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Racconti a confronto

Nel documento 一念岩をも通す (pagine 168-200)

1. Come raccontare gli esseri umani

Che siano abitanti del futuro, della campagna, soldati o scienziati, gli esseri umani sono al centro della produzione scrittoria di Fenoglio e Levi.

Come già evidenziato, infatti, essi rappresentano quasi sempre il punto focale della narrazione attraverso il quale comprendere la vicenda ed i suoi significati. Ciò non indica, però, che essi siano sempre i protagonisti privilegiati dei racconti (si pensi a I ventitré giorni della città di Alba in cui è lo scontro ad essere il vero centro della rappresentazione o i racconti animali di Levi) ma che grazie o a causa di essi si creino racconti umani, ossia pieni dell’umano sentire per quando riguarda valori, vizi e comportamenti.

Facendosi tematica, quindi, l’uomo porta con sé sulla pagina le proprie contraddizioni che non vengono taciute ma sottolineate. Sembra quasi che siano proprio esse la chiave di lettura dei racconti fenogliani e leviani: la visione manichea della vita è rifiutata per fare posto alle difficoltà, ai dubbi e agli errori che, una volta compiuta una scelta, il singolo e la collettività devono per forza affrontare. Gli sbagli e i problemi, oltretutto, vengono mostrati come appartenenti a due categorie, ovvero sia storici ed intrinsechi alla società sia sovrastorici e, di conseguenza, biologici e naturali. I racconti, con la loro lente, vanno a scavare proprio in questi insiemi, cercando risposte che sia Levi sia Fenoglio vorrebbero ardentemente ma che, conoscendo gli umani e riconoscendosi umani, sanno di non poter sempre trovare.

Scrivere racconti umani, per questi motivi, significa comprendere (ma non accettare senza riserve) gli sbagli dell’umanità e per farlo vengono utilizzati dei personaggi e delle vicende che fungono da specchio. Sia i protagonisti sia – e soprattutto – il lettore e l’autore vengono messi davanti a figure che per somiglianza o differenza insegnano loro cosa significa essere uomini.

Umanità, pertanto, come si osserverà nella trattazione successiva, è riscontrabile anche nei rapporti e negli scambi (che siano di natura fattuale o dialogica), in creature che per storia o conformazione non vengono viste come dotate di essa, nella vita di tutti i giorni e negli eventi spettacolari ed eccezionali.

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1.1 La connessione umana

I racconti di Levi e Fenoglio, per quanto si concentrino molto sul singolo, non prevedono mai che esso si ritagli la propria storia senza l’insorgenza di altre figure che, amiche, antagoniste o semplici spettatrici, contribuiscono in larga parte alla ricerca del senso umano e universale all’interno del particolare. Lo scambio fra personaggi, quindi, rappresenta la necessaria connessione umana che è il motore primario delle vicende. Sia nell’ambiente di guerra sia nella società futuristica o naturale – grandi pilastri dei due autori – senza il confronto con gli altri la strutturazione stessa dei racconti non avrebbe ragione di esistere proprio perché essa è interamente votata al giudizio sull’uomo che può avvenire solo in presenza dei suoi valori e dei suoi difetti.

Fra i racconti di Levi l’esempio più lampante è sicuramente Oro de Il sistema periodico che, seppur diviso in tre parti ambientalmente diverse, è tenuto insieme tematicamente proprio dal rapporto, stretto, casuale o solamente ideale, che Levi crea con gli altri personaggi.

Nella prima parte, infatti, attraverso i suoi amici coetanei egli riesce a comprendere, agli albori della guerra, la propria incoscienza su ciò che stava accadendo e, una volta scoperti, ammira (anche se non ha potuto studiarli affondo fino ad introiettarli subitamente) gli ideali degli “eroi” che affollano i discorsi dei maestri.

Dopo lo spazio bianco, sono tre i momenti del confronto: la differenza fra chi resta e chi tradisce, il comportamento di Levi una volta catturato e il suo giudizio sui due carcerieri fascisti. Se per quanto riguarda i traditori ciò che si evince è soprattutto lo sconforto di chi è stato tradito (<<Mi rincresce per i miei cromosomi>>360 è la frase pronunciata da Aldo), essi sono fondamentali a capire ciò che decide di fare Levi poco più tardi:

Durante la marcia, che si protrasse per diverse ore, riuscii a fare due cose che mi stavano a cuore: mangiai pezzo per pezzo la carta d’identità troppo falsa che avevo nel portafoglio (la fotografia era particolarmente disgustosa), e, fingendo d’incespicare, infilai nella neve l’agenda piena d’indirizzi che tenevo in tasca. I militi cantavano fiere canzoni di guerra, sparavano col mitra alle lepri, buttavano bombe nel torrente per uccidere le trote. Giù a valle ci aspettavano diversi autobus. Ci fecero salire, sedere separati, ed io avevo militi tutto intorno, seduti ed in piedi, che non badavano a noi e continuavano a cantare. Uno,

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proprio davanti a me, mi voltava la schiena, e dalla cintura gli pendeva una bomba a mano di quelle tedesche, col manico di legno, che scoppiano a tempo: avrei potuto benissimo levare la sicura, tirare la funicella e farla finita insieme con diversi di loro, ma non ne ebbi il coraggio361.

Egli, infatti, proprio grazie al contatto con chi ha uno spirito molto diverso dal suo che lo spinge ad avere reazioni completamente diverse, nasconde i nomi dei propri conoscenti, gesto che, se scoperto, poteva portarlo alla morte immediata. Tramite la sua scelta, pertanto, nasce sia una connessione con chi è diverso (e in errore) rispetto a lui e sia con chi, pur senza saperlo, è stato salvato da questo piccolo, ma importantissimo, atto. Altra azione leviana, questa volta incompiuta, da notare è, poi, quella di prendere la bomba a mano del soldato per ucciderlo e, al contempo, uccidersi e liberarsi. Egli, però, riconoscendo l’umano anche nel suo carnefice, non riesce a decidere negativamente della vita degli altri. Questo non-gesto, in aggiunta, si collega all’unica figura non umana del racconto, presente nel terzo paragrafo: essa è rappresentata da un topolino col quale Levi si identifica per la stessa sorte di recluso e verso il quale, proprio per questa compartecipazione, non commette violenza, sebbene esso gli rubi di notte l’unica fonte di sostentamento.

Tornando ancora al secondo paragrafo, però, più imponenti risultano essere le figure dei due fascisti verso i quali, tuttavia, proprio perché Levi non riceve il medesimo trattamento da entrambi, viene fatto un distinguo. La colpa di Fossa, infatti, non è uguale a quella di Cagni, seppur sempre grave: egli non perde i suoi tratti di umanità, più per pigrizia che per indole, e non usa la violenza di Cagni negli interrogatori. Se, invero, il primo compie del male in modo banale, per obbedire agli ordini da buon soldato, il secondo rappresenta appieno il vizio dell’ideologia fascista violenta e disonesta.

Infine, nella terza parte, ancora una volta è il contatto con l’altro a segnare differenze valoriali e, soprattutto, a mostrare la via degli ideali leviani. Sempre nel novero dei soldati fascisti, il nuovo milite che si presenta al narratore appare gentile ma solo perché il mestiere di Levi viene ritenuto “rispettabile”: << […] lo sbirro era proprio quello che mi aveva picchiato al momento della cattura, ma quando aveva saputo che io ero un <<dottore>> mi aveva chiesto scusa: l’Italia è uno strano paese>>362. Pur non

361 Ivi, p.482 362 Ivi, p.485

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scambiandosi battute sull’argomento, quindi, il milite si collega, tramite Levi, al cercatore d’oro, personaggio più importante dello scritto e da cui dipende il titolo, proprio per la differente visione che ha sul proprio lavoro, per lui fonte di libertà e dignità anche se non rispettabile.

Si può, pertanto, concludere che, nonostante la materia prima di Levi sia autobiografica e, di conseguenza, reale, egli strutturi i comportamenti e le azioni dei personaggi in modo tale che tutti siano connessi ed uniti via via nelle tematiche e così, più universalmente, rappresentino varie sfaccettature sui fenomeni morali ed umani che rappresentano. Un accorgimento simile, seppur visto alla luce di tutti i racconti di guerra da lui scritti, è quello che prende Fenoglio nell’ultimo baluardo, secondo la ricostruzione di Bufano, delle imprese partigiane. In L’erba brilla al sole la maggior parte dei soldati descritti in altre avventure, ritorna e, proprio alla luce di ciò che hanno compiuto e dell’unione creatasi fra di loro, danno vita ad un’impresa finale ove i loro valori di solidarietà, cameratismo e libertà vengono messi alla luce, nonostante la violenza e il finale tragico che attende loro.

Dopo una scena iniziale in cui, come in molti racconti partigiani, i militi hanno vengono in contatto con i civili – in questo frangente un contadino – e, pertanto, viene mostrato di sfuggita come la guerra sia vissuta personalmente anche da quest’ultimi, i ragazzi di Sceriffo si ritrovano nella guerriglia e la loro sorte dipende presto dai gesti degli altri. È da sottolineare, in aggiunta, come anche in questo caso il racconto sia diviso in due parti da uno spazio bianco e che queste siano unite non tanto dalle parole del narratore quanto dalla figura di Matè che, proprio grazie al rapporto con gli altri, manifesta il suo spirito empatico e mai inadempiente verso gli altri, siano essi visti come compagni o semplicemente esseri umani.

Così, grazie a Leo e Sceriffo, impavidi, individualisti e forse supponenti, viene mostrata nella prima parte, al contrario, la sua attenzione verso il prossimo. Ciò risulta ancora più evidente nel momento del confronto con la loro morte:

Poi Maté sentì il fragore dei camions che arrivavano a soccorrere la retroguardia. Capì che per Leo era finita e che a lui conveniva spicciarsi. Scoppiò una prima mortaiata. Dopo sei sventole tacquero anche i mortai. Gilera aveva sentito quanto lui ed anche meglio, ma non sembrava allarmato, non fece commenti.

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[…] Sboccarono sullo stradone e Maté notò subito che il cadavere di Sceriffo era stato ribaltato nel fosso. Quello di Smith rimaneva sulla montagnola. Il fascista morto sulla strada più a monte era già stato rimosso […], Maté smontò dal carro e si mise al passo coi soldati che l’avevano catturato363.

In entrambi i casi, seppur in pericolo, egli si sofferma a pensare o guardare i suoi camerati, dimenticandosi per un attimo di se stesso e facendosi trasportare dal sentimento di compassione e coinvolgimento nei loro confronti. Non manca, oltretutto, di ricordarsi anche del soldato nemico per via del senso di tragicità che unisce tutti nella morte. È, però, la figura di Gilera ferito, nella seconda parte, a mostrare la “scorza dura” dei suoi valori. Egli, pur sapendo che un uomo ferito è spacciato, decide di portarsi Gilera in spalla e, nonostante la cattura per colpa del peso di quest’ultimo, il ragazzo decide di non passare dalla parte del carnefice sacrificandosi per i suoi:

Venne loro incontro un sottotenente e ordinò al sergente di dirigere il carretto al primo camion e trasbordarci il ferito. – E requisisci un materasso per stendercelo.

– Sentito? – bisbigliò Maté. – Non ti fucilano, ti curano. Ciao, Gilera. – Tu dove vai? – gemette il ragazzo.

– Questo grande viene con me, – disse il sottotenente. – Vieni con me. Il nostro comandante ti vuole vedere e parlare.

[…] – Si è visto quello che hai fatto e lo si è apprezzato. Molto. Sei un ragazzo in gamba. Guai a noi se fossero tutti come te.

[…] – Ascoltami, – disse il maggiore. – A me ripugna togliere dal mondo i veri soldati. Sono così scarsi ormai, in Italia, i veri soldati. Ci sarebbe una via. Ne ho già parlato coi miei ufficiali. Ascoltami bene. Passa dalla nostra parte, vesti la nostra divisa e la tua vita è salva.

[…] – Oh! – Scattò il maggiore. – Ti consiglio di riflettere. L’altra alternativa, sai qual è. Passa con noi.

– No, – rispose Maté. – Non stiamo nemmeno a parlarne.

– Perché? – sbottò uno dei due tenenti. – Hai paura di impestarti a passare con noi? Cosa credi che sia il nostro esercito? I banditi, i delinquenti siete voi!

Maté non tolse mai gli occhi dal maggiore. – Non posso cambiare, – ripeté.

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[…] – Voglio prima farti vedere una cosa, – disse il capitano, e mentre andavano: – Hai notato, partigiano, che i nostri morti noi li ricuperiamo sempre, mentre voi i vostri li abbandonate sempre?

– Sì, ma questo non significa niente, – disse Maté. – I nostri morti non se la prendono per così poco364.

Attraverso la sua figura di solidarietà e comunanza, unita all’ideologia di libertà partigiana, si capisce allora il perché di una delle sue ultime affermazioni: chi ha, infatti, avuto rispetto degli altri e di se stesso, dei propri valori e della propria integrità, non ha bisogno di seppellire i morti perché è stato presente per loro fino al loro ultimo istante di vita.

La connessione si configura, tuttavia, anche attraverso strumenti interni al racconto stesso. Il più semplice è, probabilmente, il già citato espediente del dialogo che mette gli uomini a confronto diretto, senza mediazione data dal narrato. Per esempio, entrambi gli autori si avvalgono di esso per spiegare la vita umana e quanto in essa il caso e il caos siano fondamentali per determinarla.

Per quanto distanti per i loro figuranti e per l’ambiente di svolgimento della vicenda, infatti, le parti dialogate de Il sesto giorno di Levi e de Un altro muro possono essere messe sullo stesso piano.

Nel primo, l’interminabile discussione fra figure extra-umane non porta da nessuna parte poiché la creazione della vita umana avviene per pura accidentalità: una nascita al di là di qualsiasi possibile speculazione è ciò che, infatti, ha atteso la razza umana ed è ciò che anche ogni suo singolo membro sperimenta. Specularmente, invece, Fenoglio sceglie di rendere inutile il lunghissimo dialogo fra prigionieri sulla propria morte proprio perché è il caso fortuito a liberare Max solo perché, essendo badogliano, può essere aiutato dai preti. La vita e la morte, pertanto, risultano essere inafferrabili e impossibili da discutere a priori, ma solo giudicate una volta che l’azione si è svolta pienamente.

Il dialogo, però, non sempre avviene a parole. È il caso della vicenda de Il cantore e il veterano ove sono i gesti di Ezra a congiungere lui, i <<sommersi>> e, soprattutto, Otto. Attraverso la richiesta di aiuto nel tenere da parte la gamella, infatti, Otto, da capobaracca tedesco, entra nell’ottica del sacrificio della cultura ebraica e scopre un valore differente ed umano che, a modo suo, entra a far parte di lui: è la solidarietà che, come è rivista da

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Ezra per i suoi antenati e compagni nel rispetto del digiuno del Kippur, così in Otto nasce nel conservare la zuppa di uno che, pur diverso, vive la stessa condizione di internato e, pertanto, non è del tutto lontano ed estraneo. Otto è, oltretutto, metaforicamente rappresentazione del lettore che, pur non potendo vivere sulla sua pelle ciò che prova Ezra, comprende, accetta e asseconda il suo comportamento riuscendo così a “scavare” nel senso.

Similmente Fenoglio crea un racconto come L’odore della morte ove fra i due protagonisti non corre neanche una parola:

Lui ansava, e non vide l’uomo che il ferroviere vide passar chino sotto le sbarre e farsi sotto a Carlo alle spalle. Ma non lo prese a tradimento, facendogli intorno un mezzo giro gli venne davanti e gli artigliò con dita ossute i bicipiti, tutto questo senza dire una parola. In quel momento Carlo sapeva di lui nient’altro che si chiamava Attilio, che era stato soldato in Grecia e poi prigioniero in Germania, e la gente diceva che era tornato tisico.

[…] Attilio che l’aveva assalito non lo guardava in faccia, anzi aveva abbattuto la testa sul petto di Carlo e i suoi capelli gli spazzolavano il mento.

[…] Aveva già capito perché Attilio l’aveva affrontato così, e lo strano è che la cosa non gli sembrava affatto assurda e bestiale, Carlo lo capiva Attilio mentre cercava di spezzargli le braccia.

Adesso Attilio aveva rialzata la testa e la teneva arrovesciata all’indietro, Carlo gli vedeva le palpebre sigillate, gli zigomi puntuti e lucenti come spalmati di cera, e la bocca spalancata a lasciar uscire l’odore della morte.

[…] Carlo non si mosse a tirarlo su, a metterlo seduto contro il muro dell’officina del gas, perché non poteva risentirgli l’odore. Quando fu tutto per terra, si dimenticò che l’aveva capito e aprì la bocca per gridargli: «Che cristo ti ha preso?» ma si ricordò in tempo che l’aveva capito e richiuse la bocca.

[…] – Io? Io gli ho sentito l’odore della morte, – gli rispose Carlo e quello tirò indietro la testa per guardarlo bene in faccia, ma poi dovette voltarsi a rispondere – Presente! – al collocatore che aveva incominciato l’appello. La sua lotta con Attilio la risognò venti notti dopo e la mattina, mentre andava ancora e sempre all’ufficio di collocamento, si voltò verso un muro della strada per sfregarvi un fiammifero da cucina perché non aveva più soldi da comprarsi i cerini, e vide il nome di Attilio in grosse lettere nere su di un manifesto mortuario365.

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<<L’odore di morte>> e la colluttazione che scaturisce dalla disperazione di Attilio sembrano sufficienti a Carlo per capire il messaggio profondo che il primo vuole inviargli. Se la causa apparente della lotta sembra lo scambio di persona (Carlo segue una ragazza che si scoprirà essere la fidanzata di Attilio), in realtà Attilio non è figura dell’amante geloso ma l’ombra presaga del destino che attende a chi va in guerra. In un’ottica che ricorda molto anche La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, attraverso i sensi del tatto, della vista e metaforicamente dell’olfatto, si crea un contatto fra il povero disgraziato e il giovane malcapitato. Carlo, infatti, capisce senza bisogno di parlare cosa ha provato Attilio durante la guerra. Le mani che cercano di picchiare Carlo mandano un segnale al di là della percezione fisica: esse vogliono inconsciamente toccare nel profondo il giovane per cercare di condividere l’orrore che loro stesse hanno dovuto sopportare. La connessione umana è, quindi, salda e forte, penetra in Carlo per far rimanere un pezzo di Attilio dentro di lui. Il protagonista, di conseguenza, non riesce a raccontare e a descrive sulla pagina ciò che ha capito ma fa intendere perfettamente al lettore, che diviene suo corrispettivo, la sensazione de <<l’odore di morte>> ripetendola assillantemente e, così facendo, trasporta l’angoscia propria e di Attilio nel suo narrare. Un altro esempio è quello proposto da Levi in Forza Maggiore, racconto presente nella raccolta L’ultimo Natale di guerra. In questo caso il protagonista letterato M. si ritrova in una situazione molto simile a quella di Fra’ Cristoforo de I promessi sposi, in quanto lui e quello che per puro caso diventerà il suo rivale occupano lo stesso spazio su una strada e nessuno dei due decide di spostarsi. Esattamente come il personaggio manzoniano, anche M. cambierà completamente a causa di questa esperienza che, nel suo caso, avviene tutta in assenza di dialogo. Il “rivale” marinaio, infatti, ha come unica reazione alla presenza di M. quella di iniziare a malmenarlo e a picchiarlo senza dare spiegazione alcuna del suo gesto, finendo a camminare letteralmente sul suo corpo quasi fosse una asse per essere gettati in mare. Ciò che M. comprende dal gesto assurdo e inconcepibile del marinaio è una legge di vita in cui, senza che vi siano giuste cause, qualcuno si ritrova vittima ed altri carnefici per colpa di un mondo che, sotto le illusioni, è basato sulla violenza. Lo stato di vittima, oltretutto, come si rende conto il protagonista, non serve proprio a niente poiché la violenza subita è così indelebile che non può essere cancellata dalla compassione altrui, soprattutto perché la maggior parte della vittime è irrimediabilmente sola:

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M., che aveva vissuto fino allora una vita normale, cosparsa di gioie, noie e dolori, di successi e insuccessi, percepì un sensazione che non aveva mai provata prima, quella della sopraffazione, della forza maggiore, dell’impotenza assoluta, senza scampo e senza rimedio, a cui non si può reagire se non con la sottomissione. O con la morte: ma aveva senso morire per il passaggio in un vicolo?

[…] M. si rialzò, si rimise gli occhiali e si rassettò gli abiti. Fece un rapido inventario:

Nel documento 一念岩をも通す (pagine 168-200)

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