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Per quanto riguarda la delicata questione della Grazia, il pensiero degoliano era rigidamente giansenistico e su questo non lasciano dubbi né la famosa lettera del 1793

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CONCLUSIONI

Questo lavoro ha innanzitutto permesso di fare alcune considerazioni sul giansenismo di Degola, per il quale manca finora un lavoro sistematico che ne mostri la sostanza e che è stato considerato da alcuni studiosi come un insieme disorganico di idee, fondate soltanto sull’intento polemico.

Il pensiero di Degola si costruisce sullo studio approfondito della storia del pensiero giansenistico e sulla conoscenza puntuale dei testi di Arnauld, Nicole, Bossuet e soprattutto di Quesnel e Duguet. Tra gli autori della patristica Degola conosceva probabilmente bene Tertulliano ed Agostino. Inoltre, proprio come aveva ritenuto Ruffini, Degola era un giansenista di vecchio stampo per quanto riguarda la dottrina della Grazia. Tutte le volte in cui l’abate genovese parla di libero arbitrio e di volontà libera, egli si affida all’agostinismo rigido.

Per quanto riguarda la delicata questione della Grazia, il pensiero degoliano era rigidamente giansenistico e su questo non lasciano dubbi né la famosa lettera del 1793

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al Lambruschini né il testo del discorso da lui pronunciato sulle Rovine di Port-Royal: in entrambi Degola dialoga polemicamente con le Cinque Proposizioni di Cornet, che avevano appunto avuto la pretesa di riassumere la dottrina della Grazia propugnata dai giansenisti al fine di condannarla. Per capire il pensiero di Degola è stato fondamentale il lavoro di Lettieri Il metodo della Grazia. Pascal e l’ermeneutica giansenista di Agostino, dove l’autore studia in maniera analitica la ricezione dell’agostinismo in Giansenio, Pascal ed Arnauld.

Sotto altri punti di vista, invece, Degola era pienamente un giansenista del suo tempo: viveva nel culto dei Santi di Port-Royal, e soprattutto si era formato negli ambienti di un clero illuminato, figlio dell’Aufklärung cattolica. Come ha già messo in luce recentemente la Caffiero, Degola aderiva al gallicanesismo e sosteneva la Costituzione del Clero. Il suo giansenismo perciò per certi versi

      

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 La lettera non è stata compresa dal Parisi, secondo il quale Degola non aveva un vero e proprio 

pensiero: egli riduce il giansenismo di Degola ad un giansenismo che ormai aveva perso la carica 

dell’originale  agostinismo.  Aveva  invece  ragione  Ruffini  in  proposito:  Degola  era  un  giansenista 

alla vecchia maniera e aderiva all’originale dottrina della Grazia di Giansenio, i cui testi egli, forse, 

aveva letto personalmente. 

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presenta innovazioni rispetto a quello classico delle origini, che per generalizzazione potrebbe essere ricondotto al suo autore più famoso: Pascal.

L’Exhortation à une nouvelle catholique è un’opera che dimostra fino a che punto il giansenismo di Degola sia frutto del suo tempo: è evidente che i contenuti dell’opera, anche ad una lettura superficiale

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debbano qualcosa all’Analisi delle prescrizioni di Tertulliano e moltissimo alla lettura degli Atti sinodali del Sinodo di Pistoia. Degola ritiene che la Conversione si sviluppi per tappe ben precise le quali, in fin dei conti, sono quelle del suo metodo catechistico. Nella sua idea di conversione confluisce un Agostino rielaborato e rivisto alla luce del giansenismo illuministico. Molta importanza viene data da Degola al ruolo della ragione e dell’intelletto nel momento della conversione: per questa ragione Degola, nello scrivere l’Exhortation à une nouvelle catholique, sembra aver presente soprattutto il VII libro delle Confessiones, dove il vescovo di Ippona racconta il viaggio dell’intelletto verso la fede. L’importanza data alla logica e al raziocinio trova conferma nelle stesse conferenze, ma anche nell’uso di una terminologia specifica all’interno dell’opera. Nell’opera ricorre spesso la parola “convinction”, si insiste sulla necessità di studiare e meditare al fine di arrivare alla fede.

Riducendo il pensiero di Degola all’osso, si può dire che esso coincide sostanzialmente con quello di Pascal e che tutti e due riprendono Sant’Agostino: il cuore e la ragione devono contribuire entrambi alla fede; essendo però la ragione uno strumento, essa può essere utilizzata proficuamente solo se viene illuminata dalla Grazia; alla natura lapsa corrisponde una ragione corrotta, mentre alla creatura illuminata dalla fede corrisponde una ragione guidata da Dio e in grado di esercitarsi nel modo corretto. Di fatto, però, Degola, dando grande importanza al momento meditativo nell’ambito della conversione, sembra preoccuparsi fin troppo spesso di notare come i Precetti evangelici siano ragionevoli e convincenti e come essi contengano “prove incontestabili” della loro intrinseca Verità.

In questo senso Degola sembra essere in disaccordo con Pascal su un punto:

l’abate genovese non approva affatto l’espediente retorico della scommessa, utilizzato da Pascal per rappresentare matematicamente il passaggio dalla miscredenza alla fede. Degola, giansenista del secolo che raccoglieva i frutti dell’illuminismo, non avrebbe mai potuto scrivere che l’intelletto deve accecarsi e       

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 Manca uno studio che commenti l’opera di Degola: un simile commento sarebbe utilissimo per 

comprendere meglio il giansenismo di Manzoni alla luce del pensiero di Degola.  

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scommettere; l’abate genovese scrive invece, proprio come nel viaggio raccontato da Agostino nel VII libro delle Confessiones, che la conversione coincide per lui con un percorso segnato dalla crescita della progressiva conoscenza delle Verità rivelate. La sfumatura che oppone Pascal a Degola ha un valore solo retorico, ma diviene importantissima se considerata alla luce dell’Aufkläurung cattolica.

L’idea di conversione di Degola si forgia poi nell’ambito del suo millenarismo, come mostra l’importanza data nell’Exhortation alla Profezia di Isaia. Degola individua il processo di conversione sia come un iter individuale che come un percorso collettivo. In questo senso l’individuo che si converte è anche persona- corporativa, membro del Corpo di Cristo vivente. La conversione di Enrichetta è allusione per la conversione dell’intero popolo di Cristo e, in particolare, è a propria volta profezia per l’imminente ritorno di Israele nel seno della Chiesa Cattolica. Poiché convertirsi per Degola significa soprattutto rinascere all’interno di una comunità, l’abate dava molta importanza al dovere apologetico che spettava alla persona convertita. Proprio in corrispondenza a quanto esigeva il cattolicesimo illuminato (non solo di stampo giansenistico), Degola era convinto dell’importanza di promuovere l’impegno civile tra le file dei laici, come tra quelle degli ecclesiastici. Per questa ragione egli reinterpreta l’opposizione agostiniana (ma non solo) tra luce e oscurità, in un ottica collettiva che riprende puntualmente la posizione in merito degli Atti del Sinodo Pistoiese: Agostino nel VII libro delle Confessiones parla delle tenebre opposte alla luce, soltanto o soprattutto per indicare il viaggio introspettivo dell’ “io” e i due stati attraverso cui passa chi si converte (quello di luce e quello di tenebra); Degola invece riutilizza la metafora polemicamente, unendosi così al coro dei giansenisti del suo tempo, che rivedevano nell’epoca a loro contemporanea un periodo di grande

“oscuramento della Verità”. In questo senso la metafora non serve tanto a Degola a focalizzare l’attenzione sul percorso compiuto da Enrichetta, quanto ad insistere sul ruolo che lei ha assunto di fronte all’intero popolo di Cristo dopo la conversione: Degola insiste molto sulla necessità che Enrichetta si impegni, quanto più possibile, a diffondere la Verità rivelata.

Concludendo il giansenismo di Degola presenta in sé delle contraddizioni di

fondo: da un lato (quello dogmatico) aderisce chiaramente al movimento nella sua

forma più antica e sembra quasi coincidere con il primissimo giansenismo, quello

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di Giansenio; dall’altra esso si apre di necessità alle istanze illuministiche ed è figlio del millenarismo e dell’Aufklärung cattolica.

La presente ricerca ha poi permesso di dare risposta alla domanda che all’inizio ci si è posti: fino a che punto il pensiero di Degola influenzò quello di Manzoni? In che cosa consistono i punti di incontro e di scontro tra la il pensiero manzoniano e il giansenismo di Degola?

Per comprendere la risposta che è stata data, si deve aggiungere ancora una considerazione sul giansenismo degoliano. Eustachio Degola e i giansenisti italiani e francesi che ruotavano attorno a lui consideravano il giansenismo non soltanto come una religione, ma anche come un habitus, un modo d’essere. Il giansenismo di Degola altera la percezione che il catecumeno ha di sé, perché innesca meccanismi psicologici particolari che vanno a minare l’autostima individuale, generando senso di colpa, disprezzo di sé, desiderio di umiliazione.

Tutto questo era già insito nell’agostinismo: le forti spinte antiumanistiche del rigorismo di Degola derivano infatti dal peso dato dall'abate alla dottrina della Grazia, secondo cui tutto ciò che di bene compie l’uomo, compreso lo stesso atto della preghiera, è opera di Dio nell’uomo; a quest’ultimo rimane infatti soltanto la libertas peccandi e una necessità continua di penitenza ed espiazione.

Enrichetta e Giulia avevano fatto proprio tale habitus in modo particolarmente forte, come dimostrano gli epistolari. Il giansenismo di Degola era perciò innanzitutto un clima, una mentalità che si respirava ogni giorno in casa Manzoni.

La ragione di questo era dovuta anche alle letture imposte dai Réglements.

A tutto questo non si sottrasse nemmeno Manzoni, sul quale l’influenza di Degola fu probabilmente massiccia dall’autunno del 1809 sino al 1811 e, più precisamente, sino al momento in cui, su iniziativa della Beccaria, i Manzoni visitarono l’abate genovese in Liguria. Le cose cambiarono successivamente, perché durante quella visita Manzoni aveva probabilmente compreso fino a che punto fosse pericoloso avere rapporti con i giansenisti, spesso perseguitati dalla Chiesa e dal governo francese. Tracce del severo giansenismo di Degola in Manzoni si osservano nella lettera a Luigi Tosi scritta nell’estate di quell’anno, dove Manzoni parla della propria “profonda indegnità”, paragonata all’

“Onnipotenza della Divina Grazia”. L’uso della terminologia usata da Manzoni

non lascia dubbi: egli sta qui mostrando, e di tutto cuore, di aver profondamente

interiorizzato la concezione che Degola aveva di Gratia Christi e di miseria

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umana; nell’ottica dell’abate genovese infatti tali concetti erano gli imprescindibili presupposti su cui doveva poggiare la religiosità del credente.

Probabilmente anche le parole che, secondo l’aneddotica, Manzoni disse a Vittoria e a Stefano Stampa a proposito della sua conversione, “È stata la Grazia di Dio”, dialogano segretamente con il pensiero degoliano.

La lettura attenta della lettera al Coen del 1842 ha infatti dimostrato che Manzoni, quando parla di conversione, ritorna sempre con la mente alla propria esperienza e alle idee che guidarono il suo percorso. La lettera dimostra che Manzoni guardava alla conversione con gli occhi del giansenismo degoliano: anche secondo Manzoni nel processo di conversione il ruolo più importante è giocato da Dio e dall’Onnipotenza della Grazia; l’analisi testuale di gran parte della lettera porta infatti a notare che Manzoni scrisse pensando a Marco Coen come ad un soggetto passivo e non attivo durante l’iter di conversione: dall’analisi delle parole usate nella lettera sembra quasi che il Coen, considerato come individuo, debba subire la conversione e non esserne protagonista; non è un caso che chi si converte, nell’ottica di Degola e più in generale dei giansenisti, è sempre un convertito, mai uno che si converte; alla fede è stato infatti condotto da Dio. Manzoni nella lettera dimostra di concepire la conversione proprio alla maniera di Degola come vero e proprio “prodige de la Grâce”.

Anche il fatto che la lettera sia indirizzata ad un ebreo lascia intravedere fino a che punto Manzoni avesse introiettato le idee millenaristiche del Degola, che nell’Exhortation chiedeva ad Enrichetta di pregare per la conversione degli Ebrei.

La lettera al Coen, interpretata anche da contributi molto recenti come sostanzialmente ortodossa (Langella), è in realtà un documento importantissimo per qualsiasi studio voglia indagare il giansenismo di Manzoni: essa infatti attesta l’avvenuto incontro tra il pensiero degoliano e quello manzoniano.

Una questione molto importante, su cui Manzoni si pronuncia all’interno della

lettera, riguarda il potere della preghiera: Manzoni scrive che Dio dà

infallibilmente la fede a chi la chiede tramite la preghiera. In questa ripresa della

famosa massima evangelica, molti hanno visto una prova dell’ortodossia di

Manzoni. Questo in realtà non prova nulla oppure, semmai, conferma l’avvenuto

intersecarsi tra il pensiero di Manzoni e il giansenismo; l’affermazione di

Manzoni infatti enuncia un concetto che appartenne anche alla filosofia di Pascal

e che si intona perfettamente con la dottrina della Grazia. Pascal credeva in

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questo: se ogni opera buona compiuta dall’uomo è in realtà opera di Dio nell’uomo, anche la preghiera lo è; in altre parole, quando una persona innalza sinceramente una preghiera a Dio, secondo i giansenisti è lo stesso Dio che prega tramite le sue labbra. La conclusione necessaria che ne deriva è che Dio esaudisce le preghiere infallibilmente quando esse scaturiscono da un cuore guidato dalla Grazia; in qualche modo infatti Dio, esaudendo quelle preghiere, esaudisce sé stesso.

Una parte del capitolo terzo poi, com’è stato detto, si è prefissa il compito di analizzare testualmente la ricorrenza delle parole “misericordia di Dio” e “Grazia di Dio” nell’opera di Manzoni. Seguendo Parisi e Langella sono state individuate nel pensiero manzoniano tre grandi fasi, che segnano l’evolversi del pensiero di Manzoni rispetto alla dottrina della “Grazia” e al concetto giansenistico di

“Misericordia di Dio”.

Si riepilogano i risultati della ricerca svolta riassumendo le singole fasi:

A) PRIMA FASE (1809-?

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) Tracce del concetto giansenistico e degoliano di Grazia di Dio possono essere osservate nell’Urania. Lo studio di Langella (Manzoni poeta e teologo 1809-1810) ha dimostrato che spesso la parola

“aura” è utilizzata da Manzoni come sostituto di “Grazia” e in effetti l’“aura” di Urania sembra avere le caratteristiche della Grazia. Lo stesso vale per il “Genio” di cui si parla in Vaccina e in A Parteneide: il Genio manzoniano, la cui descrizione deve molto a Dante, possiede infatti il potere rivelativo della Grazia. Sembra quasi che Manzoni si stia avvicinando progressivamente all’idea che una poesia giusta possa nascere soltanto da un intelletto che si è convertito e che ha acquisito i “lumi” della fede, come avrebbe detto Degola. Per quanto riguarda il concetto di

“misericordia di Dio”, l’Urania sembra attestare l’avvenuto primo incontro con il contrizionismo giansenistico: il concetto di “pietà” emerge connesso con quello di pentimento e di contrizione; si tratta, con tutta evidenza, della freschissima influenza sul pensiero manzioniano del giansenismo appena scoperto. L’Urania è poi un poemetto fondamentale

      

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 Queste date sono puramente indicative. Nella prima fase  sono state prese in considerazione le 

opere,  ancora  inficiate  di  neoclassismo,  che  Manzoni  scrisse  prima  degli  Inni,  compresa  la 

Vaccina. Ad essa, che in successione è l’ultima,  Manzoni pensava ancora nel 1814. 

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per quanto riguarda il concetto di “pietà” e “misericordia”, punti tutt’altro che secondari nel pensiero religioso di Manzoni. In questa fase perciò si assiste al primo contatto con il mondo giansenistico, rappresentato essenzialmente da Degola e dai rapporti con il mondo parigino.

B) SECONDA FASE. (1812-1818) In questa fase si raccolgono i primi inni e la Tragedia Il Conte di Carmagnola. Essa, con i suoi alti e bassi, rappresenta il momento in cui Manzoni aderì maggiormente ai concetti di

“Grazia di Dio” e “Misericordia di Dio” intesi alla maniera giansenistica.

In questa fase Manzoni crede profondamente nello stato di corruzione della natura lapsa, dovuta alla caduta di Adamo. A questa fase appartiene il Natale del 1813 e la celebre metafora del masso, ripresa dall’Arnauld, e usata per simboleggiare la caduta di Adamo. Secondo il Manzoni di questa fase, per la maggior parte degli uomini è difficilissimo agire eticamente, perché il bene non è nelle inclinazioni dell’uomo lapso: la legge perciò diviene “servitù”. Uno studio attento della Pentecoste del ’17, opera che forse meglio di tutte rappresenta questa fase, ha dimostrato che Manzoni credeva fermamente alla dottrina della Grazia. L’analisi testuale del passo riguardante la metafora del naufrago, ha dimostrato che Manzoni, in questa seconda fase, credeva fermamente alla sostanziale inesistenza del libero arbitrio, per come i giansenisti la postulavano: è infatti la “pietosa aura ineffabile” (Grazia di Dio) a guidare l’individuo verso la luce, mentre quest’ultimo è soggetto passivo che subisce l’influenza della Grazia.

Langella ha poi dimostrato come la Tragedia del Conte di Carmagnola abbia gli stessi temi della Pentecoste del '17: innanzitutto il Conte non è un giusto senza macchia; in secondo luogo tale opera è per certi versi la tragedia della necessità, perchè l’individualità dei suoi protagonisti è completamente schiacciata dalla storia e dagli eventi. Quel che sinora è stato detto riguarda il concetto di “Grazia di Dio” e quelli connessi di

“Peccato originale”, “natura lapsa”, “libero arbitrio”. Per quanto riguarda

il concetto di “Misericordia di Dio”, la fonte principale di questa fase è

proprio la tragedia appena citata. Al suo interno Dio è un grande assente,

perche Manzoni vuole affrontare lo studio della Tragedia partendo soltanto

dalla Storia. Il concetto di “Misericordia di Dio” in questa Tragedia

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emerge dall’analisi della figura di Marco. Secondo la morale, forse tragica, del rigorismo giansenistico, egli avrebbe dovuto restare fedele all’amico e tentare di salvarlo, anche se tale tentativo fosse stato destinato a rimanere fallimentare. Il rigorismo giansenistico non ammette infatti come giustificazione nemmeno la necessità di preservare la propria vita. Sulla testa di Marco pesa con evidenza tutto il giudizio di un Dio severissimo, che pare quasi impassibile. Si tratta del medesimo Dio a cui Manzoni si rivolgerà nel Natale 1833, dove si osserva una “ricaduta” nel pessimismo giansenistico

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C) TERZA FASE. (1817-1827) In questi anni Manzoni dialoga con il pensiero degoliano in maniera molto diversa. La grande innovazione, rispetto alla fase precedente, risiede nel fatto che, per il Manzoni di questa terza fase, la Grazia di Dio diviene finalmente per davvero un dono alla portata di tutti, di cui riesce ad usufruire una moltitudine e non più uno sparuto gruppo di eletti. È molto interessante notare che il punto di partenza per arrivare a questo è proprio il giansenismo: Manzoni lo assume sì come punto di partenza, ma arriva a conclusioni diverse. Nella Pentecoste del 1819 viene espresso nuovamente il concetto dell’assoluta efficacia della Grazia, ma pare molto più fiducioso nei confronti della condizione umana. Il concetto di onnipotenza della Grazia e di corruzione della natura lapsa rimarrà per sempre in Manzoni quello dei giansenisti.

Quel che però cambierà in modo drastico rispetto ad esso, è la nuova concezione del libero arbitrio adottata dallo scrittore in questa fase. Lo studio filologico e testuale dell’Adelchi ha dimostrato che la figura di Ermengarda fa riscoprire al suo autore l’autonomia della volontà individuale. Manzoni riconquista il libero arbitrio. I progressi fatti in questa direzione si osservano per la prima volta nell’Adelchi e aumentano nelle fasi di costruzione del Romanzo. Nello specifico, il confronto della conversione dell’Innominato con quella del Conte del Sagrato, effettuato su un piano filologico e testuale, ha dimostrato che l’ “Io” dell’Innominato è dotato di una forza di volontà maggiore rispetto all’ “Io” del Conte. La       

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 Quest’opera ha grande spessore filosofico e sembra nascondere una conoscenza maggiormente 

approfondita dell’agostinismo, probabilmente anche alla luce degli insegnamenti di Rosmini. 

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volontà dell’Innominato oppone infatti una resistenza maggiore alla chiamata della Grazia. Manzoni giunge così ad una posizione più vicina all’ortodossia, scoprendo che la Grazia esige la collaborazione della volontà. Questa non è l’unica svolta a cui approda il pensiero manzoniano.

Nella terza fase lo scrittore, mosso da un profondo desiderio di fiducia verso il divino, arriva a sostenere che la “Misericordia di Dio” è capace di perdonare l’errore a determinate condizioni. Per capire quali esse siano, è giusto ricordare la riflessione di Manzoni sulla Tragedia. Lo scrittore mette a frutto compiutamente, in questa fase, tutto ciò che ha sedimentato durante lo studio preparatorio per l’elaborazione delle due Tragedie. La concezione manzoniana della “Misericordia di Dio”, in questa terza fase, riunisce in sé stessa le letture degli scritti di Nicole e gli studi effettuati sul Lessing e su Aristotele. Nicole sosteneva che nel processo di conversione l’uomo dovesse passare da uno stato di terrore ad uno di pietà. Aristotele aveva invece teorizzato il concetto di “empatia” nella sua Poetica. Dalla complessa meditazione su queste due idee nasce il concetto manzoniano di

“Misericordia di Dio”: se il peccatore, di fronte al dolore del giusto, riesce

ad empatizzare e a provare pietà, subito si spalanca per lui uno spiraglio di

salvezza. La sofferenza diventa quindi un mezzo per condurre l’uomo alla

salvezza spirituale e alla fede: la pietà verso chi soffre è infatti in grado di

generare il desiderio di fare del bene e suscita pensieri pii e positivi, che

vengono ripagati dalla Misericordia di Dio. Il perdono e la misericordia

dell’uomo generano il perdono e la misericordia di Dio. Le struttura delle

Tragedie si fonda spesso sull’esistenza di una spirale d’odio, che si

alimenta tramite la vendetta e che genera il delitto. Rievocando un

concetto già elaborato nell’Urania, Manzoni fa in modo che, nell’ultimo

Atto del Conte Carmagnola, la pietà e il perdono arginino la voragine

spalancata dal moltiplicarsi delle colpe. Per questa ragione la parte finale

dell’opera finisce per appartenere alla Terza fase. Il concetti appena

esposti emergono chiaramente anche nell’Adelchi, dove l’empatia da parte

di Carlo Magno verso le sofferenze del principe dei Longobardi permette

che per lui si spalanchi la via della salvezza. Le stesse idee si manifestano

quando viene trattata la conversione dell’Innominato e quando si racconta

la morte di Don Rodrigo. L’Innominato si converte passando dal terrore

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per sé e per la propria vita futura al sentimento di pietà verso Lucia. La Misericordia di Dio si esercita quindi verso di lui anche in nome della pietà che egli provò per Lucia. In nome di questa “Misericordia”, che ha ben poco da spartire con quella a ben vedere indisponibile dei giansenisti, può salvarsi persino Don Rodrigo grazie alla pietà e al perdono concesso a lui da Renzo.

Rimane adesso da analizzare il rapporto tra l’idea di conversione manzoniana e quella di Degola. Manzoni, come notò Enzo Noé Girardi, sembra attribuire alla conversione tre elementi: la crisi psicologica; l’importanza della parola, di persone o di eventi divenuti strumenti della Grazia; l’intervento di un ministro della Chiesa, che chiude il percorso e che ufficializza la conversione. Questo schema ricorre in maniera molto simile nell’Exhortation à une nouvelle catholique, quando viene riepilogato il percorso di Enrichetta: tutto ciò lascia naturalmente intravedere delle connessioni, che poggiano anche sulla solidità del dato biografico.

Anche Manzoni, come Degola, sembra dare grandissima importanza alla parola e al ragionamento nell’ambito del processo di conversione. Da Degola Manzoni apprese probabilmente il concetto agostiniano di “admonitio”: entrambi sono d’accordo sul fatto che la parola, in ogni sua forma (scritta o pronunciata), fornisce intuiti al pensiero e che, se vivificata dalla Grazia, essa è in grado di portare chi ascolta sulla strada della fede.

Nel processo di conversione anche per Manzoni, come per Degola, la logica e il raziocinio giocano un ruolo fondamentale. Lo studio comparato dell’Exhortation à une nouvelle catholique e delle Osservazioni sulla morale cattolica ha dimostrato che l’abate giansenista e Manzoni erano d’accordo sul fatto che il passaggio dalla miscredenza alla fede dovesse passare attraverso il convincimento dell’intelletto. In questo modo si dimostra come Manzoni dialogasse sopratutto con l’ultimo giansenismo, segnato dall’influenza illuministica.

Manzoni condivideva con Degola anche la stessa idea di conversione come

rinascita e come momento in cui l’individuo, uccidendo l’Uomo Vecchio, si

spalanca ad una nuova vita, divenendo “membro della Chiesa vivente”. Anche

secondo Manzoni la conversione individuale è specchio e anticipazione di quella

dell’intero popolo di Cristo.

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Lo scrittore però aborriva ogni tipo di polemica ed è questo ciò che distanzia maggiormente Manzoni da Degola. Manzoni, nonostante avesse imparato da Degola la necessità di scrivere “a gloria di Dio”, rifiutò sempre di sottomettere la sua penna alle poco costruttive dispute che opponevano gesuiti e giansenisti e si mantenne sempre distante da ogni tipo di faziosità.

Nel suo orientamento cattolico, la distanza con Degola, da questo punto di vista, si traduce in vicinanza con Grégoire. Conferma tutto ciò la testimonianza diretta del militare e filosofo Sébastien Falquet-Planta, amico di Giulia Beccaria. Egli aveva scritto che i membri della famiglia Manzoni erano tutti “bons, aimables, spirituels, fort dévots, et per plus singulier contrastes, aussi libéraux que Grégoire”

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 Giulia Beccaria. “Col core sulla Penna”, p. 141. 

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