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VALUTAZIONI GIURIDICHE IN UN CASO DI IPOSSIA CEREBRALE PERINATALE

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VALUTAZIONI GIURIDICHE IN UN CASO DI IPOSSIA CEREBRALE PERINATALE

Avv. Mauro Ambrosio*

PARTE INTRODUTTIVA

La giurisprudenza degli ultimi dieci anni ci evidenzia come il numero delle controversie giudiziarie aventi ad oggetto casi di responsabilità del medico sia più che triplicato e l’ostetricia, assai più della ginecologia, è in prima linea nel contenzioso giudiziario.

La responsabilità professionale del medico è strettamente connessa alla tutela della salute umana, cioè di un diritto umano inviolabile, costituzionalmente garantito come diritto soggettivo e diritto collettivo (art. 32 Costituzione, correlato all’art. 2 che contiene la clausola generale di garanzia dei diritti umani e con l’art. 3 che contiene il progetto esecutivo dell’eguaglianza, come realizzazione della pari dignità, senza discriminazioni e con parità di trattamento).

L’evoluzione della responsabilità medica è stata e risulta ancora oggi condizionata dalla presenza nel Codice civile della clausola di salvataggio (una sorta di “salvagente giuridico”, come lo ha felicemente ribattezzato in dottrina G. Petti1), di cui all’articolo 2236 del codice civile, che cristallizza l’obbligazione professionale sostanzialmente come obbligazione di mezzi e non di risultato.

Questa norma esclude la responsabilità civile del professionista quando la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà ed il professionista non verta in situazione di dolo o colpa grave.

Pur con l’avvento della Costituzione ed i diritti in essa sanciti, tra cui, appunto, quello della salute, il salvagente dell’art. 2236 c.c. seguita ottimamente a funzionare al punto che, con l’avvallo della dottrina e della Cassazione, nel campo della responsabilità civile veniva applicato anche al di fuori della responsabilità contrattuale, unica sede naturale possibile, ma per analogia anche al campo della responsabilità aquiliana.

Il punto, per così dire, di svolta di tale orientamento va ravvisato nella costruzione della figura del danno biologico come danno che attiene alla lesione della salute2, che è un diritto umano inviolabile, ed inviolabilità, nel campo della responsabilità civile, significa risarcimento integrale del danno.

* Avvocato, Torino.

1 G. PETTI, Risarcimento del danno biologico, UTET, 1997.

2 Cfr. Corte Cost. sent. 1986 n. 184.

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In conclusione di queste brevi note introduttive mi sembra di poter sottolineare come l’attuale tendenza del nostro diritto vivente sia quella di sgonfiare il salvagente di cui all’art.

2236 del c.c. e questo anche sulla base dell’orientamento che l’Europa ha assunto sul tema della responsabilità professionale del medico3 che conduce, in buona sostanza, ad un principio di responsabilità presunta, molto prossimo al principio della responsabilità oggettiva. Questa tendenza deriva dal considerare il servizio medico come diritto sociale e la prestazione medico sanitaria come funzionale al diritto inviolabile della salute.

CASO IN ESAME

Primo aspetto procedurale da tenere in considerazione riguarda la legittimazione attiva degli attori nel promuovere il giudizio.

A tale riguardo si deve precisare come la presente azione di risarcimento viene proposta dai coniugi, sia in proprio che quali genitori esercenti la potestà sul figlio minore.

Non vi sono dubbi che a seguito dell’accertamento dell’errore professionale sorga, in capo ai sanitari che l’hanno a vario titolo posto in essere, un obbligo risarcitorio principalmente nei confronti dei genitori, cui spetta il ristoro del danno patrimoniale, non patrimoniale e del danno biologico.

Se non sussistono dubbi sulla titolarità dell’azione in capo ai genitori per i danni personalmente subiti, e che analizzeremo nell’esposizione del quantum nel loro dettaglio, dubbi invece aveva suscitato, in un recente passato, la legittimità dell’azione del minore per i danni occorsigli da ritenersi conseguenti al parto.

LEGITTIMAZIONE ATTIVA DEL NASCITURO

Il percorso storico, che ha condotto a riconoscere in capo al soggetto che nasce menomato la possibilità di agire nei confronti dei responsabili delle lesioni pre-natali, è stato decisamente tortuoso. Il danno subito dal nascituro fu affrontato dalla dottrina4 e dalla giurisprudenza5 già a metà del novecento.

3 Vedi, in proposito, l’art. 41 (Equa soddisfazione) della recente legge 28.08.1997 n. 296 con cui l’Italia ha ratificato il Protocollo XI della Convenzione di salvaguardia dei diritti dell’uomo.

4 RESCIGNO, Il danno da procreazione, in Riv. Dir. Civ., 1956, I, 629 e poi in Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, Torino, 1960, II, 1337 e ss.; MUSATTI, Ancora sulla responsabilità della procreazione, in Foro It., 1952, IV, 15.

5 T. Piacenza, 31-7-1950, in Foro it., 1951, I, 987 ss., con nota critica di Elia. In particolare nel 1950, il Tribunale di Piacenza ritenne due genitori responsabili per fatto illecito nei confronti della figlia, avendo trasmessole, attraverso il concepimento, la Iue. La decisione in questione non si dilungò più di tanto sul problema giuridico della tutela del nascituro, ma fece ricorso ad argomentazioni intrise di etica e di morale: “La vita è un grande dono, un immenso dono. Ora il trasmettere attraverso la generazione, quando la causalità...è dimostrata, una condizione morbosa che questo dono trasformi in un’immensa infelicità è illecito, è fatto contrario al diritto, contrario al comportamento della persona quale le è imposto dall’ordinamento giuridico che

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LA DECISIONE DELLA CASSAZIONE N. 11503/1993

Fu però solo nel 1993 che la Corte di Cassazione giunse a chiarire gli aspetti normativi sul diritto al risarcimento del soggetto nato con delle malformazioni eziologicamente riconducibili ad un evento lesivo ante-natale (nella specie, asfissia neonatale)6.

La Suprema Corte, in aperta critica ad un suo precedente del 1973, rilevò come l’interpretazione, che allora era stata data dell’art. 1 c.c., fosse invero viziata da un errore di fondo: secondo la Cassazione, infatti, quando l’art. 1 c.c., 2° comma, limita i diritti in capo al concepito a quelli espressamente previsti dalla legge, rinvia a delle “disposizioni che attribuiscono direttamente al nascituro determinati diritti o capacità”, mentre, quando si tratta del diritto a nascere sani e del c.d. “danno al nascituro”, “si tratta, viceversa, di un danno che incide immediatamente e direttamente su un soggetto venuto ad esistenza, sia pure per un fatto colposo commesso antecedentemente alla nascita”, e “si è quindi al di fuori della previsione dell’art. 1 c.c., 2° comma”.

Con tali premesse, positivamente confortate dalle più recenti pronunce giurisprudenziali, può quindi serenamente concludersi sulla legittimità dell’azione esperita in questa sede dall’infante per ottenere il ristoro delle lesioni subite.

LEGITTIMAZIONE PASSIVA

Quanto alla legittimazione passiva si ritiene opportuno, seppur brevemente, precisare come l’azione risarcitoria venga dagli attori esercitata sia nei confronti del medico per l’attività ambulatoriale e l’assistenza al parto che verranno in seguito meglio precisati, sia nei confronti dell’ostetrica e sia, infine, nei confronti della Regione quale successore a titolo particolare delle disciolte USSL presso cui è stato eseguito il parto.

Per quanto riguarda la legittimazione passiva della Regione si precisa come con il D.LGS.

del 30.12.1992 n. 502 (poi modificato con il D.LGS 7.12.1993 n. 517), nonché con la Legge 23.12.1994 n. 724 (Legge Finanziaria) il nostro Legislatore è intervenuto modificando integralmente l’organizzazione del S.S.N.

la riconosce e la eleva. Né è difficoltà a così ritenere la circostanza che l’azione non si rivolga ad un soggetto di diritto già esistente, ma si compia nell’atto stesso di dare vita al futuro soggetto del diritto. Se è fatto illecito trasmettere la Iue a persona già esistente, non si vede perché non lo debba essere ugualmente la trasmissione ad una persona futura, sempreché il legame causale esista. ...”

6 Cass., 22.11.1993, n. 11503, in Giur. it., 1994, I, 1, 55°, con nota di Carusi.

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4 Nel prevedere la costituzione delle aziende sanitarie locali ed aziende ospedaliere, dotandole di personalità giuridica pubblica e di piena autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, il legislatore ha demandato alle Regioni di regolare le modalità organizzative e di funzionamento delle nuove strutture sanitarie, stabilendo altresì i criteri per la definizione dei rapporti attivi e passivi facenti già capo alle vecchie unità socio- sanitarie locali.

Nel dare concreta attuazione alle norme sopra citate le Regioni hanno regolato, con modalità pressoché analoghe, la successione dei rapporti attivi e passivi dei vecchi soggetti e di quelli nuovi.

Tale situazione ha ingenerato dubbi e perplessità in ordine al soggetto legittimato passivamente.

Dopo una lunga serie di pronunce - anche contraddittorie tra loro - delle Corti di merito e della Cassazione, in ordine all’individuazione dei soggetti chiamati a succedere alle soppresse USSL, la Suprema Corte, con una decisione a sezioni unite, la n. 1989 del 1997, ha affermato la successione ex lege delle regioni nei rapporti già di pertinenza delle soppresse USSL, escludendo, per contro - come in alcune sentenze in precedenza statuito - la successione delle neo-istituite aziende sanitarie locali, e ravvisando una successione a titolo particolare, soggetta alla disciplina di cui all’art. 111 c.p.c., tra le soppresse USSL e le regioni, ravvisando dunque il soggetto passivo nell’ente regionale.

La presente difesa ha quindi scelto di azionare le proprie pretese nei confronti della sola Regione.

Tuttavia, si rileva che, a scanso di revirements, si è proceduto ad interrompere la prescrizione nei confronti di tutti gli ulteriori soggetti potenzialmente legittimati passivi (gestione liquidatoria in persona del Commissario liquidatore della cessata USSL nonché ASL stessa).

RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE

Prima di affrontare, in diritto, il tema della responsabilità professionale del medico, deve essere opportunamente evidenziato come, da un punto di vista pratico, il lavoro dell’avvocato che intenda intraprendere un’azione risarcitoria non può che essere preceduto e supportato, come nel nostro caso, con assoluta priorità, dal responso dell’esperto in punto di nesso causale tra il danno lamentato dai clienti e la condotta dei sanitari.

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5 Fatta tale premessa metodologica si rileva come l’evoluzione della dottrina, l’enorme contributo offerto dalla giurisprudenza di merito e, soprattutto, di legittimità, hanno consentito di ricostruire un vero sistema organico del rapporto medico-paziente e della responsabilità civile medica.

Attualmente si può quindi affermare di essere finalmente giunti ad una situazione per così dire di equilibrio nelle rispettive sfere di competenza, di autonomia e di scelta del medico e del paziente, armonizzando tra loro la “potestà di curare” (e non più di “diritto di curare”, come acutamente evidenziato dall’Avv. M. Liguori in un suo recente articolo) da un lato e, dall’altro, i diritti inviolabili della persona, costituzionalmente garantiti.

Fatta tale premessa metodologica rilevo come nel rapporto medico-paziente due sono gli obblighi fondamentali a carico del medico:

informare il paziente;

eseguire una prestazione professionale corretta e diligente.

Nel caso che ci impegna entrambi tali obblighi risultano disattesi da parte del medico.

Vediamoli specificamente.

Gli attori, nell’atto introduttivo del giudizio, preliminarmente hanno lamentato la completa omissione di informazioni da parte del medico – questo sia durante le visite eseguite nel periodo di gravidanza sia in occasione del parto – sugli eventuali rischi, divenuti oggi una triste realtà, che l’esecuzione di un parto naturale avrebbe potuto comportare per il nascituro.

Non esiste infatti in atti alcun documento che attesti l’avvenuta informazione della paziente ed il suo consenso.

È però di tutta evidenza dall’esame dei documenti medici prodotti che un intervento per via laparotomica, non sussistendo controindicazioni nel nostro caso, avrebbe eliminato ogni rischio per il nascituro al contrario di un parto naturale.

L’attrice doveva esserne quantomeno informata? Ritengo proprio di sì!

Non si può negare che esistessero delle evidenti, quantomeno, controindicazioni ad eseguire un parto naturale già nell’anamnesi ginecologica della partoriente:

1 – il precedente Vacuum Estractor;

2 – i foci epilettici riscontrati sul primo nato (tra l’altro di peso inferiore di quello riscontrato sul nascituro), che possiamo ritenere, con buona approssimazione, pur non essendovi alcuna menzione in tal senso nella cartella clinica, con attinenza al Vacuum stesso.

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Non vi è dubbio poi che se a tali obiettivi elementi di valutazione si aggiungono:

3 - la particolare conformazione fisica della partoriente, accuratamente descritta in perizia;

4 – la massa del feto attuale, riscontrata di ben 650 gr. superiore al precedente nato e con buona approssimazione già valutabile sia in occasione delle ecografie sia clinicamente;

5 – la “lentezza della fase espulsiva”;

questa mancanza di informazione costituisca, di per sé sola, “una grave limitazione della libertà di scelta da parte della paziente”.

Ma vediamo, in generale, cosa si intende per obbligo di informazione.

Il concetto di “consenso informato” esprime l’incontro tra le due conoscenze, quella del paziente, che acconsente al trattamento, e quella del trattamento che il medico propone, in quanto, a sua volta, compiutamente informato delle condizioni fisiche e psichiche del suo paziente. Nell’ambito del corretto rapporto giuridico tra questi due soggetti, il consenso è l’elemento essenziale, contenutistico, e nello stesso tempo elemento di valutazione della responsabilità professionale.

Sotto questo profilo è opportuno premettere come la mancata ed adeguata informazione può essere, salvo eccezioni di legge7, di per sé sola fonte di responsabilità del medico8.

L’obbligo d’informazione del malato risulta basato, in primo luogo, su due norme della Costituzione e precisamente:

dall’art. 32, 2° comma, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge;

dall’art. 13, che garantisce l’inviolabilità della libertà personale, con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e dell’integrità fisica.

Altre fonti dell’obbligo d’informazione vanno altresì rinvenute in primis nell’art. 5 c.c. ed altresì nelle disposizioni normative sanitarie (R.D., Leggi, D.M. e D.P.R. che si sono susseguite nel tempo) di rango subordinato rispetto al dettato costituzionale9.

7 Ipotesi in cui il medico agisce in stato di necessità e urgenza ex art. 54 c.p., cfr. Cass. pen. 16.2.1981.

8 A. Milano 02.05.1995; T. Padova 09.08.1985; Cass. 08071994 n. 6464.

9 art. 132 R.D. 3.2.1901 n. 45 (regolamento generale sanitario); art. 4 L. 25.7.1956 (profilassi delle malattie veneree); art. 4 L.

26.6.1967 n. 458 (trapianto del rene tra persone viventi); art. 1 L. 13.5.1978 n. 180 (sulla riforma dei manicomi); art. 2, 4, 12 e 14 L. 22.5.1978 n. 194 (norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza); art. 2 D.M.

5.7.1978 (modificazioni alle modalità di raccolta ed elaborazione dei dati statistici relativi agli interventi terapeutici e riabilitativi in materia di tossicodipendenza da sostanze stupefacenti o psicotrope); art. 33, 1° e 5° comma L. 23.12.1978 n. 833 (istituzione del Servizio Sanitario Nazionale); art. 5, 3° e 4° comma L. 5.6.1990 n. 135 (programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS); art. 19 D.P.R. 28.9.1990 n. 314 (compiti del medico di medicina generale); art. 121 D.P.R. 9.10.1990 n.

309 (T.U. delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei

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Un certo orientamento giurisprudenziale evidenzia inoltre, a supporto e conferma dell’obbligo dell’informazione del paziente, l’importanza della normativa deontologica10. L’obbligo d’informazione deve pertanto ravvisarsi anche nelle disposizioni previste dal Codice di Deontologia Medica approvato in data 2-3 ottobre 1998 (artt. 30-35).

Seppure la normativa deontologica non possa, come ben sappiamo, elevarsi a fonte del diritto, i precetti in essa contenuti ci sono certamente di indubbia utilità al fine di valutare ed interpretare, ad esempio, il “comportamento secondo correttezza” ai fini dell’applicazione dell’art. 1175 c.c.; oppure per accertare la diligenza o meno della prestazione eseguita dal sanitario che, com’è noto, deve valutarsi, ai sensi dell’art. 1176, 2° comma, c.c. con riguardo alla natura dell’attività esercitata11.

Dall’esame delle normative, anche deontologiche, sopra citate e con particolare riferimento alle disposizioni costituzionali in tema di libertà personale, possiamo giungere serenamente alla conclusione che l’interesse protetto dalla regola dell’informazione e del consenso non sia unicamente la salute del paziente, ma proprio l’autodeterminazione dell’individuo12. L’affermazione circa l’autonomia dell’obbligo di informazione rispetto a quello della prestazione risulta confortata sia da buona parte della più autorevole dottrina13, sia dalla più recente giurisprudenza che ha ritenuto, con attinenza al caso de quo, “sussistere la responsabilità del sanitario per violazione dell’obbligo di informazione ... anche quando ... non sia allo stesso medico ascrivibile alcun altro profilo di responsabilità professionale”14.

Non ritengo di grossa utilità, ai fini processuali che qui ci interessano, prendere posizione circa il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla fonte della responsabilità per omessa informazione. Distinguere, in questo caso, se si tratti di responsabilità extracontrattuale15 (art.

1337 c.c.), contrattuale16 (art. 1338 c.c), ovvero di un Tertium genus17 non è, ai fini pratici che

relativi stati di tossicodipendenza); art. 19 Decreto 15.1.1991 del Ministro della Sanità in G.U. 24.1.1991 n. 20; gli artt. da 1.8 a 1.15 del D.M. 27.4.1992 (disposizioni sulle documentazioni tecniche da presentare a corredo delle domande di autorizzazione all’immissione in commercio di specialità medicinali per uso umano, in attuazione della direttiva CEE n. 507/91).

10 Cass. 26.3.1981 n. 1773; conf. Cass. pen. 13.5.1992.

11 F.D. BUSNELLI, prefazione al Codice di deontologia medica a cura di Vittorio Fineschi, Giuffrè, 1996.

12 U.G.GIANNINI, Il consenso al trattamento medico, Giuffrè. Milano, 1989, 118 e seg.

13 F. CAFAGGI, Responsabilità del professionista, in Dig. Disc. Priv., XVII, Utet Torino, 1997; G. GIANNINI e M. POGLIANI, La responsabilità da illecito civile, Giuffrè, Milano, 1996.

14 T. Napoli, 11.2.1998 n. 1317; conf. A. Milano 2.5.1995, in Foro it. 1996, I, 1418; A. Venezia 23.7.1990 n. 1990; T. Padova 9.8.1985.

15 Cass. 15.01.1997 n. 364; Cass. 12.11.1994 n. 10014; Cass. 12.06.1982 n. 3604; T. Napoli 11.2.1998 n. 1317.

16 Cass. 8.8.1985 n. 4394; cass. 26.3.1981 n. 1773; A. Milano 2.5.1995.

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qui ci interessa esaminare, fondamentale: si tenga tuttavia presente che il medico-ginecologo che ha assistito al parto curando, tra l’altro, la redazione del primo certificato di ricovero, seguiva professionalmente la paziente già durante la fase di gestazione e, per ciò solo, la fonte della responsabilità del medico qui convenuto non potrà che essere considerata di natura principalmente contrattuale.

Il non prendere posizione sul tipo di responsabilità addebitabile alla controparte può essere comunque un’utile strategia processuale. Infatti, in linea generale, la nullità della domanda per mancanza del petitum si verifica soltanto quando non sia identificabile il bene giuridico cui tende l’azione, non quando sia usata un’inesatta qualificazione giuridica del rapporto in giudizio18; occorre quindi essenzialmente curare di indicare con chiarezza le proprie concrete richieste, quando si abbiano dubbi circa la qualificazione processuale da attribuire alle stesse (es.

responsabilità contrattuale o extracontrattuale). È infatti consentito al giudice di desumere il sostanziale contenuto delle richieste dalle deduzioni anche implicite della parte19.

Ritornando al caso che ci impegna, non vi è dubbio come sussistesse un chiaro e preciso obbligo d’informazione della paziente – ancor più evidente se si analizza il rapporto contrattuale instauratosi tra lo specialista e la gestante già prima del parto - e che lo stesso è rimasto inadempiuto.

È altresì indubbio, ed in ogni caso provato in corso di causa, che la partoriente, se adeguatamente informata sulle prevedibili difficoltà del parto naturale e delle altrettanto prevedibili conseguenze per il nascituro, avrebbe indubbiamente optato per un parto chirurgico scevro di ogni complicazione, e non avrebbe avuto luogo danno alcuno.

Ad ogni modo, volendo anche prescindere dal profilo dell’omessa informazione, si deve comunque rilevare che l’operazione era routinaria e non poneva particolari difficoltà. Da questa operazione il bambino è nato con delle malformazioni. Risulta cioè per tabulas la prova dei danni tutti subiti dal nascituro e che gli stessi siano riconducibili, senza ombra di dubbio, alle infauste conseguenze del parto.

Ora, ciò chiarito, alcune premesse in tema di responsabilità contrattuale medica sono opportune. Al riguardo, si ritiene necessaria una breve premessa in ordine alla

17 R. SACCO, Culpa in contrahendo e culpa aquiliana, in Riv. Dir. Comm., 1961, II, 186; P. RESCIGNO, in Enc. del dir. , 142, 160.

18 Cass. 15.3.1980, n. 1751; Ambrosio-Porta, L’atto di citazione, in Il danno alla persona, UTET, 2000, Vol. 1°.

19 Cass. 6.7.1977, n. 2976; Cass. 29.5.1980, n. 352; Il danno alla persona, op. cit..

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RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE dedotta in giudizio.

Le professioni intellettuali sono soggette alla disciplina di cui agli artt. da 2229 – 2238 c.c.

In passato si era propensi ad agire contro l’Ente Ospedaliero e contro il medico a titolo di responsabilità extracontrattuale in virtù del rapporto di rappresentanza che lega il medico all’ospedale e quindi in forza di quei principi di responsabilità che il Codice Civile del 1942 ha enunciato negli articoli 2049 e 122820.

Più recentemente, con la nota sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 1971, si era invece aperta la via all’azione diretta di responsabilità unificata tra l’operatore ed il suo mandante. Anche se le Sezioni Unite non affrontavano il problema, perché non era ancora la materia regolata dalla L. 23.12.1978 n. 833, quello che, in buona sostanza, nella stessa viene affermato, è il principio dell’immedesimazione organica, che è esattamente il contrario del principio della c.d. responsabilità oggettiva o di riflesso.

Numerose ulteriori decisioni di merito o di legittimità si sono succedute poi nell’arco di questi trent’anni, rimbalzando tra conferme e revirement21, ma pressappoco il principio è rimasto invariato.

Attualmente si può dire che la Suprema Corte abbia compiutamente enunciato tutti i presupposti per i quali la responsabilità del sanitario sia sempre di natura contrattuale (fermo restando che possa essere individuata anche una responsabilità per fatto illecito).

CASSAZIONE SEZ. III, 22.11.1999 N. 589

Infatti con la nota sentenza del 22.1.1999 n. 589 la III Sez. civile della Corte22 ha definito di natura contrattuale la responsabilità del medico dipendente del Servizio Sanitario, “ancorché non fondata su contratto ma sul contatto sociale connotato dall’affidamento che il malato pone nella professionalità dell’esercente una professione protetta”.

Quindi attualmente quello che secondo la Cassazione rileva per definire la natura del rapporto non è la fonte dell’obbligazione ma il contenuto del rapporto che inevitabilmente, per quanto obbligatoriamente, si instaura tra il medico ed il paziente, arrivando a concludere che anche quando non vi sia un contatto diretto tra i due, pur tuttavia si instaura quel rapporto contrattuale di fatto da semplice contatto sociale (ma nel caso di specie il contatto diretto ha avuto senz’altro luogo).

20 INTRONA, La Responsabilità Professionale nell’esercizio delle arti sanitarie, Cedam 1955, pag. 340.

21 Cass. Civ. Sez. Lav. 7.8.1982, n. 4437; Cass. Civ. Sez. Lav. 23.6.1994, n. 6064; Cass. Civ. Sez. III, 11.4.1995, n. 4152; Cass.

Civ. Sez. III, 12.8.1995, n. 8845; Cass. Civ. Sez. III 18.11.1997, n. 11440; Cass. Civ. Sez. III, 1.3.1998, n. 2144; Cass. Civ. Sez.

III, 8.3.1999, n. 1441.

22 Resp. civ. e prev. 1999, 652).

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La Suprema Corte nella sua decisione, presupponendo che con la creazione del Servizio Sanitario Nazionale si sia di fatto instaurato tra la struttura statale ed il paziente un contratto vero e proprio, che trae origine dalla legge e quindi fa nascere diritti e doveri, dall’inadempienza dei quali risulta la lesione del diritto soggettivo alla salute, ne deduce e conclude rilevando che la cura che viene prestata dal medico immedesimato organicamente nella struttura ha identica natura contrattuale. In questo caso il rapporto contrattuale da contatto avviene e si perfeziona nel momento stesso in cui di fatto il sanitario presta l’opera che gli è demandata dalla pubblica autorità in favore del malato terzo contraente e destinatario della prestazione stessa.

Seguendo l’insegnamento della Corte, non possiamo quindi che ritenere di natura contrattuale la responsabilità dedotta dagli attori a carico dei convenuti.

Peraltro, sempre secondo il dettato della Suprema Corte23, ai fini che qui ci interessano, essendo omologa la responsabilità dell’Ente e del medico, omologhe sono le azioni ai fini dell’onere probatorio e della prescrizione che il danneggiato potrà proporre nei confronti dell’uno, dell’altro o di tutti e due i soggetti, eliminandosi così quelle incertezze sulla scelta delle azioni da proporsi e contro chi. Senza contare che l’ente – e per esso la Regione – è responsabile, sempre contrattualmente, ex art. 1228 c.c. (nonché extracontrattualmente ex art. 2049 c.c.).

A fronte di questo quadro, il professionista dovrà dimostrare, per liberarsi dalla responsabilità ascrittagli, di aver adottato la diligenza richiesta in simili casi o che nonostante tutto, per la difficoltà dei problemi, il risultato non era raggiungibile.

L’istruzione probatoria esperita in corso di causa e la documentazione tutta prodotta in atti non può che condurre quindi ad una precisa responsabilità del medico, sussistendone tutti gli elementi, già sotto il preliminare profilo dell’omessa informazione: al riguardo deve essere ribadito che, date le circostanze, tutti gli eventi che si sono verificati nel corso del parto – ostacolandone il normale decorso – erano previsti e prevedibili.

Parte attrice dunque ha provato nesso di causa e danno, e dunque i convenuti saranno sicuramente da ritenersi responsabili, a meno che non dimostrino l’impossibilità della prestazione derivante da causa a loro non imputabile, ricordando qui che per causa non

23 Cfr. Cass. Civ. Sez. III, 19.5.1999, n. 4852.

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imputabile deve intendersi nel caso di specie, trattandosi di operazione priva di particolari difficoltà e routinaria, l’avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

Nonostante tale assorbente profilo di responsabilità, per mero e sicuramente eccessivo scrupolo difensivo, si ritiene opportuno evidenziare, in via di mero subordine, come non solo il rapporto di causalità materiale tra le conseguenze dannose subite dal nascituro e le prestazioni sanitarie, del medico e dell’ostetrica, sia fuori di discussione, ma anche risulti palese la colpa professionale dei sanitari.

Pur con tutte le premesse del caso e sempre per mera completezza difensiva e quindi senza inversione alcuna dell’onere probatorio, ritengo opportuno parlare, seppur brevemente, visto l’esaustivo elaborato redatto dal nostro medico legale di parte, della colpa professionale del medico, e più precisamente di errore colpevole, che è quello rilevante sia ai fini dell’inadempimento contrattuale (quale difetto del comportamento dovuto dal medico), che della colpa aquiliana (quale violazione di una regola di condotta).

Tale ERRORE COLPEVOLE è quello determinato da negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti, ivi compreso il codice deontologico24, ordini e discipline.

Numerosi sono gli errori commessi durante la prestazione medica che ci impegna. Si rinvia per completezza all’esaustiva relazione medica del Dott. Bonziglia. Vediamone comunque, per brevità, i più eclatanti:

Nel comportamento del medico, in primo luogo, è ravvisabile la negligenza.

La negligenza viene, in genere, individuata attraverso la descrizione di atteggiamenti negativi che possono caratterizzare l’operato del professionista, quali ad esempio distrazione, svogliatezza o pigrizia.

A mio avviso, nel nostro caso, integra gli estremi della colpa per negligenza il comportamento di un medico specialista in ginecologia che, in condizione di prevedere possibili difficoltà all’atto del parto naturale (mi richiamo ovviamente alla nostra perizia di parte), presti la propria assistenza in modo da non consentire la risoluzione di tali difficoltà col metodo del parto chirurgico.

24 G. GIANNINI M. POGLIANI, La responsabilità da illecito civile, Giuffrè, Milano, 1996, 251.

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12 Comunque negligente è stato il comportamento del medico specialista nel mancato riconoscimento della natura del caso e comunque anche nell’utilizzo del Vacuum Estractor che, come segnalato nella letteratura medica, è di per se stesso predisponente alla distocia.

La prestazione del medico può altresì essere qualificata come imprudente.

L’imprudenza viene, in genere, individuata nella temerarietà sperimentale e attraverso ogni altro comportamento che determini superficialità avventatezza, sconsideratezza, mancanza delle cautele che l’ordinaria esperienza suggerisce.

Sotto tale aspetto imprudente deve ritenersi il comportamento del medico che dopo essere intervenuto sul feto con l’ausilio del Vacuum, a testa espulsa, abbia poi affidato all’ostetrica l’ultimazione delle manovre di disimpegno, senza curarsi di previamente valutare l’assenza di complicazioni.

Parimenti imprudente è stato il medico nel non predisporre un’equipe in grado di riconoscere la presenza di distocia ed affrontarla con le manovre previste per siffatta emergenza.

La prestazione sanitaria del medico e dell’ostetrica può poi classificarsi come certamente imperita.

L’imperizia è la mancanza di abilità, di esperienza, di conoscenze tecniche e di preparazione professionale che il medico dovrebbe avere nel suo bagaglio tecnico.

Non vi è dubbio che imperito è stato il comportamento del medico che, com’è da ritenere, non ha diagnosticato la “distocia di spalla” come tale, e di conseguenza non ha posto in essere le manovre previste dall’arte per il disimpegno del feto.

Imprudenza che può altresì essere addebitata all’ostetrica per l’esercizio di “trazioni abnormi con flessione laterale del collo” durante il tentativo di disimpegno, non interpretato con le manovre previste dall’arte in caso di distocia.

ART. 2236 C.C.

Di fronte a tutti questi profili di responsabilità, mi sono chiesto, come si potrebbero difendere i convenuti?

Probabilmente invocando l’esimente di cui all’art. 2236 del c.c. ma, non se ne abbia a male il collega, non è certamente questo il caso.

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Ai profili della responsabilità medica sin qui esaminata non possono applicarsi nel caso di specie le norme dettate dall’art. 2236 c.c. in tema di contratto d’opera intellettuale che, testualmente, recita: “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera intellettuale non risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave”.

La giurisprudenza, nell’occuparsi di tale norma, ha affermato che l’attenuazione di responsabilità ivi prevista opera soltanto quando al professionista è affidato un caso di

“particolare complessità”25, e quindi si riferisce “non a tutti gli atti del medico ma solo a quelli che trascendono la preparazione professionale media”26 e che implichino “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”27.

Si tratta, quindi, di limitazione della responsabilità (quella dell’art. 2236 c.c.) che va riferita soltanto ad ipotesi di imperizia (per la complessità del caso, ecc.), mentre non può applicarsi ai danni ricollegabili a negligenza od imprudenza, in ordine ai quali il professionista risponde anche per colpa lieve28.

Fatta tale premessa, sul punto il nostro consulente è stato categorico: “nel caso in questione non vi sono speciali difficoltà; la perizia richiesta non trascendeva i limiti di quella che si esige dal professionista medio” e questo, ricordiamoci, va altresì integrato dalla circostanza che il medico era uno specialista del settore.

ONERE DELLA PROVA

Per quanto concerne l’onere della prova è opportuno evidenziare, sotto i profili dei contenuti della prova liberatoria, come a proposito della responsabilità professionale medica la giurisprudenza abbia STRUTTURATO UN PARTICOLARE SCHEMA DI RESPONSABILITÀ PRESUNTA (rispetto a quella prevista dall’art. 1218 c.c. in tema di responsabilità contrattuale), allorché la prestazione risulti di facile esecuzione (c.d. prestazione di routine)29.

25 Cass. 12.8.1995 n. 8845; conf. Cass. 26.3.1990, n. 2428; Trib. Milano 19.5.1992.

26 Cass. 11.4.1995, n. 4152; conf. Cass. 1.2.1991, n. 977.

27 Cass. 18.10.1994, n. 8470; conf. Cass. 8.7.1994, n. 6464.

28 Cass. 1.8.1996, n. 6937; Cass. 30.5.1996, n. 5005; A. Milano 12.12.1980.

29 Cass. 18.10.1994 n. 8470; conf. Cass. 15.1.1997, n. 364: “il paziente che reclami il risarcimento del danno, potrà soddisfare all’onere a suo carico esistente, limitandosi a provare che l’intervento era di facile esecuzione e che dallo stesso è derivato un risultato peggiorativo, mentre sul professionista graverà l’onere inverso di provare che la prestazione è stata eseguita con l’uso della massima diligenza e capacità, e che l’esito peggiorativo è dovuto ad eventi imprevisti od imprevedibili, oppure ad una particolare condizione fisica del malato, non accertabile con il criterio imposto dalla diligenza professionale ovvero si tratti di caso non ancora sperimentato o studiato a sufficienza per quanto concerne i metodi terapeutici

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Ciò deve ritenersi indipendentemente dalla natura contrattuale od extracontrattuale dell’azione proposta contro il medico.

Quindi, per quanto concerne l’onere a carico degli attori, nel nostro caso si può dire che il paziente abbia raggiunto la prova che:

la prestazione era di facile esecuzione e non presentava speciali difficoltà;

che a seguito della prestazione sanitaria sono derivati danni, anche peggiorativi, alla salute del nascituro.

In questo caso, con una presunzione semplice (art. 2727 c.c.) dal fatto noto, danni fisici e/o risultato peggiorativo, si risale al fatto ignoto, e cioè alla inadeguata e non diligente esecuzione della prestazione medica dalla quale il sanitario (CONVENUTO) si libera solamente se prova:

che la prestazione è stata eseguita con la massima diligenza e capacità e che il risultato negativo (danno o peggioramento che sia) è dovuto ad un evento imprevisto ed imprevedibile, oppure ad una condizione fisica della paziente non accertabile e non evitabile con il criterio dell’ordinaria diligenza professionale;

che il trattamento era di speciale difficoltà onde limitare la sua responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave.

Possiamo ritenere che dall’esame degli atti nessuna prova in tal senso abbia raggiunto il convenuto:

è di tutta evidenza dal mero esame delle lesioni subite dal nascituro che la prestazione non è certo stata diligente e capace né si può credibilmente sostenere che l’evento sia stato imprevisto ed imprevedibile, in quanto per uno specialista in ostetricia e ginecologia, con molti anni di pratica professionale, gli esiti infausti del parto non potevano certamente costituire un evento imprevedibile30 e in ogni caso il medico disponeva di tutti gli elementi per il riconoscimento della natura del caso (fattori predisponenti la distocia di spalla identificabili anche durante il travaglio) né, tanto meno, l’evento può essere attribuito ad una condizione fisica della paziente non accertabile e non evitabile, in quanto risultano in atti tutti gli elementi che inducono a ritenere come pienamente identificabili i fattori predisponenti la distocia sia prima della gravidanza (ad es. anomalie della morfologia pelvica, ristrettezza dell’egresso, precedente parto di feto megalosoma, precedente distocia di spalla etc.) sia durante la gravidanza (ad es. aumento ponderale eccessivo, intolleranza ai carboidrati, etc.);

30 Cass. pen. 25.2.1985, RP, 1985, 796; DPA, 1988, 190.

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15 il trattamento eseguito, per le ragioni su esposte e che qui mi limito per brevità a richiamare, non era di speciale difficoltà in quanto “la perizia richiesta non trascendeva i limiti di quella che si esige dal professionista medio”.

Sul punto, molto concretamente, ci si chiede quale prova possa in ogni caso fornire parte avversa a comprova dei propri assunti difensivi. Non certo la prova testimoniale, in quanto le persone che hanno assistito e, quindi, eseguito il parto, sono entrambe convenute in giudizio (medico ed ostetrica) e, pertanto, le dichiarazioni rese, essendo improntate ad un chiaro interesse di parte, potranno essere utilizzate solo come confessione per i fatti a loro sfavorevoli.

Non potrà certamente supplire alla mancanza di prova dei convenuti la perizia di parte in quanto, pacificamente, non può rappresentare un mezzo di prova.

Né potrà supplire a tali lacune istruttorie l’esame della documentazione in atti e, segnatamente, della cartella clinica.

La cartella clinica, poi, non consente certo ai convenuti di poter provare di aver correttamente e tempestivamente diagnosticato la “distocia di spalla” e di aver conseguentemente posto in essere le manovre previste dall’arte ed accuratamente descritte nelle varie relazioni e dalla bibliografia medica.

Ad avviso degli attori la cartella clinica – che ricordiamo è un atto pubblico - è completa e ciò comporta che quello che non vi è in essa descritto non risulta effettuato dai sanitari. A tale conclusione si giunge, comunque, a fronte della stessa ammissione posta in essere dall’Ostetrica:

”la bambina faticava ad uscire, nonostante le spinte della madre, per cui la decisione del medico fu di applicare il vacuum che serva a fare uscire la testa del bimbo; dopo la testa avviene l’espulsione delle spalle, che in quell’occasione è stata più difficoltosa”.

È lapalissiano e comunque altamente verosimile che la testimonianza dell’ostetrica sarebbe stata diversa se il medico fosse nuovamente intervenuto sul feto appena affidato all’ostetrica, dopo il distacco del vacuum, a testa espulsa, e certamente la stessa avrebbe descritto il modo di prodigarsi dello specialista per risolvere la situazione.

Ciò non solo non traspare dalle parole dell’ostetrica ma neppure è descritto, lo ribadiamo, in cartella.

CARTELLA CLINICA

Si definisce la cartella clinica come il complesso ordinato e scritto dei dati clinici (anamnestici, obiettivi, specialistici, strumentali e documentali) raccolti dai sanitari sulla persona del malato nel corso della sua degenza ospedaliera.

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16 L’importanza di questo documento è molteplice sia sotto il profilo clinico, poiché la principale finalità è quella della tutela della salute del ricoverato (diagnosi e terapia), ma soprattutto sotto il profilo medico-legale: per la sua efficacia probatoria, per il suo valore storico- documentale e per l’attestazione del consenso informato31.

Circa il valore giuridico della cartella clinica, brevemente, si segnala come si tratti di un documento che rientra nella categoria degli atti pubblici32, in quanto esplicazione del potere certificativo e della natura pubblica dell’attività sanitaria cui si riferisce.

Proprio in quanto atto pubblico la cartella clinica è soggetta a speciale disciplina giuridica per ciò che riguarda l’obbligo della sua compilazione per ogni ricoverato, la riservatezza del contenuto, la sua conservazione, nonché il rilascio delle copie33. Vale la pena segnalare che secondo l’art. 2699 del c.c. per atto pubblico” si intende “il documento redatto con le richieste formalità da ... pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato”.

L’atto pubblico (v. art. 2700 c.c. “Efficacia probatoria dell’atto pubblico”) fa piena prova fino a querela di falso “della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti o degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”.

La correttezza e la completezza con cui le cartelle sono redatte depongono per la perizia e la diligenza dei sanitari curanti.

Nella denegata e non creduta ipotesi che invece l’Ill.mo Giudice adito ritenesse che il medico sia riuscito a provare che la prestazione era di speciale difficoltà, anche in questo caso non possiamo che concludere per la piena responsabilità dei convenuti: dall’esame delle prove in atti, non può che ritenersi raggiunto l’onere della prova che compete al paziente.

Dalla cartella clinica e dalla documentazione acquisita in atti si evince il tipo di prestazione eseguita, le ragioni che l’avevano imposta e, soprattutto, le modalità di esecuzione. Dall’esame della cartella clinica e dalla dichiarazione resa dall’Ostetrica non vi sono dubbi poi che il sanitario non ha adottato, con la dovuta diligenza, gli opportuni metodi di accertamento – da

31 V. Cass. pen. sez. V, 24.10.1980, in Cass. pen. 1982, 470: la particolare efficacia probatoria della cartella clinica deve ritenersi limitata alla sua provenienza dal pubblico ufficiale e riguarda per ciò solo i fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati da lui compiuti.

32 Diverse sentenze della Cassazione penale hanno ribadito la natura di atto pubblico sia della cartella clinica ospedaliera sia del registro ospedaliero degli interventi operatori (v. sent. Cass. pen. sez. V, 11.4.1988) sia del registro di pronto soccorso (v. a tale riguardo, sent. Cass. pen. sez. V, 2.4.1989, in Giust. pen. 1990, II, 426).

33 Il D.P.R. 27.3.1969, n. 128 (sull’Ordinamento interno dei servizi ospedalieri) reca norme concernenti: la compilazione, la conservazione ed il rilascio delle cartelle cliniche.

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ritenersi di uso comune - che gli avrebbero consentito di diagnosticare, per tempo, la distocia e, comunque, non ha fatto ricorso a mezzi, ritenuti idonei dallo stato dell’arte, per raggiungere il risultato desiderato34.

Risultando dimostrati, per le ragioni tutte sopra esposte, il danno subito dagli attori, il fatto colposo (da inadempimento contrattuale od illecito aquiliano) e il “sicuro” nesso di causalità tra fatto lesivo ed evento dannoso, passiamo a delineare quelle che, a mio avviso, possono essere le singole voci di danno risarcibili.

QUANTUM Premessa

Nei casi che presentano lesioni di particolare gravità, come quello in esame, previamente dovranno essere richiesti ai genitori, e ovviamente provati in corso di causa, tutta una serie di dati quali ad es., trattandosi di nascituro, le difficoltà che affronta nella sua vita quotidiana e relazionale con gli altri bambini, nonché informazioni e documentazioni sullo stato sociale e patrimoniale della famiglia, poiché, come vedremo trattando concretamente dei danni risarcibili, tali elementi rilevano ai fini della quantificazione dei danni patrimoniali (in particolar modo quelli futuri del nascituro).

Indubbiamente, a tale fine, l’incontro con i clienti costituisce un momento importantissimo e deve essere affrontato con scrupolosità, in quanto più informazioni e più documentazione saranno acquisite, più agevole sarà impostare e personalizzare la richiesta di risarcimento danni.

Sempre ai fini della personalizzazione del danno, nel caso in cui le lesioni abbiano comportato degli evidenti inestetismi, ritengo opportuno allegare agli atti di causa delle fotografie che ritraggano il bambino e documentino l’evoluzione della malattia nel tempo.

Altro fondamentale elemento da tenere in considerazione, sempre per fotografare la realtà e lo stato obiettivo del lesionato ai fini della quantificazione del danno è, certamente, la perizia medico legale. Sarà quindi cura dell’Avvocato richiedere al proprio consulente un’ampia descrizione del danno subito dall’infante ed egli, nel suo elaborato, dopo aver evidenziato il tipo di lesione, l’entità del danno biologico e la sua incidenza sulla capacità lavorativa specifica, sull’invalidità temporanea ecc., dovrà altresì chiarire quale sia ad es. la reale possibilità di recupero funzionale, quali le funzioni precluse, quale l’intensità del dolore, svolgendo quindi, in sede di anamnesi, un’ampia indagine.

34 Cass. 18.10.1994, n. 8470; Cass. 15.1.1997, n. 364; Cass. 30.5.1996, n. 5005.

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18 Avendo quindi a disposizione i dati forniti dal medico legale e dando per scontato che sono state provate, in corso di causa, le informazioni ottenute dai genitori della vittima, cercherò di formulare un quadro riassuntivo delle richieste risarcitorie degli attori.

Nel caso in oggetto, per quanto concerne la liquidazione dei danni, si devono considerare due sfere distinte: quella del bambino e quella degli stretti congiunti.

DANNI DEL BAMBINO

Danno biologico di natura fisica e danno psichico.

Senz’altro risarcibile in capo al bambino è il danno biologico di natura fisica, che risultata valutato in via prognostica nella misura del 30-35%, il cui riconoscimento segue i criteri che si applicano normalmente per le lesioni personali.

Non pochi problemi di individuazione crea invece, da un punto di vista pratico, il riconoscimento e la liquidazione del danno biologico di natura psichica per il cui accertamento, in capo al minore, potrà intercorrere un lungo lasso di tempo. Un chiaro esempio di tale peculiarità si ha nell’ipotesi in cui il bambino, come nel nostro caso, subisca anche un rilevante danno estetico: tale danno, nei suoi risvolti psichici, avrà effetto “pieno” solo con la raggiunta maturità del danneggiato. Una volta raggiunta la consapevolezza della propria menomazione estetica e del proprio stato d'inferiorità rispetto ai coetanei, il bambino o tenderà a evitare ogni tipo di conquista e diventerà depresso oppure, nel tentativo di negare la propria inferiorità, ricercherà le conquiste ad ogni costo e sarà continuamente frustrato dai rifiuti, potendo dunque sviluppare una “nevrosi isterica”. Con tali premesse ritengo che si debba, per tale tipo di danno, tenere in dovuto conto che le conseguenze di natura psichica possono essere compiutamente apprezzate solo a distanza di anni dall’evento lesivo e quindi l’Avvocato avrà due strategie processuali da scegliere: potrà richiedere in giudizio la liquidazione del danno psichico prevedibile futuro che potrà, eventualmente, essere individuato valutando le problematiche relazionali che il bambino svilupperà nei rapporti adolescenziali con il mondo esterno, pur precisando che è senza dubbio compito principale dello specialista individuare e quantificare il tipo di danno psichico patito dal fanciullo. Oppure l’Avvocato dovrà lasciarsi la possibilità di poter riaprire il caso e chiedere la liquidazione in un momento successivo. Mi permetto di suggerire come nella seconda ipotesi, molto praticamente, si potrà giungere o ad una sentenza sull’an e sul quantum per tutti i danni, fatta eccezione per il danno psichico con

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rimessione della causa sul ruolo, oppure si opterà per la fissazione di un lungo rinvio per poter dare ingresso ad una nuova CTU, a patologia stabilizzata.

Quantificazione del danno biologico.

Per quanto inerisce il quantum, la Cassazione ha più volte precisato come il Giudice debba tenere conto di due esigenze: necessità di un parametro uniforme di base e esigenza della personalizzazione del danno.

In relazione alla prima esigenza, e dunque all’individuazione del valore a punto di base, tutti conosciamo le varie tabelle liquidative che i diversi circondari di Tribunale adottano e quindi le difficoltà nell’individuare un parametro base uniforme per il territorio. Tuttavia, pare opportuno qui rilevare che senz’altro la tabella che, come risulta anche dall’ultimo numero monografico di Guida al Diritto sul danno alla persona, attualmente è quella più seguita dalle nostre Corti, è quella del Tribunale di Milano. E pertanto senz’altro si deve fare riferimento ad essa per individuare il parametro uniforme nel senso indicato dalla Cassazione.

Ovviamente, e quindi venendo alla seconda esigenza, il parametro uniforme è solo indicativo e dovrà essere adattato in via equitativa al caso concreto, eventualmente incrementandolo.

Nel caso di specie si dovrà considerare, per una migliore liquidazione del danno, che nelle lesioni della salute del minore è necessario porre massima attenzione alla personalizzazione del risarcimento del danno35.

Ricordo, a tale ultimo riguardo, come, per la nostra Costituzione, i fanciulli siano stati ritenuti meritevoli di una tutela differenziata e rafforzata (art. 31, 2° comma: la Repubblica

“protegge ... l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”; norma da correlarsi con gli artt. 2, 29, 30, 31 comma primo, 32 e 34), in quanto costituiscono una categoria di soggetti c.d. deboli.

La posizione differenziale e “rafforzata” dei diritti del minore può altresì desumersi dagli artt.

3-24 della Convenzione di New York del 20.11.1989, a cui aveva aderito l’Italia, ratificata e resa poi esecutiva con L. 27.5.1991 n. 176.

Nel caso di specie si dovranno considerare inoltre i seguenti aspetti, che compongono il danno biologico: 1) pregiudizio alla capacità lavorativa generica; 2) conseguenze negative sull’estetica della vittima (braccio più corto, con difficoltà motorie notevoli); 3) danno alla sfera sessuale.

Danno morale.

35 Cass. Sez. III, 18.2.1993, n. 2008.

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Il danno morale è senz’altro risarcibile. A prescindere dal fatto che è individuabile una fattispecie di reato ed è ravvisabile la colpa concreta, senza dubbio il danno morale, per il principio della unitarietà che contraddistingue il danno alla persona, deve seguire le stesse sorti del danno biologico.

Ritengo che il criterio che prevede la liquidazione del danno morale proporzionato al danno biologico non sia l’unico al quale si debba fare riferimento (che va da ¼ a ½ del valore concretamente attribuito al punto di permanente36), posto che si tratta comunque di una valutazione equitativa.

Il danno morale potrà pertanto, a mio avviso e specialmente nel caso di un minore, trovare una migliore liquidazione in seguito ad un’attenta capitolazione, che fotografi il più possibile il caso concreto con l’ausilio di testimoni.

In buona sostanza il criterio della proporzionalità non può e non deve diventare una presunzione, potendo ben verificarsi dei casi in cui il danno morale risulti superiore, in termini monetari, al danno biologico.

Per quanto attiene al risarcimento del danno morale, nei casi più gravi, si è posto il problema delle capacità percettive del minore.

Se è pur vero, come affermato dalla Corte Costituzionale, che il danno morale è il momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico, è altrettanto vero che ha caratteri marcatamente soggettivi, di sostanziale impossibile misurazione con apprezzabili ed affidabili strumenti di indagine, oltre che di difficile valutazione, da effettuarsi in via prevalentemente presuntiva. Né può escludersi che il minore porti con sé, senza poterlo esternare, per tutto l’arco della sua vita, una continua permanente sofferenza per la sua situazione37.

Pertanto, deve ritenersi che, su tale piano, il minore debba essere considerato una persona come un’altra, perciò in grado di avvertire, sia pure in maniera del tutto particolare, il dolore.

Danno esistenziale.

In merito alla risarcibilità della grave alterazione della qualità di vita subita e patenda dall’attore, si deve preliminarmente rilevare che la Suprema Corte, nella recentissima decisione del 7 giugno 2000 n. 7713, riconoscendo peraltro la risarcibilità del danno esistenziale, ha rilevato come lo schema adottato a suo tempo per il danno biologico (art. 2043 c.c. + art. 32

36 Cass. sez. III, 9.1.1998 n. 134.

37 A. Trento, 18.10.1996, in Dir. fam. pers., 1999, 633.

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21 Cost.) sia “riferibile (per la latitudine dei suoi enunciati) ad ogni analoga lesione di diritti comunque fondamentali della persona, risolventesi in un danno esistenziale ed alla vita di relazione”, cosicché il danno non patrimoniale è sempre risarcibile, quando nello schema a suo tempo adottato per il danno biologico sia possibile sostituire all’art. 32 Cost. una qualsiasi altra norma costituzionale: sempre per la Cassazione, infatti, “la vigente Costituzione, garantendo principalmente e primariamente valori personali, impone ... una lettura costituzionale orientata dell’art. 2043 c.c. (che non si sottrarrebbe altrimenti ad esiti di incostituzionalità) in correlazione agli articoli della Carta che tutelano i predetti valori”.

In conclusione, la Cassazione, nella menzionata decisione, afferma il principio, per cui l’art.

2043 c.c., “correlato agli artt. 2 e ss. Cost., va così necessariamente esteso fino a ricomprendere il risarcimento non solo dei danni intesi in senso stretto patrimoniali ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana”.

Ora, nel caso di specie non vi è dubbio alcuno che il pregiudizio subito dall’attore rientri tra i danni che, secondo la Cassazione, ostacolando le attività realizzatrici della persona umana, devono essere risarciti a prescindere dai limiti posti dall’art. 2059 c.c.

Ciò premesso e venendo alla qualificazione del danno in questione, pare alla presente difesa che esso debba essere ricondotto alla categoria del danno esistenziale, figura di danno ormai largamente condivisa dalle corti di merito (Trib. Torino, sez. IV, 28 giugno 2000, ined.; Trib.

Milano, 15 giugno 2000, ined.; Trib. Milano, 8 giugno 2000, ined.; Trib. Milano, 21 ottobre 1999, in Resp. civ. prev., 1999, 1335; G.d.P. Casamassima, 10 giugno 1999, in Danno e responsabilità, 2000, 89; Trib. Milano, 20 ottobre 1997, in Danno e responsabilità, 1999, 82;

Trib. Verona, 26 febbraio 1996, in Dir. Informazione e informatica, 1997, 1436; Trib. Torino, 8 agosto 1995, in Resp. civ. prev., 1996, 282).

Infatti, come messo in luce dal Tribunale di Milano (Trib. Milano, 21 ottobre 1999, cit.), “il danno alla persona, consistente nell’alterazione delle normali attività dell’individuo (quali il riposo, il relax, l’attività lavorativa domiciliare e non), che si traduce nella lesione della serenità personale, cui ciascun soggetto ha diritto, deve essere qualificato quale danno esistenziale”.

Per il Giudice milanese (Trib. Milano, 8 giugno 2000, cit.) il danno esistenziale consiste

“nella violazione del diritto alla qualità della vita e/o alla libera estrinsecazione della personalità, con modificazioni peggiorative nella sfera personale del soggetto leso”: e, nel caso di specie, non si dubita che gli attori abbiano subito siffatta violazione, essendo stati privati del loro rispettivo marito e padre.

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Peraltro, altre corti di merito hanno riconosciuto la risarcibilità, accanto al danno morale, dell’alterazione di vita che viene provocata dalla perdita di un congiunto, sotto altre etichette, quali il danno edonistico (ad esempio Trib. Firenze, 24 febbraio 2000, n. 451) ed il danno da lesione del rapporto parentale (in questo senso Trib. Milano, 31 maggio 1999 e Trib. Treviso, 25 novembre 1998, in Danno e responsabilità, 2000, 67). Queste etichette corrispondono in buona sostanza, a livello contenutistico, al danno esistenziale.

Per quanto attiene il fondamento giuridico di questa categoria, sempre secondo il Tribunale di Milano, nella citata sentenza, “la tutela costituzionale del diritto al danno esistenziale va individuata nell’art. 2 della Costituzione, che tutela i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”: pertanto, art. 2043 c.c. (e/o 1218 c.c.) + art. 2 Cost.

Per la prova di tale danno l’Ill.mo Giudice potrà fare ricorso al consueto principio dell’id quod plerumque accidit, essendo lampante, salva prova contraria – che controparte è tenuta ad offrire -, che un danno come quello subito dal giovanissimo attore incida profondamente e in modo permanente nella sua vita quotidiana.

Infine, sul quantum del danno esistenziale il criterio applicabile è quello equitativo (art.

1226 c.c., art. 2056 c.c.). La presente difesa rileva altresì come nei precedenti, in cui tale danno è stato risarcito, le corti hanno liquidato somme comprese tra L. 30.000.000 e L. 50.000.000 (ad esempio, Trib. Milano, 8 giugno 2000, cit., danno esistenziale da illegittima elevazione di protesto, L. 50.000.000; G.d.P. di Casamassima, 10 giugno 1999, cit., danno esistenziale da perdita del frutto del concepimento, L. 30.000.000; Trib. Verona, 26 febbraio 1996, cit., danno esistenziale da lesione dell’immagine, L. 30.000.000; Trib. Milano, 20 ottobre 1997, cit., danno esistenziale da bambino non voluto, L. 30.000.000). La gravità del fatto in questione risulta tuttavia di gran lunga superiore rispetto al tipo di lesioni, che erano oggetto dei casi sopra menzionati, in cui è stato liquidato il danno esistenziale. Cosicché la presente difesa ritiene opportuno suggerire, sempre in via equitativa, una liquidazione a titolo di danno esistenziale non inferiore a L. 100 milioni.

Danno patrimoniale futuro.

La prova di questo danno non pone particolari problemi, soprattutto laddove le lesioni siano state talmente gravi da provocare la totale privazione della capacità lavorativa: in queste ipotesi le Corti38 ritengono che la prova del danno sia in re ipsa.

38 App. Trento, 18-10-1996, cit.

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Nella pratica le difficoltà sorgono soprattutto nell’individuazione del quantum.

Come base di partenza per il conteggio del reddito virtuale la giurisprudenza prende a riferimento alternativamente o il reddito medio annuale dell’individuo occupato39 oppure il triplo della pensione sociale (criterio tratto dall’art. 4 della l. n. 39/1977). La somma base così individuata, sempre soggetta ex art. 1226 c.c. a modificazioni effettuate in via equitativa40 (ad es.

in considerazione delle condizioni socio-economiche della famiglia e dell’attività lavorativa svolta dai genitori41), viene poi moltiplicata per il coefficiente massimo del r.d. 9 ottobre 1922 n. 1403 (indicato in punti 20.048 per i dodicenni)42. Infine, almeno secondo parte della giurisprudenza43, su tale importo andrebbero operati due correttivi: 1) se la vittima si trova ancora in tenera età, si opera la capitalizzazione anticipata tra l’età in cui l’attore avrebbe verosimilmente iniziato a lavorare e l’età, che lo stesso ha al momento del risarcimento; 2) lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa (la giurisprudenza oscilla nell’individuazione della percentuale da sottrarre: si va dal 25% del Tribunale di Verona44, al 20% della Corte d’Appello di Trento45, al 10% della Corte d’Appello torinese46.

Ulteriore voce di danno, che viene presa in considerazione in giurisprudenza, è costituita dal danno emergente, rappresentato dalla necessità, accertabile, almeno nelle ipotesi più gravi, secondo l’id quod plerumque accidit47, della vittima di essere continuamente assistita.

Per la liquidazione di quest’ultima voce di danno la base di partenza è data dalle somme, che,

“per comune esperienza”48, sono necessarie per un servizio di assistenza completo, a domicilio oppure, secondo i singoli casi concreti, in una struttura sanitaria, pubblica o privata.

Se poi nel momento in cui viene operato il risarcimento, alle spese di cura stanno già provvedendo i genitori, allora il danno emergente da considerare è quello che presumibilmente

39 Così il Trib. Verona, 15-10-1990, cit.

40 Cfr. FRANZONI, Il sistema di liquidazione del danno alla persona produttrice di reddito, in La responsabilità civile, a cura di Cendon, Torino, 1998, Vol. VII, 37.

41 Ad es. la Corte d’Appello di Torino ha tenuto conto dell’attività impiegatizia svolta da entrambi i genitori e del diploma di maturità magistrale conseguito dalla sorella della vittima: App. Torino, 06-05-1998, cit.

42 In questo senso sia Trib. Verona, 15-10-1990, cit. sia App. Trento, 18-10-1996, cit. Si noti che il Tribunale di Verona ha reputato di arrotondare il coefficiente di cui al r.d. a punti 21.00).

43 App. Trento, 18-10-1996, cit.; Trib. Verona, 15-10-1990, cit.

44 Trib. Verona, 15-10-1990, cit.

45 App. Trento, 18-10-1996, cit.

46 App. Torino, 06-05-1998, cit.

47 Cfr. Trib. Verona, 15-10-1990, cit.

48 Così Trib. Verona, 15-10-1990, cit.

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si determinerà a partire dal momento in cui i coniugi medesimi, ad es. per ragioni di anzianità, non vi potranno più provvedere.

Questa, ad es., è stata la soluzione seguita dal Tribunale di Verona49, che ha individuato dal compimento del venticinquesimo anno di età il momento in cui i genitori non sarebbero più stati in grado di accudire la figlia con lo stesso impegno prima profuso.

GENITORI

Se i genitori o eventuali altri congiunti (ad es. fratelli o sorelle) riescono a dare prova della sussistenza di conseguenze negative sul piano della loro integrità psico-fisica, avranno diritto ad ottenere il risarcimento del danno biologico.

Sui danni riflessi non patrimoniali: risarcibilità.

Altresì risarcibile, a prescindere dalla sussistenza di un danno biologico in capo ai genitori, è il danno morale ed il danno esistenziale (su questo si rinvia a quanto già osservato sopra): ciò risulta ormai pacifico anche a fronte del recente orientamento della Cassazione50 sulla risarcibilità del danno morale dei congiunti in caso di sopravvivenza della vittima principale.

Come osservato dal Tribunale di Verona51, “il vedere quotidianamente un essere umano ridotto alla completa impotenza rappresenta un dolore incommensurabile”, che peraltro “solo per rispetto nei confronti della vittima” può essere stimato in misura inferiore a quello della vittima principale.

Nell’ipotesi in cui non sussistano i requisiti che discendono dal 2059 c.c., si rileva che dottrina e giurisprudenza di merito hanno spesso suggerito soluzioni alternative52, o richiamando in servizio vecchie categorie di danno quali il c.d. danno alla vita di relazione53, oppure

49 T. Verona, 15-10-1990, cit.

50 Cass., ...; Cass., 01-12-1998, n. 12195, in GI, 1999, 2038; Cass., 23-04-1998, n. 4186, in DR, 1998, 686.

51 T. Verona, 15-10-1990, cit.

52 Supra

53 Ad es. T. Verona, 15-10-1990, cit.

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delineando nuove voci risarcitorie, tra cui il danno alla serenità famigliare, il danno esistenziale e, in tempi recentissimi, il danno da lesione dei rapporti parentali54.

Sul punto è bene premettere che a partire dagli anni settanta il sistema della responsabilità civile è stato completamente rivoluzionato nei suoi principi, scopi e strutture risarcitorie.

Una delle rivoluzioni più evidenti è stata senz’altro quella che ha portato all’affermazione della risarcibilità dei danni riflessi o di rimbalzo e, pertanto, alla valorizzazione, sotto il profilo risarcitorio, della famiglia e della sua serenità (ad esempio Cass., 11 novembre 1986, n.

6607, in Foro it., 1987, I, 933).

Da ultimo, la Cassazione è giunta, nei casi in cui la vittima principale sopravviva all’evento lesivo, da un lato a dare per scontato, laddove provati, il risarcimento del danno biologico (fisico e/o psichico) e del danno patrimoniale riflessi, dall’altro lato ad affermare la risarcibilità del danno morale ai congiunti (Cass., 23 aprile 1998, n. 4186, in Danno e Responsabilità, 1998, 686 ss.; Cass., 19 maggio 1999, n. 4852, ined.; inoltre, a dimostrazione ulteriore dell’apertura odierna della Suprema Corte ai danni riflessi, si rinvia a Cass., 1 dicembre 1998, n. 12195, in Guida al Diritto, 1999, n. 8, 66).

Tale orientamento, che vede protetti sotto il profilo risarcitorio i diritti inviolabili della famiglia e, pertanto, gli equilibri famigliari, non può che essere ritenuto l’unico indirizzo conforme al dettato costituzionale, che all’art. 2 Cost. tutela la famiglia come formazione sociale. Ed è anche conforme alle norme presenti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, richiamate peraltro dal Trattato istitutivo dell’Unione Europea (Preambolo, 3° comma, e Art. F, punto secondo, Titolo I).

La stessa Risoluzione 7-75 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 14 marzo 1975, riconosce la risarcibilità dei danni riflessi dei congiunti della vittima principale rimasta in vita (la Risoluzione è reperibile in Monateri-Bona-Oliva, Il nuovo danno alla persona, Milano, 1999. I principi contenuti nella Risoluzione, seppure risalenti nel tempo, sono stati dichiarati dalla Cassazione aventi “valenza interpretativa” in Italia, Cass., 11 aprile 1997, n. 3170, in Monateri-Bona, Il danno alla persona, Padova, 1998, 305).

Danno patrimoniale dei genitori.

Accanto a questi danni di natura non patrimoniale, sono poi risarcibili vari tipi di danni patrimoniali, tra cui in particolare le molteplici spese di cura e di assistenza, nonché le

54 Cfr. T. Milano, 31-05-1999 e T. Treviso, 25-11-1998, in DR, 1999, 67.

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eventuali conseguenze sull’attività lavorativa dei genitori stessi: per tutti questi tipi di danni valgono i principi generali, che sono già stati esaminati nei capitoli precedenti.

Inoltre, i genitori possono aspirare ad ottenere il risarcimento, in via equitativa, per la presumibile perdita o diminuzione di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che, sia in base ai precetti normativi (si pensi alla disciplina degli alimenti) sia in base al comune sentire, i genitori possono attendersi dai figli: la giurisprudenza55, infatti, ammette normalmente la risarcibilità di questo particolare pregiudizio sul presupposto che, in via presuntiva, il figlio, con l’incedere della tarda età dei genitori, è portato a offrire delle contribuzioni.

Ai genitori di una bambina nata con una grave cerebropatia il Tribunale di Verona56 ha così liquidato i danni riflessi: L. 150.000.000 per ciascun genitore a titolo di danno morale; L.

50.000.000 per ciascun genitore a titolo di danno alla vita di relazione; L. 30.000.000 a titolo di danno patrimoniale da perdita dell’apporto economico futuro della figlia. Alla sorella della vittima principale il Tribunale ha liquidato sia il danno alla vita di relazione (L. 5.000.000) sia il danno morale (L. 15.000.000).

55 T. Verona, 15-10-1990, cit.; Cass., 06-12-1982, n. 6651, GI, 1984, I,1, 150.

56 T. Verona, 15-10-1990, cit.

Riferimenti

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