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6 Legislazione di riferimento

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Academic year: 2021

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6 Legislazione di riferimento

Il lavoro è strumento fondamentale di costruzione del diritto di cittadinanza, elemento cardine dell’identità di ogni soggetto e fattore indispensabile di socializzazione.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “si intende per handicap una condizione di svantaggio vissuta da una persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità, che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona. (…) L’handicap rappresenta pertanto la socializzazione di una menomazione o di una disabilità (…)” .

Sulla base di questo approccio il percorso che dovrebbe condurre all’inserimento o al reinserimento nel mondo produttivo di un soggetto portatore di un deficit è ricostruibile come un itinerario che parte dall’individuo e dall’analisi delle sue attitudini e delle sue competenze residue e che, in parallelo, assume come riferimento costante il contesto nel quale il soggetto opera o potrebbe operare. L’obiettivo è nella traduzione delle capacità e delle attitudini in abilità o competenze e nel loro riconoscimento e valorizzazione da parte dell’ambiente sociale.

Questa logica di percorso, che è nel contempo effetto e causa di una nuova rappresentazione sociale della persona disabile, la quale da utente da assistere diviene cittadino da promuovere, è accolta ed articolata nella legge 12.3.1999, n. 68 recante: “Norme per il diritto al lavoro dei disabili” e rappresenta in definitiva una nuova interpretazione del welfare-state, maggiormente rivolto ai bisogni di questi cittadini.

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La legge n. 68, si è operativamente avviata solo di recente, dopo un lungo lasso di tempo in cui si è scontata una complessiva inadeguatezza delle politiche, dei servizi e degli strumenti normativi ed operativi, con la conseguenza di lasciare inappagati molti dei bisogni delle persone disabili. La normativa introdotta dalla legge 68 rappresenta una profonda innovazione nel settore della integrazione lavorativa dei disabili, introducendo una disciplina ispirata al concetto di “collocamento mirato”, cioè individualizzato, in rapporto alla concreta capacità lavorativa del singolo soggetto disabile, ed affiancando agli strumenti che impongono un obbligo (quote di riserva sulle assunzioni) la previsione di misure di incentivazione per le imprese.

L’apporto innovativo più rilevante contenuto nella nuova legge riguarda il passaggio da una modalità di inserimento impositiva ad una modalità consensuale attraverso forme di inserimento mirato, individuazione di percorsi personalizzati volti a massimizzare le capacità lavorative della persona e, di conseguenza, il grado di funzionalità e operatività nell’ambiente lavorativo.

Cambia, dunque, profondamente l’approccio: le persone disabili da utenti da assistere divengono soggetti che hanno diritto al lavoro, cittadini da promuovere che possono costituire una risorsa per la collettività, valorizzandone capacità e competenze lavorative, mettendo in campo, in definitiva, una nuova interpretazione del welfare-state, più rivolto ai loro bisogni e, sicuramente, meno oneroso per la collettività. L’impianto disegnato dalla legge 68 è in grado di offrire un ventaglio di grandi opportunità, ma richiede notevoli assunzioni di responsabilità per tutti i soggetti istituzionalmente coinvolti.

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In definitiva tutti i soggetti interessati dovranno mettersi al servizio delle persone disabili piuttosto che erogare adempimenti e procedure burocratiche.

Il tasso di disoccupazione dei disabili è attualmente particolarmente elevato: gli occupati, al 30.06.1999, erano stimati intorno a 256.000, a fronte di circa 344.000 iscritti nelle liste del collocamento obbligatorio.

Il sistema di protezione sociale nell’ ultimo decennio si è gradualmente trasformato da una struttura di welfare redistributivo, e di tipo assistenziale, ad un welfare-state sociale che promuove interventi di politica attiva, sostenendo la partecipazione dei cittadini.

Nel corso del 2000 l’ Italia è stata investita da un’ ondata di leggi e provvedimenti riguardanti l’ istruzione, la formazione, l’università, la ricerca scientifica, il lavoro e l’ occupazione, l’ assistenza e la sanità, la previdenza e la protezione sociale.

Per il contesto che è stato assunto come riferimento per la stesura di questo progetto, “la legge quadro n. 328/00

rappresenta un caposaldo che detta precise indicazioni sui principi per la realizzazione di un sistema integrato d’interventi dei servizi sociali.

L’intento della normativa è di restituire credibilità, prestigio ed efficacia alle politiche sociali presentando un modello di assistenza sociale completamente nuovo .

La parte innovativa della legge consiste sopratutto nella scommessa di fare della sussidiarietà lo strumento per sostenere e diffondere tra i vari soggetti operanti nel settore la concezione della “rete” del sistema dei servizi sociali,

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come concezione organizzativa del sistema integrato sul territorio.

E’ nella dimensione locale che si gioca con forza l’ effettività del sistema di protezione del welfare sociale.

La dimensione cittadina nella quale si diffondono i nuovi bisogni di protezione e di sicurezza sociale, si configura in un modello di Welfare locale dove lo Stato non è più il vertice dell'organizzazione del benessere, e l’ implementazione delle politiche sociali si basa sullo sviluppo dei processi di interscambio e ottimizzazione delle risorse dei tre settori: Stato, mercato del lavoro e terzo settore.

Di particolare importanza è il principio di sussidiarietà verticale, secondo il quale lo Stato assume un ruolo, appunto, sussidiario rispetto agli enti locali, conferendo al governo locale, ampi margini di autonomia, in applicazione dei criteri di efficacia, di economicità, di pubblicità e di efficienza dell'azione amministrativa.

Al contempo viene ribadito il ruolo della sussidiarietà degli enti locali nei confronti delle formazioni sociali, secondo il principio di sussidiarietà orizzontale che regola appunto i rapporti tra gli enti locali e i cittadini associati o singoli. Affinché tali principi normativi siano realmente efficaci dovrebbe essere svolto un lavoro di continua integrazione tra i due principi, secondo una visione unitaria e flessibile dell'insieme delle funzioni assegnate ai Comuni, Province e Regioni; il rischio altrimenti è quello praticare un modello dualistico, con scarsa comunicazione tra i vari livelli di competenze amministrative.

Gli enti locali, con l’applicazione delle leggi Bassanini (legge n. 50/99; legge n. 127/97; legge n. 191/98, con le

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rispettive leggi delega decreto legislativo n. 112/1998) e con la legge sull'autonomia degli enti locali (legge n. 142/90 e legge n. 265/99) e da ultimo la nuova legge quadro sul sistema integrato di interventi e servizi sociali, appunto la legge n. 328/00, si configurano tra i principali attori locali nell’ implementazione delle politiche municipali di sviluppo e promozione del benessere cittadino. I Comuni in qualità di enti territorialmente vicini alle problematiche sociali cittadine e in quanto titolari delle funzioni dell'offerta dei servizi sociali, diventano i principali protagonisti della programmazione e implementazione delle politiche sociali municipali, definendo gli obiettivi strategici a medio e a lungo termine, le metodologie di intervento consolidate e sperimentali, sulla base dei risultati dell'analisi dei bisogni della popolazione e con l’ obiettivo di rendere concretamente fruibili i diritti di cittadinanza.

Nel nuovo quadro normativo il Comune assume, quindi, un ruolo fondamentale di coordinamento e di regia tramite l’ adozione dei Piani sociali di zona, che rappresenta l’ elemento maggiormente innovativo della legge quadro.

Lo sviluppo del welfare state in Italia, ebbe inizio nell’ ultimo ventennio dell’ ottocento, periodo in cui emerse con forza la questione sociale e in cui fu emanata, dall’ allora Presidente del Consiglio Francesco Crispi, la legge sulle istituzioni pubbliche di beneficenza del 17 luglio 1890 n. 6972, che per la prima volta organizzò tutto il settore assistenziale.

Sebbene questa legge risalga a più di un secolo fa, molte sue norme in materia sociale, sono perdurate fino all’ emanazione della legge 328/00.

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La vera svolta per lo sviluppo dei servizi sociali ebbe luogo negli anni novanta con l’introduzione del principio di Sussidiarietà in Italia, grazie all’ emanazione della legge n. 59 del 15 marzo 1997.

Nel nuovo welfare disegnato dalla legge 328/00, le Regioni e lo Stato ricoprono un ruolo di governo, di coordinamento e di programmazione; l’ Ente locale, ha compiti di progettazione e di regista del sistema integrato degli interventi e servizi sociali; il privato sociale partecipa alla progettazione e concorre alla gestione dei servizi.

Le cooperative sociali.

La società cooperativa è una tipologia di impresa che persegue uno scopo prevalentemente mutualistico, consistente nel fornire i beni, servizi o occasioni di lavoro direttamente agli stessi soci a condizioni più vantaggiose di quelle che si otterrebbero sul mercato.

La peculiarità del modello cooperativo consiste quindi nel perseguimento del principio dello scopo mutualistico.

La società cooperativa nasce già “partecipata” dai propri soci che in molti casi coincidono con i lavoratori.

L’elevato grado di partecipazione da parte del socio costituisce la ragion d’essere della cooperativa.

La Legge 142/01 “Revisione della legislazione in materia

cooperativistica con particolare riferimento alla figura del socio lavoratore” di recente approvazione nella legislazione

italiana, ci da lo spunto per affermare che il contesto cooperativo è senz’altro differente rispetto a quello dell’ impresa ordinaria.

Nel secondo caso, infatti, quando ci si riferisce alla partecipazione finanziaria dei lavoratori si fa riferimento

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esclusivamente ai dipendenti. Nella società cooperativa invece, il lavoratore può essere sia un dipendente sia (e soprattutto) un socio lavoratore.

Le cooperative di lavoro, quelle in cui il rapporto mutualistico ha ad oggetto l’attività lavorativa prestata dai soci, nascono a priori con un elevato grado di partecipazione finanziaria. Nella cooperativa di lavoro il socio lavoratore sintetizza una figura che è al contempo co-imprenditore e lavoratore.

Come specificato dalla nuova legge che definisce la figura del socio, al momento della sua adesione alla cooperativa stipula con la stessa, un rapporto associativo, e contestualmente o, in un momento successivo, un ulteriore e distinto rapporto di lavoro che può assumere la forma di lavoro di tipo subordinato, autonomo o in qualsiasi altra forma ivi compreso il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.

Nel delineare la carta d’identità del socio lavoratore, la nuova norma così definisce il socio lavoratore:

1. concorre alla gestione dell’impresa partecipando alla formazione degli organi sociali ed alla definizione della struttura di direzione e di conduzione dell’impresa;

2. partecipa alla elaborazione di programmi di sviluppo ed alle decisioni concernenti le scelte strategiche, nonché alla realizzazione dei processi produttivi dell’azienda;

3. contribuisce alla formazione di capitale sociale e partecipa al rischio di impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione;

4. mette a disposizione le proprie capacità professionali anche in relazione al tipo ed allo stato dell’attività svolta,

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nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa.

Per ciò che riguarda la partecipazione finanziaria, tra le tipologie previste nel Documento di lavoro, possiamo affermare che la cooperativa, rispetto ai propri lavoratori soci utilizza tutte e tre le forme menzionate:

- partecipazione agli utili, - azionariato dei dipendenti,

- opzione di sottoscrizione di azione.

Vengono evidenziate dalla norma citata le modalità previste per erogare ulteriori trattamenti economici in favore del socio che sono deliberati dall'assemblea.

In effetti, come abbiamo già accennato, nell’esperienza cooperativa la realtà della partecipazione costituisce la chiave di volta di un sistema improntato ad un’ottima realizzazione dell’impresa.

Il principio della reale partecipazione dei soci, che può generare esempi di eccellenza nel mondo dell’imprenditoria cooperativa, se ampliato ai lavoratori non soci può ulteriormente incentivare la produttività e di conseguenza la competitività di un’impresa sul mercato.

Il senso di appartenenza avvertito dal socio in quanto tale e l’impegno che in prima persona lo stesso conferisce prestando il proprio lavoro nella cooperativa di cui egli stesso è “co-proprietario”, affiancato dallo sviluppo di un senso di appartenenza e di una alto grado di fidelizzazione1

da parte del lavoratore non socio, potrebbe, senz’altro

1 SIGNIFICATO DI Fidelizzazione:

Fidelizzazione: Insieme Di Tecniche E Di Attività Di Marketing Che Mirano Ad Agevolare L'instaurazione Di Un Rapporto Duraturo Nel Tempo Con Il Consumatore. Il Termine È Una Italianizzazione Dell'inglese "Fidelisation".

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ulteriormente aumentare la produttività dell’impresa e il raggiungimento degli obiettivi prefissi.

In appendice viene riprodotta , nella versione integrale, il testo delle principali leggi in materia.

Riferimenti

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