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Un habitat, che nel caso dell’uomo sarebbe più corretto definire come paesaggio

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

Negli ultimi anni gli archeologi si sono interessati sempre più ai risultati conseguiti dalle discipline archeometriche. Le conoscenze di tematiche complesse come le tecniche costruttive, le attività produttive, l’alimentazione, l’economia e il paesaggio non possono prescindere dall’applicazione degli strumenti tipici delle materie scientifiche. Il limite metodologico che separava quest’ultime dalle materie umanistiche si è andato sempre più assottigliando fino alla creazione di nuovi ambiti specifici. Lo scopo non è mai lo studio fine a se stesso dei materiali, ma la loro valutazione e interpretazione alla luce di quesiti che, nonostante la metodologia, rimangono storici. Alla base vi è la consapevolezza che ogni aspetto della civiltà umana ha la sua storia e che ogni storia ha la sua applicabilità scientifica.

Lo stesso habitat in cui l’uomo vive viene da questi trasformato seguendo processi evolutivi che si articolano in fasi e modelli territoriali. Un habitat, che nel caso dell’uomo sarebbe più corretto definire come paesaggio. Esso si compone di elementi che sono propriamente antropici e altri che sono da considerarsi naturali, ma pur sempre facenti parte del medesimo ecosistema in cui l’uomo vive. Attività proprie della nostra specie, come l’agricoltura, l’allevamento, il disboscamento, la costruzione di centri abitati e città, hanno cambiato sensibilmente l’aspetto e le caratteristiche del paesaggio.

L’uomo e la natura sono parte di una stessa equazione: studiando e conoscendo le variabili dell’uno possiamo intuire le incognite dell’altro. Già dagli anni ‘60 Dimbleby cominciò a studiare l’evolversi degli ecosistemi, considerando allo stesso tempo fattori ambientali e antropici. Maggiore fu però il contributo della paleoecologia la quale costruì le basi concettuali dell’archeobotanica contemporanea. Un interesse ecologico spinse, infatti, gli archeologi a studiare un sito considerando il territorio nel quale si trovava, permettendo loro di ricostruire aspetti ambientali ed economici1.

1 DI PASQUALE 2011, pp. 7-9.

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Come riporta Quirós Castillo, uno studio completo dei sistemi insediativi in un determinato territorio non può prescindere dall’analisi delle trasformazioni dell’ambiente in cui l’uomo é immerso. Questo non è più considerato come mera cornice di eventi storico-antropologici, ma come il riflesso degli stessi2.

I reperti archeobotanici sono testimoni insostituibili della gestione di un territorio:

risorse disponibili, tipologia delle attività agro-silvo-pastorali, rapporto tra coltivi e incolto, uso del legno, commercio, conservazione e lavorazione dei prodotti agricoli sono solo una parte delle problematiche indagabili.

Dalla seconda metà del XX secolo s’iniziò a utilizzare l’analisi antracologica da un lato per far luce sull’evoluzione della vegetazione nel corso della storia e, dall’altro, per cercare di quantificare l’entità dell’impatto umano su di essa3.

In Italia il primo studio archeobotanico condotto su macroresti provenienti da stratificazioni medievali risale al 19754, ma è soprattutto a partire dagli anni ’90 che si intensifica l’interesse per questo campo d’indagine5.

La media valle dell’Arno e, più in generale, la Toscana settentrionale sono un territorio quasi ignoto dal punto di vista paleoambientale. La storia della vegetazione nella bassa valle dell’Arno è nota grazie ai dati di Pisa (Mariotti Lippi et al. 20076; Bertacchi et al.

20087), Massaciuccoli (Mariotti Lippi et al. 20078) e, più recentemente, ai sondaggi nell’ambito del Progetto MAPPA (Allevato et al. 20139). Analisi su carboni

2 QUIRÓS CASTILLO 1997, p. 1.

3 FIGUEIRAL, MOSBRUGGER 2000, p. 398.

4 CASTELLETTI 1975a, pp. 99–122.

5 Per una sintesi completa dei risultati delle indagini archeobotaniche condotte in Italia settentrionale e relative al periodo medievale, vedi ROTTOLI 2014, pp. 1-8.

6 MARIOTTI LIPPI, BELLINI, TRINCI, BENVENUTI, PALLECCHI, SAGRI 2007, pp. 453–465.

7 BERTACCHI A., LOMBARDI, SANI, TOMEI 2008, pp. 181–188.

8MARIOTTI LIPPI, GUIDO, MENOZZI, BELLINI, MONTANARI 2007, pp. 267–277.

9ALLEVATO, AROBBA, DI PASQUALE, PAPPALARDO, RIBECAI 2013, pp. 107–118.

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archeologici sono state condotte in alcuni siti in lucchesia (Montanari e Scipioni 200410; Ferreri Fontana et al. 200811) e nel pistoiese (Ferreri Fontana et al. 200812).

Grazie alla lunga sequenza insediativa, praticamente priva di soluzioni di continuità, San Genesio rappresenta un’occasione proficua per analizzare la storia del paesaggio agro-forestale della valle dell’Arno nell’Alto e nel Pieno Medioevo.

Nel nostro studio si presentano i risultati delle prime indagini archeobotaniche relative alle operazioni di scavo condotte a San Genesio dal 2001 al 2013. La ricerca si è servita di analisi antracologiche (studio dei carboni), xilologiche (studio dei legni) e carpologiche (studio di semi e frutti).

Pur trattandosi di risultati preliminari, si è cercato di dare una prima interpretazione del dato e di far maggior luce su alcuni quesiti fondamentali, riguardanti il periodo che va dal VII al XIII secolo:

 Che aspetto aveva il paesaggio nel quale si è svolta la storia di San Genesio?

 Quanto è stata intensa l’attività umana?

 Quale è la relazione tra paesaggio, società ed economia?

10 MONTANARI, SCIPIONI 2004, pp. 157- 164.

11 FERRERI FONTANA, ILDE MENOZZI, MONTANARI 2008, pp. 105- 109.

12 Ibidem.

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CAPITOLO I - BREVE STORIA DI SAN GENESIO

Fig. 1 - San Genesio nel contesto territoriale toscano.

Dal 2000 la località “podere San Genesio” è stata oggetto di numerosi studi e campagne di scavo. Il sito è localizzato in provincia di Pisa, in zona pianeggiante, nei pressi del gruppo delle colline samminiatesi, molto vicino al fiume Elsa (600 m) e non distante dal fiume Arno (3 km).

Fin dalle prime frequentazioni, fatte risalire su base archeologica alla metà del VI secolo a.C., la sub-regione del Medio Valdarno suscitava una forte attrattiva, offrendo importanti risorse come le cave d’argilla, utili per la produzione di ceramica, i vicini boschi, dai quali poter prelevare il legname e cacciare, i fiumi, sfruttati come risorsa

San Genesio

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alimentare per mezzo della pesca, come risorsa idrica per l’attività agricola e come via di comunicazione e commercio. San Genesio sorgeva proprio in prossimità di punti di attraversamento fluviale (Fig. 1) e già durante il periodo repubblicano si trovava sulla strada che univa Pisa a Firenze, una posizione strategica che nel corso della storia l’avrebbe connessa con i maggiori centri del Valdarno. Non è quindi un caso se nel Medioevo divenne una delle tappe della via Francigena13.

La più antica struttura abitativa rinvenuta nel sito, una capanna a pianta circolare, risale alla seconda metà del III secolo a.C., momento in cui il Medio Valdarno sembra abbia goduto di un certo impulso demografico. Dal punto di vista dei modelli di popolamento questa fase di frequentazione rispecchia la tipologia insediativa, già elaborata per il Basso Valdarno, costituita da piccoli centri sparsi, situati in prossimità dei fiumi o su posizioni d’altura, collegati da una buona rete viaria14.

Il sistema insediativo non sembra però mutare fino all’età imperiale. Il primo cambiamento evidente dell’assetto territoriale è registrabile tra il I e il II secolo d.C.

quando a fianco dei piccoli centri abitati vengono edificate le ville ed iniziano a formarsi grandi proprietà terriere, con conseguente intensificazione dell’uso del suolo.

Tra il III e il IV secolo il sistema delle ville entra in crisi, lasciando traccia in una evidente soluzione di continuità nel dato archeologico, che ha permesso di stimare una riduzione del 50% del numero degli abitati del Medio Valdarno.

La situazione muta nuovamente tra IV e prima metà V secolo, quando il Valdarno fu probabilmente inserito nella Tuscia annonaria (a grandi linee coincidente con la Toscana settentrionale). Lo stimolo alla produzione agraria e il conseguente sviluppo delle aree rurali, fu provocato da una realtà cittadina ancora vitale, che seppe resistere a quel declino urbano che invece colpì il sud della regione. Lucca, Pisa, Pistoia, Firenze, Arezzo si trovavano, infatti, in una posizione strategica, sia dal punto di vista militare che da quello economico-commerciale, lungo le arterie viarie che le collegavano tra loro, a Roma e a Ravenna15.

È a questo periodo che risale la costruzione a San Genesio di alcune strutture e in particolare di un grosso edificio con fondazioni in pietra, interpretato come villa. In base alle restituzioni archeologiche (anfore, ceramiche, monete) è possibile tracciare le linee di un commercio di vino, olio, salsa di pesce e ceramiche che interessa zone a corto e medio raggio come Empoli, ma anche a lungo raggio come la Spagna e l’Africa settentrionale.

13 SALVESTRINI 2010, pp. 28, 29; CANTINI 2010, pp. 81, 82.

14 CIAMPOLTRINI 2010, pp. 12-15.

15 CANTINI, CITTER 2010, pp. 401-427.

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Da un punto di vista organizzativo la proprietà tornò ad essere concentrata in grandi latifondi.

Durante il periodo tardo antico le vie di comunicazione della regione dovevano essere ancora sufficientemente praticabili. In effetti, sembra che proprio servendosi di queste le comunità d’invasori germanici, prima Goti e poi Longobardi, si siano spostate e insediate nelle valli dell’Arno e dei suoi affluenti, andando spesso a rioccupare siti precedentemente abitati16.

Nella prima metà del VI secolo l’area subì un rapido declino esasperato anche dalle devastazioni portate dalla guerra greco-gotica. Il grosso edificio, interpretato come villa, venne così spoliato, L’intera area fu abbandonata e, dalla seconda metà del VI secolo, riadattata a necropoli17.

In seguito all’occupazione longobarda, alla fine del VI secolo, il sito si trasformò in un piccolo presidio militare con funzione di controllo sulla viabilità Pisa-Firenze. Ciò rientra in una dinamica generale del periodo, ove molti centri fortificati furono posti a difesa di Lucca, capitale del ducato. In effetti, molti toponimi che incontriamo nelle zone limitrofe a San Genesio, spesso riferiti al termine “pattuglia”, caratterizzano il Medio Valdarno come “limes militare” tra il territorio di occupazione longobarda e quello di pertinenza bizantina. A testimonianza di questa nuova funzione del sito è il rinvenimento di una struttura interpretata come torre difensiva e datata alla prima metà del VII secolo18. Come si evince da alcune fonti documentarie, a governare il villaggio in questa fase sarebbe stato un dominus longobardo di nome Wallar dal quale poi deriverebbe il primo nome noto del villaggio, cioè Vicus Wallari19. Nonostante il ceto dirigente fosse sicuramente di origine germanica, la cultura materiale complessiva riferibile al sito suggerisce una forte permanenza di caratteri romano-bizantini ai quali solo sporadicamente si andava a sommare un’influenza alloctona longobarda20.

L’abitato della prima metà del VII secolo si espanse sensibilmente, obliterando le limitrofe zone coltivate. Il ritrovamento di un fornetto a pozzetto, delle scorie metalliche ad esso relative e di un crogiolo testimoniano l’impianto di un’attività metallurgica destinata alla riduzione del ferro e alla lavorazione del bronzo.

Interessante il rinvenimento di frammenti di sigillate africane, focesi, anfore africane e orientali, che attestano la sopravvivenza di una rete commerciale ancora mediterranea.

16 SALVESTRINI 2010, pp. 29-31.

17 CANTINI 2010, pp. 83-92

18 Ivi, pp. 90-92.

19 SALVESTRINI 2010, pp. 32-35

20 CANTINI 2010, pp. 92-94

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Vicus Wallari è quindi un centro di grande importanza economica e strategica che s’inserisce nel Valdarno all’interno di un sistema territoriale che faceva capo a Lucca.

Sul finire del VII secolo il centro cambiò aspetto: sull’area che prima era occupata dalla grande capanna e dalla fornace venne costruita una chiesa triabsidata, con transetto sporgente e absidi a ferro di cavallo, attorno alla quale si sviluppò una nuova area cimiteriale. Contemporaneamente la torre di prima metà VII secolo venne ristrutturata, utilizzando tecniche costruttive simili a quelle usate per la chiesa.

L’edificio acquistava, infatti, la funzione di battistero, conferendo al villaggio il ruolo di pieve.

Purtroppo non è chiaro chi fossero i promotori di queste opere, ma il coinvolgimento del Duca di Lucca o l’intervento vescovile sono le ipotesi più plausibili21.

Ad ogni modo questo complesso costituiva l’impianto della prima ecclesia Sancti Genesii, citata più tardi in un documento del 715, relativo ad un’assise indetta dal notaio Gunterman, missus del re Liutprando. Questi cercò di risolvere i contrasti esistenti da secoli tra la diocesi di Arezzo e quella di Siena, che riguardavano il possesso di strutture ecclesiastiche di confine22. L’evento, al quale parteciparono anche i vescovi di Fiesole, Pisa, Firenze e Lucca, dimostra la precoce importanza della chiesa di San Genesio, la quale, da ora in avanti, sarà ripetutamente luogo d’importanti incontri di rappresentanti del potere, sia laico che religioso, arrivando ad ospitare, tra XI e XII secolo, le diete indette dai delegati imperiali23.

Tuttavia il potere del vescovo di Lucca in questa zona era piuttosto scarso, soprattutto a causa della concorrenza con altre realtà ecclesiastiche come la Chiesa di Santa Maria, il cui potere locale era affermato da tempo, e una curtis del vescovo di Pisa, situata nell’alto corso dell’Egola e la cui parte massaricia, frammentata ed estesa, arrivava a toccare Vico Wallari24.

Quello che emerge dallo studio dei documenti di IX secolo, in particolare delle cartulae di livello e di tre importanti brevia («inventarium episcopatus», «breve de feora», «breve de multis pensionibus») è che il vescovo di Lucca non possedeva grandi aziende rurali in questo territorio, ma soltanto piccole unità produttive, isolate o raggruppate, non paragonabili per estensione ed organizzazione ad un’azienda curtense25. Il Medio Valdarno era controllato dal potere regio e marchionale, non da

21 Ivi, pp. 90, 96

22 TOMEI (in corso di stampa), pp. 1, 2.

23 SALVESTRINI 2010, pp. 32-35

24 TOMEI (in corso di stampa), pp. 7, 8.

25 Ivi, pp. 5, 6.

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quello episcopale. Sempre dallo studio dei documenti di IX secolo emerge che nel territorio di Vico Wallari sorgesse una curtis di proprietà dei duchi e marchesi di Lucca, il cui prestigio fa riflettere sull’importanza che doveva avere San Genesio all’epoca. Anche se la pieve viene nominata (come allora era norma) per dare alla proprietà un riferimento territoriale, lo stesso borgo doveva far parte dell’azienda curtense. Le evidenze archeologiche rivelano infatti, l‘impianto d’importanti attività produttive: una fornace da ceramica, tre fosse circolari utilizzate per la decantazione dell’argilla e, soprattutto, un torchio da olio e una serie di grandi fosse circolari che potrebbero aver ospitato macchinari per la lavorazione dei prodotti agricoli (cereali e forse uva), come sembrano suggerire anche i frammenti di macine rinvenuti.26 Ciò rientrerebbe perfettamente in quella nuova logica regionale di potenziamento di certe colture specializzate, possibili grazie allo sviluppo economico, all’incremento demografico e alla presenza di un mercato piuttosto complesso.

A inizio X secolo, il Marchese di Tuscia Adalberto II donò la curtis al vescovo di Lucca, provocandone anche l’interruzione delle attività artigianali. Il clima di forte instabilità politica del Medio Valdarno spinse, infatti, i rappresentanti del potere regio e marchionale a cedere terre alla nobiltà laica o ecclesiastica pur di porre fine a violenti scontri.

San Genesio, nonostante il declino delle attività connesse alla curtis, continuava a mantenere un ruolo di spicco in qualità di sub-mansio della via Francigena e dalla sua pieve dipendevano poco meno di trenta ville. Alla prima metà del X secolo risale poi la grandiosa ricostruzione della chiesa che diventa una basilica a tre navate, terminanti con tre absidi, raggiungendo i 35 m di lunghezza e i 17 m di larghezza.

La monumentalizzazione della struttura, che rifletteva il prestigio di San Genesio e il potere economico dell’episcopato, è sicuramente dovuta all’attivismo del vescovo Pietro II, il quale era deciso ad affermare il proprio potere sul territorio.

Circa nello stesso periodo venne edificata la chiesa di San Miniato, il cui sito fu poco dopo fortificato. Queste opere sono invece merito dei Lambardi di San Miniato, famiglia aristocratica diocesana, anch’essa arricchitasi recentemente di beni ed entrate di provenienza marchionale.

Una svolta importante si verificò nel 991, quando Fraolmo dei Lambardi prese in livello San Genesio, instaurando così una stretta relazione con il vescovado e fondando le basi di un potere stabile. Il laicato si avvaleva infatti del possesso o costruzione di siti d’altura e castelli per avere controllo fisico e politico del territorio. Per frenare e

26 CANTINI 2010, pp. 95, 96

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circoscrivere la loro ascesa i vescovi e i rettori delle pievi si trovarono costretti ad allivellare i propri beni per garantirsi l’appoggio dei signori locali.27

Nel corso dell’XI secolo il prestigio di San Miniato crebbe fino ad estendere la sua influenza al territorio circostante e a San Genesio. Ciò è dimostrato dalla consuetudine della pieve di pagare una serie di tributi ai Lambardi, i quali riuscivano così a recuperare una parte delle decime che dovevano al vescovo28.

Nella prima metà dell’XI secolo, San Genesio fu oggetto di una serie di opere edilizie dovute forse all’attivismo del vescovo di Lucca, Giovanni II “da Besate” e dei Lambardi che avrebbero investito nel borgo per affermare la propria influenza in questo central place del Medio Valdarno, economicamente vitale e luogo abituale di numerose assemblee politiche29. Venne quindi restaurata la facciata della chiesa e resa adatta ad accogliere una torre campanaria. All’edificio principale furono aggiunte inoltre una canonica, una cripta ed un chiostro con pozzo centrale, trasformando la struttura in un complesso prestigioso ed articolato (Fig. 2, 3, 4 )30.

In questo stesso periodo il vescovo di Lucca perse il controllo del Medio Valdarno, così faticosamente guadagnato con un’attenta politica di concessioni ed accordi. Dopo l’espulsione della Contessa Matilde da Lucca, nel 1081, il potere marchionale non poteva più impedire il processo di personalizzazione dei patrimoni al quale anche i Lambardi parteciparono, riuscendo, quindi, a formalizzare il proprio potere territoriale31.

Dagli anni ’60 del XII secolo fa la sua comparsa un nuovo attore politico: l’impero. In realtà la documentazione potrebbe non essere esaustiva circa una presenza fiscale dell’impero precedente a questa data. Certo è che fu allora che i delegati imperiali s’

insediarono nel castello di San Miniato con lo scopo di controllare la regione e riscuotere le tasse32. San Miniato, tra tutti i castelli della zona, fu scelta in quanto

“ricca”, trovandosi al centro di un territorio economicamente rigoglioso, socialmente dinamico, costellato di abitati e di chiese, la più importante delle quali era sicuramente quella di San Genesio.

27 Ivi, pp. 98, 99; SALVESTRINI 2010, pp.37, 49; TOMEI (in corso di stampa), pp. 9, 10.

28 TOMEI (in corso di stampa), pp. 9, 10, 19, 20.

29 Ivi, pp. 20.

30 CANTINI 2010, pp. 100-109.

31 TOMEI (in corso di stampa), pp. 25.

32 Ivi, pp. 33.

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I Lambardi accettarono pacificamente la perdita d’autonomia. Sotto la protezione dell’autorità imperiale avrebbero, infatti, rafforzato la propria posizione rispetto ai vescovi di Lucca e Pisa, interessati ad estendere il dominio nel Medio Valdarno33. Successivamente San Miniato si comportò in maniera ambivalente verso l’impero, cercando di ignorarne l’autorità, nel tentativo di espandersi in val d’Egola e mettendosi sotto la sua protezione quando gli scontri con Lucca ed i suoi alleati non ottenevano l’esito desiderato.

È indicativo che le più importanti riunioni politiche del tempo, tanto le diete imperiali come la riunione dei rappresentanti della Lega di Tuscia, si fossero svolte a San Genesio, considerato evidentemente ancora un centro prestigioso; lo confermano anche le opere edilizie di fine XII secolo: un nuovo restauro investì la facciata della chiesa e l’area presbiteriale, mentre si fuse una nuova campana 34.

Il declino di San Genesio fu tuttavia, inevitabile. Sempre in balia degli eventi, senza avere una propria identità politica, all’esaurirsi della presenza imperiale, che in qualche modo la garantiva, rimase mero oggetto di contesa tra San Miniato e Lucca.

Nel momento in cui il castello spostò i suoi interessi espansionistici dal Medio Valdarno verso il territorio volterrano, la pieve fu abbandonata a se stessa. Il suo territorio fu, infatti, ripetutamente oggetto di scorrerie, compiute da Lucca e dai suoi alleati, nella speranza di creare un avamposto sulla riva sinistra dell’Arno35.

La situazione peggiorò quando a inizio XIII secolo San Miniato guadagnò i favori di Federico II. Grazie al suo appoggio riuscì a ottenere sia il permesso di creare una deviazione della via Francigena, facendola passare per San Miniato, sia, nel 1236, di far nominare la chiesa dell’Assunta nuova pieve. San Genesio perse così la posizione strategica e la funzione battesimale, caratteristiche che le avevano permesso di prosperare durante il Pieno Medioevo. Nel 1240, fu occupata dai lucchesi, i quali cercarono di darle nuova vita, ricostruendola, riqualificando il regime idrico e dando inizio ad opere di carattere difensivo. San Miniato, preoccupata della perdita del borgo e, soprattutto, della presenza dei Lucchesi nel Medio-Valdarno, nel 1248 attaccò e distrusse San Genesio36.

33 Ivi, pp. 37, 38.

34 CANTINI 2010, pp. 100-109.

35 TOMEI (in corso di stampa), pp.45.

36 Ivi, pp. 45-51.

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11 Fig. 2 - Ricostruzione del cantiere di monumentalizzazione della chiesa di XI secolo; disegno di Angelique Coltè, cura scientifica di Federico Cantini.

Fig. 3 - Ricostruzione del borgo di San Genesio nella prima metà del XIII secolo; disegno di Angelique Coltè, cura scientifica di Federico Cantini.

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12 Fig. 4 - Foto aerea della chiesa di XI secolo, realizzata da Stefano Campana-Università di Siena/LAP&T.

CAPITOLO II - PAESAGGIO ED ECONOMIA: IL MONDO RURALE

La gestione delle risorse agro-silvo-pastorali, il commercio, il popolamento e il paesaggio sono generalmente determinati da un particolare progetto politico o rispondono a necessità concrete di ordine fisico e ambientale. Cambiamenti culturali, eventi militari e la scoperta di nuove tecnologie sono tutti fattori che incidono sul paesaggio.

In questo capitolo si cercherà di descrivere un quadro sintetico degli sviluppi del paesaggio italiano, in generale, e toscano, in specifico, dal periodo tardo antico al Pieno Medioevo. Come chiavi di lettura privilegiate sono stati presi in esame i modelli

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storiografici relativi ai sistemi di popolamento rurale e gli sviluppi storici dell’economia agro-silvo-pastorale.

2.1 - LA TARDA ANTICHITÀ

La gestione della terra e il popolamento rurale hanno assunto una grande importanza negli studi contemporanei. In passato si cercava soprattutto di stabilire il confine giuridico e organizzativo tra il sistema schiavile dell’epoca classica e quello servile dal Pieno Medioevo. Come suggerisce anche Wickham, all’indebolirsi del controllo signorile sul mondo rurale corrisponde una certa libertà dei contadini nel gestire il proprio lavoro. Ma il processo nel suo insieme non è lineare e molti sono i fattori e le problematiche da analizzare37.

Nell’impero romano d’occidente, dopo le riforme dioclezianee del III secolo, troviamo una classificazione degli abitati basata essenzialmente su tre categorie: insediamenti legati alla viabilità (stationes e mutationes), insediamenti agglomerati (pagi, vici, castra e castella) e insediamenti sparsi (fattorie, villae e villae monumentali)38.

Per quanto riguarda la gestione della terra, durante il periodo tardo antico, il sistema predominante è sicuramente quello della villa, che ritroviamo da York fino a Leptis Magna.

L’importanza di queste strutture, la cui complessità e ricchezza erano molto variabili, rimane un dato evidente. Non è un caso che sia dalla letteratura, sia dalle rappresentazioni artistiche tardo antiche emerga un forte interesse dei ceti elevati per la vita rurale, vissuta come parte integrante del proprio status39.

37 WICKHAM 2009, 287-293.

38BROGIOLO, CHAVARRĺA ARNAU 2005, pp. 31-48.

39 WICKHAM 2009, pp. 498, 501

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Le villae si componevano di due parti: la pars urbana, dove risiedeva il proprietario che da qui amministrava le sue terre, e la pars rustica, dove avevano luogo le attività agricole o di allevamento, dove erano situate le abitazioni di coloro che qui lavoravano e le strutture connesse con tali attività40.

Le villae vanno considerate come punti cardinali della rete insediativa rurale. Queste erano capaci di generare un senso d’identità territoriale più forte di quello legato all’appartenenza ad una determinata zona geografica. I villaggi (vici) potevano coesistere con le villae, ma in posizione spesso subordinata ad esse, cioè come facenti parte della medesima struttura. Gli insediamenti caratterizzati da una funzione particolare, legata al commercio, alla comunicazione o d’importanza strategico- militare (stationes, mutationes, castra e castella), potevano rimanere al di fuori di questa rete, dipendendo più facilmente da un potere cittadino41.

Dal III secolo questo sistema entrò in crisi e in tutta Italia si assistette a un fenomeno di accentramento della proprietà, spesso nelle mani delle aristocrazie cittadine. Nella Toscana centro-settentrionale, cominciarono a scomparire le aziende di piccole e medie dimensioni, specialmente se lontane dai centri urbani. Tuttavia sopravvissero le grandi proprietà42.

Nel corso del IV secolo la produzione agricola della penisola Italiana fu ridimensionata con la divisione in “Annonaria” (con il compito di rifornire la corte imperiale e l’esercito) e “Suburbicaria” (con il compito di rifornire Roma).

Nella Toscana centro-settentrionale, facente parte dell’Italia annonaria, la società urbana tornò ad essere piuttosto florida e articolata, composta da funzionari statali, militari ed ecclesiastici. Proprio sotto la loro spinta si svilupparono ulteriormente quelle grandi proprietà che già sopravvissero alla crisi del III secolo. Nello stesso tempo, il numero delle piccole e medie proprietà continuò a diminuire. Altra sorte ebbero gli insediamenti situati in posizioni strategiche o in prossimità della viabilità

40BROGIOLO, CHAVARRĺA ARNAU 2005, pp. 31-48.

41 WICKHAM 2009, pp. 501, 503.

42 CANTINI 2012, pp. 165, 166.

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valdarnese. Questi stessi siti, dopo la conquista gota del V secolo, furono interessati da un commercio piuttosto dinamico, promosso principalmente dalle città del Valdarno43. Nella seconda metà del VI secolo, dopo le devastazioni portate dalla guerra greco- gotica e un breve periodo di dominio bizantino, avvenne la conquista longobarda. Il clima d’instabilità politica, gli eventi bellici e la recessione demografica causarono lo spopolamento delle campagne Toscane, dove anche le grandi ville senatorie caddero in disuso. La loro attività, insieme alle aziende più importanti, non si era, infatti, mai interrotta nemmeno durante la crisi di III secolo44.

2.2 - L’ALTO MEDIOEVO

La bassa densità demografica e l’inarrestabile declino del sistema delle villae comportarono il loro abbandono o una loro trasformazione d’uso. Al principio del Medioevo, nell’area prima occupata dalla villa poteva sorgere un cimitero, una chiesa o un monastero. In alcuni casi l’attività agricola continuava, magari gestita dagli stessi proprietari, oppure da nuovi contadini che ora la abitano. Gli edifici preesistenti subirono comunque un deterioramento e altri edifici, spesso in materiali più semplici, si andarono ad aggiungere ai ruderi della struttura precedente.

Scomparse le villae, iniziarono a diffondersi i villaggi, insediamenti rurali che, non essendo inseriti all’interno di una proprietà fondiaria, assunsero un’identità geografica45.

Dal punto di vista organizzativo, il territorio longobardo fu diviso “in circoscrizioni che facevano capo alle città sede di ducato o gastaldato e a una serie di iudiciarie minori legate ai castra”.46

43 Ivi, pp. 167-169.

44 Ivi, pp. 170-173.

45 WICKHAM 2009, pp. 506, 507, 517

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La chiesa dei secoli VI-VII si sostituì spesso ai grandi proprietari tardo imperiale , ma, almeno nell’Italia longobarda, non impose un controllo stretto sulla produzione agricola, se non in casi particolari, come nelle terre prossime alle sedi episcopali o ai monasteri. In effetti, la dispersione della proprietà laica rendeva difficile la riscossione capillare dei tributi47, e l’importanza dei boschi e le attività che qui si svolgevano creavano ulteriori complicazioni nell’organizzare e controllare le proprietà.

Quest’ultima poteva avere estensione e importanza variabili. Secondo la schematizzazione fatta da Bruno Andreolli e Massimo Montanari48 esistevano quattro tipo principali di azienda rurale:

1. La grande proprietà fiscale, regia e ducale.

2. La grande proprietà dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica.

3. La piccola proprietà libera.

4. La proprietà delle comunità di villaggio.

Per i sistemi insediativi toscani riscontriamo una variabilità piuttosto alta. A nord-est di Siena sembra fosse sviluppato un tipo d'insediamento sparso costituito da piccoli edifici in legno e/o terra. Nella Valdelsa, in zona appenninica e nella Toscana del nord, troviamo insediamenti agglomerati. Per la zona del monte Amiata, nel sud della Toscana si ha la presenza simultanea dei due sistemi d’insediamento.

Dalla metà del VII secolo, alcuni villaggi del Valdarno, tra cui Vico Wallari, cominciarono a espandersi e riattivarono le attività artigianali, spesso legate alla raccolta e trasformazione dei prodotti agricoli. La vitalità di questi siti era legata alla loro posizione strategica sulla viabilità Lucca-Firenze e al conseguente rapporto

“privilegiato” con la nuova aristocrazia cittadina longobarda49.

Dall’VIII secolo, si verificarono cambiamenti anche nella gestione interna delle aziende, che tendevano ad essere divise in due parti: una gestita direttamente dal

46 CANTINI 2012, p. 173.

47 CHIAPPA MAURI 2002, pp. 24-31.

48 Per approfondire vedi ANDREOLLI, MONTANARI 1985, pp. 47, 48.

49 CANTINI 2012, pp. 172-173.

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proprietario, l’altra concessa ai coloni in cambio di derrate e/o denaro. Nello stesso secolo divenne più evidente l’espansione dei complessi fondiari ecclesiastici, fenomeno le cui cause sono sia le donazioni ricevute da grandi e piccoli proprietari terrieri, sia lo stato di debolezza in cui versava il regno longobardo, ormai pressato dall’ascesa dei Franchi e dalle ambizioni della Chiesa romana50.

Altro cambiamento importante si verificò nel rapporto tra coltivi e incolti, elemento chiave per la ricostruzione del paesaggio rurale.

Il calo demografico avvenuto tra Tardo Antico e Alto Medioevo comportò l’abbandono di molte terre e la diminuzione dell’estensione delle terre coltivate51. Si creò un paesaggio del tutto nuovo rispetto al mondo classico, dove foreste, acquitrini e macchia ricoprivano la maggior parte del suolo della Penisola52. La popolazione germanica influenzò molto quella romano-bizantina e portò a riconsiderare la contrapposizione tra città e aree coltivate, dando maggior importanza proprio all’incolto53. Queste aree erano ampiamente sfruttabili da un punto di vista economico ed alimentare. La concezione di stampo positivista che portò J. Dhondt a considerare l’uomo altomedievale come “affamato” perché non in grado di produrre adeguate quantità di pane è sicuramente ormai superata. Negli ultimi trent’anni si è dimostrato come l’argomento fosse stato fino ad allora trattato con superficialità. Il pregiudizio di fondo era considerare i cereali e i suoi derivati l’elemento basilare della dieta medievale54.

Il bosco, in particolare, era una risorsa economica fondamentale, era frequentato, curato, gestito e modificato nella sua componente arborea. Riprendendo

50ANDREOLLI, MONTANARI 1985, p. 49.

51 PINTO, PONI, TUCCI 2002, pp. 13-19.

52 CHIAPPA MAURI 2002, pp. 24-31.

53 MONTANARI 2002, p.59.

54 DHONDT 1970.

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un’espressione di Bruno Andreolli, l’uomo “allora non fu solo coltivatore di campi, ma anche, talora soprattutto, coltivatore di boschi”55.

Nel bosco si praticava la caccia, si coltivavano alberi, si raccoglievano i frutti.

L’allevamento e la raccolta di legname rimanevano comunque le attività principali, il primo praticato nella silva fructuosa o glandifera, e il secondo nella silva infructuosa o stallaria, il bosco ceduo56.

La popolazione altomedievale della penisola italiana integrava perfettamente queste risorse con attività agricole più tipicamente mediterranee, come la coltivazione di cereali, da pane e da zuppa, e di verdure ortive.

In casi particolari, come in quelle zone e regioni dove i terreni presentavano caratteristiche vantaggiose per la produttività, l’agricoltura rimase il settore economico predominante (l’alta pianura lombarda, la Valpolicella veronese, i primi rilievi appenninici, fasce di campi lungo la via Emilia, le colline toscane ed umbre, la costa adriatica pugliese, le colline del Sannio e dell’Irpinia, la Valdemone in Sicilia e, in generale, intorno alle città e centri abitati più attivi). Al sud si coltivavano soprattutto frumento, farro e orzo, mentre nel centro e nel nord segale, miglio, panico e spelta.

Dove le condizioni climatiche lo permettevano ed esisteva un ceto dirigente sufficientemente prestigioso, venivano coltivati anche alberi da frutto, la vite e l’olivo57.

55 ANDREOLLI 2002, pp. 123-128.

56 Ibidem.

57 CHIAPPA MAURI 2002, pp. 24-31.

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2.3 - IL PERIODO CAROLINGIO

A cavallo tra VIII e IX secolo si assiste da un lato al fortificarsi del potere ecclesiastico sul territorio, dall’altro alla diffusione del sistema curtense. Importato nell’Italia longobarda dai Franchi, questo sistema prevede la divisione dell’azienda rurale in due parti: la pars dominicia (da dominus, signore) e la pars massaricia (da massarius, contadino). La prima era direttamente gestita dal proprietario, utilizzando come forza lavoro i praebendarii (coloro che ricevono la paebenda, cioè il vitto), figure che potrebbero essere considerate come servi. La pars massaricia, legata al signore da un vincolo di potere e fedeltà, era a sua volta suddivisa in mansi, aziende minori concesse in gestione a coltivatori liberi o servi. Questi, in cambio della terra, pagavano al proprietario un canone annuo, spesso in natura, ma talvolta in denaro. I concessionari dovevano anche lavorare per un certo numero di giornate all’anno sulla pars dominicia. Questo servizio di prestazione d’opera, la corvée, è l’elemento più evidente di cesura con il sistema aziendale longobardo e si diffuse velocemente tanto nella proprietà laica, quanto in quella ecclesiastica. Le motivazioni del successo di questo sistema non erano solo di ordine politico-territoriale, ma anche tecnico per la capacità di gestire e mettere a lavoro per un periodo limitato di tempo molti uomini e strumenti.

Generalmente un unico signore possedeva più di una curtis, spesso collegate tra loro in una rete commerciale interna. Infatti, anche se la curtis era un sistema fondamentalmente autosufficiente, alcuni prodotti, come olio, ferro e sale non potevano essere reperiti ovunque58.

Una delle conseguenze di questo nuovo tipo d’azienda fu l’irrigidimento del controllo sulla terra e sul mondo rurale. Accanto alle curtis continuavano ad esistere e a

“resistere” piccole e medie aziende, gestite in maniera quasi completamente autonoma59. In alcuni casi gruppi di possidenti o intere comunità di villaggio arrivarono ad associarsi per contrastare l’espansione dei potentes, ma gli esiti furono

58 ANDREOLLI, MONTANARI 1985, pp. 15-58.

59 CHIAPPA MAURI 2002, pp. 33-37.

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quasi sempre negativi. In sostanza, molti piccoli coltivatori perdettero autonomia a vantaggio delle grandi curtis, alle quali era preferibile sottomettersi piuttosto che competere con esse. Ciò poteva avvenire spontaneamente o in conseguenza di violenze e intimidazioni da parte dei potentes. Alla base vi erano motivazioni di vario tipo, le più importanti delle quali erano la necessità di sottrarsi a certi doveri pubblici (come il servizio armato e il pagamento delle tasse), l’acquisizione di altri terreni, ricevuti in locazione, e i vantaggi derivanti dal far parte del sistema di una curtis (protezione del signore, capacità migliore di affrontare periodi di crisi, commercio interno alla proprietà).

Il successo delle curtes e dei loro signori era poi favorito dall’ottenimento di nuovi diritti sull’incolto. Questo era ancora considerato suolo publicum, proprietà regia, ma in quel periodo i grandi feudatari, laici o ecclesiastici, ne guadagnarono l’usufrutto e talvolta la proprietà, quasi completa, arrivando a imporre tasse speciali come il glandaticum, per l’utilizzo dei boschi di quercia e l’erbaticum per i pascoli60.

Per quanto riguarda i territori dell’Esarcato e dell’Italia bizantina, la situazione del mondo rurale era differente. Sintetizzando potremmo dire che qui fu più duraturo il retaggio dei sistemi catastali romani. L’unità territoriale di base, dal punto di vista della proprietà, era il fundus. Un agglomerato di fundi costituiva la massa. A differenza dell’Italia longobarda qui erano rari i terreni a conduzione diretta da parte del dominus. La maggior parte dei terreni era infatti data a livello. Persino nelle massae, il fundus centrale o più importante non costituiva un centro organizzativo delle attività e del commercio e spesso era anch’esso dato in livello. Nei documenti di fine IX secolo viene citato il termine “curtis”, ma con esso, in realtà, si indica la proprietà terriera in generale, sia essa fundus o massa, oppure, dall’XI secolo, un territorio facente parte della giurisdizione signorile61. Per il sistema insediativo rurale, tra VIII e IX secolo, si riscontra la predominanza del tipo sparso, costituito da una piccola estensione di terra, all’interno della quale si trovavano edifici isolati e dove

60 ANDREOLLI, MONTANARI 1985, pp. 68-98.

61 Ivi, pp. 161,165.

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viveva generalmente una sola famiglia. Questa dovrebbe essere la realtà paesaggistica dei mansi a cui corrispondeva un rigido frazionamento del terreno in settori produttivi:

l’area abitativa, i campi, le vigne, i prati, i pascoli, i boschi e gli orti. I villaggi non erano certo assenti, ma questi erano abitati da contadini, liberi o dipendenti, subordinati in varia misura al potere di un signore62.

2.4 - IL PIENO MEDIOEVO

Nel corso del XI secolo si assiste a numerosi cambiamenti. Per quanto riguarda le specie coltivate furono introdotte nuove varietà o riacquistarono vitalità quelle quasi scomparse nei secoli precedenti, come sorgo e granoturco. Il contatto commerciale con l’Oriente, provocò l’importazione di nuove specie, come riso, canna da zucchero, cotone, agrumi, (questi ultimi importati soprattutto in Sicilia e nel meridione), nonché piante utili all’industria tessile come lino, canapa, gelso, il guado e lo zafferano.

Furono poi introdotte importanti innovazioni nel campo delle tecniche agricole e della trasformazione dei prodotti. Anche se alcune regioni italiane rimasero marginalmente toccate da questi sviluppi, è innegabile la portata di novità come la rotazione triennale, l’aratro pesante, mulini e frantoi63. In questo periodo si assiste a una ripresa dell’economia europea, pur con andamento non lineare e con modalità e tempistiche differenti a seconda della zona. Diversi furono i fattori che contribuirono a favorire questo sviluppo: l’aumento delle temperature e la minor piovosità attestate tra X e XIV secolo; la scomparsa per più di sei secoli consecutivi della peste bubbonica; l’uso di risorse alimentari di varia tipologia e origine (cioè provenienti tanto dal campo

62 Ivi, pp. 177,188.

63 PINTO, PONI, TUCCI 2002, pp. 14-19.

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coltivato quanto dall’incolto), capaci di ammortizzare gli effetti disastrosi delle carestie64.

Prima della conquista normanna, il sud dell’Italia si contraddistinse per la presenza di un insediamento di piccole e medie proprietà e un’espansione delle città costiere, rese floride dal commercio con i Bizantini e i rapporti con il mondo Arabo.

L’Italia centro-settentrionale del X-XI secolo fu caratterizzata invece dall’incastellamento e dall’accentramento delle proprietà. Nella Toscana meridionale e litorale si svilupparono i centri fortificati d’altura, capaci di attuare il consolidamento di certe ambizioni signorili sul territorio. Per quanto riguarda l’interno, la formazione di nuovi centri fortificati, non determinò il declino dei villaggi preesistenti e attorno ai quali faceva perno il mondo rurale.

Spesso le opere di fortificazione si andavano ad inserire in una curtis, senza cambiarne i rapporti di potere. Tuttavia la spinta all’accentramento di terre, risorse e uomini provocò un nuovo atteggiamento dei signori fondiari. Questi si ritrovarono a esercitare compiti amministrativi e poteri che prima spettavano al re. Alla debolezza del potere centrale corrispose la maturazione di una coscienza nobiliare che giustificava il proprio dominio sulla terra e, in parte, sulle persone con l’appartenenza ad una casata.

Le differenze tra contadino libero e servo scomparvero poco a poco e tutti divennero semplicemente lavoratori sottoposti. Il castello diventava il centro di un territorio, ancora chiamato curtis, ma rispecchiante un’unità amministrativa, un districtus, più che un’azienda fondiaria. Alla corvèe si preferiva ora il censo in denaro, più facile da esigere in una proprietà in espansione.

Contemporaneamente si creò una situazione economica particolare che permise all’aristocrazia, il più delle volte longobarda, decaduta durate il periodo carolingio, di colmare i vuoti di potere della nobiltà locale, accaparrando terre con contratti di livello che, con il tempo, si sarebbero trasformati in patrimoni perpetui65. Da lì a poco il

64 CHIAPPA MAURI 2002, pp. 24-31.

65 ANDREOLLI, MONTANARI 1985, pp. 201-205.

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mondo rurale si sarebbe trovato in un clima d’incertezza dovuto alla cattiva gestione e frammentazione delle proprietà.

Al di là delle differenze climatiche e pedologiche, da sempre esistenti nel nostro territorio, nel corso del Medioevo, ma soprattutto a partire dall’XI secolo, particolari scelte politiche e culturali portarono ad estremizzare le differenze paesaggistiche tra regione e regione e, a livello macroscopico, tra le zone umide centro-settentrionali e le zone aride meridionali66.

Tra XI e XII secolo città come Pavia, Pisa, Firenze, Bologna, Mantova e Milano riscossero un tale successo da promuovere anche la costruzione di nuovi castra. Si crearono nuove dinamiche territoriali e socio-economiche, incentrate sul potere cittadino.

Questo sviluppo urbano fu contemporaneo alla rinascita del contado. Alla base vi fu un’inversione di tendenza nel rapporto tra coltivi e incolto, così come lo abbiamo visto per i secoli precedenti. Grazie ad opere di terrazzamento e bonifiche, le aree coltivate si estesero e vennero creati pascoli aperti, recuperando spazio a boschi e paludi.

Queste opere sono ben documentate tanto per le grandi proprietà fondiarie, quanto per iniziativa di piccoli proprietari, livellari e massari. Tuttavia, dal XII secolo, furono le stesse città ad occuparsi direttamente di queste operazioni di colonizzazione dove, su stimolo di élites o organi comunali, venivano fondati borghi franchi e ville nove, anche con evidente funzione antisignorile o strategico-militare67.

Tutto ciò provocò una maggior omogeneizzazione nella distribuzione della densità demografica, che, a partire da aree fortemente polarizzanti, si diffuse sul territorio.

Dalla metà del XIII secolo le città del centro-nord raggiunsero livelli di popolazione che non hanno altri confronti in Europa ad esclusione di Parigi. In testa troviamo Milano (200.000 abitanti) seguita da Firenze e Venezia (100.000 abitanti), Genova (60.000 abitanti), Bologna, Verona, Brescia, Cremona, Pisa, Siena (con una popolazione superiore ai 40.000 abitanti). Uniche corrispettive meridionali di queste

66 PINTO, PONI, TUCCI 2002, pp. 14-19; CHIAPPA MAURI 2002, pp.45-48.

67 Ivi, pp. 37-39.

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grandi città furono Palermo (40.000 abitanti), Napoli e Messina (20.000 abitanti), non danneggiate dal dominio normanno. Come approfondiremo nel cap. III, queste popolose città sfruttarono ai limiti del possibile il mondo rurale, lasciando segni evidenti sul paesaggio.

Per quanto riguarda il meridione i castra di fondazione normanna generarono un certo fenomeno di polarizzazione, ma non determinano quasi mai il declino del tradizionale popolamento rurale diffuso. Oltre alla fondazione di nuovi centri fortificati, si registra infatti un aumento del numero dei casali, anche in zone precedentemente poco abitate.

Una buona parte di questa crescita del mondo rurale fu promossa dalla grande proprietà ecclesiastica.

Dal punto di vista tecnico la Chiesa e i signori laici cercavano di colonizzare le terre ancora disponibili e poco abitate, e indirizzavano l’agricoltura verso prodotti specializzati, come il vino e il grano per le “terre vecchie” della Puglia mediana o l’ulivo per l’entroterra barese. Erano presenti anche colture particolari come quelle di cotone, lino, gelso e zafferano e fu rinnovato l’interesse per l’allevamento ovino.

Sotto Federico II questo dinamismo subì un arresto. Ne furono causa una serie di scelte politiche che potremmo definire d’ingerenza dello stato nell’ambito dei settori produttivi e del commercio: i boschi e i pascoli diventarono proprietà reale, furono organizzate delle masserie regie con il fine di specializzare le colture e orientare il commercio e infine vennero stabilite delle tasse doganali sul commercio di bestiame.

Ciò comportò un processo di declino del mondo rurale, che proseguì sotto il governo degli Angiò68.

Tra XIII e XIV secolo le città entrano in crisi a causa di una serie di problematiche:

difficoltà nella gestione dello sviluppo urbano, guerre di fazioni, tentativi di riunire sotto un unico governo più città, disorganizzazione nella burocrazia e inefficienza del prelievo fiscale. Dato lo stretto legame che si era instaurato tra città e campagna, la crisi investì a catena tutto il territorio. Molti abitanti delle campagne si spostarono

68 Ivi, pp. 40-45.

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nuovamente verso posizioni d’altura, abbandonando talvolta intere località. Questo portò a problemi di approvvigionamento cittadino e a oscillazioni deleterie dei prezzi dei grani. Molte città ricorsero a soluzioni onerose come il rifornimento da mercati extra-regionali, e a provvedimenti duri come il divieto di esportazione, il controllo sui prezzi e le transazioni. Come in un circolo vizioso la diminuzione drastica delle risorse del contado spinse ulteriori masse di contadini verso le città. In questa situazione, nel 1347, ricomparve la peste, alla quale si aggiunsero guerre e ribellioni. Al principio del XV secolo la popolazione peninsulare era ridotta del 40% rispetto a cent’anni prima.

Le conseguenze furono diverse da caso a caso. Nel Nord la crisi non riuscì a sconvolgere l’assetto urbano e portò addirittura alla formazione di centri a carattere misto (rurale, artigianale e commerciale) che fungevano anche da punti di raccordo tra le città e i piccoli villaggi. In Italia centrale, dove la decrescita demografica arrivò al 53%, le conseguenze furono molto più gravi. Sia i centri minori sia le città subirono un forte declino dal quale solo poche riuscirono a riprendersi come Firenze, Perugia e Siena. In contrapposizione con il periodo precedente si avviò una forte tendenza alla ruralizzazione economica. Nel Sud la crisi fu più lieve: molti centri scomparvero, ma alcune città, come Roma, Napoli e Palermo, crebbero.

Nel tardo XIV secolo, sempre sotto la direzione cittadina ci fu un ritorno al modello policolturale diffuso nell’Alto Medioevo. Vennero in parte abbandonate le colture cerealicole intensive diffusesi dal XII secolo e il paesaggio assunse un carattere diversificato. Di particolare rilievo fu il venir meno della tipica separazione tra campo e vigna a favore del modello della “piantata” (la cui variante toscana è l’“alberata”), caratterizzato da zone seminate a cereali separate da filari di vite a sostegno vivo (olmi, pioppi, salici, alberi da frutto).

Contemporaneamente si passò dall’abitato accentrato a quello diffuso con case sparse e all’adozione del rapporto mezzadrile a breve termine, che permettesse al proprietario di avere un reale controllo diretto sui processi produttivi.

Questo atteggiamento economico dei proprietari, che potremmo definire imprenditoriale, unito alla coltivazione delle terre migliori e all’abbandono di quelle

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difficili da coltivare, portò la resa agricola a soglie mai sperimentate nell’Alto e nel Pieno Medioevo69.

CAPITOLO III - L’AMBIENTE ANTROPICO

3.1 - CLIMA E IMPATTO ANTROPICO

In un articolo del 2000 di Isabel Figueiral e Volker Mosbruger, viene fatta una rassegna dei risultati delle più importanti ricerche archeobotaniche degli ultimi trent’anni nell’Europa occidentale. Utilizzando esempi della Francia meridionale, della Spagna e del Portogallo emerge una serie di dati comuni: il primo è che la vegetazione che copriva la maggior parte del suolo europeo al principio dell’Olocene è da considerarsi residuale del clima freddo dell’ultima glaciazione. Alcune delle conifere del periodo, come il Juniperus, il Pinus sylvestris e l’Abies alba iniziarono quindi a scomparire dalle pianure fino a rimanere solo in alcune zone, dette “rifugio”, situate a considerevole altitudine. In secondo luogo, il tipo di vegetazione arborea che si era andata formando da allora era costituito da un bosco misto di caducifoglie e sempreverdi che meglio si adattavano al nuovo clima più mite e più umido. Infine, in un periodo compreso tra la metà dell’età del bronzo e la prima età del ferro, la vegetazione cambiò nuovamente: cominciò a sparire la vegetazione potenziale (cioè, nel nostro caso, la più adatta al clima dell’olocene), e si diffusero altre specie, per lo più quelle che costituiscono la cosiddetta “macchia mediterranea” (ad esempio Olea, Rhamnus, Phillyrea, Arbutus unedo, Erica multiflora). Questo cambiamento della

69 MONTANARI 2002, pp. 68-80.

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vegetazione non fu l’effetto di una variazione climatica, bensì conseguenza dell’impatto ambientale dovuto alle attività umane70.

Circa 10.000 anni fa l’Uomo ha abbandonato un’economia basata esclusivamente sulla caccia e raccolta e ha dato inizio alla domesticazione delle piante e degli animali.

Cambiando totalmente il modo di procurarsi il cibo, si crearono le basi dell’economia moderna. È quella che Vere Gordon Childe ha definito “rivoluzione neolitica”. Le implicazioni di questo evento non furono solo culturali: i cambiamenti nella varietà floristica registrati durante l’Olocene, sono imputabili proprio all’intensificarsi delle attività antropiche che coinvolsero l’ambiente.

In sostanza l’entità dell’impatto umano sulla vegetazione e le sue conseguenti trasformazioni sono apprezzabili archeologicamente grazie al diffondersi di specie resistenti al disturbo71.

3.2 - VEGETAZIONE ATTUALE E VEGETAZIONE POTENZIALE

Nonostante l’uso millenario, la Toscana presenta tuttora una copertura boschiva pari al 50,1% della superficie regionale totale.

Escludendo fattori antropici, ciò che più influenza la vegetazione della regione è la vicinanza al mare, l’altitudine e i caratteri del suolo.

Sintetizzando, attualmente, troviamo due principali fisionomie forestali:

1-latifoglie sempreverdi (leccete, sugherete, macchia arborea, macchia arbustiva, garriga);

70 FIGUEIRAL, MOSBRUGGER 2000, pp. 399-401. Per un quadro completo degli studi recenti sul clima, la vegetazione e l’impatto antropico nel mediterraneo vedi MAZZOLENI, DI PASQUALE, MULLIGAN, DI MARTINO, REGO 2004; per la Toscana settentrionale vedi COLOMBAROLI, MARCHETTO, TINNER 2007, pp. 755-770; BELLINI, MARIOTTI LIPPI, MONTANARI 2009, pp.

1161-1172. Per approfondire, vedi tra gli altri THIÉBAULT 1988; VERNET 1997; UZQUIANO 1992, pp. 540–547; RODRIGUEZ-ARIZA, VALLE, ESQUIVEL 1996; FIGUEIRAL 1995; Per il periodo medievale vedi anche DURAND 1998.

71DI PASQUALE 2011, pp. 10, 11; FIGUEIRAL, MOSBRUGGER 2000, pp. 399-401.

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