• Non ci sono risultati.

RIVISTA DELL ASSOCIAZIONE FRA LE CASSE DI RISPARMIO ITALIANE

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2022

Condividi "RIVISTA DELL ASSOCIAZIONE FRA LE CASSE DI RISPARMIO ITALIANE"

Copied!
133
0
0

Testo completo

(1)

Anno LV - n. 1 gennaio - marzo 2007 - Pubblicazione trimestrale

Poste Italiane Spa Sped. in abb. post. 70% DCB Roma - com. 20 lett. c - Art. 2 legge 662 del 23/12/96 - Filiale di Roma - Romanina

1

1 2007

(2)

Administrative Editor

Stefano Marchettini (ACRI, Rome)

Editorial Board

Emmanuele Emanuele (ACRI, Rome)

Adriano Giannola (University of Naples “Federico II”) Giuseppe Guzzetti (ACRI, Rome)

Valentino Larcinese (London School of Economics) Mario Nuzzo (LUISS, Rome)

Antonio Patuelli (ACRI, Rome)

Dominick Salvatore (Fordham University of New York) Pasquale Lucio Scandizzo (University of Rome “Tor Vergata”)

Anno LV - n. 1 gennaio - marzo 2007 - Pubblicazione trimestrale

1

(3)

Codice ISSN 0035-5615 (print) Codice ISSN 1971-9515 (online)

Le opinioni espresse negli articoli firmati o siglati impegnano unicamente la responsabilità dei rispettivi Autori.

La riproduzione dei testi è consentita, purché ne venga citata la fonte.

(4)

SERGIO RISTUCCIA

Le grandi fondazioni. Una speciale responsabilità sociale Large Foundations and their special Social Responsibility

5

NICOLA MATTOSCIO - EMILIANO COLANTONIO

L’economia della conoscenza nell’EU in un’analisi esplorativa multivariata The knowledge economy in the European Union

in a multivariate explorative analysis 27

GUIDO PAGGI

Processo di integrazione socio-economica della CEE/UE Economic and social integration tools in the EEC/EU

67 PAOLO PIANCA

Modelli continui per la valutazione di opzioni su titoli azionari che staccano dividendi

Continuous time models to value options on stocks with discrete dividends 101

SCHEDE BIBLIOGRAFICHE BOOK REVIEWS a cura di Elisabetta Boccia

127

(5)
(6)

Chairman of the Italian Council for Social Sciences cssroma@consiglioscienzesociali.org

* Il testo è tratto dall’intervento svolto in occasione dell’Assemblea annuale dei Soci del Consiglio italiano per le Scienze Sociali“, svoltasi a Roma, nell’Aula Adrianea –Horti Sallustiani il 4 aprile 2007.

Il materiale pubblicato è tratto dal sito del Consiglio italiano per le Scienze Sociali, www.cosiglioscienzesociali.org”.

(7)
(8)

Le fondazioni di origine bancaria sono, sostanzialmente, una realtà viva nella società italiana. C’è un’esperienza recente su cui riflettere, c’è la speciale responsabilità sociale che ricade su soggetti che finora hanno ben valorizzato i propri patrimoni, come soprattutto è avvenu- to nella buona gestione delle risorse ricavate via via dalle dismissioni delle partecipazioni azionarie nelle banche di origine. C’è un accre- sciuto patrimonio finanziario (oltre 45 miliardi di euro a valori di libro a fine 2005) al quale far corrispondere, al meglio, capitale so- ciale. Iniziative comuni, rispondenti alla necessità del coordinamen- to, sono state intraprese come è il caso della Fondazione per il Sud.

Il miglioramento dei metodi di accountability può essere perseguito, in attesa di un soggetto certificatore, attraverso appropriate iniziati- ve associative e/o delle singole fondazioni che facciano propria una cultura della valutazione e dell’autovalutazione.

PAROLE CHIAVE: FONDAZIONI DI ORIGINE BANCARIA • RESPONSABILITÀSOCIA-

LE • ACCOUNTABILITY • PATRIMONIO • EENTI TERRITORIALI ED ISTITUZIONALINTI TERRITORIALI ED ISTITUZIONALI • •• MODELLI OPERATIVI • C• CCOORDINAMENTOOORDINAMENTOOORDINAMENTO • C• C• C• CCOOPERAZIONEOOPERAZIONEOOPERAZIONEOOPERAZIONEOOPERAZIONE • G• G• G• G• G• GGOVERNANCEOVERNANCEOVERNANCEOVERNANCEOVERNANCEOVERNANCEOVERNANCE... Banking foundations are a well established reality in Italian society.

It is important to consider the recent history in this regard, and the special social responsibility of those individuals that have thus far successfully managed their assets as in the specific case of the skilled management of those resources gradually accrued on the dismissals of bank shareholdings. Growth in financial assets (over 45 billion Eu- ros according to financial statements at the end of 2005) and growth in social capital must correspond as much as possible. Joint initiati- ves born out of the need to coordinate this relationship – such as the

“Fondazione per il Sud” (Foundation for the South) – have been im- plemented. Improved accountability methods can be applied through appropriate co-operative initiatives and/or the individual foundations being able to embrace a culture of valuation and self-valuation, while still waiting for an auditing body.

KEYWORDS: BANKING FOUNDATIONS • SOCIALRESPONSIBILITY • ACCOUN-

TABILITY • ASSETS • LOCAL ANDINSTITUTIONALENTITIES • OPERATIONAL

MODELS • COORDINATION • COOPERATION • GOVERNANCE.

(9)

Le grandi fondazioni. Con questa espressione si fa riferimento innanzitutto all’elemento “dimensione patrimoniale”. In verità, si tratterebbe di definire, rispetto all’elemento patrimoniale, la soglia di ingresso in questa categoria.

L’indagine ad hoc dell’ISTAT sulle fondazioni e sulle altre organizzazioni non profit che è in fase di conclusione dovrebbe anche rendere possibile una risposta, nella realtà italiana, a questa domanda. Certo, rientrano in questa ca- tegoria le fondazioni di origine bancaria. Come pure potrebbero rientrarvi le fondazioni create negli ultimi dieci anni da grandi imprese o multinazionali, e fra queste dagli stessi gruppi bancari nati dalle varie operazioni di aggre- gazione. Nella logica delle fondazioni d’impresa o corporate foundations.

Ci saranno al riguardo varie differenze con riferimento alla consistenza pa- trimoniale ovvero con riferimento agli eventuali contributi all’esercizio dati dalle imprese fondatrici. Siamo probabilmente di fronte a possibili “grandi fondazioni” almeno in quanto espressione della propensione che si sta dimo- strando, anche nel nostro paese, verso la cd. corporate philantropy. Ovvia- mente, altro tipo di fondazioni potranno essere qualificate come “grandi” in relazione a vari altri parametri. In ogni caso, dovranno essere fondazioni vere rispetto agli elementi costitutivi che sono rilevanti sul piano storico–compa- rativo: non solo l’autonomia patrimoniale, ma anche le finalità di filantropia o di interesse sociale o collettivo. L’ampiezza di queste finalità serve a sta- bilire la misura in cui rientrano nella categoria “grandi fondazioni” quelle dedicate alla gestione di beni culturali o alla promozione di programmi cul- turali di ampio significato sul territorio. Penso, da una parte, alla Fondazione

“Musica per Roma”, la quale ha consentito, attraverso i frutti di un rilevante patrimonio mobiliare, che il nuovo Auditorium si affermasse in questa città come centro di una multiforme attività culturale; penso al FAI, Fondo per l’Ambiente italiano, e al suo ruolo di salvaguardia e sviluppo del patrimonio storico-ambientale del paese; penso alla Fondazione “Museo delle Antichità Egizie” di Torino che ha sta attuando la valorizzazione di un prezioso ed unico compendio di beni artistico-archeologici. E così via. Beninteso, questi esempi introducono una molteplicità di questioni e profili diver- si che non è qui il caso neppure di accennare. Mi interessava soltanto delineare alcuni elementi di contesto entro i quali il discorso sulle gran- di fondazioni va collocato. Con un’avvertenza, tuttavia: una cosa è il significato e la valenza della fondazione come “figura di diritto” realiz-

(10)

zabile, dati certi presupposti costitutivi, per diverse finalità non lucra- tive. Altra cosa è la fondazione come soggetto ricavato dall’esperienza sociale, prima ancora che giuridica, di molti paesi nel mondo, che ope- ra sì con propria autonomia patrimoniale, ma per funzioni di filantropia e di interesse collettivo. La mancanza di lucro non vuol dire, di per sé, filantropia, come non significa – sempre - interesse collettivo.

Fatte queste avvertenze, veniamo al tema di queste riflessioni che è quel- lo delle fondazioni di origine bancaria. Fondazioni di cui chi parla ha se- guito il processo di formazione come conoscitore di fondazioni in questo paese fin dai tempi in cui la stessa parola “fondazione” poco significava (mi riferisco al periodo dagli anni Sessanta agli anni Ottanta del Nove- cento durante il quale ho vissuto la realtà della Fondazione “Adriano Olivetti” avendone per oltre un decennio la responsabilità di direzione come Segretario generale), poi come partecipe, in quanto “esperto”, del- la prima fase di elaborazione della legislazione del 1997-99, poi ancora come membro dell’organo di indirizzo della Compagnia di San Paolo, ed infine come socio fondatore e poi sostenitore del CSS, libera associazio- ne di studiosi di discipline sociali – associazione con personalità giuridica - che dall’incontro con alcune fondazioni di origine bancaria ha tratto impulso per una nuova, intensa fase di lavoro. Dunque, le riflessioni che seguono partono, certamente, da una presa di posizione favorevole alle fondazioni di origine bancaria (le cui ragioni sono state sostenute, anni fa, davanti alla Corte Costituzionale anche da me e non su mandato di una fondazione ma per iniziativa personale, avendo allora l’“interesse ad agire” per farlo). Ma, proprio in ragione di questa partecipazione alla loro storia e alla loro ragion d’essere, le riflessioni che seguono sono ispirate alla libertà di giudizio necessaria per parlare di fondazioni con franchezza e, vorrei dire, con spirito di verità. E non coinvolgendo, al momento, le opinioni del CSS che rappresento.

L’insegnamento della Corte Costituzionale

Avendo appena citato la Corte costituzionale, credo che convenga partire proprio da qui. Ad essere molto sintetici, sono tre i punti fermi fissati dalle sentenze n. 300 e 301 del 2003.

(11)

Il primo punto, che certo va ricordato ma sul quale non è il caso di soffermarsi, è la natura di diritto privato delle fondazioni.

Il secondo è il carattere di norme di base che è stato dato alle parti fondamentali della legislazione 1998-1999 ed in particolare a quelle che costituivano il disegno originario proprio della proposta legisla- tiva del febbraio 1997 che poi diventò la legge di delega 21 dicembre 1998 n. 461. Si deve appena ricordare, al proposito, che le norme abrogate dalla Corte sul potere di normazione secondaria dell’Autori- tà di Vigilanza erano estranee al disegno originario e furono il portato del dibattito parlamentare.

Il terzo punto che qui, invece, merita di essere sottolineato, è l’appor- to dato dalla Corte alla qualificazione delle fondazioni. Esse vengono identificate come “soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali”, nozione già usata in altra occasione dall’Alta Corte, ma qui portata a pienezza di significato. È una qualificazione che fa delle fondazioni di origine bancaria i prototipi di quel “privato sociale” che da tempo è oggetto di attenzione anche da parte della dottrina giuridica e che può essere ben concettualizzato al di fuori di ogni ibridazione con logi- che e funzioni pubbliche. In un convegno dell’Accademia dei Lincei del 2005, il Professor Gustavo Zagrebelsky, nel 2003 giudice costi- tuzionale, estensore della sentenza n.300, ha avuto modo di spiegare che (cito) “abbiamo fatto riferimento a quella espressione [la libertà sociale] per dire che c’è oramai, non solo nella sensibilità culturale del nostro paese e dei paesi di tradizione simile al nostro, ma anche nella Costituzione, una sfera di attività, di funzioni, di interessi che non appartengono né a quella pubblica che fa capo allo Stato e agli enti pubblici e nemmeno alla sfera privata del mercato e dell’iniziativa economica, dei diritti soggettivi di matrice individualistica”. E ciò è avvenuto da quando in Costituzione è stato sancito il principio della sussidiarietà, non solo verticale ma anche orizzontale, come sancisce l’art.118 Cost.: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Provin- ce, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sus- sidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. (…) Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di in- teresse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.” Ha quindi

(12)

ragione chi al proposito ha osservato: “Se sino ad oggi i riflettori sono stati puntati sul capitale finanziario delle fondazioni occorre ora (…) dare visibilità e progetto al capitale sociale”. Insomma, il patrimonio finanziario, “frutto di accumulazioni secolari delle comunità locali” è da trasformare in “capitale sociale” (così Aldo Bonomi, “A proposito di libertà sociali e fondazioni bancarie”, in Communitas, febbraio 2005) dove quest’ultimo va inteso nel senso che un’ampia letteratura ha il- lustrato in termini di accumulazione e riproduzione di conoscenza, di valori civici, di spirito di innovazione, di capacità di fare sistema.

In connessione a questa qualificazione delle fondazioni, vale racco- gliere alcune indicazioni provenienti dalla stessa Corte in termini di regole per la condotta di governo e gestione.

Nell’ambito di quella rilettura delle norme portate al suo esame per interpretarle in modo adeguato alla Costituzione, la Corte ha ritenu- to che, al di fuori di ogni “impropria ed illegittima eterodirezione”, vanno fatte salve sia l’esigenza della programmazione pluriennale delle attività sia quella del coordinamento fra fondazioni. Esigenze, vale aggiungere, che paiono del tutto coerenti non solo con la natu- ra delle fondazioni ma anche con la consistenza della loro presen- za nella società italiana. Al riguardo, si possono immaginare forme varie di organizzazione della consultazione e del lavoro in comune.

L’esperienza offre già, del resto, esempi importanti di collaborazione e coordinamento fra fondazioni che possono essere oggetto di ulte- riori sviluppi per quanto riguarda le aree di attività e, soprattutto, la qualità della realizzazione delle intese. Una certa tendenza, sempre riscontrata in tutte le fondazioni, di qualsiasi tipo siano, a “lavorare in proprio” (meglio: solo in proprio) va contrastata. L’invito alla col- laborazione è stato varie volte rivolto alle fondazioni americane dal Council on Foundations. E la collaborazione fra fondazioni è fra i principali compiti che si sono date le forme associative fra fondazioni a livello europeo come, soprattutto, l’European Foundation Center.

Questioni di strategia

Il tema porta alla questione del se e del come si debba parlare di una strategia per il lavoro delle fondazioni, considerate sia singolarmente

(13)

sia nelle forme di coordinamento appena citate. Sulla strategia delle fondazioni qualche dibattito si è svolto anni addietro negli Stati Uniti ed ho avuto modo di riferirne nell’introduzione al libro del 2000 Il capitale altruistico. Nel dibattito di alcuni anni addietro, Michael E.

Porter e Mark R. Kramer, illustri studiosi di economia e organizza- zione aziendale (il primo ben noto per il suo lavoro sulla “catena del valore”) - nell’applicarsi al tema di come la filantropia possa creare valore sociale - affrontarono la materia del significato della strategia del dare. Ironicamente, di fronte ad un certo abuso dell’espressione, essi annotarono che si rischia di applicare il concetto “a qualsiasi grant che sia fatto avendo qualche proposito in testa”. Invece - come i due autori si premuravano di precisare - si tratta di definire, attraverso una strategia efficace, i caratteri distintivi della missione della fondazione nel tempo e di definire, di conseguenza, la scelta delle priorità. “Nes- suna organizzazione – ammonirono – può raggiungere una superiore capacità di operare e ottenere risultati se prova ad essere tutto per tutti”. Sicché, suggerivano, decidere cosa non fare è il primo passo per avere una linea d’azione che possa qualificarsi come strategica.

Linea intorno alla quale coinvolgere, all’interno e all’esterno della fondazione, volontà, passioni, intelligenza, esperienze. Quello che al- lora i due autori trascuravano di dire è proprio l’importanza del lavoro di coordinamento e collaborazione fra fondazioni, di una parziale e ragionevole divisione del lavoro e così via. Di fatto, forme di collabo- razione e sinergia si sono realizzate fra varie fondazioni. Tali forme di coordinamento sono destinate a razionalizzare l’impegno delle perso- ne, le competenze, le esperienze e le conoscenze, oltreché le risorse economiche. Assistere i beneficiari dei grants nella realizzazione dei risultati è un suggerimento forte di Porter ma non può prescindere da efficaci collaborazioni fra fondazioni.

Più di recente, il dibattito sulle strategie del fare filantropia è stato riacceso dal libro Strategic Giving: The Art and Science of Philan- thropy, di Peter Frumkin, Professore di Public Affairs e Direttore del RGK Center for Philanthropy and Community Service. Ribadendo l’importanza di una chiara strategia anche ai fini della misurazione dei risultati raggiunti con l’attività “granting”, l’autore segnala le questioni più importanti (ne indica cinque in particolare) alle quali bisogna dare risposta nell’impostare tale attività. Il che vale in modo

(14)

analogo per l’attività delle fondazioni operating.

Il crescente ammontare del “dare” non solo da parte dei big philantropists (fra i quali oggi spiccano Bill Gates e Warren Buffet) ma anche da parte dei piccoli donatori segnala l’importanza del ruolo delle fondazioni. L’Econo- mist scriveva nello scorso luglio che “foundations are a source of discipline and innovations for charities”, cioè per le tante organizzazioni non profit che raccolgono e distribuiscono donazioni spesso minute per iniziative fi- lantropiche. Sulla rivista queste istituzioni abbiamo di recente sottolineato i gravi problemi che pongono, per esempio, le grandi sottoscrizioni per ini- ziative benefiche. Vincenzo Spaziante (cf. Spaziante V., “Per un codice di condotta nel fund raising e nell’utilizzo delle somme raccolte per iniziative umanitarie”, in queste istituzioni, anno XXXI, n. 138-139, 2005, pp. 140- 149) evidenzia il limite pesante, “vero elemento intrinseco di debolezza”, imputabile alla “totale assenza di un sistema di regole certo, uniforme e uniformemente applicato”, all’interno di un quadro nel quale accade che, da un lato, gli elementi di informazione circostanziata sulle finalità e sulle modalità di realizzazione di progetti filantropici (non solo sugli obiettivi di grande massima) sono largamente inadeguati e generici per consentire un controllo e la valutazione dei risultati conseguiti; dall’altro, che gli stessi donatori finiscono per non essere interessati a queste informazioni, poiché considerano conclusa la propria azione nel momento stesso dell’attribuzio- ne del grant, con l’atto della donazione. Anche in riferimento a questo cam- po può valere la funzione che può essere attribuita alle grandi fondazioni di offrire modelli di comportamento. Proprio perché continui il fenomeno delle piccole donazioni.

In concreto, alcuni casi strategici d’intervento

Questo breve excursus sull’esigenza di strategia è dettato, prima an- cora che dalle norme (l’indicazione prescrittiva della programmazio- ne), dalle cose stesse, cioè dalla necessità di far fruttare al meglio gli interventi delle fondazioni nel senso innanzi ricordato della creazione di capitale sociale, e pertanto non deve trasformarsi in un richiamo vago con il rischio di risultare, alla fine, un insipido luogo comune.

Dunque, si deve ragionare intorno ai campi di intervento entro i quali una significativa strategia delle fondazioni possa essere seriamente

(15)

messa a punto nel senso, soprattutto, del coordinamento. È, infatti, proprio il campo della cooperazione che ha più bisogno di strategie condivise. Che significano fissazione di obiettivi e forte spirito di missione, non certo programmazioni rigide.

Torniamo a parlare di fondazioni di origine bancaria. Ebbene, le fondazioni non possono porsi autonomamente compiuti obiettivi di sviluppo del territorio. Qui le fondazioni, espressione di sussidiarie- tà orizzontale, devono trovare un ragionevole punto di incontro, per esempio sulla base di criteri di complementarietà, con le espressioni della sussidiarietà verticale, cioè gli enti territoriali rappresentativi.

Enti che sono assunti dalla Costituzione, dopo la riforma del Titolo V, come base del sistema amministrativo. Dunque, occorrerà non tanto parlare di piani strategici da condividere o elaborare insieme, quanto identificare la funzione complementare – che spesso significa preli- minare e perciò indispensabile - che le fondazioni sono chiamate ad adempiere. Certo, non si può in alcun caso trasformare la comple- mentarietà in supplenza, soprattutto quando si tratti di supplenza fi- nanziaria. Si tratta, piuttosto, di cogliere le funzioni che, pur essendo centrali per l’accumulazione di capitale sociale e per il suo sviluppo, non è pensabile siano svolte compiutamente dagli enti territoriali. A questo riguardo, è molto importante la ricognizione delle funzioni che le fondazioni possono essere chiamate a svolgere. Sul tema, è importante il contributo di Arnaldo Bagnasco e Gian Paolo Barbetta nell’ambito di una riflessione promossa dall’ACRI. Tra le funzioni che fanno delle fondazioni di origine bancaria i “catalizzatori dello sviluppo locale”, due indicazioni sono pienamente da sottolineare:

la capacità di networking, ovvero di costruzione di reti, e quella di contribuire al disegno dello sviluppo. L’una e l’altra travalicano, nella visione degli Autori, qualsiasi interpretazione localistica. In realtà, come già indicato nel Libro bianco del CSS Tendenze e politiche del- lo sviluppo locale in Italia, le fondazioni di origine bancaria – anche attraverso le forme di coordinamento fra loro – sono naturalmente soggetti di una politica nazionale per lo sviluppo locale. Sul quale, forse, si è fatta talvolta della retorica ma che, andando al fondo dei problemi, è il campo centrale di una politica razionale di sviluppo.

Come è convinzione fortemente argomentata da questo Consiglio.

In tale quadro è fondamentale la necessità di ricognizione delle co-

(16)

noscenze e dei bisogni di conoscenza che occorre mettere a sistema.

Cioè rendere tale conoscenza disponibile alle amministrazioni, ai soggetti di imprenditoria economica e sociale, ai cittadini.

Ciò vale, per esempio, nel campo delle infrastrutture dove il fabbi- sogno va opportunamente individuato e valutato in anticipo affinché poi il pubblico e il privato nei suoi diversi soggetti possano assumere decisioni in termini di partenariato ‘pubblico con pubblico’ o ‘pub- blico–privato’ avendo predisposti gli strumenti per verificarne, nel seguito, gli effetti.

Ciò vale ancor più nel campo dell’innovazione tecnologica, parole or- mai consunte dall’uso tanto ripetitivo quanto acritico o inconsapevole delle reali implicazioni operative. Si tratta, qui, di fare sistema per consentire – a seconda dei casi e delle molteplici differenti situazioni – l’incontro fra il mondo della ricerca e quello che domanda il mondo economico, profit o non profit, per rendere disponibili conoscenze utili ed aggiornate ai soggetti più dotati di spirito innovativo. Il già citato libro bianco del Consiglio su La valutazione della ricerca con- sidera, per l’appunto, il parametro dell’innovazione nei suoi diversi aspetti come parametro cruciale nella valutazione della ricerca.

Sono compiti difficili. Si possono immaginare agevolmente ostacoli e resistenze, ma sembra poco contestabile che la funzione di creare tessuto connettivo a livello di conoscenze possa essere realizzata sol- tanto da importanti soggetti della sussidiarietà orizzontale, come le fondazioni. Nello spirito della complementarietà e non della sostitu- zione dei compiti.

Intercettare necessità di messa a sistema di istanze e iniziative che la società esprime impone di avere appunto una visione che parta dal basso, dalla raccolta delle capacità – nel doppio significato di espe- rienza e sapere pratico (experience ed expertise) - che rimangono poco utilizzate. E questo è sempre rientrato nella cultura delle fondazioni moderne, quelle per intenderci che sono sorte dopo che s’era chiuso il capitolo delle fondazioni di origine medievale contro le quali, e per lo più a ragione, s’era alzato quello che ho avuto modo di chiamare il

“veto illuminista” (cf. Ristuccia S., Volontariato e fondazioni. Fisio- nomie del settore non profit, Maggioli, Rimini, 1996)

Naturalmente, quando si pongono questioni del genere devono es- ser rese evidenti – vale ripetere - alcune implicazioni di rilievo. Una

(17)

per tutte: la necessità di selezionare e preparare un ceto dirigente e dei quadri delle fondazioni che guardino alla realizzazione di questi compiti di frontiera ma necessari per lo sviluppo, civile prima che economico, avendo una particolare attitudine e soprattutto i necessari strumenti professionali di intervento.

Quanto alle modalità di realizzazione di alcune strategie di cooperazione fra fondazioni nei campi come quelli segnalati, varie - ovviamente - sono le alternative sul piano operativo. Per esempio, non sempre tutto questo significa costituire organismi ad hoc. Può anche significare una riparti- zione di compiti e una definizione di tempi di realizzazione che rimettano alle fondazioni coinvolte (o ai loro organismi strumentali) le operazioni, salvo i compiti di valutazione e monitoraggio da affidare ad un soggetto unico identificato congiuntamente.

Come sono state studiate le fondazioni di origine bancaria A questo punto mi pare importante, prima di avviarci a trattare delle criticità che lo stato attuale delle fondazioni di origine bancaria tut- tora presenta, fare il punto sul modo in cui le discipline sociali hanno fin qui trattato di fondazioni. Un discorso che è, in questa sede, ine- vitabile. Anche se limitato ad alcuni cenni, non potendo fare rassegna dell’ampia letteratura che si è andata accumulando in materia di fon- dazioni di origine bancaria: m’auguro che la Commissione di studio del CSS possa poi affrontare compiutamente il tema. In una sede che come questa ha per vocazione e, direi, per obbligo statutario la inter- disciplinarietà è naturale una prima osservazione: al di fuori di bene- merite iniziative come quella, già accennata, promossa dall’ACRI, di chiedere a studiosi di varie discipline di affrontare realtà e problemi delle fondazioni, le discipline hanno affrontato il tema in ordine spar- so e a compartimenti stagno. Molto vasta, come c’era da aspettarsi, la letteratura giuridica che si è esercitata sui profili più diversi: la ripre- sa, nella realtà italiana, della figura juris “fondazione”, i problemi di definizione fra tipico e spurio, l’importanza delle nuove fondazioni all’indomani della trasformazione del sistema delle banche pubbliche con implicazioni varie sorte dall’intreccio nel tempo di norme pub- blicistiche e privatistiche applicate a realtà di notevole consistenza

(18)

patrimoniale e sociale, il rapporto fra fondazioni e attività d’impresa sia per quanto riguarda le imprese banche inizialmente dette ‘con- feritarie’, sia per quanto riguarda le imprese strumentali, e così via elencando con progressiva enunciazione dei dettagli. Per non dire di qualche particolare enfasi sul significato dell’incontro fra fondazioni e Cassa Depositi e Prestiti in sede di trasformazione di quest’ultima in società per azioni. Un incontro certamente nato da una brillante – diciamo così - intuizione di carattere politico in termini di gestione della finanza pubblica, ma che deve ancora esprimere, se è possibile al di là di singole iniziative, una reale portata di carattere strategico coerente e compatibile con la natura delle fondazioni.

Alla letteratura giuridica manca tuttora un capitolo fondamentale:

quello dedicato al diritto delle fondazioni come diritto statutario. Non mi risulta che ci si sia ancora sufficientemente addentrati nella rico- gnizione di questa parte, certamente centrale, del sistema giuridico delle fondazioni.

Per quanto riguarda le discipline economiche, c’è da osservare una certa ampia letteratura che riguarda gli aspetti di tipo aziendalistico e gestionale, una letteratura che si è mossa con curiosità sul terreno del- le fondazioni cercando di adattare a queste le nozioni e le prescrizioni del mondo profit, per quanto è possibile. Ma non sono mancati tenta- tivi di studiare ex novo i nuovi soggetti , con apporti interessanti.

Dal punto di vista delle dottrine economiche “macro”, la parte del leone l’hanno fatta gli opinionisti, con un’attenzione critica verso le fondazioni che, aldilà dei motivi che la lunga vicenda ha offerto, è parsa talora connotata da un particolare sospetto verso le fondazioni, da un certo rifiuto della stessa nozione e, in definitiva, dalla grande difficoltà a collocare questi soggetti nei due grandi comparti cono- sciuti di Stato e Mercato. Gli unici – molto spesso è sembrato – da considerare legittimi. Senza molto sperimentare, in materia, gli ap- porti dell’economia delle istituzioni che altrove ha dedicato al non profit non pochi e tutt’altro che insignificanti contributi.

In conclusione, l’accompagnamento – critico e propositivo - della vicenda futura delle fondazioni va fatto, questa è la mia e nostra con- vinzione, attraverso un uso compiuto del metodo interdisciplinare.

Che, anzi, in questo specifico campo può impegnarsi a compiere un buon esercizio. E’ quello, del resto, che ci ripromettiamo di continua-

(19)

re a fare con la nostra Commissione di studio.

I punti critici

E veniamo ad alcuni punti critici.

Principale oggetto di attenzione e di controversie è stato, lungo l’arco di poco meno di due decenni, il rapporto fra le fondazioni e il siste- ma bancario. Nate dalla scissione delle banche pubbliche (stragrande maggioranza, allora, delle banche italiane) - che fu decisa nel 1990 per avere, da una parte, l’azienda bancaria costituita in società per azioni e, dall’altra, gli enti proprietari delle azioni - solo dopo una lunga vicenda dove abbiamo assistito ad un complesso e particolare

“gioco delle regole” (per riprendere – e non a caso - l’espressione di un illustre giurista), questi nuovi soggetti sono giunti alla legislazione del 1998–1999 che li ha qualificati definitivamente come fondazio- ni. Intorno a questa vicenda assai ampio è stato il dibattito, e via via si sono segnalate le diverse “scuole di pensiero”, quella ad orienta- mento pubblicistico e quella ad orientamento civilistico: non è certo di questo che oggi bisogna parlare, per quanto interessante sia stato questo ampio dibattito dottrinale.

La legislazione 1998–1999 (quella, per intenderci, che la Corte Costi- tuzionale ha inteso come il complesso normativo di base che regola le fondazioni), dopo essere partita dall’intenzione di separare le fon- dazioni dalla gestione delle banche (intenzione pensata inizialmente con qualche rigidità), si è andata assestando nel riconoscimento di un ampio ventaglio di possibilità. Utilizzando o meno gli incentivi fiscali predisposti. Oggi, a dieci anni dall’inizio dell’iter legislativo, si può constatare che molteplici sono le situazioni in cui si trovano le fondazioni di origine bancaria. Ci sono 17 fondazioni che hanno integralmente dismesso la proprietà di azioni delle banche di origi- ne, altre 15 che mantengono con ampio margine il controllo delle banche di origine, con ciò venendo a rappresentare il residuo tipo di fondazioni che si usava chiamare “fondazioni titolari di impresa”.

Per la gran parte, infatti, le fondazioni sono rimaste azioniste delle banche non in posizione di controllo ma in posizioni variamente ar- ticolate, alcune delle quali di significativa influenza. Ma non si tratta più delle banche originarie, bensì di quelle risultanti da varie fasi di

(20)

aggregazione, per acquisizione o per fusione, secondo quelle linee di spinta verso la concentrazione che il legislatore aveva fortemente caldeggiato. In queste vicende, tutti i profili del rapporto fra fonda- zioni e banche sono cambiati. Il Governatore della Banca d’Italia ha potuto osservare sinteticamente: “Alla riorganizzazione del sistema bancario hanno dato un contributo determinante le fondazioni. Ce- dute nella grande maggioranza dei casi le partecipazioni di controllo, le fondazioni restano azionisti significativi delle banche, anche se il processo di consolidamento ne ha in molti casi diluito le partecipa- zioni. I loro comportamenti sono oggi orientati alla valorizzazione del capitale investito, in armonia con il loro ruolo di investitori di lungo periodo” (Intervento alla Giornata Mondiale del Risparmio del 31 ottobre 2006).

Intorno agli atteggiamenti delle fondazioni come azioniste delle ban- che, un certo generale atteggiamento di sospetto è stato sostituito, tal- volta, dall’apprezzamento per il ruolo giocato da alcune fondazioni nelle aggregazioni bancarie, sia quelle cross border sia quelle all’in- terno del mercato nazionale. Con qualche malposta aspettativa di rav- visare nelle fondazioni una sorta di “cavaliere bianco” che opera per l’italianità delle banche, laddove l’unico criterio valido è quello che, nella relazione all’ormai lontano disegno di legge delega del 1997, veniva così formulato: “spetterà alle fondazioni esercitare tutti i po- teri di un azionista intenzionato a far valere il proprio investimento ai fini del maggior reddito”. Con un’aggiunta, a quest’ultimo proposito, dettata anche dall’esperienza: che in ragione delle esigenze dello svi- luppo economico, posto fra le finalità delle fondazioni come soggetti operanti in riferimento a vari livelli territoriali, il reddito va riguarda- to non solo in una prospettiva di breve termine ma, come sottolineato dal Governatore, anche in una prospettiva di lungo termine.

Una considerazione più ampia e comprensiva della politica patrimo- niale delle fondazioni, la loro natura di investitori di lungo periodo (o meglio, ripetiamo, anche di lungo periodo, in quel mix di orizzonti di investimento che può meglio soddisfare le esigenze di mantene- re il flusso dei ricavi necessari alle erogazioni e salvaguardare, se non accrescere, la consistenza patrimoniale) mette le fondazioni in condizione, almeno per una parte - certamente limitata - dell’inve-

(21)

stimento patrimoniale, di svolgere il ruolo dell’investitore paziente.

Quello cioè a più lontana redditività ma in grado di sostenere, at- traverso fondi specializzati, imprese ed opere che in qualche modo derivino o completino la missione erogativa. Si parla, nella prassi delle grandi fondazioni, di “Program-Related Investments” (PRIs), secondo l’espressione usata dai Principî guida del Council on Foun- dations. È una possibilità che va ricordata proprio riguardo a quella politica di sostegno del sistema dell’innovazione alla quale abbiamo innanzi fatto riferimento.

Un esempio per tutti è quello delle difficoltà registrate in particolari segmenti e settori di intervento, dove c’è scarsa propensione agli in- vestimenti per l’innovazione. È evidente l’inadeguata attenzione al finanziamento della nascita di nuove imprese (start up) che si riscon- tra nel contesto italiano. Ebbene, in questo campo non è data né può essere data la facoltà alle Fondazioni di nessun intervento finanziario diretto. Può invece essere congruente ad un espletamento della mis- sione erogatrice la sottoscrizione di fondi specializzati di seed capital o di private equity che a loro volta, attraverso il filtro del proprio ma- nagement, faranno non grants ma finanziamenti che sia pure a lungo termine devono essere capaci di “ritorno” in termini di reddito.

Altro importante punto critico su cui vale tornare è quello, già citato, del rapporto fra fondazioni ed enti territoriali. Riprenderei innan- zitutto quel che ha detto la Corte Costituzionale, dichiarando l’in- costituzionalità della norma che prevedeva, nella composizione del- l’organo di indirizzo delle fondazioni, “una prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato, di cui all’art.114 della Costituzione, idonea a rifletterne le competenze nei settori ammessi in base agli articoli 117 e 118 della Costituzione”. Norma che aveva sostituito quella previgente che disponeva “una prevalente e qualifica- ta rappresentanza degli enti, pubblici e privati, espressivi delle realtà locali”. Norma, quest’ultima, che ha ripreso pieno vigore. E’ evidente la stretta connessione logica che lega questa decisione abrogativa alla qualificazione di “soggetti dell’organizzazione delle libertà sociali”, oltreché ovviamente alla loro ribadita piena natura privata. Sarebbe infatti una contraddizione in termini qualificare nel modo suddetto le fondazioni e poi mantenerle nell’area della diretta disponibilità de- gli enti pubblici territoriali e, quindi, del loro controllo. “Non può

(22)

non apparire contraddittorio limitare la ipotizzata presenza degli enti rappresentativi delle diverse realtà locali agli enti territoriali senza ricomprendervi quelle diverse realtà locali, pubbliche e private, ra- dicate sul territorio ed espressive, per tradizione storica, connessa anche all’origine delle singole fondazioni, di interessi meritevoli di essere ‘rappresentati’ nell’organo di indirizzo”. E la Corte, ancora, non manca di precisare il significato della parola “rappresentanza”

che è da intendere, «all’evidenza», secondo un uso «atecnico». Il potere in capo agli enti territoriali è «un potere di designazione» che si esaurisce con il suo esercizio e che «non comporta alcun vincolo di mandato a carico dei soggetti nominati». Come del resto il legislatore del 1999 aveva esplicitamente prescritto.

Come ho già segnalato, l’incontro-confronto fra enti della sussidiarietà verticale (gli enti locali) e quelli, come le fondazione, espressione della sussidiarietà orizzontale è – entro certi ambiti – inevitabile, ma si deve realizzare sulla base di una chiara distinzione dei ruoli e delle identità.

Quali che siano le tentazioni comportamentali degli amministratori locali o le pressioni provenienti, per esempio, dallo stress della finanza locale.

Il buon risultato di ogni possibile collaborazione deriva dalla chiarezza dei rapporti, dalla consapevolezza dei limiti dell’azione di ciascun ente, dal rispetto di una intelligente complementarietà. Una strategia territo- riale può far capo soltanto agli enti locali e alle loro intese non sempre facili, ma la realizzazione di adeguati sensori dei bisogni del territorio e la messa a sistema delle conoscenze necessarie al giusto esercizio dell’in- novazione spetterà naturalmente ai soggetti della sussidiarietà orizzontale come le fondazioni.

E a questo punto viene in rilievo un altro classico profilo critico: quel- lo dell’accountability, cioè dell’esigenza e della capacità di rende- re conto delle attività svolte alle variegate componenti del pubblico interessato, di rendere espliciti i criteri di conduzione di tali attività erogative o direttamente operative, nonché quelli di valutazione dei risultati conseguiti.

Anche per le fondazioni è fondamentale una precisa pratica della va- lutazione sia in termini di diffusione all’interno delle fondazioni di una solida e condivisa cultura della valutazione, che è innanzitutto autovalutazione, sia in termini di meccanismi di decisione e di moni-

(23)

toraggio che da tale cultura traggono il maggior profitto. Senza una solida pratica di valutazione, la stessa consuetudine dei “bilanci di missione” rischia di essere un esercizio letterario di relazioni pubbli- che più o meno efficace.

E qui il discorso viene alla realtà del sistema duale di governo e ammini- strazione che è stato dettato per le fondazioni di origine bancaria.

Da tempo esisteva un dibattito nel mondo delle fondazioni circa l’inadeguatezza all’interesse crescente verso le fondazioni del mo- dello monistico di governo. Quale che sia l’origine della fondazione, è parso evidente che – rispetto ad ogni principio di favore verso la fondazione che fosse espresso nel corso delle diverse esperienze sto- riche – un vertice chiuso rinnovato solo attraverso cooptazioni non potesse essere troppo a lungo accettato. È come se fossero risuona- te sullo sfondo le severe rampogne di Turgot. Di qui la tendenza ad aprire i board, da qui la necessità di adottare anche in questo campo il modello duale. Se ne fece portavoce in Europa, nel 1996, un rapporto del Conseil d’Etat francese, affrontando il tema del rinnovamento del diritto delle fondazioni. Fu proposto che nel sistema di governo fosse inserito un Conseil de Surveillance, sulla falsariga di quanto era av- venuto in campo societario.

È partendo da questo dibattito che il legislatore italiano fu portato a considerare e poi a varare il modello duale. E non certo per fare del- l’organo di indirizzo una sorta di assemblea societaria (come qualcuno interpretò), ipotesi cui mancava ogni presupposto (fra l’altro, appunto, ogni membro dell’organo di indirizzo era immaginato privo di manda- to: esattamente il contrario di quanto avviene in campo societario), ma per cercare di realizzare all’interno di ogni fondazione una dialettica fondata sulla distinzione di ruoli: da una parte, l’indirizzo e anche, con- seguentemente, la valutazione e il controllo; dall’altra, la gestione.

Non è ancora chiaro come e quanto in questo decennio abbia fun- zionato il modello. Sarà molto importante indagare quanto esso sia stato realizzato soprattutto nella sua supposta funzionalità verso l’ac- countability. Il rischio è che l’organo di indirizzo talvolta si riduca ad un semplice collegio elettorale dell’organo di gestione ovvero ad un comitato onorario, nella sostanza prevalentemente consultivo, che è alla ricerca di un compito, frustrato (sia pure giustamente frustrato)

(24)

nelle inevitabili tentazioni di contare nelle singole decisioni e senza una reale implementazione del circuito “indirizzo–controllo”.

L’accountability verso l’esterno è fortemente condizionata dal pieno dispiegamento delle funzioni dell’organo di indirizzo. È dunque fon- damentale aver cura che il modello funzioni al meglio.

L’ultimo punto critico su cui soffermarsi é quello della riconfigura- zione dell’organismo di Vigilanza. A questo riguardo rimango sostan- zialmente convinto che l’ipotesi più convincente fosse quella indicata nei lavori preparatori del disegno di legge del 1997 e illustrata nella relazione ministeriale. Vale ricordarla per sommi capi.

Nella relazione ministeriale al disegno di legge delega Ciampi-Visco si diceva: “L’insieme delle fondazioni avrà bisogno (…) di un organo di vigilanza ad hoc anch’esso definito con caratteristiche di novità.

(…) L’esperienza storica di altri paesi (…) e la tendenza che si va affermando verso un ampliamento ed un consolidamento del settore non profit fanno pensare che occorra un organo che svolga attività di vigilanza da cui non siano esclusi compiti di stimolo, suggerimento e raccomandazione. Si tratta, in definitiva, di creare un’esperienza nuova, cultura e tecniche non ben conosciute, si tratta di contribui- re a formare una classe dirigente con particolari capacità. Dunque, occorre un’autorità indipendente dedicata ad un compito sostanzial- mente inedito e per il quale lo Stato amministrativo centrale non ha esperienza né predisposizione”. Naturalmente, si dava illustrazione allora delle ragioni per cui venivano tenute in capo al Tesoro le fun- zioni di vigilanza e che in sintesi erano costituite dal fatto che il lega- me delle fondazioni con il sistema bancario fosse tuttora, struttural- mente, molto forte.

L’indicazione di allora – ripeto - va ripresa. Tanto più che la costituzione e il funzionamento di un organismo ad hoc può comportare oneri modesti a carico del bilancio dello Stato sulla base del principio, già ampiamente sperimentato, che i costi del controllo possono essere a carico dei control- lati. Un’autorità di vigilanza autonoma non solo è assolutamente coerente con le decisioni prese dalla Corte costituzionale nella materia di poteri di normazione secondaria del Tesoro (abrogati appunto dalla Corte) e con le motivazioni di queste decisioni, ma è chiamata a dare un contributo deci- sivo al problema dell’accountability. Perché della sostanza di tale rendere

(25)

conto richiesto alle fondazioni, l’Autorità sarà, oltre che uno dei principali destinatari, l’autorevole e competente certificatore. Ma ancor più l’esigenza di una tale Autorità discende dalla ricostruzione dell’evoluzione legislativa che la sentenza n. 300 del 2003 illustra con grande chiarezza: “Il quadro normativo delineato [legge di delega n. 461 del 1998 e decreto legislativo n. 153 del 1999] – dice la Corte – mostra con evidenza che le fondazioni sorte dalla trasformazione degli originari enti pubblici conferenti (solo impropriamente indicate, nel linguaggio comune e non in quello del legi- slatore, con l’espressione “fondazioni bancarie”), secondo la legislazione vigente, non sono più (…) elementi costitutivi dell’ordinamento del credito e del risparmio (…)”. E aggiunge: “L’evoluzione legislativa ha spezzato quel «vincolo genetico e funzionale» di cui parlano le sentenze n. 341 e n. 342 del 2001 di questa Corte”. Ben avvertendo poi che ciò va visto in termini di portata delle leggi non dovendosi far riferimento alla varietà fat- tuale dei casi, alcuni dei quali magari dissonanti. È legittimo chiedersi cosa avrebbe potuto dire la Corte, in base al proprio ragionamento, se fosse stata portata al suo esame non soltanto la questione dei poteri dell’Autorità-Te- soro, ma il fatto stesso di tenere le funzioni di vigilanza in capo al Tesoro.

Né infine può essere trascurato il fatto che – successivamente alle sentenze della Corte – è avvenuto l’incontro, già ricordato, delle fon- dazioni, o meglio della gran parte delle stesse, con la Cassa Deposi- ti e Prestiti e il suo azionista di maggioranza, il Tesoro. Il quale, in tal modo, è insieme azionista di maggioranza ed organo di vigilanza degli azionisti di minoranza. Fatto rimarcato in vari momenti, con onestà intellettuale, dalle stesse autorità competenti. Non sembra pro- prio un modello ideale. Le fondazioni, magari, si sanno far valere ma l’accountability ne soffre.

Conclusioni

Siamo ad alcune riflessioni finali.

L’aver concluso l’elenco delle maggiori criticità con il discorso sul- l’Autorità di vigilanza, tema che richiama la necessità di un intervento legislativo, può ingenerare l’impressione che le mie indicazioni siano nel senso che le prospettive delle fondazioni si giochino soprattutto in termini di messa a punto dell’ordinamento. E che questa messa a

(26)

punto debba costituire una premessa indispensabile per ogni altra in- dicazione. Non è questo il mio pensiero. In generale, non sono fra co- loro che finiscono sempre con appelli al legislatore e alla sua presunta saggezza. Un lungo percorso attraverso le istituzioni mi tiene lontano da questo cedimento intellettuale. Il “gioco delle regole” come illu- strato in alcune lucide pagine dell’omonimo libretto di Guido Rossi è, del resto, un gioco che rischia di non finire mai. Beninteso, nel nostro caso ci sono molte buone ragioni per tornare dal legislatore. Oltre al problema dell’autorità di vigilanza, c’è da eliminare una normazione che rischia di essere mantenuta “speciale” senza più ragioni e che, per giunta, sembra essere ispirata al criterio che definirei del possono (vengono in rilievo i modi propri della natura delle fondazioni, natura che si qualifica in termini privatistici vs pubblicistici, da una parte, e non profit vs profit, dall’altra) quale, in definitiva, deriva dall’in- terpretazione adeguatrice della Corte Costituzionale delle norme che sono intervenute a spezzoni in materia di fondazioni di origine banca- ria. Un po’ di confusione residua. Facciamo l’esempio, per intenderci, del settore “lavori pubblici” aggiunto ai settori ammessi con legge n.

166 del 1° agosto 2002, art. 7, comma 1 lett. a) - che ha modificato l’art. 37 bis, comma 2 della legge n. 109/1994 (cd. legge Merloni) - norma dalla quale possono trarsi varie possibilità di intervento delle fondazioni (per le quali, peraltro, non c’era bisogno di una norma) tranne quella, pur tanto ripetuta, di far divenire le fondazioni possi- bili promotori di operazione di project financing, cioè soggetti profit d’impresa. Possibilità ovviamente preclusa alle fondazioni.

Non si tratta tuttavia di ragioni decisive per porre al primo posto la necessità di una nuova riforma legislativa. Certamente opportuna so- prattutto nel quadro del necessario aggiornamento del libro primo del Codice civile, ma non tale da essere una premessa sine qua non.

Le fondazioni di origine bancaria sono, sostanzialmente, una realtà viva nella società italiana. C’è un’esperienza recente su cui riflettere, c’è la speciale responsabilità sociale che ricade su soggetti che finora hanno ben valorizzato i propri patrimoni, come soprattutto è avve- nuto nella buona gestione delle risorse ricavate via via dalle dismis- sioni delle partecipazioni azionarie nelle banche di origine. C’è un accresciuto patrimonio finanziario (oltre 45 miliardi di euro a valori di libro a fine 2005) al quale far corrispondere, al meglio, capitale so-

(27)

ciale. Iniziative comuni, rispondenti alla necessità del coordinamen- to, sono state intraprese come è il caso della Fondazione per il Sud.

Il miglioramento dei metodi di accountability può essere perseguito, in attesa di un soggetto certificatore, attraverso appropriate iniziative associative e/o delle singole fondazioni che facciano propria una cul- tura della valutazione e dell’autovalutazione. Sullo sfondo c’è da fare emergere come prima necessità quella della formazione di un ceto di- rigente preparato e motivato a fare delle fondazioni non tanto soggetti

“protagonisti” (non è questa la missione) ma sì soggetti che facilitino con modi anche inediti, com’è nella cultura migliore delle fondazioni in generale, l’affermazione delle migliori energie sociali.

Ebbene, tutto ciò è nelle mani di quanti sono chiamati a dirigere, a vari livelli, le fondazioni.

È il loro impegno, è la loro responsabilità.

C’è da augurar loro “buon lavoro” ancor più che in altri momenti. Che è un lavoro che può essere faticoso e ingrato perché – come ricorda l’incipit di un libro sulle American Foundations di Mark Dowie di qualche anno fa – “a foundation is a large amount of money comple- tely surrounded by people who want some”. E, si sa, non si può dare a tutti, come si diceva innanzi.

(28)

Nicola Mattoscio - Emiliano Colantonio

Dipartimento di Metodi Quantitativi e Teoria Economica Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara Department of Quantitative Methods and Economic Theory

University “G. D’Annunzio” of Chieti-Pescara mattoscio@unich.it - colantonio@unich.it

(29)
(30)

Nel paper vengono valutate le distanze economiche esistenti tra i membri dell’EU nel 1998 e nel 2004, utilizzando un insieme di variabili ognu- na delle quali rappresenta un aspetto dell’economia della conoscenza.

Nella prima parte del lavoro è fornita una breve rassegna della lettera- tura relativa alla teoria della crescita economica. Nella seconda parte vengono introdotti alcuni indicatori come proxy delle determinanti della crescita economica e vengono analizzate le performance dei paesi sopra menzionati. Infine si fa ricorso ad un modello di multidimensional sca- ling analysis (MDS) che, impiegando i precedenti indicatori, consente di rappresentare le diverse economie in uno spazio bidimensionale, con una miglior evidenza di cluster e gap economici.

PAROLE CHIAVE: CRESCITA ECONOMICA• ECONOMIA DELLA CONOSCENZA• CAPITALE UMANO• ICT

In the paper the economic distances existing among the EU’s mem- bers in 1998 and in 2004 are evaluated by using an array of variables, each of which represents an aspect of the knowledge economy. In the previous part of the work a brief overview of the economic growth theory is presented. In the second part some indicators as proxies of economic growth determinants are introduced and the performances of the above mentioned countries are investigated. Finally a multidi- mensional scaling analysis (MDS) by using the previous indicators is performed: it allows to represent the economies in a bidimensional space, with a better evidence of economic clusters and gaps.

KEYWORDS: ECONOMIC GROWTH • KNOWLEDGE ECONOMICS • HUMAN CA-

PITAL • ICT

1. Introduzione

Con la ricorrenza dei 50 anni del Trattato di Roma, l’analisi dello svi- luppo socioeconomico degli stati membri dell’Unione Europea (EU) deve necessariamente affrontare un aggiornamento, per almeno due ordini motivi:

1. il progressivo allargamento dell’EU, che ha raggiunto l’apice nel

(31)

2004 con l’ingresso di dieci nuovi paesi1, modificandosi così sotto il profilo quantitativo e quello qualitativo le caratteristiche del mercato integrato europeo, ove opera ciascuna economia nazionale;

2. gli sviluppi relativamente recenti della letteratura, che hanno por- tato ad una rivisitazione del ruolo giocato da specifici e rilevanti fattori nelle dinamiche virtuose delle performance studiate.

Il quinto allargamento dell’EU, avvenuto il 1° maggio 2004, è stato il più ambizioso nella storia del sistema di riferimento: si è trattato del più largo per numero di nazioni e popolazione, nonché del più complesso, avendo portato all’interno dell’Unione dieci paesi con dif- ferenti livelli di sviluppo economico, sociale e politico.

Le implicazioni economiche di questo allargamento sono ancora og- getto d’analisi. Studi preliminari avevano previsto una spinta signifi- cante per la crescita dei nuovi aderenti. L’impatto sull’economia dei vecchi membri, al contrario, si supponeva marginale, data la relati- vamente modesta dimensione economica dei nuovi componenti. Tali previsioni sembrano sostanzialmente trovare riscontro nella realtà dei fatti: i nuovi stati membri, prima dell’adesione, sono stati chiama- ti ad intraprendere delle riforme per modernizzare il proprio sistema socioeconomico; la stabilità richiesta per l’accesso ha aiutato il com- mercio e gli investimenti, garantendo nuove opportunità per le impre- se e favorendo, in particolare, la crescita economica.

Proprio quest’ultima ha da sempre costituito una delle maggiori atten- zioni degli studiosi, spinti dalla necessità di spiegare gli elementi che la determinano. Nel tempo si sono susseguite conclusioni anche contrastan- ti, con le conseguenti incertezze sulla individuazione univoca delle sue cause, sebbene si siano progressivamente elaborati modelli più sofisticati per una comprensione più soddisfacente del fenomeno.

In particolare, l’attenzione è stata spesso focalizzata sull’innovazione e sull’attività di ricerca e sviluppo che conducono a nuove tecnologie e, in ultima istanza, ad incrementare il prodotto procapite. Similmen- te, un’importanza sempre crescente è stata attribuita al capitale uma- no, in termini di istruzione o capacità professionali. Altri studi (cfr.

par. 2) hanno evidenziato il possibile ruolo che il grado di apertura al

1) Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Ungheria.

(32)

commercio con l’estero e – più recentemente – le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) possono giocare nella diffusione della conoscenza, dai più considerata come il principale motore della crescita economica.

Coerentemente con quanto espresso dalla letteratura predominante, si postulerà che l’ammontare di conoscenza ed il modo in cui la stessa è usata rappresentino le determinanti chiave per la produttività, il cui incremento non può che riflettersi positivamente sulla crescita e sullo sviluppo di un sistema economico.

L’obiettivo finale del lavoro è quello di evidenziare le variazioni dei gap economici esistenti al 1998 e successivamente al 2004 tra i paesi attualmente aderenti all’EU (con l’aggiunta dei futuri membri Roma- nia e Bulgaria)2. In tal senso, inizialmente verrà presentata una breve rassegna della letteratura rilevante in materia di crescita economica, con il richiamo delle evidenze empiriche relative al ruolo di possibili sue determinanti (cfr. par. 2). Successivamente, saranno introdotti in dettaglio gli indicatori utilizzati per misurare i vari aspetti dell’econo- mia della conoscenza: questi saranno inizialmente oggetto di un’analisi descrittiva avente come scenario l’insieme delle economie precedente- mente richiamate (cfr. par. 3). Nel prosieguo sarà richiamato il multidi- mensional scaling (MDS), la metodologia statistica prescelta al fine di conseguire l’obiettivo delineato (cfr. par. 4.); in tal senso, un modello di MDS analysis verrà implementato al fine di addivenire ad una rap- presentazione grafica delle distanze economiche esistenti tra i paesi considerati (cfr. par. 5). Seguiranno brevi considerazioni conclusive inerenti ai risultati-chiave raggiunti dall’analisi di statica comparata anche con riferimento a periodi temporali diversi (cfr. par. 6).

2. Le determinanti della crescita economica

In altri lavori (Mattoscio 2005, Mattoscio e Colantonio 2005 e 2006) gli autori hanno già richiamato l’attenzione sul fatto che, fino agli anni

2) La scelta degli anni di riferimento è dettata dalla volontà di mediare tra la necessità di disporre di una serie di dati relativi ad un periodo di transizione per l’EU e quella di costruire un data base quanto più possibile completo.

(33)

sessanta, si consideravano come determinanti della crescita solo l’occu- pazione, il capitale fisico ed il progresso tecnologico. In proposito, il modello classico di riferimento è quello ben noto proposto e svilup- pato da Solow (1956) negli anni cinquanta. Lo studioso americano in- tuì che la crescita – almeno nell’esperienza statunitense – era dovuta essenzialmente (anche se non esclusivamente) al miglioramento dei processi produttivi, dovuto all’impiego di nuove tecnologie.

Nonostante la preziosa intuizione, a lungo i principali studiosi rele- garono il progresso tecnologico al ruolo di variabile esogena all’eco- nomia: paradossalmente, uno dei più importanti fattori della crescita economica era di fatto “assunto”, più che spiegato, dagli economisti.

Inoltre, nella tradizione neoclassica originata da Solow, si assume che la tecnologia sia un bene pubblico, a disposizione di chiunque in qua- lunque luogo. Ricerche empiriche hanno tuttavia dimostrato che una simile ipotesi non è in grado di spiegare le differenze osservate tra i tassi di crescita a livello internazionale. Verosimilmente, lo stock di conoscenza, inteso come uno dei fattori determinanti della crescita economica, non risulta liberamente acquisibile. Ciò è un danno prin- cipalmente per le economie più arretrate, che spesso trovano difficol- tà nel dotarsi degli ultimi ritrovati della scienza e della tecnica.

Solo nell’ultimo decennio dello scorso secolo alcuni autori (fra i quali Romer 1992, Aghion e Howitt 1992, 1998 ed ora in 2004) proposero una teoria più completa della crescita che tenesse conto dell’“innovazione”. Essi sottolinearono l’importanza degli incentivi economici quali forze trainanti del progresso tecnico e scientifico. Le nuove idee, infatti, possono divenire fonti di futuri profitti qualora garantiscano la possibilità di realizzare beni o servizi in modo più efficace e/o efficiente.

Numerosi altri studi dimostrano come l’innovazione o una nuova ge- nerazione di conoscenza tecnica abbia una effetto positivo sostanzia- le culla crescita economica e/o sulla crescita della produttività. Ad esempio, Lederman e Maloney (2003), effettuando una regressione su un panel di dati (medie quinquennali) tra il 1975 ed il 2000 relativi a 53 nazioni, mostrano come l’incremento di un punto percentuale del rapporto Spese in R&S/GDP comporti un aumento di 0,78 pun- ti percentuali del tasso di crescita dello stesso GDP. Guellec e van Pottelsberghe (2001), analizzando gli effetti di lungo termine di vari

(34)

tipi di R&S, utilizzando un panel di dati per l’OECD tra il 1980 ed il 1998, evidenziano come la ricerca pubblica e quella straniera han- no un effetto positivo statisticamente significativo sulla crescita della produttività. Adams (1990), facendo riferimento al numero di articoli accademici di diversi campi scientifici come approssimazione dello stock di conoscenza, dimostra che la conoscenza tecnica contribuisce significativamente alla crescita complessiva della produttività dei fat- tori della produzione delle imprese manifatturiere statunitensi per il periodo 1953-1980.

Nel processo di accumulazione ed uso delle (nuove) conoscenze gio- ca un ruolo fondamentale anche il capitale umano, che da molti è oggi riconosciuto come un volano indispensabile per la crescita economi- ca. A partire dai contributi più importanti della teoria della crescita endogena, l’innovazione tecnologica viene correlata all’investimento in capitale umano. Quest’ultimo concetto viene, infatti, introdotto ne- gli anni sessanta da Schultz (cfr., ad esempio, 1961) e Becker (cfr., ad esempio, 1962 e 1964), economisti della scuola di Chicago, per definire la capacità professionale di un individuo.

Con le successive teorizzazioni di Romer (cfr., ad esempio, 1986 e 1990) e di Lucas (cfr., ad esempio, 1988), altro esponente della scuola di Chicago, si rende ancora più esplicita la dipendenza del tasso di crescita dal capitale umano a disposizione, sia sotto il profilo quanti- tativo che per il suo grado di preparazione.

Molti degli studi empirici relativi alla crescita economica, in tal sen- so, includono oggigiorno il capitale umano tra gli ingredienti essen- ziali. Ad esempio, Barro (1991), facendo riferimento ad un insieme di 98 paesi per il periodo 1960-1985 e considerando il valore dei tassi d’iscrizione a livello primario e secondario del 1960 come appros- simazione dell’iniziale livello di capitale umano, dimostra che am- bedue i tassi hanno un effetto positivo statisticamente significativo sulla crescita della ricchezza procapite. Analogamente, Cohen e Soto (2001), utilizzando delle serie storiche di dati sull’istruzione di deter- minati paesi, evidenziano un’influenza positiva dell’educazione sulla crescita. Hanushek and Kimko (2000), facendo leva su un diverso approccio e focalizzando l’attenzione sulla qualità dell’istruzione (misurata attraverso opportuni standard internazionali), dimostrano ancora come questa eserciti un effetto positivo sempre sulla crescita.

(35)

Oltre al progresso tecnologico e al capitale umano, uno dei fattori che sembra giocare un ruolo fondamentale nella spiegazione della cre- scita economica è l’apertura al commercio con l’estero. Molti lavori hanno evidenziato come le importazioni siano un canale attraverso il quale i paesi in via di sviluppo hanno la possibilità di acquisire tecnologie straniere. Il commercio è stato ampiamente trattato come un motore della crescita economica. In tal senso, studi empirici come quelli condotti da Frankel e Romer (1999), Gallup, Radelet e Warner (1999), Irwin e Tervio (2002), e Dollar e Kraay (2001) hanno infatti dimostrato che paesi con un maggior grado di apertura all’estero han- no un maggior tasso di crescita economica.

Un altro importante canale in grado di agevolare la diffusione delle innovazioni sono gli investimenti diretti esteri (FDI3) (cfr. Barrel e Pain 1997). Già Romer, nel 1993, aveva intuito che gli FDI avrebbero potuto facilitare i trasferimenti tecnologici, con sostanziali spillover per l’intera economia, e non solo per la produttività delle singole im- prese beneficiarie (in tal senso, cfr. anche Rappaport 2000). Altri studi di natura empirica hanno mostrato la possibile incidenza che i FDI possono avere sulla crescita economica, specialmente in determinate circostanze. Ad esempio, Borensztein et al. (1998) hanno evidenzia- to un effetto positivo dei FDI sulla crescita economica di quei paesi dotati di una forza lavoro particolarmente istruita, in grado quindi di sfruttare al meglio le esternalità derivanti dai flussi d’investimento stranieri. Alfaro et al. (2000) hanno invece sottolineato l’importanza della presenza di mercati finanziari locali sufficientemente sviluppati, mentre Balasubramanyam et al. (1996) hanno rimarcato il ruolo cru- ciale che il grado di apertura al commercio con l’estero assume nello spiegamento degli effetti dei FDI sulla crescita economica.

Una più ampia interconnessione, una più alta velocità di elaborazione ed una maggiore accessibilità alle conoscenze è oggigiorno favorita anche dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunica- zione (ICT). Queste, pur non generando direttamente innovazione, sono considerate come l’ossatura della knowledge economy e, negli ultimi anni, sono state riconosciute come un effettivo strumento per

3) Acronimo della terminologia anglosassone Foreign Direct Investments.

(36)

la promozione della crescita e dello sviluppo economici. Attraverso un costo d’uso relativamente basso e la capacità di ridimensionare, abbattere (se non addirittura azzerare) le distanze, le ICT hanno rivo- luzionato il trasferimento di informazioni e conoscenza nel mondo.

In tal senso, negli ultimi anni si sono susseguiti numerosi studi che hanno mostrato come la produzione di ICT abbia contribuito alla cre- scita economica (cfr. Jorgenson e Stiroh 2000, Oliner e Sichel 2000, Whelan 2000, Schreyer 2000 e Pilat e Lee 2001). I settori produttivi dell’ICT hanno sperimentato un incredibile avanzamento tecnologico che ha inevitabilmente alimentato il livello di produttività dell’econo- mia. Vari studi hanno tuttavia fornito evidenze empiriche che sugge- riscono come i guadagni in termini di produttività derivino anche dal semplice uso dell’ICT, almeno a livello di singolo paese.

Per gli Stati Uniti, ad esempio, l’Economic Report of the President (Council of Economic Advisors 2000 e 2001), Whelan (2000), Oliner e Sichel (2000) e Jorgenson e Stiroh (2000) attribuiscono una consi- derevole parte dell’incremento della produttività totale dei fattori pro- duttivi ai settori che usano le ICT, piuttosto che a quelli che le produ- cono. Con riferimento all’Australia, sussiste un’evidenza in base alla quale un’accresciuta produttività è stata accompagnata da un maggior uso di tecnologie che includono le ICT (Productivity Commission 1999). Ci sono anche altri studi settoriali che suggeriscono che gli in- vestimenti in ICT hanno avuto un impatto positivo sulla produttività del sistema (ad esempio, per il settore della distribuzione, cfr. Readon et al. (1996) e Broersma e McGuckin (1999). Brynjolfsson e Kemerer (1996) e Gandal et al. (1999) indicano invece l’esistenza di spillover positivi derivanti dal capitale ICT a livello di singole imprese. Così pure vi sono studi che riscontrano delle perplessità al riguardo (cfr., ad es., Solow 1987), ma senza tuttavia inficiare davvero le prospetti- ve positive.

In estrema sintesi, i diversi contributi richiamati evidenziano il ruolo strategico decisivo della conoscenza e del capitale umano nelle per- formance di crescita. Ma, al tempo stesso, essi permettono di sottoli- neare anche l’importanza che il grado di apertura al commercio estero e le ICT assumono nella spiegazione delle dinamiche di crescita e sviluppo.

Riferimenti

Documenti correlati

Nate tra il 1991 e il 1992, in adempimento della cosiddetta “Legge Amato”, che separò l’attività filantropica da quella creditizia delle Casse di Risparmio, le Fondazioni oggi sono

4, 1° comma, del codice del terzo settore (“CTS”), “sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le

Il sovrapporsi delle citate misure ha così generato un incremento del carico fiscale sull’insieme delle Fondazioni di quasi quattro volte in soli tre anni, raggiungendo un livello

L’ACRI, in persona del Presidente Giuseppe Guzzetti, sottoscrive il presente Protocollo d’inte- sa in rappresentanza delle seguenti Fondazioni associate, Compagnia di San Paolo,

La  correzione  dei  rendimenti  finanziari,  intervenuta  sui  mercati  dopo il fallimento della Lehman Brothers, ha nei bilanci delle Fon- dazioni un ulteriore

In data T1 all’azionista dell’azienda target (ovvero, al buyer) conver- rà l’esercizio dell’opzione di default operativo se essa è in the money, ovvero se i Free Cash Flow

6.4.3.3 Verifiche agli stati limite ultimi (SLU) delle fondazioni miste Nel caso in cui il soddisfacimento della condizione (Ed <Rd) sia garantito dalla sola struttura

In quegli stessi mesi, le agenzie di rating decisero di declassare i titoli dello Stato greco valutandoli ad un passo dal default. Per anni esse avevano sbagliato a giudicare