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Micropermanenti: microdanni o macroimposture?

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Academic year: 2022

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Micropermanenti: microdanni o macroimposture?

Dr. Marco Rossetti*

1. La genesi del concetto. - 2. La nozione di micropermanente. - 3.

L’accertamento della micropermanente. - 3.1. L’opera del medico legale. - 3.2. L’accertamento giudiziale. - 4. Qualche osservazione sulla prassi giudiziaria.

Micropermanenti e macroimposture. - A) I consulenti di parte. - B) Gli avvocati. - C) Il consulente d’ufficio. - D) I magistrati. - 5. Qualche riscontro numerico: l’industria della micropermanente.

1. La genesi del concetto.

Il lemma “micropermanente” nasce dalla pratica, e non ha un referente normativo.

Con tale lemma si suole tradizionalmente designare un danno biologico di assai modesta entità. Esso dunque ha una valenza puramente quantitativa, e non qualitativa: costituisce

“micropermanente” quel danno biologico che ha sì lasciato postumi permanenti, che tuttavia sono assai tenui e non comportano radicali mutamenti nella condotta di vita del danneggiato.

Sfogliando gli annali giudiziari, si scopre che il lemma “micropermanente” è più antico della nozione di danno biologico.

Come noto, secondo la giurisprudenza della Corte suprema e della Corte costituzionale, il danno biologico è costituito dalla “menomazione della integrità psico- fisica in sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si ricollega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell'ambiente in cui la vita si esplica, e si estende quindi a tutti gli effetti negativi incidenti sul bene primario della salute, quale diritto inviolabile alla pienezza della vita ed all'esplicazione della propria personalità morale, intellettuale, culturale” (Cass. 9.12.1994 n. 10539, Foro it.

Mass. 1994. Nello stesso senso, si vedano anche Cass. 10.3.1992 n. 2840, Foro it., 1993, I, 1960, e Cass. 9.5.1991, n. 5161, Foro it. Mass., 1991)1.

Il principio della autonoma risarcibilità del danno biologico è tuttavia conquista relativamente recente nella nostra cultura giuridica. Fino alla fine degli anni ‘70, la giurisprudenza prevalente negava che la mera lesione della salute potesse far luogo ad un danno risarcibile, diverso sia dal danno morale che dal danno patrimoniale.

* Magistrato VI Sezione Civile, Roma

1 : La sentenza che per prima affermò l’autonoma risarcibilità del danno biologico, a prescindere da qualsiasi ripercussione sul reddito, è rappresentata da Trib. Genova 25.5.1974, in GI, 1975, I, 2, 54;

nonché in Resp. civ.prev., 1975, 416, ed in Riv. giur. circ. trasp., 1975, 78. Le fondamentali sentenze della Corte di cassazione, per ricostruire la nozione di danno biologico e la sua evoluzione, sono rappresentate da Cass. 6.6.1981 n. 3675, Foro it., I, 1884; Cass. 6.4.1983 n. 2396, in GI, 1984, I, 1, 537;

Cass. 18.2.1993 n. 2008, Riv. giur. circ. trasp. 1993, 790.

Naturalmente, lo studio della nozione di danno biologico non può prescindere dall’esame delle fondamentali decisioni della Consulta, rappresentate da Corte cost. 14.7.1986 n. 184 in GC, 1986, I, 2324, e Corte cost. 27.10.1994 n. 372, in GC, 1994, I, 3029.

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Basandosi sia su una frettolosa lettura delle fonti romane2, sia su una estensiva lettura dell’art. 2059 c.c.3, l’orientamento dominante riteneva che, in caso di atto illecito causativo di lesioni alla persona:

a) il danno patrimoniale risarcibile era rappresentato dalla perdita patrimoniale conseguita alle lesioni;

b) oltre al danno patrimoniale, la sofferenza ed il dolore causati dalle lesioni e dai loro postumi erano risarcibili a titolo di danno morale, e quindi soltanto se l’atto illecito aveva integrato gli estremi di un reato.

Naturalmente, una simile impostazione teorica recava con sé numerosi vulnera.

Infatti apprestando tutela risarcitoria alla lesione della salute solo se e nella misura in cui ne risultava ridotto il reddito del danneggiato, si andava incontro ad evidenti aporìe:

a) si liquidavano somme diverse, a parità di lesioni, a soggetti che avevano redditi diversi;

b) si lasciavano tendenzialmente privi di tutela i soggetti non percettori di reddito (minori, casalinghe, disoccupati, pensionati, minorati).

La giurisprudenza (sia di legittimità che di merito) per moltissimi anni, non cercò mai di ovviare a questi inconvenienti abbandonando il principio per cui cicatricium autem aut deformitatis nulla fit aestimatio. Al contrario, si tenne fermo il principio in astratto, ma si cercò di aggirarlo ricorrendo a delle fictiones juris. Fu così che, dinanzi al caso di un leso non percettore di reddito, oppure dinanzi al caso di un leso che non aveva dimostrato alcuna riduzione del proprio reddito, la giurisprudenza liquidò il danno ipotizzando la lesione di un reddito figurativo, ovvero di un reddito futuro.

Si immaginò cioè (dilatando così oltre misura ed oltre il consentito lo strumento di cui all’art. 2727 c.c.) che, se pure il danneggiato non aveva subìto alcuna perdita patrimoniale in atto, la lesione subìta (rendendo più difficoltoso l’approccio con altre persone, oppure lo svolgimento del lavoro), avrebbe verosimilmente prodotto una contrazione della capacità di carriera e quindi di guadagno, causando un danno patrimoniale futuro e verosimile. Sorsero così i concetti di danno alla capacità lavorativa generica4; di danno estetico5; di danno alla vita di relazione6. Tra i vari escamotages, concepiti al fine di liquidare un danno patrimoniale ove danno patrimoniale non v’era, rientrava anche la cosiddetta “micropermanente”.

In altri termini, dinanzi a lesioni modeste con esiti altrettanto modesti od addirittura nulli, e dinanzi alla prova concreta che il reddito del danneggiato non aveva subìto alcuna flessione, ove si fosse applicato rigidamente il principio cicatricium autem aut

2 : Cum liberi hominis corpus ex eo, quod deiectum effusumque quid erit, laesum fuerit: iudex computat mercedes medicis praestitas, caeteraque impendia, quae in curatione facta sunt: praeterea operas quibus caruit, aut cariturus est ob id, quod inutilis factus est. Cicatricium autem aut deformitatis nulla fit aestimatio, quia liberum corpus nullam recipit aestimationem (Dig. 9, 3, 7).

3 : “Le menomazioni producono due diverse forme di danno: quello patrimoniale (consistente nella perdita di vantaggi economici dell’attività lavorativa e nella vita di relazione) e quello morale (che si traduce in sofferenze, disagio, mortificazioni e perturbazioni influenti sullo stato d’animo)”: così Cass.

13.2.68 n. 496, in Resp. civ. prev., 1969, 72. Non si trattava, si badi, di una pronuncia isolata, ma di un vero e proprio trend giurisprudenziale.

4 : Cass. 10.12.71 n. 3586.

5 : App. Firenze 25.8.64, in Foro it. Rep., 1965, Resp. civ., 296.

6 : Cass. 13.2.59 n. 432, in Foro it., 1960, I, 294.

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deformitatis nulla fit aestimatio, non si sarebbe dovuto fare luogo ad alcuna liquidazione risarcitoria. Tuttavia, poiché tale soluzione urtava contro il senso comune, la giurisprudenza adottò la seguente fictio juris: si ritenne che la lesione seguita da modesti esiti permanenti, se pure non incidente in atto sul reddito del danneggiato, nondimeno con l’andare del tempo avrebbe costretto quest’ultimo ad una maggiore usura nel lavorare, ad attingere alle energie di riserva, e quindi in prospettiva a lavorare di meno o pensionarsi prima, generando così un danno patrimoniale futuro. Pertanto, anche nel caso di micropermanente, si riteneva sussistente un danno patrimoniale che andava risarcito in via equitativa.

Questa dunque fu l’eziogenesi del concetto di “micropermanente”: una fictio juris, e null’altro che una finzione, per potere liquidare un danno patrimoniale a chi, leso nella salute, non aveva però subìto alcuna perdita patrimoniale.

Oggi la temperie culturale è radicalmente mutata. La giurisprudenza ammette infatti senza riserve la risarcibilità della lesione della salute in sé e per sé considerata, a prescindere da ogni e qualsiasi ripercussione sul reddito del danneggiato. Hanno, di conseguenza, perso ogni utilità pratica le nozioni e le fictiones juris create dalla giurisprudenza per superare le ristrettezze della vecchia logica risarcitoria.

Tuttavia, per un fenomeno frequente di “vischiosità” concettuale, il lemma

“micropermanente” non è caduto in disuso. Immutato il significante, esso ha mutato significato: oggi infatti viene adoperato nel senso di “danno biologico di modesta entità”. La Suprema Corte, ad esempio, è costante nell’affermare che i postumi permanenti di piccola entità hanno rilevanza non già come menomata capacità di guadagno, ma come menomazione della salute psicofisica della persona in sé e per sé considerata rientrante nel concetto di danno biologico, e pertanto comportano il diritto al risarcimento del danno da liquidarsi in via equitativa, tenendo presenti gli esiti invalidanti e le limitazioni psicofisiche delle lesioni subite in relazione all'età dell'infortunato, al suo ambiente sociale ed alla sua vita di relazione (Cass., sez. III, 20- 07-1993, n. 8066, in Foro it. Mass., 1993: si tratta della prima sentenza di legittimità nella cui massima compare il lemma “micropermanente”).

2. La nozione di micropermanente.

“Micropermanente” è dunque formula ellittica per designare la lesione della salute alla quale sono residuati lievi o lievissimi postumi permanenti.

Occorre dunque ribadire un primo punto fermo, da tenere presente nella valutazione e nella liquidazione del danno da micropermanente: quello in esame è un danno biologico. Trattandosi di danno biologico, la liquidazione del danno va compiuta tenendo conto non soltanto dell’entità delle lesione, ma soprattutto le ripercussioni che i postumi hanno avuto sulla vita del soggetto leso. Questo concetto è stato chiaramente espresso dalla Corte costituzionale, la quale ha affermato che “là dove qualifica come

«presunto» [il danno alla salute], identificandolo col fatto (illecito) lesivo della salute, [la sentenza della Corte cost. n. 184/86] intende dire che la prova della lesione è, in re ipsa, prova dell'esistenza del danno (atteso che da una seria lesione dell'integrità fisio- psichica difficilmente si può guarire in modo perfetto), non già che questa prova sia sufficiente ai fini del risarcimento. E' sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale), alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato” (Corte cost. 27.10.1994 n. 372, in GC, 1994, I, 3029).

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Nello stesso senso, è orientata la giurisprudenza di legittimità più recente, secondo la quale per il danno biologico “non vale la regola che, verificatosi l' evento, vi sia senz'altro un danno da risarcire.

Il risarcimento del danno vi sarà se vi sarà perdita di quelle utilità che fanno capo all' individuo nel modo preesistente al fatto dannoso e che debbono essere compensate con utilità economiche equivalenti.

In caso contrario il cosiddetto danno biologico non puo' essere configurato (...)”

(Cass. 29.5.1996 n. 4991, Foro it., 1996, I, 3107).

La micropermanente è dunque un (piccolo) danno biologico; ergo, essa va accertata e valutata tenendo conto della perdita personale subìta dal leso in conseguenza di tale danno, valutando cioè il quantum di esistenzialità perduta dal leso.

3. L’accertamento della micropermanente.

Proviamo ora ad articolare in sillogismo i principi sopra esposti, applicandoli alla materia delle piccole lesioni della salute.

a) si ha danno biologico permanente quando le funzionalità vitali del soggetto leso sono ridotte in modo definitivo e non recuperabile;

b) per ottenere il risarcimento del danno biologico, non basta dunque provare l’esistenza oggettiva di una lesione: occorre altresì provare che da tale lesione è derivata una compromissione delle proprie attività vitali, intese in senso ampio;

c) quando manca la prova oggettiva di tale compromissione, non può ritenersi provata l’esistenza d’un danno biologico risarcibile7.

In tutti i casi di lesioni di media o di rilevante entità, la prova della compromissione delle attività vitali del danneggiato (la prova, cioè, di una perdita personale) è estremamente agevole, e di norma può essere agevolmente fornita attraverso lo strumento della presunzione semplice (art. 2727 c.c.). Infatti dal fatto noto della mera esistenza di una frattura, o dell’asportazione di un organo o dell’amputazione di un arto, può logicamente dedursi il fatto ignoto della futura modificazione in pejus della vita del danneggiato, il quale sarà costretto a rinunciare a tutte quelle attività (siano esse ludiche o lavorative) per il cui svolgimento era necessaria la piena funzionalità dell’arto o dell’organo perduto od irrimediabilmente leso.

Nel caso di micropermanenti, invece, l’accertamento del danno è più delicato, perché dal fatto noto dell’esistenza - ad esempio - di una contusione ecchimotica, o di una distrazione muscolare, o di una infrazione parcellare di un osso, non può logicamente dedursi ex art. 2727 c.c. un sicuro peggioramento della qualità della vita del danneggiato8.

Non basta, dunque, provare l’effettiva sussistenza della microlesione per avere diritto al risarcimento, in quanto da essa non può desumersi ex art. 2727 c.c. la sicura compromissione peggiorativa dell’esistenza del danneggiato.

L’accertamento dell’esistenza di un danno da micropermanente richiede dunque un triplice accertamento: in primo luogo, dell’esistenza d’un nesso causale tra condotta illecita e lesioni; quindi, dell’esistenza d’un nesso causale tra lesioni e postumi; infine, dell’esistenza d’un nesso causale tra postumi e peggioramento della qualità della vita.

7 : Trib. Roma, 17 gennaio 1994 n. 490, in Riv. giur. circ. trasp., 1994, 853.

8 : ROSSETTI Marco, Prolegomeni ad una ipostasìa del rachide cervicale, Riv. giur. circ. trasp., 1995, 290.

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Si badi che questo triplice accertamento, di norma, è necessario per la stima e la liquidazione di ogni tipo di danno biologico: ma, nel caso di macrolesioni, il secondo ed il terzo nesso causale (quello tra lesioni e postumi; e quello tra postumi e peggioramento della qualità della vita) possono di norma agevolmente essere presupposti ai sensi dell’art. 2727 c.c..

L’accertamento dell’esistenza d’un danno micropermanente si presenta dunque quasi sempre estremamente delicato, perché si tratta di accertare l’esistenza di un danno del quale di norma non esistono che labili tracce. Proprio la infinitesimezza del danno dovrebbe perciò sconsigliare gli operatori (medici legali, avvocati, liquidatori, magistrati) dal “dare per scontato” alcunché in materia di microlesioni. Invece, per motivi molteplici - sui quali si veda infra, § 4 - si verifica sovente esattamente l’opposto: proprio la modestia degli interessi in gioco induce gli operatori ad accertamenti approssimati e liquidazioni affrettate, fatalmente concludentesi con l’esistenza di postumi definiti permanenti (cioè irreversibili, inguaribili, irrefragabili) anche in conseguenza di piccole contusioni.

Sebbene il tema sarà ripreso più avanti (infra, § 4), è comunque opportuno sin d’ora ricordare che la presunta “modestia degli interessi in gioco”, in materia di micropermanenti, è una pia illusione od un comodo alibi, tanti e tali sono gli interessi sottesi dal “colpo di frusta”.

Gli interessi in gioco, in materia di microlesioni, possono essere considerati

“modesti” solo se il fenomeno lo si considera parcellizzato, con riferimento al singolo caso, ma riguardato nella sua interezza, il fenomeno delle micropermanenti, e soprattutto delle micropermanenti che di permanente non hanno che il nome, presenta dei numeri da fatturato di grande industria.

3.1. L’opera del medico legale.

Si è già detto come l’accertamento dell’esistenza d’un danno biologico micropermanente richieda la collaborazione del medico legale e del magistrato. E’

necessario ora esaminare più da vicino il tipo di accertamenti e di valutazioni che giudice e medico legale debbono compiere, al fine di accertare il danno in questione, partendo proprio dall’opera del medico legale.

Di norma, è impossibile accertare anche solo l’astratta configurabilità dei nessi causali in precedenza descritti (cioè quello tra azione lesiva e lesioni; tra lesioni e postumi; tra postumi e peggioramento della qualità della vita), senza l’ausilio di un medico legale.

Al medico legale si chiede appunto di stabilire sia se sussista un legame eziologico tra l’azione lesiva e le lesioni, sia se sussiste un nesso eziologico tra le lesioni ed i postumi.

Al medico legale, inoltre, viene demandato di accertare se ed in che cosa le ordinarie attività della persona siano impedite o limitate dai postumi accertati.

Al c.t.u. medico legale il giudice di norma affida (o dovrebbe affidare) l’incarico sia di descrivere un fatto (ad esempio, le lesioni od i postumi), sia di accertare se un certo fatto possa essersi o non essersi verificato, e con quali modalità (ad esempio, ricostruire il nesso causale tra lesioni e postumi).

In ambedue i casi, il c.t.u. per rispondere al quesito postogli può esaminare gli atti di causa, acquisire informazioni dalle parti e da terzi, eseguire ispezioni corporali (art. 194 c.p.c.).

Quali sono i limiti, l’efficacia intrinseca e la vincolatività per il giudice degli accertamenti compiuti dal c.t.u. medico-legale? E’ opportuno a questo riguardo fare alcune distinzioni.

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A) Nel caso in cui al c.t.u. sia demandato di descrivere un fatto, la sua descrizione non richiede alcun vaglio critico: quanto riferito dal c.t.u. come da lui direttamente percepito fa infatti piena fede fino a querela di falso, non potendo dubitarsi che il c.t.u.

nell’esercizio delle sue funzioni ha la qualifica di pubblico ufficiale.

B) Nel caso, invece, in cui sia demandato al c.t.u. di accertare un fatto, occorre fare qualche precisazione.

L’accertamento del c.t.u., di norma, si fonda sia su rilievi di fatto (esame di atti, documenti, reperti, persone), sia sull’applicazione di leggi scientifiche o di regole di esperienza.

B’) Per quanto concerne i rilievi di fatto, il materiale probatorio utilizzabile dal c.t.u.

non può essere diverso o più ampio di quello sottoposto all’esame del giudice. Ciò vuol dire che tutto quanto utilizzato dal c.t.u. per rispondere ai quesiti postigli, deve fare parte del materiale probatorio acquisito nel corso dell’istruzione.

Così, ad esempio, il c.t.u. non potrebbe ritenere esistente una lesione certificata da un referto mai prodotto agli atti, esibitogli unilateralmente da una delle parti al di fuori di qualsiasi contraddittorio. In questo caso, delle due l’una: o il medico legale acquisisce ex art. 194 c.p.c. il documento, sollecitando su esso il contraddittorio dell’altra parte, ovvero - ove non ritenga di doversi avvalere di tale facoltà - rinuncia a tenere conto del documento stesso.

Il materiale che giudice e c.t.u. esaminano per la ricostruzione della fattispecie concreta deve essere uguale non solo sotto il profilo quantitativo (stesse prove), ma anche sotto il profilo qualitativo (stessa efficacia delle prove).

Così, ad esempio, nel processo civile non fa prova l’affermazione pro se ipso compiuta da una delle parti. Ne consegue che, dinanzi a dichiarazioni della parte attrice la quale alleghi di avere questo o quel disturbo, il c.t.u. non può acriticamente recepire quanto riferitogli, ma deve sottoporlo ad accurato vaglio critico, ed accertare in base ad elementi esterni di riscontro l’attendibilità di tali dichiarazioni.

Sarebbe infatti assurdo ed incongruo ritenere che - ad esempio - la persistenza di un disturbo all’articolazione dell’anca non faccia prova se resa dall’attore nel corso di un interrogatorio formale, mentre faccia prova (e sia quindi utilizzabile) se resa dall’attore al c.t.u. durante la visita peritale.

B’’) Per quanto concerne il ricorso alle leggi scientifiche od a regole di esperienza, inoltre, è opportuno ricordare che queste non possono collidere con le norme di legge in materia di causalità tra condotta e danno (art. 40 c.p.) ed in materia di causalità tra danno e conseguenze (artt. 1223, 1227 c.c.).

Pertanto il medico legale chiamato ad accertare l’esistenza o la verosimiglianza d’un valido nesso causale tra danno e lesioni, tra lesioni e postumi, tra postumi e conseguenze funzionali, non potrebbe affermare l’esistenza di tale nesso in difformità con le prove raccolte nel processo, le quali per avventura escludano qualsiasi legame eziogenetico tra condotta e danno, o tra danno e postumi.

Così, per fare un esempio, qualora dalle deposizioni testimoniali ritualmente raccolte risulti che i veicoli coinvolti in un sinistro stradale non abbiano riportato alcun tipo di danno, il c.t.u. non potrebbe ritenere provata l’esistenza d’un valido nesso causale tra sinistro e distrazione del rachide cervicale sulla base soltanto di un referto di Pronto Soccorso, in quanto l’inesistenza di danni ai mezzi fa sorgere una presunzione semplice (ex art. 2727 c.c.) di inefficacia lesiva dell’urto.

Questi princìpi sono largamente ricevuti nella giurisprudenza di merito, secondo la quale “il c.t.u. medico legale, per porre la propria diagnosi, può ritenere esistenti solo quei fatti che siano processualmente provati, cioè solo quei fatti che anche il giudice potrebbe porre a base della decisione. In altri termini, il c.t.u. medico legale non gode di

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maggiore libertà rispetto al giudice, nel ritenere accertato un fatto oggettivo: o tale circostanza è processualmente provata - in senso tecnico -, ed allora potrà essere posta dal c.t.u. a base delle proprie argomentazioni; ovvero non è provata, ed allora non potrà essere utilizzata né dal giudice, né dal c.t.u.” (Trib. Roma, 24-01-1995, in Riv. giur.

circ. trasp., 1995, 543; Trib. Roma 3.6.1997, Frigeri c. Zurigo, inedita; Trib. Roma 31.3.1998, D’Orto c. Firs, inedita).

Applicando questi princìpi all’accertamento medico legale del danno da micropermanente, si avrà che:

a) il medico legale può prendere in considerazione, per accertare un fatto o descrivere un fatto, solo le prove (documentali od orali) già ritualmente raccolte nel corso del processo;

b) il medico legale non può prestare acriticamente fede a quanto dichiarato dalla persona visitata, giacché quest’ultima è parte del processo, e quindi le sue dichiarazioni non fanno prova.

Pertanto il medico legale non segue una corretta procedura gnoseologica, ed anzi compie un grave errore, ove utilizzi esclusivamente quanto dichiarato dal periziato per porre la propria diagnosi, senza alcun riscontro oggettivo: è stato anzi osservato, a quest’ultimo riguardo, che “il periziato (...) si trova nella particolarissima situazione di essere oggetto della perizia, ma di essere altresì soggetto del processo, e portatore di interessi economicamente apprezzabili nel processo stesso. L’ausiliario non può dunque arrestarsi a quanto riferito dal periziato, ma deve verificarlo scientificamente, controllarlo obiettivamente, giustificarlo medico-legalmente” (in questo senso, Trib.

Roma (ord.) 27.5.1997, Schneider c. Nuova Tirrena, inedita; Trib. Roma 3.10.1997, Famelli c. Toro, inedita; Trib. Roma 9.2.1998, Anzidei c. Sida, inedita).

3.2. L’accertamento giudiziale.

Nonostante l’opera del medico legale costituisca un presupposto spesso indefettibile dell’accertamento dell’esistenza del danno biologico micropermanente, tale accertamento si conclude ovviamente col giudizio del magistrato. In materia di danni alla persona, tuttavia, il giudizio del magistrato si riduce spesso ad un giudizio su un altro giudizio: e precisamente ad un vaglio di attendibilità e congruenza delle conclusioni cui è pervenuto il c.t.u. medico legale.

L’accertamento giudiziale dell’esistenza di micropermanenti dovrebbe dunque svolgersi lungo una duplice direzione. Da un lato, l’accertamento dell’attendibilità e della rilevanza delle fonti di prova poste dal c.t.u. a fondamento delle proprie conclusioni; dall’altro, la verifica logico-concettuale delle conclusioni del c.t.u..

Il primo tipo di accertamento (rilevanza ed attendibilità delle fonti di prova utilizzate dal c.t.u.) non presenta alcuna particolarità: si tratterà nella maggioranza dei casi di saggiare l’attendibilità dei testi che hanno riferito sulla dinamica del sinistro (e quindi sulle direzioni degli urti); di verificare la pertinenza della documentazione medica prodotta agli atti; di accertare l’efficacia di una eventuale dichiarazione pro se resa dalla parte lesa, ma nel contesto di una confessione circostanziata (la c.d. “confessione circostanziata”, in assenza di pronta contestazione della controparte costituisce infatti l’unico caso di rilevanza della dichiarazione pro se: art. 2734 c.c.).

La verifica logico-concettuale dell’operato del c.t.u. richiede invece qualche ulteriore precisazione.

Di norma, questa verifica viene compiuta saggiando l’iter argomentativo del c.t.u.

con i tradizionali strumenti della logica formale: il principio di identità, quello di non

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contraddizione, la reductio ad absurdum, l’argumentum a contrario; l’argumentum a minori ad maius, eccetera.

In materia di accertamento del danno micropermanente, e precisamente per l’accertamento del nesso causale tra microlesioni e micropostumi, questi strumenti logici possono tuttavia risultare inservibili. Dinanzi al c.t.u. il quale affermi apoditticamente l’esistenza di una “attendibile” spinalgia pressoria, o di una

“attendibile” limitazione in via antalgica ai gradi estemi dell’articolazione, il giudice ha il diritto-dovere di saggiare tali conclusioni con due strumenti particolari: quelli previsti dall’art. 115 c.p.c. e dall’art. 2727 c.c..

A) L’art. 115 c.p.c..

Stabilisce l’art. 115 c.p.c. che il giudice, senza bisogno di prova, può porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.

Il “fatto notorio”, secondo la Suprema corte, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire incontestabile9, ovvero come le nozioni che fanno parte del bagaglio di conoscenza di ogni uomo di media cultura in un certo luogo ed in un certo momento storico senza necessità di ricorso a particolari informazioni o giudizi tecnici10.

Tra le nozioni che rientrano nel bagaglio culturale di ogni uomo medio, indubitabilmente, rientra la nozione secondo cui le contusioni, le ecchimosi, le escoriazioni, guariscono di norma senza lasciare alcun tipo di postumo.

Pertanto non può essere condivisa dal giudice - come purtroppo talora accade - la conclusione del medico legale, secondo cui da una lesione consistita in una

“contusione” per la quale i sanitari del pronto soccorso diagnosticarono pochi giorni di malattia, siano derivati postumi permanenti. Tale conclusione non può essere condivisa perché costituisce una “nozione di fatto rientrante nella comune esperienza”, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., quella secondo cui le lievi contusioni guariscono senza postumi.

B) L’art. 2727 c.c.

L’art. 2727 c.c. (come già visto) stabilisce che le presunzioni (semplici, o prasumptiones hominis) sono le conseguenze che il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato.

Un fatto ignorato deve perciò ritenersi provato quando, pur non costituendo una conseguenza necessaria di un fatto conosciuto, si ponga comunque come conseguenza ragionevolmente possibile di quest’ultimo, secondo un criterio di normalità causale11.

Naturalmente, più fatti noti possono essere letti in modo coordinato per pervenire alla prova di un fatto ignorato: così, ad esempio, dai fatti noti che il leso: a) abbia subito una contusione; b) non si sia sottoposto a cure mediche; c) il veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro non abbia subìto danni, può risalirsi al fatto ignorato della insussistenza di postumi permanenti.

E’ opportuno sottolineare che il fatto notorio (art. 115 c.p.c.) e la presunzione semplice (art. 2727 c.c.) costituiscono vere e proprie fonti di prova (anzi, per l’esattezza il fatto notorio esclude la stessa necessità della prova, secondo il brocardo notoria non egent probationem).

Fatta questa premessa sugli strumenti gnoseologici che il giudice per legge deve utilizzare, può ora tornarsi ad esaminare il particolare problema dell’accertamento dell’esistenza del danno da micropermanente.

9 : Cass., 28-03-1997, n. 2808, in Foro it. Mass., 1997.

10 : Cass., sez. II, 11-03-1995, n. 2859, in Foro it. Mass. 1995.

11 : Cass. civ. 6 marzo 1995 n. 2605; Cass. civ. 19 gennaio 1995 n. 564; Cass. civ. 13 dicembre 1994 n.

10613.

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In presenza di elementi oggettivi quali la scarsa o scarsissima documentazione sanitaria; l’inesistenza di accertamenti clinici specialistici; l’inesistenza o la lieve entità dei danni ai veicoli (in caso di sinistri stradali); sbaglierebbe il c.t.u. il quale ritenesse esistenti postumi permanenti sulla scorta unicamente dell’ “attendibilità” di quanto dichiarato dal danneggiato, così come sbaglierebbe il giudice che avallasse le conclusioni dell’ausiliario.

Dinanzi ad un quadro probatorio che denota la scarsa efficienza lesiva del trauma, proprio in virtù del disposto degli artt. 115 c.p.c. e 2727 c.c. si dovrebbero ritenere normalmente inesistenti postumi permanenti, salva la idonea dimostrazione da parte del danneggiato di eventuali complicazioni, preesistenze, aggravamenti, eccetera.

In altri termini, proprio perché il fatto notorio e la presunzione semplice hanno pari dignità rispetto agli altri mezzi di prova (ed anzi, assai spesso sono molto più attendibili di certe prove testimoniali smaccatamente compiacenti, a tacer d’altro), nei casi in cui le lesioni refertate dal pronto soccorso consistono in eventi assai lievi (contusioni, ecchimosi, lievi escoriazioni) deve ritenersi provato ex artt. 115 c.p.c. e 2727 c.c. che da quelle lesioni non sono derivati postumi permanenti.

Infatti il meccanismo di cui all’art. 2727 c.c. non può funzionare solo in bonam partem (rispetto alla pretese del danneggiato). Così come, nel caso di lesioni medie o gravi, la ripercussione dei postumi sulle ordinarie attività esistenziali è presunta juris tantum, ex art. 2727 c.c., analogamente nel caso di lesioni lievi o lievissime deve presumersi juris tantum che le stesse siano guarite senza postumi, come accade nella normalità dei casi.

4. Qualche osservazione sulla prassi giudiziaria. Micropermanenti e macroimposture.

Proviamo ora a mettere in ordine i princìpi che si sono venuti sin qui esponendo:

a) la “micropermanente” non è che un danno biologico di modesta entità;

b) come tale, essa sussiste solo se e quando la lesione dell’integrità psicofisica sia guarita con postumi, i quali a loro volta abbiano inciso negativamente sulle concrete funzioni vitali dell’individuo;

c) l’accertamento dell’esistenza di postumi permanenti, quale conseguenza di una lesione minima dell’integrità psicofisica, va demandato ad un medico legale;

d) il medico legale tuttavia non è più libero del giudice nel valutare il materiale probatorio acquisito al giudizio: egli dunque potrà ritenere come accertati solo quei fatti che siano giudizialmente accertati. In particolare, il medico legale non può prestare fede a quanto dichiarato dal danneggiato durante l’esame in corpore, in quanto nel processo civile le dichiarazioni pro se della parte non fanno prova;

e) il giudice, chiamato ad accertare l’esistenza di un danno da micropermanente, può e deve fare ricorso agli strumenti gnoseologici previsti dagli artt. 115 c.p.c. e 2727 c.c.. Pertanto la dimostrata esistenza di lesioni lievi fa sorgere una presunzione juris tantum di avvenuta guarigione delle stesse, senza postumi permanenti. Sarà, in questo caso, onere del danneggiato dimostrare attraverso elementi oggettivi che, nonostante la lieve entità delle lesioni, esse hanno avuto un decorso sfavorevole, lasciando postumi permanenti.

Ove si comparino questi pochi princìpi con la prassi giudiziaria assolutamente prevalente, si registra purtroppo un enorme divario tra i primi e la seconda.

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In materia di danni da micropermanenti vengono spesso obliterati nella prassi i fondamentali princìpi dell’onere della prova e dell’accertamento giudiziale del danno, con effetti alluvionali sulla crescita del contenzioso giudiziario.

Prima di passare ad esaminare questo fenomeno, è opportuno ribadire in limine che il danno alla persona, ogni tipo di danno alla persona, va ovviamente risarcito: il danno grave con molto, il danno lieve con poco.

“Micropermanente” pertanto è solo il danno lieve ma effettivo, esistente, irremissibile, non sanabile, causato da lesioni alla persona (lievi o gravi che fossero).

Tuttavia il problema, nel caso di danni lievi (cioè di micropermanenti) non è (paradossalmente) quello della loro risarcibilità, la quale è indiscutibile; il problema vero è quello del loro accertamento.

L’esame della prassi dimostra infatti come spesso, in questa materia, l’esistenza del danno “si dà per scontata”, quasi che ecchimosi, contusioni e distrazioni del rachide cervicale fossero malattie inguaribili, al pari delle neoplasìe.

Un insufficiente approfondimento teorico; la prevalenza di prassi imparaticce sulla riflessione giuridica; il miraggio di conseguire utilità non dovute; la necessità di dovere riservare spazio ed energie a questioni ritenute più importanti, sono tutte concause di un diffuso malcostume, in virtù del quale si ritiene sufficiente la dimostrazione dell’esistenza d’una lesione, per pretendere il risarcimento del danno da invalidità permanente, seguendo una logica da automatismo risarcitorio.

Questa logica dell’ “automatismo risarcitorio” ha portato però ad effetti assai perniciosi per l’amministrazione della giustizia, ed a rilevanti costi sociali: crescita a dismisura del contenzioso; nascita di una vera e propria “industria” del sinistro stradale;

forzosa destinazione di larga parte delle riserve delle compagnie assicuratrici al risarcimento di danni che sono tali soltanto di nome.

Perché non paiano generiche tali affermazioni, può essere interessante a questo riguardo esaminare alcune prassi assai diffuse, con riferimento a ciascuno dei soggetti che di volta in volta sono chiamati a vario titolo a prestare la propria opera in caso di controversie per il risarcimento di piccoli danni alla persona.

L’esame di tali prassi rivelerà come, in materia di accertamento del danno da micropermanente, l’adesione indiscriminata al principio per cui de minimis non curat praetor ha provocato seri guasti all’amministrazione della giustizia e sinanche alla moralità stessa del contenzioso giudiziario.

A) I consulenti di parte.

Accade assai spesso che i consulenti medici legali di parte alleghino agli atti, in caso di piccoli danni, relazioni nelle quali si conclude indicando sempre l’esistenza di invalidità permanente, ed in misura che non trova riscontro in alcuno dei barémes medico legali più diffusi. Anzi, che non trova riscontro in alcun baréme medico legale.

Ad esempio: distrazione del rachide cervicale in soggetto ventenne, 9% di invalidità permanente; contusione al ginocchio senza lesione dei legamenti, 13% di invalidità permanente; contusione escoriata al secondo dito della mano sinistra (in soggetto destrimane, 7% di invalidità permanente; contusione all’emitorace sinistro senza infrazioni o fratture costali, 9% di invalidità permanente, e via dicendo12. La patologia assolutamente prevalente in queste relazioni di parte è la distrazione del rachide cervicale, spesso diagnosticata in seguito ad accadimenti assai particolari (caduta per le scale, caduta in un tombino aperto). Si direbbe dunque che, per il consulente di parte:

12 : Tutti i casi riferiti sono tratti da controversie decise dal Tribunale di Roma.

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a) la distrazione del rachide cervicale sia un male inguaribile, e ciò nell’epoca in cui la scienza medica ha conosciuto i trapianti di cuore e la chirurgia laser;

b) la distrazione del rachide cervicale sussista sempre nel caso di microdanni, mentre rarissimamente essa viene diagnosticata nel caso di macrolesioni.

Il medico legale di parte può credere di rendere, in questo modo, un servigio al proprio cliente.

In realtà gli reca un danno notevole. Qualsiasi giudice che non sia del tutto stolido, non può logicamente ammettere (in virtù dei princìpi sopra richiamati, di cui agli artt.

115 c.p.c. e 2727 c.c.) che lievi lesioni possano invalidare permanentemente l’individuo addirittura in misura superiore al 10%. Ne consegue che il giudice, dinanzi ad una relazione di parte così smaccatamente... partigiana, non ne terrà alcun conto. Sarà cioè posta in non cale non solo la valutazione medico legale del danno, ma anche la restante parte dell’elaborato, in base all’elementare principio secondo cui se la relazione è inattendibile nella valutazione finale, a fortiori deve esserlo anche nell’anamnesi e nell’esame obiettivo.

Accanto a questo effetto endoprocessuale, la “generosità” di taluni medici legali di parte, nelle loro valutazioni, genera un altro effetto perverso, che può definirsi extraprocessuale: e cioè l’insinuazione nel giudice del dubbio sulla affidabilità e serietà, in ogni caso, della perizia di parte. Può infatti accadere che il giudice, diuturnamente assuefatto a valutazioni in termini di “9% di i.p.” per contusioni ecchimotiche per le quali i sanitari del pronto soccorso pronosticarono “3 giorni salvo complicazioni”, si risolva a non prestare più alcun credito alle relazioni di parte, vanificando così l’opera di quei medici legali che, invece, le hanno redatte con assoluta coscienza e precisione.

B) Gli avvocati.

Con riferimento a qualsiasi tipo di controversie, il ruolo dell’avvocato - in teoria - dovrebbe essere quello di filtro delle rivendicazioni avanzate dai propri clienti, selezionando quelle che meritano tutela giudiziaria da quelle assolutamente pretestuose.

Purtroppo, almeno con riferimento alla materia del danno biologico da micropermanente, una parte dell’avvocatura ha da tempo rinunciato a tale insostituibile e preziosa funzione. Anzi, si è assistito al fenomeno inverso: vi sono di quegli avvocati i quali inducono i clienti all’introduzione della lite, millantando loro la possibilità di conseguire risarcimenti milionari, che in realtà nessun giudice liquiderebbe mai. Si è assistito (specie nei giudizi introdotti prima del 30.4.1995) ad atti di citazione redatti senza alcuna descrizione delle lesioni subìte dall’attore; senza l’indicazione della somma richiesta a titolo di risarcimento; senza l’indicazione nemmeno di un range di valori entro i quali collocare la pretesa risarcitoria. Si è assistito a giudizi introdotti dinanzi non al giudice di pace od al pretore, ma dinanzi al tribunale per una lividura, per un graffio, per un ginocchio sbucciato, per un bernoccolo.

I questi casi e per questo tipo di professionisti, la lieve lesione diviene una preziosa occasione per tentare di conseguire risarcimenti insperati, facendo di tutto per cercare di dimostrare che dalla lesione siano derivati postumi permanenti.

Naturalmente, non è questo il luogo per esaminare aspetti del fenomeno in esame che sconfinano nella patologia o addirittura nel diritto penale.

Ricorderò però il caso, realmente accaduto, dell’attore il quale, nel rendere interrogatorio formale, candidamente ammetteva di avere nominato il proprio legale seguendo le indicazioni di una persona che, fingendosi malata, si era coricata nella sua medesima stanza di ospedale, al fine precipuo di consigliare a tutti gli altri malati della corsia il nome del medesimo avvocato; oppure il caso del “microleso” il quale, due

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giorni dopo essere stato curato al pronto soccorso per una sbucciatura al ginocchio, riceveva direttamente a casa la lettera di uno studio legale, il quale offriva la propria assistenza “per il sinistro recentemente occorso”.

C) Il consulente d’ufficio.

Il consulente medico legale d’ufficio è un prezioso alleato del giudice: sia per valutare correttamente i danni alla persona dalle conseguenze devastanti; sia per stroncare i tentativi di speculazione fondati su lesioni di lieve entità.

Tuttavia, accade talora che l’ausiliario scelto non sia all’altezza della fiducia riposta in lui dal magistrato. Specie in materia di lesioni alla persona lievi, infatti, non sono stati molti i consulenti d’ufficio che hanno avuto l’onestà intellettuale di riconoscere che l’attore era perfettamente guarito dalle lesioni subìte.

Accade così che, pur in presenza di un quadro clinico favorevole, di una storia clinica ridottissima, di un esame obiettivo negativo, il c.t.u. conclude per l’esistenza di postumi permanenti, contro l’evidenza, contro la logica, e sinanche contro il buon senso.

La casistica giudiziaria in questo senso è sterminata, ma sarà comunque utile riportare alcuni casi particolarmente significativi, nei quali l’organo giudicante, disattendendo le conclusioni del c.t.u., ha affermato l’inesistenza di postumi permanenti.

Caso 1

Trib. Roma 3.6.1997, Frigeri c. Zurigo, inedita

Lesioni: contusioni escoriate agli arti, ematoma al

gomito destro.

Elementi disponibili: -) dichiarazioni del periziato;

-) un “certificato di pronto soccorso” nel quale venivano diagnosticati “5 giorni salvo complicazioni”;

-) tre certificati del medico curante, senza prescrizioni di sorta.

Conclusioni del c.t.u.: -) 2% di invalidità permanente;

-) 15 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 10 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando che nell’esame obiettivo del braccio destro, distretto interessato dal trauma, come descritto nella relazione, non era stata obiettivamente rilevata alcuna positività medico-legale, ma era stato riferito unicamente quanto dichiarato dall’attore (dolore alla digitopressione). E’ stato perciò affermato che il c.t.u. aveva posto una diagnosi di sofferenza del braccio in assenza di riscontri medicolegalmente validi, cioè utilizzabili come prova ragionevole.

Caso 2

Trib. Roma 6.12.1996, Allegri c. SAI

Lesioni: contusione temporo-parietale destra

Elementi disponibili: a) dichiarazioni del periziato;

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b) un referto di p.s. nel quale venivano diagnosticati “quattro giorni salvo complicazioni”;

c) un referto radiografico assolutamente negativo per lesioni;

d) tre certificati del medico curante, del tutto generici nella diagnosi e senza prescrizioni di sorta;

Conclusioni del c.t.u.: -) 2% di invalidità permanente;

-) 20 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 10 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando che il c.t.u. aveva ritenuto esistente sia un nesso causale tra fattore traumatico e lesioni; sia un nesso causale tra lesioni e postumi, per suffragare i quali non era in atti alcun idoneo elemento, ma anzi sussisteva una situazione di assoluta mancanza di riscontri obiettivi.

Caso 3

Trib. Roma 4.4.1996, Benevento c. Toro

Lesioni: contusione al vertice del capo e del collo

Elementi disponibili: a) dichiarazioni del periziato;

b) un referto di Pronto Soccorso, nel quale venivano diagnosticati “sette giorni salvo complicazioni”;

c) quattro certificati del medico curante, nei quali si prolungava semplicemente la prognosi originaria, ma senza che vi fosse alcuna prova di prescrizioni mediche puntuali; di cure seguite; di visite specialistiche.

Conclusioni del c.t.u.: -) 2-3% di invalidità permanente;

-) 20 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 20 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando come “la caratteristica del comizio sintomatico che accompagna una distrazione del rachide cervicale conseguita ad un colpo di frusta è di essere, in larga parte, di difficile accertamento oggettivo. Il dolore alla digitopressione, la riduzione dei movimenti dell’articolazione, l’attenuazione della lordosi, sono tutti dati condizionabili dalla collaborazione, cosciente o meno, del soggetto leso. Pertanto il medico-legale chiamato ad accertare l’esistenza di postumi permanenti in seguito al meccanismo del colpo di frusta non segue una corretta procedura gnoseologica, ed anzi compie un grave errore, ove utilizzi esclusivamente quanto dichiarato dal periziato per porre la propria diagnosi, senza alcun riscontro oggettivo. Il periziato infatti si trova nella particolarissima situazione di essere oggetto della perizia, ma di essere altresì soggetto del processo, e portatore di interessi

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economicamente apprezzabili nel processo stesso. L’ausiliario non può dunque arrestarsi a quanto riferito dal periziato, ma deve verificarlo scientificamente, controllarlo obiettivamente, giustificarlo medico-legalmente”. Poiché tutto ciò, nel caso di specie, no era stato fatto, il tribunale ha concluso per l’assenza di prova che alle lesioni fossero residuati postumi permanenti.

Caso 4

Trib. Roma 16.3.1996, Berrettini c. Lloyd Italico

Lesioni: contusione al ginocchio ed al polso sinistri;

distrazione dei muscoli lunghi del collo.

Elementi disponibili: a) dichiarazioni del periziato;

b) una copia non conforme di referto di Pronto Soccorso, emesso il giorno successivo al sinistro, nel quale venivano diagnosticati “sette giorni salvo complicazioni”;

c) una serie di certificati di due medici curanti, nei quali si prescriveva genericamente “terapia medica” senza precisazioni di sorta:

d) un danno alla vettura stimato in £ 700.000 circa;

e) la passeggera (e testimone) della vettura, assisa sul lato della vettura attinto dall’urto, non aveva riportato danni di sorta.

Conclusioni del c.t.u.: -) 5% di invalidità permanente;

-) 35 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 30 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale, partendo dalla assoluta modestia dei danni subìti dai veicoli, ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando che secondo la logica, secondo il buon senso, secondo la comune esperienza (art. 115 c.p.c.) doveva escludersi che da un fatto così infinitesimo potessero essere derivati lesioni personali con esiti permanenti. Inoltre, argomentando ex art. 2727 c.c., il Collegio ha ritenuto “singolare” che in una vettura con due persone a bordo quella più distante dal punto d’urto abbia subìto lesioni, mentre l’altra no.

Dunque, facendo leva sugli strumenti di cui all’art. 115 c.p.c. e di cui all’art. 2727 c.c., il tribunale ha osservato che - ad onta delle conclusioni dell’ausiliario - era mancata del tutto la prova dell’esistenza del nesso causale tra lesioni e postumi.

Caso 5

Trib. Roma 16.3.1996, Brizzola c. Liguria Assicurazioni

Lesioni: contusione al ginocchio

Elementi disponibili: a) lieve eccedenza perimetrica del muscolo della coscia destra rispetto a quello della

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coscia sinistra;

b) dichiarazioni della persona periziata (riferita algìa alla stazione eretta prolungata).

Conclusioni del c.t.u.: -) 5% di invalidità permanente (per sclerosi del corpo di Hoffa; ipomiotrofia ed ipotonotrofia del ginocchio destro;

gonalgia alla stazione eretta prolungata);

-) 50 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 50 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso la relazione peritale, osservando che il C.T.U. non aveva rilevato esiti di lesioni legamentose (e conseguenti movimenti di lateralità o “a cassetto”); né difficoltà di accosciamento; né limitazioni nell’estensione dell’articolazione: tutti sintomi, questi, della persistenza di postumi ascrivibili a distorsioni o contusioni del ginocchio, con conseguenti squilibri tra consistenza della cartilagine e richiesta funzionale dell’arto. “Non si comprende pertanto come il c.t.u. sia potuto giungere a porre una diagnosi di “gonalgia alla stazione eretta”, a distanza di quasi tre anni dal sinistro, basandosi unicamente su due dati: uno oggettivo (l’eccedenza perimetrica del muscolo della coscia destra rispetto a quello della coscia sinistra;

eccedenza peraltro lieve); l’altro soggettivo, rappresentato da quanto dichiarato dalla persona periziata (la riferita algìa alla stazione eretta prolungata)”.

Caso 6

Trib. Roma 3.6.1996, Buzzo c. Norditalia

Lesioni: ferita lacero-contusa alla regione frontale

destra; ferita alla regione zigomatica destra; contusioni multiple

Elementi disponibili: a) dichiarazioni del periziato;

b) un referto radiografico dal quale risultava che il danneggiato era portatore di scoliosi del tratto cervicale.

Conclusioni del c.t.u.: -) 3% di invalidità permanente (oltre il danno estetico);

-) 20 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 20 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso la relazione peritale, osservando che:

a) il c.t.u. aveva ritenuto sussistente un nesso causale tra il sinistro ed un preteso

“atteggiamento del collo in modica estensione”, mentre risultava dal referto radiografico in atti che l’attore era portatore di scoliosi del tratto cervicale (nel trascrivere tale referto nella propria relazione, il c.t.u. aveva omesso di riportare tale preesistenza);

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b) il c.t.u. aveva concluso per l’esistenza di “segni clinico-obiettivi di compromissione dell’apparato vestibolare”, senza che fosse mai stato effettuato alcun esame audio- vestibolare;

c) il c.t.u. aveva concluso per l’esistenza di “espressioni disvegetative e neurotico- reattive ansiose su base patogenetica fisiogena-psichica”. Per tali esiti aveva posto la diagnosi di “sindrome fisiogena dei traumatizzati”. Nel contempo, tuttavia, non aveva ritenuto necessario sottoporre il leso a test di nessun tipo (quali EEG, il test MMI o simili).

Il tribunale ha pertanto concluso affermando che l’unico postumo permanente residuato al sinistro, ed a questo legato da un nesso di causalità giudizialmente provato era rappresentato dalla cicatrice al volto.

Caso 7

Trib. Roma 29.11.1996, Canosa c. Tirrena

Lesioni: contusione al ginocchio ed alla spalla

destri.

Elementi disponibili: a) dichiarazioni del periziato;

b) un “certificato di infortunio” indirizzato al datore di lavoro;

c) due certificati del medico curante (specialista dermatologo).

Conclusioni del c.t.u.: -) 4% di invalidità permanente;

-) 20 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 10 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando che questi non poteva arrestarsi a quanto riferito dal periziato, in una situazione di assoluta mancanza di riscontri obiettivi, ma doveva verificarlo scientificamente, controllarlo obiettivamente, giustificarlo medico-legalmente: mancava pertanto ogni ragionevole prova sia dell’esistenza di postumi, sia della loro riconducibilità causale al sinistro.

Caso 8

Trib. Roma 3.6.1997, Cerrito c. Intercontinentale

Lesioni: lieve trauma cranico non commotivo,

contusione al gomito destro.

Elementi disponibili: a) dichiarazioni della periziata;

b) un referto di Pronto Soccorso.

Conclusioni del c.t.u.: -) 1% di invalidità permanente (per esiti di

“saltuaria cefalea”);

-) 10 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 10 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

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Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando che non vi era alcuna traccia in atti di prescrizioni mediche puntuali; di cure seguite; di visite specialistiche:

non era pertanto logicamente credibile (art. 2729 c.c.), né razionalmente verosimile (art.

115 c.p.c.) che un soggetto il quale a quasi quattro anni dal sinistro (tanti ne erano trascorsi dall’evento alla visita peritale) lamentasse ancora disturbi non avesse mai, medio tempore, sentito il bisogno di farsi visitare. Doveva concludersi pertanto per la assoluta indimostrabilità dell’esistenza dei postumi dichiarati dal danneggiato e ritenuti esistenti dal c.t.u..

Caso 9

Trib. Roma 15.3.1996, Certo c. Ticino

Lesioni: distrazione del rachide cervicale.

Elementi disponibili: a) dichiarazioni del periziato;

b) un referto di Pronto Soccorso emesso due giorni dopo il sinistro, con sottoscrizione rappresentata da un paraffo illeggibile, e senza indicazioni sulla qualifica del sottoscrittore;

c) un certificato del medico curante (pediatra), nel quale si prescriveva un esame radiografico mai eseguito;

d) un referto ambulatoriale nel quale si parlava di “miglioramenti dopo FKT”, che non risultava mai eseguita.

Conclusioni del c.t.u.: -) 3-4% di invalidità permanente;

-) 20 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 20 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando che “con il sintagma

“colpo di frusta” la medicina legale designa (...) non una lesione od una patologia, ma un meccanismo articolare, cioè un movimento, che è solo potenzialmente lesivo. Una disfunzione anatomo-patologica può ovviamente conseguire a tale meccanismo, quando per violenza o velocità esso comprometta il normale atteggiamento morfologico delle vertebre cervicali.

Tuttavia la caratteristica del comizio sintomatico che accompagna una distrazione del rachide cervicale conseguita ad un colpo di frusta è di essere, in larga parte, di difficile accertamento oggettivo. Il dolore alla digitopressione, la riduzione dei movimenti dell’articolazione, l’attenuazione della lordosi, sono tutti dati condizionabili dalla collaborazione, cosciente o meno, del soggetto leso”. Pertanto, dinanzi a casi simili, ed in assenza di adeguata documentazione medica, il c.t.u. deve criticamente vagliare quanto riferitogli dal periziato-attore, e non prenderlo supinamente per buono.

Caso 10

Trib. Roma 3.6.1996, Molinaro c. Tirrena

Lesioni: contusione cranica con ecchimosi frontale;

contusione alla spalla sinistra.

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Elementi disponibili: a) dichiarazioni della periziata;

b) un referto di Pronto Soccorso, nel quale venivano diagnosticati “sette giorni salvo complicazioni”;

c) quattro prescrizioni del medico curante, l’ultima delle quali era di due anni anteriore rispetto alla visita peritale, nelle quali si prescrivevano una serie di farmaci che non risultavano mai acquistati; nonché una serie di cure (ultrasuoni, FKT) che non risultavano mai eseguite.

Conclusioni del c.t.u.: -) 5% di invalidità permanente;

-) 20 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 15 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u., articolando il seguente sillogismo: -) se fossero esistiti postumi permanenti, l’attrice si sarebbe verosimilmente sottoposta alle cure dei medici; -) la storia clinica documentata dell’attrice era muta a partire da pochi giorni dopo il sinistro; -) ergo, dal fatto che l’attrice non abbia praticato cure deve desumersi che non ne abbia avuto bisogno.

Caso 11

Trib. Roma 4.4.1996, Paesano c. Assitalia

Lesioni: contusione cranica non commotiva,

contusione del rachide cervicale, trauma contusivo alla spalla destra.

Elementi disponibili: a) cartella clinica;

b) “dichiarazione” del medico curante.

Conclusioni del c.t.u.: -) 7% di invalidità permanente (per rimozione di alcuni elementi dentari);

-) 30 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 20 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando che non vi era in atti prova adeguata dell’esistenza d’un nesso causale tra il sinistro e l’intervento di protesi dentaria cui l’attore si era sottoposto. Né nella cartella clinica (nella quale non si parlava di lesioni al volto, ad eccezione di una contusione zigomatica), né nei referti radiografici, né nei referti di pronto soccorso, si faceva infatti mai parola della contusione alla regione mentoniera che - secondo il c.t.u. - avrebbe indebolito gli incisivi inferiori. Il primo documento in tal senso era una dichiarazione del dentista di fiducia dell’attore, di 36 giorni successiva al sinistro, che processualmente era atto proveniente dal terzo e come tale inidoneo, da solo, a provare alcunché.

Caso 12

Trib. Roma 29.11.1997, Silvestri c. Tirrena

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Lesioni: frattura dell'epifisi distale del radio sinistro.

Elementi disponibili: -) dichiarazioni del periziato;

-) cartella clinica.

Conclusioni del c.t.u.: -) 5% di invalidità permanente (per esiti di

“diminuzione dell’energia prensile”);

-) 40 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 20 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u. osservando che “l’epifisi del radio non è un prolungamento dell’osso, ma è una massa di tessuto spugnoso, separata dal corpo dell’osso ed avviluppata da un tessuto compatto parzialmente rivestito di cartilagine, che si annulla col trascorrere degli anni. Come confermano tutti i più noti trattati di medicina legale, la frattura dell’epifisi distale del radio rarissimamente guarisce con postumi che possano superare il 2-3% di invalidità permanente, massimamente nei soggetti di giovane età” (in questo caso il tribunale ha concluso per l’esistenza di postumi nella misura del 3%).

Caso 13

Trib. Roma 12.3.1996, Stefanini c. Tirrena

Lesioni: contusione escoriata alla gamba sinistra.

Elementi disponibili: -) dichiarazioni del periziato;

-) un referto di Pronto Soccorso, nel quale si poneva una diagnosi di cinque giorni;

-) tre certificati del medico curante, nei quali non si prescrivevano cure di sorta.

Conclusioni del c.t.u.: -) 4% di invalidità permanente (per diagnosi di gonalgia ed interessamento articolare del ginocchio);

-) 10 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 10 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando che l’assoluto silenzio nella storia clinica del paziente non poteva fare ritenere provata l’esistenza dei postumi (gonalgia), i quali erano stati soltanto dichiarati dall’attore.

Caso 14

Trib. Roma 24.12.1996, Valentini c. Allianz Subalpina

Lesioni: contusione occipitale.

Elementi disponibili: a) dichiarazioni del periziato;

b) un referto di pronto soccorso.

Conclusioni del c.t.u.: -) 2% di invalidità permanente (per

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diagnosi di “cefalea, vertigini e disturbi a carattere ansioso-reattivo”;

-) 10 giorni di inabilità temporanea assoluta;

-) 20 giorni di inabilità temporanea relativa al 50%.

Il tribunale ha seccamente disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando come questi aveva posto la diagnosi di “disturbi a carattere ansioso reattivo” in assenza di ogni e qualsivoglia riscontro medicolegalmente valido, cioè utilizzabile come prova ragionevole.

In particolare, è stato osservato che “nell’esame obiettivo del distretto interessato dal trauma (cranio), il c.t.u. non ha rilevato alcuna obiettività clinica; [e che] nondimeno, il c.t.u. ha ritenuto di poter porre ugualmente una diagnosi di “cefalea, vertigini e disturbi a carattere ansioso-reattivo” (...).

Deve dunque in primo luogo censurarsi il metodo seguito dall’Ausiliario, essendo evidente che questi, in base ai quesiti sottopostigli e secondo un corretto metodo epistemologico, ha da ritenere esistenti le patologie da egli rilevate, e non prestare acquiescenza alle allegazioni del periziato che - nel caso in esame - è anche parte in causa.

Inoltre, una corretta diagnosi per le nevrosi traumatiche deve necessariamente prendere le mosse dall'accertamento di una preesistente situazione di consapevole conflittualità interiore in capo al traumatizzato, la quale costituisce il necessario nucleo ansiogeno, produttivo dello scatenarsi della sintomatologia ansiosa. La moderna scienza ed esperienza medico-legale esclude la possibilità del prodursi di sindromi traumatiche ove il traumatizzato non fosse già portatore di una personalità fragile, emozionalmente labile, facile alla conflittualità intrapsichica.

Tale stato di preesistenza non è stato rilevato dal c.t.u., e dunque non può clinicamente concludersi per l'esistenza di una sintomatologia neurotica vera e propria, di origine subconscia, ricollegabile al sinistro, piuttosto che per una sempre possibile simulazione cosciente e ragionata del soggetto.

Dunque può escludersi che l’attrice abbia subìto - in conseguenza del sinistro - una vera e propria nevrosi; si deve invece ritenere che la patologia subìta dall’attrice sia ascrivibile nella serie numerosa e multiforme delle sindromi postraumatiche (neurasteniformi e soggettive).

Orbene, mentre le neurosi non svaniscono quasi mai senza reliquati, le sindromi soggettive postraumatiche sono sicuramente emendabili in tempi brevi, e non menomano per sempre il soggetto colpito.

Caratteristica di questo tipo di turbe neurotiche sono infatti l'assenza di segni obiettivi, la costante regressione, la percepibilità soggettiva normalmente cagionata dalla polarizzazione ideativa del soggetto sulle conseguenze del trauma subìto, sovente elìsa dall'avvenuto risarcimento (c.d. sindromi da indennizzo, sulle quali esiste vasta e varia letteratura medico-legale).

Ha poi aggiunto il collegio (ciò che qui rileva maggiormente) che “il sintagma

"invalidità permanente" ha un'area semantica precisa: esso designa quella riduzione della integrità e della efficienza psicofisica dell'individuo, che sia definitiva ed irremissibile, e che limiti oggettivamente le funzioni vitali del soggetto, impedendogli di condurre l'esistenza che avrebbe altrimenti condotto.

(21)

Utilizzando correttamente questo concetto come paradigma per la aestimatio del danno, deve escludersi che la sfumata sindrome (ripetesi, riferita dalla attrice e non rilevata correttamente dall’Ausiliario) abbia concorso a menomare permanentemente l’esistenzialità [dell’attrice stessa], intesa in termini di attività non compiute, iniziative non intraprese, esperienze non provate”.

***

Tutti i casi che precedono, altamente paradigmatici, sono caratterizzati da sorprendenti analogie:

a) le lesioni erano state lievissime;

b) nel referto di pronto soccorso veniva posta una diagnosi di pochissimi giorni;

c) non sussisteva altra documentazione medica oltre pochi certificati del medico curante (ed, in qualche caso, non esistevano nemmeno quelli), i quali erano estremamente scarni nel contenuto e generici nelle prescrizioni di cura.

A quest’ultimo riguardo, può essere opportuno spendere qualche considerazione sulla varia certificazione medica che viene normalmente prodotta in giudizio al fine di dimostrare l’esistenza della malattia, il suo protrarsi od aggravarsi.

Assai sovente, specie in caso di micropermanenti o presunte tali, l’attore intende fornire tale prova attraverso certificati del proprio medico di fiducia. Sin qui, ovviamente, nulla di particolare: processualmente, il certificato proveniente dal medico è la dichiarazione resa da un incaricato di pubblico servizio, e sconta (dovrebbe scontare) perciò un elevato tasso di attendibilità.

Tuttavia accade purtroppo, e ciò non giova all’amministrazione della giustizia, che la certificazione emessa dal medico curante sia assai compiacente, a tacer d’altro. Anzi, talora il documento emesso dal medico curante non può neanche essere definito

“certificato” in senso stretto.

E’, ad esempio, frequentissimo il caso in cui, in seguito a microtraumi del capo (i quali secondo il senso comune richiamato dall’art. 115 c.p.c., cui si è fatto più volte cenno, potrebbero al più produrre volgarissimi “bernoccoli”), l’attore intenda dimostrare l’esistenza di postumi permanenti depositando unicamente (e va sottolineato l’avverbio unicamente) alcuni certificati del medico curante, nei quali si “certifica” l’esistenza di cefalea, e se ne precisa addirittura la causa (ad esempio, “soffre di cefalea in conseguenza del sinistro ecc.”; oppure “soffre di cefalea da rumore” ecc.).

Ora, “a prescindere dall’osservazione che il medico può “certificare” in senso tecnico ciò che egli rileva in corpore, e non una cefalea (rispetto alla quale il medico può solo affermare che “il paziente dichiara ecc.”), deve rilevarsi che - in assenza di ulteriori elementi diagnostici non si vede davvero come il medico curante - non specialista - abbia potuto accertare l’esistenza d’un nesso causale in senso medico-legale” tra la condotta illecita e la riferita cefalea (così Trib. Roma (ord.) 27.12.1997, Ferrazza c.

Saba, in Giur. romana 1998, fasc. 5).

In altri termini, il medico curante pretende di certificare ciò che in rerum natura non è certificabile in senso tecnico, e cioè la presenza di dolore non strumentalmente accertabile. In casi di questo tipo, il medico curante dovrebbe limitarsi a certificare che il paziente, da lui interrogato, gli dichiara di provare dolore: ma la straordinaria frequenza di queste “certificazioni” dimostra quale sia la facilità con la quale si certifichi praticamente di tutto, dimenticando che la certificazione di patologie inesistenti integri gli estremi del delitto di falso.

(22)

A questo riguardo si segnala il recente caso in cui l’attore, allegando la distorsione di un ginocchio, aveva prodotto come unica documentazione medica sette certificati del medico curante (specialista gastroenterologo), il primo dei quali era posteriore di sei mesi al sinistro. Per l’intelligenza del caso, è opportuno altresì notare che, nel referto di pronto soccorso (redatto cinque ore dopo il sinistro) all’attore veniva diagnosticata una

“contusione” al ginocchio la quale, a distanza di sei mesi (e senza che nel frattempo fossero stati effettuati esami radiografici, TAC, o comunque accertamenti di sorta) nel certificato del medico curante diveniva una “distorsione”.

Il c.t.u. aveva prestato supina acquiescenza a tale certificazione, nonostante le incongruenze sopra descritte. Chiamato a decidere la lite, il tribunale di Roma ha disatteso le conclusioni del c.t.u., osservando che i certificati del medico curante prodotti dall’attore scontavano “un tasso di attendibilità minimo, se non proprio nullo.

L’esperienza giudiziaria in materia di responsabilità aquiliana per danni alla persona, facendo emergere quotidianamente palesi discrasìe tra certificazioni private ed effettività delle lesioni e dei postumi, deve purtroppo far ritenere - ex art. 115 c.p.c. - dolorosamente diffusa la proclività di taluni medici alla leggerezza nella redazione di certificazioni cliniche; alla contiguità con i desiderata del paziente; alla rinuncia all’esercizio del severo vaglio critico che la delicatezza della professione medica imporrebbe.

In codesto quadro ambientale, ed in assenza di elementi oggettivi di riscontro, questo Collegio ritiene non attendibile la certificazione (...) depositata dall’attore, con quanto ne consegue sia per la decisione del presente giudizio, sia ai sensi dell’art. 331 c.p.p.”

(Trib. Roma 31.3.1998, D’Orto c. Firs. s.p.a. in l.c.a.).

La conclusione che si trae da tutto quanto esposto in precedenza è che sovente, pure dinanzi ad un quadro probatorio assai sguarnito, il c.t.u. conclude per l’esistenza di postumi permanenti, i quali sono in alcuni casi dubbi; in altri casi palesemente inesistenti; in ogni caso non dimostrati secondo le regole della causalità giuridica, della causalità medico-legale, e dell’onere della prova (art. 2697 c.c.).

Paradigmatico, a quest’ultimo riguardo, è il Caso 14, sopra riferito. L’attore aveva agito in giudizio (si badi bene, dinanzi al tribunale) chiedendo il risarcimento del danno alla persona ed allegando l’esistenza di postumi permanenti. A sostegno delle proprie allegazioni in fatto l’attore aveva prodotto un solo elemento di prova: un referto di pronto soccorso, nel quale si poneva la diagnosi di “contusione occipitale”. Nessun altro elemento di prova era stato raccolto nel corso del giudizio, oltre le dichiarazioni della parte asseritamente lesa rese al c.t.u. durante la visita peritale (le quali, come si è visto, non costituiscono fonte di prova). Dinanzi a questo autentico deserto probatorio, il c.t.u.

aveva nondimeno ravvisato l’esistenza di postumi permanenti, consistenti addirittura in

“cefalea, vertigini e disturbi a carattere ansioso-reattivo”.

Come ognun vede, in casi consimili il vero problema non è quello della risarcibilità del microdanno, che non è e non può essere in discussione, ma è quello dell’accertamento di tale danno, con troppa facilità ed approssimazione ritenuto esistente.

D) I magistrati.

Infine, i magistrati. La sciagurata tendenza a trasformare lesioni piccole e piccolissime in una sicura fonte di reddito ha tratto alimento anche da talune prassi istruttorie. Ad esempio:

A) talora il giudice dispone ex art. 61 c.p.c. una consulenza tecnica medico legale prima ancora di qualsiasi atto istruttorio, e senza che l’attore abbia neppure documentato l’entità delle lesioni subìte. In questo modo si dimentica che la c.t.u. è strumento per

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