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LA CONDOTTA COLPOSA: I CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA ILLICEITÀ E LA FUNZIONE DELLE LINEE-GUIDA

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LA CONDOTTA COLPOSA:

I CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA ILLICEITÀ E LA FUNZIONE DELLE LINEE-GUIDA

Avv. Edilberto Ricciardi*

Sommario: 1 - Il contratto d’opera intellettuale e la responsabilità professionale da “contatto sociale” - 2 – Gli “illeciti” del professionista in generale - 3 – La colpa professionale nel c.d. “illecito civile” - 4 – La diligenza del professionista in generale e nei codici deontologici - 5 – La diligenza professionale di medici ed avvocati - 6 - Criteri di valutazione della condotta professionale: le linee guida per i medici - 7 – Criteri di valutazione della condotta professionale: le norme processuali ed i principi deontologici per gli avvocati - 8 – La condotta colposa nell’illecito penale.

1 - Il contratto d’opera intellettuale e la responsabilità professionale da “contatto sociale”

Le “professioni intellettuali” (artt. 2229 - 2238 cod. civ.), definite anche

“professioni protette” - dato che, per il loro esercizio, “è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi” (art. 2229 cod. civ.) e, di conseguenza, l’appartenenza ai corrispondenti Ordini - sono collocate dal legislatore nella categoria del lavoro autonomo.

* Avvocato, già Sottosegretario di Stato al Ministero di Grazia e Giustizia e Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Salerno

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La “protezione” accordata dal codice civile alle predette categorie professionali non va intesa, però, in senso corporativo - ovvero di “tutela” degli interessi degli appartenenti alle stesse -, ma risponde alla finalità, sancita dall’ordinamento giuridico, che determinate attività intellettuali siano svolte ad un livello di qualità adeguato alla rilevanza dei diritti, che attraverso esse devono essere realizzati; ciò giustifica l’interesse pubblico ad una prestazione qualificata, garantita da un’idonea preparazione tecnica e dal rispetto di principi deontologici comuni - la cui osservanza deve essere garantita dal potere disciplinare attribuito agli Ordini sui propri iscritti – ed il divieto e la sanzione penale per l’esercizio di una professione “protetta” da parte di coloro che non vi siano legittimati1.

Dette attività, peraltro, possono essere svolte anche in regime di subordinazione, come, ad esempio, quelle degli architetti, degli avvocati, degli ingegneri, dei medici, che - nel rispetto delle norme dettate dai rispettivi ordinamenti - prestano la loro opera alle dipendenze di un datore di lavoro. Il potere direttivo, organizzativo e disciplinare di questo ultimo, però, deve essere sempre rispettoso dell’autonomia del professionista nelle scelte tecniche a lui demandate.

L’esecuzione della prestazione professionale, dunque, anche se in regime di lavoro subordinato, richiede necessariamente il riconoscimento di un potere discrezionale dell’iscritto nell’albo nella individuazione – secondo scienza e coscienza - delle soluzioni da adottare nel singolo caso, in modo da consentirgli di esercitare la propria attività impiegando, senza condizionamenti, le potenzialità del suo patrimonio culturale ed intellettuale.

L’esigenza di tutelare questa sfera di libertà ideativa, nell’ambito dell’esecuzione dei compiti affidatigli, spiega la peculiarità delle norme che

1 Cfr. Galgano, Diritto commerciale, Bologna, 1991, pag. 17.

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disciplinano e qualificano la posizione di colui che esercita la professione intellettuale, distinguendola rispetto a quella propria di un generico prestatore d’opera2.

Allorquando un soggetto chiede ad un professionista autonomo di espletare la propria opera e questo accetta di renderla, tra le parti viene concluso un contratto d’opera intellettuale, disciplinato dalle specifiche norme dettate dagli articoli 2230 - 2238 cod. civ., nonché, se compatibili, da quelle riguardanti il contratto d’opera in generale (art. 2222 e segg. cod. civ.).

In virtù di detto negozio, una persona, munita di un particolare status derivante dall’iscrizione nell’albo, si obbliga a compiere, verso un corrispettivo, un’attività specifica, contrassegnata da lavoro intellettuale prevalentemente proprio e da discrezionalità tecnica (artt. 2230 – 2232 cod. civ.).

I due soggetti di questo rapporto giuridico, il cui perfezionamento non richiede forma scritta o l’uso di formule legali, sono il professionista ed il c.d.

“cliente”, che non va confuso, però, con il beneficiario della prestazione resa dal primo, giacché la giurisprudenza ha più volte precisato che “cliente del professionista non è necessariamente il soggetto nel cui interesse viene eseguita la prestazione d’opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito l’incarico al professionista ed è, conseguentemente, tenuto al pagamento del corrispettivo”3.

La stipula di un contratto professionale, sia pure in forma verbale, peraltro, non costituisce condizione essenziale per la creazione di un rapporto giuridico, perché, di recente, la giurisprudenza di legittimità – nel qualificare la fonte della responsabilità per danni causati ad un degente dal sanitario, impiegato presso una struttura ospedaliera, ai fini della decisione circa

2 Cfr. Giacobbe G., Giacobbe D., Il lavoro autonomo, in Commentario al cod. civ. a cura di Schlesinger, Milano, 1995, pag. 12 ss..

3 Cfr. Cass. civ., sez. I, 2 giugno 2000, n. 7309. Negli stessi sensi, cfr. pure Cass. civ., sez. II, 22 aprile 1995, n. 4592; Cass. civ., sez. II, 27 luglio 1987, n. 6494; Cass. civ., sez. I, 17 gennaio 1986, n. 263.

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l’applicabilità o meno, nella vicenda in esame, della prescrizione quinquennale di cui all’art. 2947 c.c. - ha mutato l’originario indirizzo, che, nei casi analoghi, negava l’esistenza tra i due soggetti di un contratto d’opera: il medico, infatti, era ritenuto un elemento dell’organizzazione, attraverso la quale l’ente adempiva la prestazione sanitaria, onde il professionista - che aveva posto in essere la condotta sub iudice, cagionando l’evento lesivo in violazione del principio generale del neminem laedere sancito dall’art. 2043 c.c. – ne rispondeva solo indirettamente ed a titolo di responsabilità solidale con l’ospedale o la U.S.L., che gli aveva commesso l’incarico.

La Corte di Cassazione, infatti, con la sentenza 22 gennaio 1999, n. 589, con evidente rottura di schemi giuridici consolidati, ha rifiutato tanto l’impostazione extracontrattuale quanto quella puramente contrattuale della responsabilità del medico-dipendente ed ha aderito ad un orientamento innovativo, fondato sulla dottrina dell’obbligazione da “contatto sociale”.

Il Giudice di legittimità - attraverso una nuova lettura evolutiva del

“catalogo” delle “fonti delle obbligazioni” dettato dall’art. 1173 c.c., - ha ritenuto che sia possibile inserire - tra queste - i principi di rango costituzionale

“che trascendono da singole disposizioni legislative” ed ha testualmente sostenuto che “le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, nei casi in cui taluni soggetti entrano in contatto, senza che tale contatto riproduca le note ipotesi negoziali, e pur tuttavia ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso.

In questi casi non può esservi (solo) responsabilità aquiliana, poiché questa non nasce dalla violazione di obblighi ma dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive altrui (é infatti ormai acquisito che, nell’ambito dell’art.

2043 c.c., l’ingiustizia non si riferisce al fatto, ma al danno); quando ricorre la

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violazione di obblighi, la responsabilità è necessariamente contrattuale, poiché il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris, secondo lo schema caratteristico della responsabilità contrattuale”.

Dopo avere richiamato una propria precedente decisione4, il Supremo Collegio ha chiarito che “quanto sopra detto si verifica per l’operatore di una professione cd. protetta (cioè una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione da parte dello Stato, art. 348 c.p.), in particolare se detta professione abbia ad oggetto beni costituzionalmente garantiti, come avviene per la professione medica (che è il caso della fattispecie in esame), che incide sul bene della salute, tutelato dall’art. 32 Cost..

Invero a questo tipo di operatore professionale la coscienza sociale, prima ancora che l’ordinamento giuridico, non si limita a chiedere un non facere e cioè il puro rispetto della sfera giuridica di colui che gli si rivolge fidando nella sua professionalità, ma giustappunto quel facere nel quale si manifesta la perizia che ne deve contrassegnare l’attività in ogni momento (l’abilitazione all’attività, rilasciatagli dall’ordinamento, infatti, prescinde dal punto fattuale se detta attività sarà conseguenza di un contratto o meno).

In altri termini la prestazione (usando il termine in modo generico) sanitaria del medico nei confronti del paziente non può che essere sempre la stessa, vi sia o meno alla base un contratto d’opera professionale tra i due.

Ciò è dovuto al fatto che, trattandosi dell’esercizio di un servizio di pubblica necessità, che non può svolgersi senza una speciale abilitazione dello Stato, da parte di soggetti di cui il <<pubblico è obbligato per legge a valersi>> (art. 359 c.p.), e quindi trattandosi di una professione protetta, l’esercizio di detto servizio non può essere diverso a seconda se esista o meno un contratto”.

4 Cfr. Cass. civ., sez. I, 1 ottobre 1994, n. 7989.

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In ragione di tale principio – che, ovviamente, è applicabile a tutte le altre professioni “protette”, nei casi sia di rapporto di dipendenza, sia di prestazioni rese in adempimento di obblighi non derivanti da contratto, come, ad esempio, per gli avvocati in caso di difesa d’ufficio oppure quando il cliente sia persona diversa dal soggetto che ha conferito la procura per la difesa giudiziale - la citata sentenza n. 589/1999 ha affermato che “la pur confermata assenza di un contratto, e quindi di un obbligo di prestazione in capo al sanitario dipendente nei confronti del paziente, non è in grado di neutralizzare la professionalità (secondo determinati standard accertati dall’ordinamento su quel soggetto), che qualifica ab origine l’opera di quest’ultimo, e che si traduce in obblighi di comportamento nei confronti di chi su tale professionalità ha fatto affidamento, entrando in <<contatto>> con lui.

Proprio gli aspetti pubblicistici, che connotano l’esercizio di detta attività, comportano che esso non possa non essere unico da parte del singolo professionista, senza possibilità di distinguere se alla prestazione sanitaria egli sia tenuto contrattualmente o meno.

L’esistenza di un contratto potrà essere rilevante solo al fine di stabilire se il medico sia obbligato alla prestazione della sua attività sanitaria (salve le ipotesi in cui detta attività è obbligatoria per legge, ad es. art. 593 c.p., Cass.

pen. 10.4.1978, n. 4003, Soccardo).

In assenza di dette ipotesi di vincolo, il paziente non potrà pretendere la prestazione sanitaria dal medico, ma se il medico in ogni caso interviene (ad esempio perché a tanto tenuto nei confronti dell’ente ospedaliero, come nella fattispecie) l’esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto paziente medico) non potrà essere differente nel contenuto da quello che abbia come fonte un comune contratto tra paziente e medico.

Da tutto ciò consegue che la responsabilità dell’ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico dipendente hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente o errata della prestazione sanitaria da parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta contestualmente accertata la

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responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi (qualificazione che discende non dalla fonte dell’obbligazione, ma dal contenuto del rapporto)”5.

Questo indirizzo - che afferma l’esistenza dell’obbligo negoziale, sorto per effetto del “contatto sociale” e senza la necessità di una preventiva contrattazione, perfezionata con l’incontro dei consensi (artt. 1321 e 1325 cod.

civ.), ma attraverso la concreta utilizzazione dei servizi resi - pone in rilievo il fatto che “in questi, per così dire, nuovi contratti il ruolo della volontà, che resta elemento costitutivo dell’accordo delle parti, si affievolisce, perché si standardizza in comportamenti automatici, oggettivamente valutabili secondo criteri di tipicità sociale” ed ha trovato sempre più ampia applicazione per fattispecie del tutto diverse, anche se relative ad attività che non sono

“protette”: ad esempio, la gestione “di un’area di parcheggio, alla quale si accede attraverso sistemi automatici di accesso, di pagamento della prestazione e di prelievo del veicolo. Il contratto che se ne ricava è del tipo di quelli nei quali all’offerta della prestazione di parcheggio corrisponde l’accettazione dell’utente, manifestata attraverso l’immissione dell’auto nell’area messa a disposizione. Dalla combinazione di questi fattori nasce il vincolo contrattuale, il quale si realizza attraverso il contatto sociale”6; i compiti del “precettore dipendente dall’istituto scolastico”, che “assume, nel quadro del complessivo obbligo di istruire ed educare, anche uno specifico obbligo di protezione e di vigilanza, onde evitare che l’allievo si procuri da solo un danno alla persona”7; le prestazioni del personale di asilo nido addetto alla cura ed alla vigilanza dei bambini 8; l’esercizio delle funzioni di amministratore di fatto di una società, per “situazioni (come le trattative precontrattuali, la mediazione e l’assunzione non autorizzata della gestione di affari altrui nella consapevolezza della loro alienità) caratterizzate <<dal consolidamento di una relazione di contatto sociale particolarmente pregnante, idonea a giustificare il

5 Cfr. Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589. Negli stessi sensi cfr. pure, tra le più recenti, Cass.

civ., sez. III, 5 novembre 2004, n. 19564; Cass. civ., sez. III, 29 luglio 2004, n. 14488; Cass. civ., sez.

III, 28 maggio 2004, n. 10297; Appello Perugia, 28 ottobre 2004, L.G. ed A.F. c. A.S.L. n. 3 di Spoleto.

6 Cfr. Cass. civ., sez. III, 26 febbraio 2004, n. 3863.

7 Cfr. Cass. civ., sez. un. 27 giugno 2002, n. 9346.

8 Cfr. Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2003, n. 11245.

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sorgere di vincoli che vanno al di là del semplice dovere di rispetto dei diritti altrui, indipendentemente dalla ricorrenza di un conforme intento negoziale delle parti interessate>>”9.

La creazione di questa nuova categoria di obbligazioni – oltre a quelle già note, definite contrattuali ed extracontrattuali -, pone ai cultori della materia ed a coloro che sono chiamati ad illustrare o giudicare le ragioni ed i torti delle parti di una specifica vicenda la necessità di approfondire, con la necessaria attenzione, questa terza specie – definita pure del c.d. “contort”, acronimo da

“contract” e “tort”10 -, nella quale andrebbero collocate fattispecie non decisamente inquadrabili in una delle prime due, perché rientranti “all’interno di quell’area di turbolenza ai confini fra il contratto ed il torto nella quale l’ascrivere a responsabilità contrattuale le ipotesi di danno che in concreto si possono verificare sembra frutto di un’enfatizzazione, mentre il farle rientrare nell’ambito dell’illecito aquiliano si rivela un impoverimento”11.

Non risponde certo al caso che tale indirizzo sia stato decisamente imboccato in un giudizio che investiva la c.d. responsabilità medica, ovvero la materia dei trattamenti sanitari, che costituisce “uno dei settori dove, in crescente misura, si sono concentrate le attenzioni e le riflessioni degli studiosi.

… Sul tema hanno storicamente inciso fattori di natura sociale e culturale.

Infatti, il progresso medico e scientifico ha l’effetto di aumentare le attese da parte dei cittadini che guardano alla prestazione sanitaria con una sempre minore disponibilità ad accettare i margini di incertezza ad essa connessi.

Congiuntamente a tale sentimento, sono anche altri fattori che concorrono in questo mutato atteggiamento sociale: da un lato il valore della salute e la sua accentuata tutela, che l’ordinamento ormai riconosce come diritto primario ed

9 Cfr. Cass. civ., sez. I, 23 aprile 2003, n. 6478 e Cass. civ., sez. I, 6 marzo 1999, n. 1925.

10 Cfr. Grant Gilmore, The death of contract, Ohio State University Press, Columbus, Ohio, 1974, pag.

90. 11 Cfr. Pizzetti, La responsabilità del medico dipendente come responsabilità contrattuale da «contatto sociale», in Giur. It., 2000, 740, nonché l’ampia bibliografia ivi richiamata.

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assoluto dell’individuo, e dall’altro, sotto l’aspetto economico, le spese onerose, intrattenute per l’attività terapeutica, e i mancati guadagni, conseguenza della lesa integrità fisica”12.

Analoghe considerazioni possono essere formulate, ovviamente, in ordine alle attività legali, che investono altri valori assoluti – quelli del “diritto di difesa” e del “giusto processo” – tutelati espressamente dagli artt. 24 e 111 Cost. – onde si può dire – mutuando l’espressione già adoperata dalla dottrina – che il campo della responsabilità professionale dei medici e degli avvocati

“appare … come un regime «uniforme e transtipico nel senso che taglia orizzontalmente e supera i comparti corrispondenti ai due classici tipi della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale»”13.

In altre parole, l’affidamento riposto da parte di un terzo nello status di un professionista viene considerato come fonte di un’obbligazione senza obbligo primario di prestazione, ed è sufficiente, quindi, a far trasmigrare determinate vicende dalla categoria della responsabilità aquiliana, nella quale un tempo venivano collocate, a quella contrattuale, con conseguente e più favorevole onere probatorio per il danneggiato.

La responsabilità da “contatto sociale”, pertanto, comporta che le obbligazioni possano sorgere da rapporti contrattuali di fatto, ai quali si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso. Una tale ipotesi riproduce lo schema proprio della responsabilità contrattuale in quanto il soggetto non ha fatto (culpa in non faciendo) ciò a cui era tenuto in forza di un precedente vinculum iuris.

12 Cfr. Caggia, In tema di responsabilità del medico, in Giur. It., 1998, I, 38, nonché la vasta bibliografia ivi indicata.

13 Cfr. Pizzetti, op. cit..

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L’elaborazione giurisprudenziale di questa terza categoria di fonti di obbligazioni impone ai giuristi di riflettere attentamente sugli effetti che possono derivarne sul sistema generale di responsabilità civile, al fine di evitare il rischio che la classificazione delle varie vicende della vita - anche se non relative ad attività c.d. protette - non ancorata a precisi parametri di valutazione conduca al risultato di un diritto “non certo” o, comunque,

“incerto”; essa, infatti, consente ai Giudici – se influenzati dalle particolarità del caso singolo – di assumere, in fattispecie analoghe, decisioni mutevoli, ritenendo prevalenti elementi caratterizzanti l’una o piuttosto l’altra specie di responsabilità, con effetti diversi in ordine alla normativa applicabile in tema di onere della prova e termini di prescrizione dell’azione di risarcimento dei danni, favorendo, in tal modo, la posizione del danneggiato in sede di giudizio

Il principio che la responsabilità professionale nei confronti del cliente, benché non fondata su un negozio giuridico ma sul “contatto sociale”, ha natura contrattuale, comporta infatti la conseguenza che, in ogni caso, i regimi della ripartizione dell’onere della prova, del grado della colpa, della prevedibilità del danno e della prescrizione sono quelli tipici delle obbligazioni da contratto d’opera intellettuale professionale.

Il vantaggio pratico, per gli attori, dell’adesione all’indirizzo della Suprema Corte ora esposto sta, chiaramente, nelle facilitazioni probatorie14 e nella dilatazione dei termini prescrizionali tipici della responsabilità contrattuale.

A questo punto è necessario valutare se l’accertato rilievo sociale delle professioni “protette” – specie quelle finalizzate alla tutela di specifici diritti costituzionalmente garantiti - possa giustificare l’aggravio della posizione processuale del convenuto, con evidente modifica del principio generale del carico dell’onus probandi in tema di danno extracontrattuale, mentre la

14 Cfr., in tema di onere della prova, ex plurimis, Cass. civ., sez. III, 11 marzo 2002, n. 34923.

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peculiarità del rapporto tra professionista e cliente aveva indotto il legislatore del 1942 a disciplinare la responsabilità del prestatore d’opera in maniera parzialmente difforme rispetto a quella derivante da un rapporto negoziale perfezionato con un generico lavoratore autonomo, come espressamente precisato dalla “Relazione del Ministro Guardasigilli al libro del Codice civile

<<Del lavoro>>”15.

La ratio, alla base di questa normativa speciale, discende dal principio che il professionista deve espletare la propria particolare e qualificata attività, applicando le cognizioni tecniche di cui dispone ed adottando la soluzione che appare più adeguata per risolvere il problema, osservando, contemporaneamente, le norme di comportamento che la sua categoria professionale si é date: egli assume obbligo di apprestare i mezzi idonei a conseguire il risultato ma non di realizzare quanto concretamente voluto dal cliente.

Da tale premessa è derivato il tradizionale indirizzo, giurisprudenziale e dottrinario, che definisce le obbligazioni inerenti l’esercizio di una attività c.d.

“protetta” “di mezzi” e non “di risultato”, in quanto il prestatore d’opera si impegna a svolgere l’incarico ricevuto, per consentire il conseguimento dell’esito voluto dal cliente, ma non alla realizzazione dello stesso, onde

“l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto ipso facto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza”16.

Detta distinzione é ancora valida, se fatta in rapporto allo scopo finale che il cliente intende perseguire nella vicenda che lo interessa: ottenere, mediante

15 Cfr., in proposito, il successivo paragr. 3.

16 Cfr. Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400.

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i medicamenti e le cure del sanitario, la guarigione da un male, oppure, attraverso l’esercizio della funzione difensiva, la pronunzia di una sentenza di condanna della controparte o un provvedimento di assoluzione dalle avverse pretese.

La qualifica di obbligazione di “mezzi” e non di “risultato”, però, a ben vedere, in tal caso appare riduttiva o, quanto meno, inappropriata se si considera, invece, che la persona che si rivolge al professionista chiede a questo di utilizzare le cognizioni tecniche adeguate al fine di essere correttamente curato per le sue patologie, ovvero di permettergli di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa; sotto questo profilo, quindi, risulta evidente che l’iscritto nell’albo in ogni caso deve realizzare un opus, assistenza medica od attività difensiva, necessariamente propedeutico al conseguimento del risultato finale, cui il cliente aspira.

Le obbligazioni inerenti l’esercizio delle professioni “protette”, quindi, non possono essere qualificate esclusivamente “di mezzi”, ma involgono, ovviamente, anche “il comportamento” del professionista, poiché questo, assumendo l’incarico è obbligato a prestare comunque la propria opera intellettuale e scientifica in modo corretto e proporzionato al fine di porre tutte le condizioni necessarie a raggiungere il risultato, anche se non è obbligato a conseguirlo: in tale ottica, l’inadempimento è costituito non dall’esito negativo della prestazione, ma dalla violazione dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale17.

Se si aderisce a questa linea di pensiero, non deve sorprendere l’evoluzione segnata dalla giurisprudenza con l’affermazione del principio del

“contatto sociale”: il professionista, il quale viola i doveri che l’attività da lui esercitata impone – a prescindere dalla fonte che ha prodotto il suo impegno

17 Cfr., al riguardo, Ricciardi, Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, Milano, 1990, pagg.

264, 475, 476, 481; Musolino, L’opera intellettuale: obbligazioni e responsabilità, 1995, pag. 91.

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nella singola vicenda –, si rende responsabile, in ogni caso, di un inadempimento agli obblighi derivanti dal suo status e, quindi, ne deve rispondere nei confronti – oltre che dell’Ordine cui appartiene – anche del soggetto, che è venuto in relazione con lui ed aveva il diritto di attendersi il rispetto degli stessi.

L’originaria, alternativa, classificazione delle obbligazioni in quelle di

“mezzi” e nelle altre di “risultato” - derivata dal diritto francese –, però, era stata già in parte ridimensionata, per le ragioni esposte, sempre per le professioni “protette”, giacché – ormai da tempo - la giurisprudenza di legittimità aveva posto la sua attenzione sull’oggetto immediato dell’attività del professionista ed aveva affermato, ad esempio, tra l’altro, che costituisce un’obbligazione, non già di mezzi, ma di risultato “l’esecuzione di un progetto da parte di un ingegnere o di un architetto18; “quella assunta dal direttore sanitario che, nello stipulare il contratto d’opera professionale, si sia - tra l’altro - obbligato a curare l’aspetto igienico sanitario di una struttura ospedaliera ed a risponderne nei confronti del direttore generale”19; l’intervento chirurgico che non ha dato il risultato estetico contemplato dalle parti20; un intervento di incollaggio delle tube – proposto quale metodo anticoncezionale sicuro al 100%

a una paziente - che, però, in seguito era rimasta incinta21.

Particolarmente significativo, in ordine alla fondatezza del rilievo dato all’oggetto dell’opus professionale per la qualificazione dell’obbligazione assunta dall’avvocato, è una recente decisione del Giudice di legittimità, secondo la quale “nel caso in cui questi accetti l’incarico di svolgere un’attività stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all’utile esperibilità di un’azione giudiziale, la prestazione oggetto del contratto non

18 Cfr. Cass. civ., sez. I, 24 aprile 1996, n. 3879.

19 Cfr. Cass. civ., sez. lav., 23 ottobre 2002, n. 14957.

20 Cfr. Cass. civ., sez. III, 20 settembre 2004, n. 18853, Cass. civ., sez. III, 8 aprile 1997, n. 3046 e Cass. civ., sez. II, 8 agosto 1985, n. 4394.

21 Cfr. Cass. civ., sez. III, 10 settembre 1999, n. 9617.

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costituisce un’obbligazione di mezzi, in quanto egli si obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell’azione. Pertanto, in applicazione del parametro della diligenza professionale (art. 1176, comma 2, c.c.), sussiste la responsabilità dell’avvocato che, nell’adempiere siffatta obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire l’utile esperimento dell’azione, rinvenendo fondamento detta responsabilità anche nella colpa lieve, qualora la mancata prospettazione di tali questioni sia stata frutto dell’ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali, ovvero di incuria ed imperizia insuscettibili di giustificazione. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, decidendo nel merito ed affermando la responsabilità dell’avvocato il quale, nella formulazione di un parere stragiudiziale, aveva omesso di indicare al cliente che il diritto che questi intendeva far valere in giudizio era prescritto, omettendo altresì di approfondire l’eventuale sussistenza di elementi e circostanze in grado di contrastare l’eventuale eccezione di prescrizione)”22.

2 – Gli “illeciti” del professionista in generale

L’esercizio di un’attività intellettuale comporta il rischio di porre in essere condotte errate o di omettere atti dovuti, fatti questi da considerare “illeciti”

perché in contrasto con l’ordinamento giuridico, con specifiche norme di condotta od obblighi contrattuali e produttivi di un “danno ingiusto”23.

Tali “illeciti” possono essere distinti in “varie categorie, in relazione con la

22 Cfr. Cass. civ., sez. II, 14 novembre 2002, n. 16023.

23 Cfr. Maiorca, sub voce “Colpa civile (teoria gen.)”, in Enciclopedia del diritto, vol. VII, Milano, 1960, pag. 556.

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natura degli interessi lesi e col tipo di reazione apprestata dall’ordinamento giuridico.

Particolare rilevanza ha la distinzione fra illecito civile e illecito penale … : il primo è violazione di regole poste a diretta tutela di interessi privati, il secondo è violazione di regole ritenute fondamentali per la convivenza sociale.

Com’è ovvio, lo stesso atto può riunire entrambi i caratteri e, difatti, la maggior parte dei reati sono anche illeciti civili.

Dalla diversa natura delle regole violate deriva la diversità della reazione giuridica. Il reato determina l’applicazione della pena o di misure di sicurezza.

All’illecito civile l’ordinamento reagisce invece concedendo al privato, minacciato o danneggiato, la possibilità di agire per ottenere che l’atto vietato venga concretamente impedito e che i danni gli vengano risarciti. …

Nell’ambito del diritto civile il termine <<illecito>> può venire inteso in un’accezione ampia, così da designare la violazione di qualsiasi regola di condotta; più spesso, però, viene inteso in un senso più limitato, che esclude la violazione, da parte del debitore, di un dovere di prestazione oggetto di un rapporto obbligatorio …; quest’ultima ipotesi viene indicata come

<<inadempimento>> distinto dall’<<illecito>> in senso stretto. La distinzione è giustificata dal diverso regime della responsabilità che ne consegue.

Talvolta la distinzione viene formulata in termini di <<illecito contrattuale>> ed <<illecito extracontrattuale>>: così posta, però, essa non sembra appropriata, poiché dagli art. 1218 ss. c.c. risulta che il legislatore ha inteso unificare (solo negli aspetti più generali, s’intende) la disciplina dell’inadempimento delle obbligazioni, indipendentemente dal fatto che queste abbiano una fonte contrattuale o non contrattuale”24.

Il professionista, dunque, può compiere un “illecito” sia non osservando disposizioni legislative, regole di condotta od obblighi contrattuali – o, comunque, derivanti da un rapporto negoziale di fatto, sorto da un “contatto

24 Cfr. Trimarchi, sub voce “Illecito (dir. priv.)”, in Enciclopedia del diritto, vol. XX, Milano, 1970, pagg.

90 – 91.

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sociale” - assunti con il cliente, sia violando i diritti assoluti di questo di non subire pregiudizi all’onore, alla propria incolumità personale, all’integrità fisica e psichica ed al patrimonio; nel primo caso si tratta di responsabilità contrattuale, disciplinata dalle specifiche norme dettate in tema di contratto d’opera intellettuale, nel secondo di responsabilità extracontrattuale, regolata dalle leggi ordinarie civili (art. 2043 e segg. cod. civ.), oltre che da quelle penali per le fattispecie che possono essere qualificate come delitti.

E’ opportuno ricordare, inoltre, che la giurisprudenza25 e la dottrina sono concordi nell’affermare che, “per la sussistenza dell’inadempimento”, ovvero dell’illecito civile, “non è sufficiente il fatto oggettivo della mancata o incompleta esecuzione della prestazione, richiedendosi, altresì, che essa sia, quanto meno, imputabile all’obbligato a titolo di colpa”26.

3 – La colpa professionale nel c.d. “illecito civile”

Questo tipo di “illecito”, nel senso ampio avanti indicato, presuppone – in presenza di un contratto di prestazione professionale oltre che per le fattispecie di c.d. “contort”, innanzi ricordate - la commissione o l’omissione di un fatto materiale, l’antigiuridicità della condotta e, quindi, la colpevolezza del soggetto: in caso di accertato inadempimento, trovano applicazione, in linea generale, le norme che determinano le conseguenze giuridiche di questa fattispecie ed, in particolare, l’art. 1218 cod. civ. in tema di “responsabilità del debitore”27.

25 Cfr. Cass. civ., sez. lav., 17 maggio 2002, n. 7214; Cass. civ., sez. III, 10 settembre 1999, n. 9602;

Cass. civ., sez. II, 12 giugno 1987, n. 5143; Cass. civ., sez. II, 22 maggio 1986, n. 3408.

26 Cfr. Cantillo, Le obbligazioni, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, tomo II, Torino, 1992, pag. 744.

27 Cfr. Giacobbe G., Professioni intellettuali, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVI, Milano, 1987, pag.

1083.

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La disciplina specifica per il c.d. “illecito civile”, commesso nell’esercizio di un’attività professionale di natura contrattuale, è dettata dall’art. 1176, 2°

comma, cod. civ., il quale dispone che, “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”, oltre che dall’art. 2236 cod. civ., secondo cui, “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave”.

La ratio di questa ultima limitazione è stata indicata nella “Relazione del Ministro Guardasigilli al libro del Codice civile <<Del lavoro>>”, la quale ha sottolineato che “ci si trova di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso, e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista. Il codice ha ritenuto che il punto di equilibrio si trovi nell’applicazione delle normali regole di responsabilità, stabilendo, per i soli casi in cui ricorrono problemi tecnici di particolare difficoltà, la esenzione del professionista dalla responsabilità per colpa lieve”28.

Questi concetti sono stati espressamente valorizzati dalla Consulta, che – chiamata a giudicare sul preteso contrasto delle norme che sanzionano il reato di omicidio colposo e disciplinano l’elemento psicologico del reato con l’art. 3 cost., nella parte in cui consentono che nella valutazione della colpa professionale il giudice attribuisca rilevanza penale soltanto a gradi di colpa di tipo particolare –, dopo avere richiamato testualmente detta “relazione”, ha osservato che “solo la colpa grave e cioè quella derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principi elementari attinenti all’esercizio di una determinata attività professionale o propri di una data specializzazione, possa

28 Cfr. ivi, paragr. n. 110.

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nella indicata ipotesi rilevare ai fini della responsabilità penale.

Siffatta esenzione, o limitazione di responsabilità, d’altra parte, secondo la giurisprudenza e dottrina, non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti un minimo di prudenza e diligenza. Anzi, c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio non può che essere improntato a criteri di normale severità” 29.

Il Giudice delle leggi ha, poi, aggiunto che “il differente trattamento giuridico riservato al professionista la cui prestazione d’opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, e ad ogni altro agente che non si trovi nella stessa situazione, non può dirsi collegato puramente e semplicemente a condizioni (del soggetto) personali o sociali. La deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha in sé una adeguata ragione di essere e poi risulta ben contenuta, in quanto è operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti”.

In altre parole, la specifica disciplina dettata dall’art. 2236 cod. civ., rispetto a quella generale contenuta nell’art. 1176 cod. civ., va individuata, evidentemente, nell’esigenza di garantire al professionista – chiamato ad affrontare casi non comuni o fuori dell’ordinario – un margine di libertà e di creatività e di evitare che fattori e circostanze che sfuggono al suo pieno dominio od eventi imprevedibili possano essere a lui imputati per effetto del solo oggettivo inadempimento.

L’interprete si è posto il problema della relazione tra le due norme ora citate – ovvero se l’applicabilità dell’art. 2236 cod.civ. escluda o limiti il ricorso all’art. 1176, secondo comma, cod. civ. – ma è ormai pacifico, in dottrina e

29 Cfr. Corte cost., 28 novembre 1973, n. 166.

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giurisprudenza, che il rapporto è di integrazione per complementarietà e non già per specialità30.

Pertanto si ritiene comunemente che il professionista è responsabile dell’inadempimento anche per colpa lieve, salvo che la prestazione dedotta in contratto implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, in quanto in quest’ultimo caso egli è tenuto al risarcimento dei danni unicamente per dolo o per colpa grave31.

Questa non è la sede per una trattazione approfondita dei concetti di

“imputabilità” della condotta e, quindi, di “dolo” e di “colpa”, intorno ai quali sono stati scritti numerosi trattati, ma è sufficiente ricordare – con le parole di un’autorevole dottrina - che “è dolo l’intenzione di provocare l’evento dannoso, come l’intenzione di uccidere nell’omicidio volontario, l’intenzione di danneggiare le cose altrui nel danneggiamento volontario, l’intenzione di sottrarre clienti ad un imprenditore concorrente nella concorrenza sleale ecc. È, perciò, «fatto doloso» il comportamento assunto con l’intenzione di provocare, come conseguenza, il danno (esplodere un colpo di pistola per uccidere, appiccare il fuoco ad una casa per distruggerla, diffondere notizie false sull’impresa di un concorrente per allontanare la sua clientela). Di dolo si parla qui in senso diverso che nei vizi del consenso, dove dolo equivale ad inganno;

ma ci sono ipotesi nelle quali le due figure si sovrappongono: così nel caso di dolo incidente (art. 1440) consistente nei raggiri di un terzo (art. 1439, comma 2°), dove la responsabilità del terzo per i danni cagionati al contraente è responsabilità extracontrattuale.

È colpa la mancanza di diligenza, di prudenza, di perizia: l’evento dannoso non è voluto, ma è provocato per negligenza, imprudenza o imperizia. Il «fatto colposo» è, appunto, il comportamento negligente (il giornalista, ad esempio, diffonde una notizia che risulta diffamatoria senza preoccuparsi di controllarne

30 Cfr. Cass. civ., sez. III, 15 gennaio 2001, n. 499; Cass. civ., sez. III, 13 febbraio 1998, n. 1560; Cass.

civ., sez. II, 18 maggio 1988, n. 3463; Cass. civ., sez. II, 7 maggio 1988, n. 3389.

31 Cfr. Cass. civ., sez. II, 24 novembre 2003, n. 17871. Negli stessi sensi cfr. pure Cass. civ., sez. III, 4 novembre 2003, n. 15404; Cass. civ., sez. III, 4 novembre 2002, n. 15404.

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la veridicità) o imprudente (si uccide involontariamente una persona mentre si maneggia per gioco una pistola) o imperito (l’ingegnere sbaglia, per impreparazione, il calcolo del cemento armato e il ponte da lui costruito crolla, provocando la morte dei passanti).

La differenza fra dolo e colpa può apparire problematica quando il dolo assume il carattere del dolo eventuale o quando la colpa si configura come colpa cosciente. È dolo, sebbene dolo solo eventuale, l’atteggiamento psicologico di chi, pur non agendo per realizzare l’evento dannoso, si rappresenta il suo possibile verificarsi quale conseguenza della propria azione o omissione, come nel caso di chi, avendo sparato al solo scopo di intimidire, ugualmente ferisce qualcuno: la sua azione mira ad un obiettivo diverso (l’intimidazione), ma egli lo persegue anche a costo di provocare l’evento dannoso, del quale è chiamato a rispondere. È colpa cosciente, ma pur sempre colpa, l’atteggiamento di chi si comporta imprudentemente o negligentemente con la previsione (non con la semplice prevedibilità) del possibile evento dannoso, che confida di potere evitare, come nel caso del poliziotto che, confidando nelle sue qualità di tiratore scelto, spara sul malvivente, ma colpisce l’ostaggio”32.

L’affermazione della responsabilità presuppone necessariamente l’accertamento dell’elemento psicologico e, quindi, per dichiarare l’esistenza di un illecito civile, occorre verificare se l’azione o l’inazione sono state determinate coscientemente dal loro autore e, di conseguenza, che il fatto dannoso sia stato posto in essere con cattiva intenzione (dolo) oppure che esso dipenda da negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa).

Mentre l’elemento “dolo” non richiede, in questa sede, particolari approfondimenti, va ricordato, invece, che la “colpa”, in tema di responsabilità,

32 Cfr. Galgano, Diritto civile e commerciale, vol. II, tomo 2, Padova, 1990, pag. 303.

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è distinta dal legislatore, come già precisato, in “lieve” e “grave”, in conformità alla classificazione già esistente in diritto romano, che individuava la “culpa lata”, causata da “magna negligentia” – che Ulpiano insegnava essere il “non intellegere quod omnes intellegunt” - ed una “culpa levis”, per effetto di una mancanza di diligenza che osserva un qualunque “bonus paterfamilias”.

La colpa si può distinguere anche nella c.d. culpa in faciendo – se è costituita da un comportamento consapevole e volontario dell’agente, caratterizzato dalla commissione di atti – oppure nella c.d. culpa in non faciendo – se l’addebito è costituito dal non avere posto in essere una condotta dovuta -, come già precisato allorquando è stato accennato alla responsabilità da “contatto sociale”33.

L’adozione di questi concetti generici in tema di “colpa professionale”

richiede necessariamente un adattamento, poiché non è possibile, al riguardo, riferirsi alla figura ideale ed astratta di un anonimo “cittadino comune” o “uomo di strada”, ma occorre fare rinvio – ovviamente – ad un soggetto che eserciti la specifica attività della quale si tratta.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha precisato che “l’inadempimento del professionista … deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale ed in particolare al dovere di diligenza, il quale trova applicazione, in luogo del criterio tradizionale della diligenza del buon padre di famiglia, attraverso il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176 comma 2 c.c., …. commisurato alla natura dell’attività esercitata, sicché la diligenza che il professionista deve impiegare nello svolgimento della sua attività è quella media, cioè la diligenza posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione medie, a meno che la prestazione professionale

33 Cfr. paragr. 1.

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da eseguire in concreto non involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità del professionista è attenuta configurandosi, secondo l’espresso disposto dell’art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo o colpa grave”34.

Peraltro, ancora di recente, è possibile trovare nei repertori di giurisprudenza massime che fanno riferimento al tralatizio e generico criterio - valido per ogni tipo di obbligazione - secondo il quale “il professionista, nella prestazione dell’attività professionale, sia questa configurabile come adempimento di un’obbligazione di risultato o di mezzi, è obbligato, a norma dell’art. 1176 c.c., ad usare la diligenza del buon padre di famiglia; la violazione di tale dovere comporta inadempimento contrattuale, del quale il professionista è chiamato a rispondere anche per la colpa lieve (salvo che nel caso in cui, a norma dell’art. 2236 c.c., la prestazione dedotta in contratto implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà)”35.

In caso di inadempimento del professionista, dunque, si deve accertare se ciò sia dipeso da “colpa lieve” o “grave” e, di fatto, la prima può essere determinata per esclusione rispetto alla seconda: ovvero è “lieve” ciò che non è “grave”.

Al riguardo, va sottolineato che il concetto di “colpa grave” in campo professionale ha subito una evoluzione in senso progressivamente sempre più ampio, in modo da comprendere condotte sempre più comuni e diffuse: in principio, si riteneva che essa deriva “da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principi elementari attinenti all’esercizio di una determinata attività professionale o propri di una data specializzazione”36, oppure che essa

34 Cfr. Cass. civ., sez. II, 8 agosto 2000, n. 10431. Negli stessi sensi, cfr. pure Cass. civ., sez. II, 27 luglio 2000, n. 9877; Cass. civ., sez. III, 19 maggio 1999, n. 4852.

35 Cfr. Cass. civ., sez. II, 23 aprile 2002, n. 5928. Negli stessi sensi, cfr. pure, Cass. civ., sez. II, 4 novembre 2004, n. 21110.

36 Cfr. Corte cost., 28 novembre 1973, n. 166.

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comprende “sia gli errori che non sono scusabili per la loro grossolanità, sia le ignoranze incompatibili con il grado di addestramento o di preparazione che una data professione richiede o che la reputazione di un professionista dà motivo di ritenere esistenti, sia la temerarietà sperimentale e ogni altra imprudenza che dimostri superficialità e disinteresse per i beni primari che il cliente affida alle cure d’un prestatore d’opera intellettuale”37; successivamente si è ritenuto che la colpa grave richiamata dall’art. 2236 c. c. “si riscontra nell’errore inescusabile che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali che il medico deve essere sicuro di saper adoperare correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o diligenza che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria; per cui, dovendo la colpa professionale del medico essere valutata dal giudice con larghezza di vedute e comprensione, l’esclusione della colpa professionale trova un limite nella condotta del professionista incompatibile con il minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi in colui che sia abilitato all’esercizio della professione medica”38.

Di recente, poi, è stato affermato – sempre in tema di colpa medica - che

“la limitazione della responsabilità … alle sole ipotesi di dolo o colpa grave si applica unicamente ai casi che trascendono la preparazione media (Cass. 11 aprile 1995, n. 4152), ovvero perché la particolare complessità discende dal fatto che il caso non è stato ancora studiato a sufficienza, o non è stato ancora dibattuto con riferimento ai metodi da adottare (Cass. 12 agosto 1995, n.

8845)”39, oppure “quello che richiede notevole abilità, implica la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità e comporta un largo margine di rischi (v. per es. Cass. 16 novembre 1988, n. 6220; Cass. 26 marzo 1990, n.

37 Cfr. Cass. civ., sez. III, 21 aprile 1977, n. 1476.

38 Cfr. Cass. pen., 16 febbraio 1987, Patriarca, in Riv. Pen., 1988, 202.

39 Cfr. Cass. civ., sez. III, 4 novembre 2003, n. 16525.

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2428; Cass. 19 maggio 1999, n. 4852; Cass. 10 maggio 2000, n. 5945)”40.

In altre parole, - secondo questi ultimi orientamenti, che si allontanano dall’indicazione della Consulta, che aveva fatto riferimento a “criteri di normale severità”41 - perché possa essere esclusa la “colpa grave” sembra debba ritenersi necessario che il professionista si trovi ad affrontare un caso, i cui profili sono in una fase di studio iniziale o non ancora giunto a conclusioni definitive, oppure richiede l’uso di tecniche nuove o particolarmente impegnative.

In proposito, però, va osservato che il legislatore, nell’art. 2236 cod. civ., ha adoperato la formula “problemi tecnici di speciale difficoltà”, la relazione del Guardasigilli al codice civile ha fatto cenno a “problemi tecnici di particolare difficoltà”, mentre la sentenza n. 166/1973 della Corte costituzionale ha ripetuto la locuzione normativa ora richiamata.

L’aggettivo “speciale” sta a significare qualcosa di “non comune, fuori dell’ordinario, di genere particolare”42.

Se, dunque, “speciale” è il contrario di “comune”, si deve desumere che il legislatore – quando ha richiesto una “colpa grave” per affermare la responsabilità di un professionista che ha dovuto affrontare “problemi tecnici di speciale difficoltà” - ha inteso riferirsi a situazioni non comuni, non ordinarie, che possono evidenziarsi per fattori contingenti o specifici del singolo paziente, anche nell’ambito di patologie “studiate a sufficienza”, per le quali i “metodi da adottare” sono ormai definiti ed, in astratto od in teoria, non implicano “la soluzione di problemi tecnici nuovi o di speciale complessità”.

40 Cfr. Cass. civ., sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297.

41 Cfr. Corte Cost. n. 166/1973, cit..

42 Cfr. Vocabolario della lingua italiana, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1994, vol. IV, pag. 481.

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Non appare condivisibile, quindi, l’orientamento per il quale – per individuare le situazioni che consentono l’affermazione di responsabilità professionale del sanitario per una colpa grave – possa essere usato, quale unico parametro di valutazione, il solo grado di conoscenza che la scienza medica ha raggiunto in ordine ad una data malattia e di elaborazione dei rimedi per curarla, trascurando la specificità della singola vicenda; la pratica dimostra invece, che, anche in casi di patologie diffuse, sufficientemente studiate e trattabili con metodiche note, possono presentarsi all’improvviso complicanze – ovvero eventi imprevedibili, che determinano un mutamento del grado di difficoltà iniziale – le quali costituiscono quei “problemi tecnici di speciale difficoltà”, che devono essere risolti – nel corso di un intervento d’urgenza, preannunciatosi di routine - con immediatezza e non certo con la serenità e la calma di chi deve valutare ex post gli eventuali errori commessi dal sanitario43.

Se così non fosse, risulterebbe evidente, che, per non incorrere in colpa grave, non è più sufficiente – secondo l’indirizzo “rigorista” innanzi indicato - non commettere errori “ inescusabili” o “grossolani”, avere un “minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi in colui che sia abilitato all’esercizio” di una professione “protetta”, come si chiedeva un tempo, ma occorre un livello “notevole” di abilità, certamente superiore alla preparazione media rapportata al grado di conoscenza raggiunto dalla cultura tecnica della comunità che esercita la singola arte, oltre che si tratti di un caso nuovo o non sufficientemente studiato.

E’ opportuno sottolineare, inoltre, che le considerazioni ora esposte valgono – non solo in campo medico – anche in tema di responsabilità degli avvocati, se si considera che pure in questa professione si va affermando l’esigenza di specializzazione nei vari campi del diritto, resa necessaria dalle

43 Cfr., al riguardo, Cass.pen., sez. IV, 29 settembre 1997, n. 1693, la quale ha sottolineato che l’errore del medico, in particolari contingenze, è “predicabile solo a situazione definita”.

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sempre maggiori difficoltà che connotano le funzioni consultive e difensive, derivanti dall’incontestabile, patologica, crescita di una continua produzione normativa, a volte di non facile lettura, se non addirittura contraddittoria, confluente in interpretazioni non sempre univoche. Questo fenomeno ha raggiunto dimensioni tali che la Corte costituzionale ha vulnerato il fondamentale principio dettato dall’art. 5 del cod. pen., dichiarandone l’illegittimità, nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile44. Né può essere trascurato l’altro, non meno determinante profilo della proliferazione delle decadenze processuali – particolarmente nel riformato rito civile - sancite dal legislatore nell’illusoria, quanto errata, finalità di accelerare la definizione dei giudizi, pur se in danno dei diritti sostanziali dei contendenti.

In ogni caso, qualunque sia la tesi che si accetta, si può sostenere che, se ad un professionista venga richiesta una prestazione che presuppone livelli culturali tecnici superiori a quelli posseduti, egli deve o rifiutare l’incarico o chiedere di essere affiancato da altro collega più esperto45.

E’ stato già da tempo precisato che, “sebbene la prestazione d’opera professionale si risolva in prestazione di mezzi, e non di risultato, tuttavia in situazioni involgenti l’impiego di specifiche e squisite nozioni tecniche il professionista deve porre in essere i mezzi concettuali ed operativi che, in vista dell’opera da realizzare, appaiono idonei ad assicurare quel risultato che il committente e preponente si ripromette dall’esatto e corretto adempimento dell’incarico, con la conseguente valutazione del suo comportamento alla stregua della diligentia quam in concreto”46.

44 Cfr. Corte Cost., 24 marzo 1988, n. 364.

45 Cfr. Cass. civ., sez. III, 8 luglio 2004, n. 12273; in dottrina, cfr. pure Ricciardi, Lineamenti dell’ordinamento professionale forense, Milano, 1990, pagg. 484 – 486; Macrì, La responsabilità professionale, in Ibba - Latella - Piras - De Angelis - Macrì, Le professioni intellettuali, in Giur. sist.

civ. e comm., fondata da Bigiavi, Torino, 1987, 237)

46 Cfr. Cass. civ., sez. II, 21 giugno 1983, n. 4245.

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Pertanto è stato affermato che “non possono … mai difettare, neppure nei casi di particolare difficoltà, nel medico, gli obblighi di diligenza del professionista, che è un debitore qualificato, ai sensi dell’articolo 1176, comma 2, del c.c. e di prudenza che, pertanto, pure nei casi di particolare difficoltà risponde anche per colpa lieve. Il medico, in particolare, da un lato deve valutare con grande prudenza e scrupolo i limiti della propria adeguatezza professionale, ricorrendo anche all’ausilio di un consulto se la situazione non è così urgente da sconsigliarlo, dall’altro, deve adottare tutte le possibili misure volte a ovviare alle carenze strutturali e organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell’intervento, ovvero, ove ciò non sia possibile, deve informare il paziente, consigliandogli, se manca l’urgenza di intervenire, il ricovero in una struttura più idonea”47.

I criteri innanzi indicati, da utilizzare al fine di individuare il grado di colpa del professionista, però, sono costituiti da formule astratte, che impongono all’interprete di ricercare il loro concreto contenuto, alla luce del progredire dei tempi ed, in particolare, della scienza e della tecnica alle quali il soggetto deve fare ricorso per un corretto esercizio della sua attività.

4 – La diligenza del professionista in generale e nei codici deontologici

Per valutare le modalità di esecuzione di una prestazione d’opera intellettuale, al fine di accertarne eventuali carenze, occorre fare riferimento, come già osservato, sempre al livello di diligenza di una figura astratta, ma certamente più delineata rispetto a quella molto generica del “buon padre di famiglia”.

47 Cfr. Cass. civ. sez. III, 5 luglio 2004, n. 12273.

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Il prestatore d’opera intellettuale, quindi, è tenuto ad osservare, nello svolgimento della sua attività, la diligenza media di un “regolato ed accorto professionista”, dotato di “una preparazione professionale media e un’attenzione media”: si tratta della c.d. “diligentia in abstracto”, quale criterio oggettivo e generale, rilevante sia come criterio di determinazione del contenuto dell’obbligazione, sia come parametro di imputazione del mancato adempimento, mentre si deve ritenere estranea alla volontà di legge la correlazione alla “diligentia quam suis”, ovvero quella normalmente adottata dallo specifico professionista della cui condotta si deve giudicare.

Il vocabolo “diligenza”, al pari di altri – quali, in particolare, quelli ricorrenti nella normativa deontologica –, esprime un concetto il cui ambito e il cui contenuto sono molto incerti, giacché è molto raro che il legislatore faccia riferimento a parole dal significato assolutamente determinato, come, ad esempio, i concetti numerici.

Ad esempio, proprio la suddetta parola, sta a significare – in genere – la

“cura attenta e scrupolosa, premurosa esattezza nell’operare” e – nelle norme giuridiche – la “cura che il soggetto passivo dell’obbligazione deve porre per l’esatto adempimento del suo obbligo”48.

Si tratta, come è evidente, in ogni modo, di definizioni teoriche e generiche – ovvero di contenitori vuoti -, che attraverso l’uso di parole dotate di un centro semantico indeterminato particolarmente ampio, fanno riferimento a concetti astratti, da definire caso per caso; le norme giuridiche, tecniche o deontologiche, infatti, non possono essere sempre specifiche, anche perché una precisa “tipizzazione” è difficile – se non impossibile – attese la molteplicità e peculiarità dei casi che dovrebbero essere previsti.

48 Cfr. Vocabolario della lingua italiana, dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1987, vol. II, pag. 99.

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I rapporti umani, per quanto catalogabili, possono avere sempre profili diversi e, pertanto, per potere giudicare la condotta del prestatore d’opera intellettuale è necessario tenere conto non solo delle specificità tecniche e morali di ciascuna professione, ma pure del tempo e delle circostanze nelle quali si è realizzata, onde, anche per consentire all’interprete di adeguare le proprie valutazioni all’evoluzione dei principi, sono adoperati, talvolta, vocaboli che conferiscono all’operatore una sorta di mandato in bianco.

L’art. 1176, 2° comma, cod. civ., utilizzando la parola “diligenza”, quindi, ha fatto ricorso ad uno strumento analogo agli “standard” dei sistemi di common law, od alle “clausole generali” del nostro e di altri ordinamenti di civil law49 ed, attraverso vocaboli di contenuto indefinito, ha operato un rinvio ad una “tavola di valori”, condivisa nella comunità dei consociati, in modo da permettere all’interprete di fare riferimento a parametri di valutazione non espressi con parole dal significato determinato e, quindi, cristallizzato sub specie aeternitatis, ma adeguabile progressivamente con il mutare dei tempi e dei costumi.

La parola “diligenza”, al pari della locuzione “colpa grave”, in relazione all’attività professionale, dunque, costituisce un “contenitore vuoto”, che deve essere riempito attraverso ulteriori specificazione ed a tale scopo è stata distinta una diligentia diligentis, disciplinata dall’art. 1176, secondo comma, cod. civ., ed una più specifica “diligenza-perizia”, alla quale fare riferimento ai fini della limitazione della responsabilità sancita dall’art. 2236 cod. civ..

Al riguardo, la dottrina ha rilevato che “sul piano concettuale … le due nozioni non coincidono: la perizia indica il possesso di nozioni tecniche

49 Cfr. Falzea, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Riv. dir. civ., 1987, I, 1. Cfr. anche A.

Guarneri, sub voce “Clausole generali”in “Digesto delle discipline privatistiche, Sez. civ.”, vol. II, Torino, 1988, pag. 403, il quale fa un’ampia ricostruzione dell’uso di tale tecnica legislativa nel diritto positivo italiano.

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acquisite con lo studio e l’esperienza, di cui il professionista è capace di avvalersi quando la situazione lo richieda; la diligenza, invece, esprime la misura dell’impegno che il professionista deve porre nello svolgimento dell’attività, così da esplicare la propria capacità professionale nel modo più adeguato alla situazione concreta, cioè con la cura, lo zelo, l’attenzione, ecc., richiesti nel caso. … un professionista dotato di grande competenza tecnica può talvolta comportarsi in modo negligente e, viceversa, un professionista di media capacità può essere molto diligente. ….

Mentre la diligentia diligentis deve essere valutata secondo il criterio generale dell’art. 1176, comma 2, c.c., il quale impone in tutti i casi l’uso della diligenza scrupolosa richiesta dalla concreta prestazione, quindi anche nei casi particolarmente difficili, nei quali, anzi, l’impegno deve essere più intenso, la diligenza-perizia va valutata con minor rigore tutte le volte in cui il problema tecnico rivesta speciali difficoltà, delle quali occorre tener conto, quindi, nell’apprezzare l’idoneità della scelta dei mezzi tecnici utilizzati nel caso concreto dal professionista, al quale non può farsi carico «della mancanza di una perizia superiore alla perizia minima ed eccezionale nella sua categoria professionale»”50.

A sua volta, il Giudice di legittimità si è posto il problema della necessità di avere parametri oggettivi di riferimento per la valutazione della condotta del professionista nelle fattispecie da giudicare ed ha precisato – in tema di responsabilità professionale di un sanitario, ma il principio è valido anche per le altre professioni intellettuali – che “il medico-chirurgo nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale è tenuto ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall’art. 1176, comma 1, c.c. ma è quella specifica del debitore qualificato, come indicato dall’art. 1176, comma 2, c.c. la quale comporta il rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della

50 Cfr. Cantillo, Le obbligazioni, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e commerciale, tomo II, Torino, 1992, pag. 561-563 e l’ampia bibliografia ivi citata.

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