francis Lyon proseguirono l’esplorazione di questa zona tentando invano di spingersi fino a Ghat, località al confine meridionale con l’Algeria, ottenendo però solo notizie sull’oasi e non il permesso per accedervi. I primi europei ad entrare a Ghat furono poi altri inglesi, Walther Oudney, Hugh Clapperton e Denham Dixon. Bisogna tuttavia attendere la coraggiosa spedizione attraverso il deserto nord africano dell’inglese James Richardson e dei tedeschi Adolfo Overweg ed Heinrich Barth, durata ben sei anni (1849-1855), per avere finalmente notizia della presenza di manifestazioni di arte rupestre in quest’area; a questo proposito ecco cosa è possibile leggere nel diario di Barth, unico sopravvissuto al viaggio, a proposito delle incisioni da lui viste nella valle di Bergiug, a sud di Murzuq:« Pur non trattandosi di opere d’arte eseguite in modo perfetto, tuttavia queste sculture non erano semplici segni ben evidenziati; erano eseguite da una mano ferma e sicura, perfettamente esercitata a questo tipo di lavoro. [...] E’ evidente che un barbaro, non conoscendo la tecnica del disegno e non essendosi mai esercitato, non sarebbe stato certamente capace di incidere sulla pietra queste strane figure con tale precisione e sicurezza. [...] Forse è possibile far risalire l’incisione agli antichi abitanti di queste zone, ai Garamanti». (Castelli Gattinara, 1998)

A partire da questa segnalazione numerose altre vennero riportate, a questo proposito, da viaggiatori in territorio sahariano per tutto il corso del 1800, pur se la loro collocazione temporale non risalì mai oltre i confini dell’epoca storica.

Solo a partire dai primi decenni del 1900 iniziò a prevalere per queste opere parietali un interesse più approfondito e scientifico, che si concretizzò in varie spedizioni e missioni di studio in tutta l’area interessata da questo fenomeno; tra queste ultime verranno prese in considerazione principalmente quelle rivolte alla regione del Fezzan.

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veterano delle esplorazioni, con lo scopo di approfondire le ricerche del suo noto predecessore Barth. Dopo aver indagato l’area dello Uadi Tilizzaghen, il suo interesse si indirizzò verso gli uadi di In Abeter e Bergiug, nella valle del Mathendush, situata a nord di Murzuq, nei quali localizzò e documentò numerosissimi graffiti considerati ancor oggi unici per bellezza; ciò, secondo lo studioso, che si limitò nella sua opera a osservazioni e annotazioni scrupolose, non classificatorie, poteva essere attribuito alla posizione delle incisioni in una “zona di frontiera”, possibile frutto perciò di influssi diversi.

Nel medesimo anno, in seguito all’occupazione italiana dell’area libica, iniziò la lunga serie delle missioni scientifiche italiane, promosse dalla Reale Società Geografica Italiana; esse vennero organizzate secondo un metodico piano di ricerche nel territorio del Fezzan e delle oasi di Ghat, procedendo con l’invio di numerosi gruppi composti da pochi specialisti nell’arco di tempo di alcuni anni, piuttosto che concentrando le ricerche in un’unica, colossale spedizione. La prima spedizione, partita immediatamente in seguito a questa decisione, era composta dal professor Lidio Cipriani e dal dottor Antonio Mordini, con lo scopo di raccogliere materiale per studi di tipo antropologico ed etnografico, poi destinato a Istituti e Musei universitari; essi percorsero migliaia di chilometri e individuarono per la prima volta in quest’area alcune incisioni interpretate come carri da guerra trainati da cavalli, attribuiti ai Garamanti.

Il successo della prima missione fu eguagliato nell’anno successivo, il 1933, da quello della seconda, condotta dal dottor Roberto Corti e dal professor Paolo Graziosi, uno dei più celebri e importanti studiosi in campo di arte preistorica, per effettuare indagini nei settori della preistoria e della botanica. Quest’ultimo era particolarmente interessato a ritrovare la zona archeologica segnalata da Mordini, per fotografare e riportare su lucidi pitture e graffiti, oltre a raccogliere manufatti in pietra su cui in seguito compiere studi approfonditi; pur in un contesto di notevole difficoltà egli riuscì quindi a visitare numerose stazioni rupestri effettuando il periplo dell’altopiano montuoso del Messak, fra Murzuq e Ghat, e ad elaborare, al rientro in Italia, le prime teorie a proposito dell’arte preistorica sahariana, approfondite nel corso degli anni successivi, come vedremo, grazie ad altre numerose spedizioni in questo luoghi.

Ricerche di tipo zoologico, parassitologico, biologico e medico furono invece oggetto della terza missione, guidata dal professor Edoardo Zavattari e dal dottor Vittorio Erspamer.

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Un’indagine approfondita in campo propriamente archeologico fu condotta dalla quarta missione, composta dai professori Biagio Pace e Sergio Sergi, e dal dottor Giacomo Caputo, che consentì lo scavo e lo studio di resti scheletrici in necropoli sia presso Murzuq che presso Ghat.

Le ultime due spedizioni, di cui una, guidata dal professor Giuseppe Scortecci e dal dottor Roberto Corti, con finalità di ricerca in campo zoologico, e l’altra, condotta dai professori Francesco Beguinot, Elio Migliorini ed Emilio Scarin, indirizzata allo studio delle iscrizioni rupestri in caratteri tifinagh (la lingua scritta della popolazione tuaregh) e alle condizioni antropogeografiche della zona, contribuirono ad ampliare ulteriormente i settori di indagine.

Nel complesso quindi, queste prime missioni italiane, per quanto chiaramente limitate per disponibilità di mezzi e di tempo, contribuirono notevolmente ad arricchire le conoscenze scientifiche su un territorio decisamente vasto e in buona parte sconosciuto. All’incirca negli stessi anni, e precisamente nel 1935, anche Ardito Desio, grande conoscitore dell’intera regione libica grazie ai numerosi viaggi precedentemente e successivamente affrontati in quest’area, si recò nel Fezzan con lo scopo di compiere ricerche geologiche; il successo di queste ultime fu poi coronato l’anno successivo con l’organizzazione del primo nucleo di un museo naturalistico, oggi parte del Museo di Tripoli.

Proprio per iniziativa del Museo Libico di Storia Naturale Paolo Graziosi ebbe nuovamente l’occasione, nel 1938, di tornare ad esplorare la zona, spedizione seguita l’anno successivo, da una seconda e ultima, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, questa volta sotto gli auspici della Mostra Triennale d’Oltremare. (Castiglioni, Negro, 1986)

Lo scoppio della guerra costituì necessariamente una battuta di arresto nelle ricerche, che però vennero riprese con grande successo a partire dal 1955. In quell’anno giunse a Ghat un giovane ricercatore, Fabrizio Mori, il quale, con la scusa di curare grazie al clima favorevole di questi luoghi una malattia polmonare contratta durante la guerra, intendeva in realtà indagare a fondo la zona, in particolare il Tadrart Acacus; in base ai racconti di un ex capitano dell’esercito che aveva partecipato alla breve occupazione italiana della Libia, egli si era infatti convinto della possibilità di individuare le tracce di antichi abitatori dell’area, nonostante l’impresa gli fosse stata fortemente sconsigliata da tutti, e in particolare dal suo maestro di studi Paolo Graziosi, dal momento che in quel

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L’impresa si rivelò invece ricca e feconda di risultati, al punto che venne ripetuta in numerose campagne successive, compiute negli anni 1956, 1957-58, 1960-61, 1962-63, 1964.

Inizialmente a causa della scarsa accessibilità della zona, soprattutto per quel che riguarda il versante ovest, lo studioso penetrò all’interno del massiccio a dorso di cammello, tramite l’unico punto di accesso a sud di Ghat; solo in seguito egli individuò un passaggio che consentiva il transito di automezzi, la cosiddetta “pista Mori”, che partendo dall’oasi di Serdeles/El Awaynat (a nord di Ghat) e percorrendo la pianura alle pendici orientali della catena, conduce all’imboccatura del massiccio tramite una delle numerose valli che lo incidono da ovest a est. (Castelli Gattinara, 1998).

Dal 1970 iniziarono poi le missioni congiunte dell’Università di Roma “La Sapienza”e del Dipartimento di Antichità di Tripoli, sotto la guida del professor Salvatore Puglisi, con indagini mirate ad una ricostruzione integrata, utilizzando quindi sia i dati rinvenuti nell’esplorazione dei depositi archeologici, sia quelli desunti dall’osservazione e dallo studio delle rappresentazioni artistiche; questo chiaramente implica una strategia di approccio di tipo multidisciplinare (scienze naturali ed interpretazione etno-antropologica) (Barich, 1987a), mantenuta tutt’ora nelle missioni condotte annualmente da Mario Liverani e Savino Di Lernia, in collaborazione con altre università italiane e l’Unesco, che dal 1985 ha dichiarato l’area indagata patrimonio culturale dell’umanità.

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