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Accademia Nazionale dei Lincei, Roma

1 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, II (Supple-menti al III libro), cap. 38 (Sulla storia), trad. ital., Bari 1930, 537-546 (da Die Welt als Wille und Vorstellung, Leipzig 18442, la prima ediz. ted. ad avere i Sup-plementi).

2LUCIUSANNAEUSSENECA, Naturales Quaestiones, III, Praef., 7: “Quanto sa-tius est quid faciendum sit quam quid factum quaerere”.

Durante l’età romana e bizantina – di cui mi occuperò principal-mente in questa sede – tali oggetti furono presi in alta considerazione come talismani (assieme ad altri pignora imperii che dal cielo non erano caduti affatto3), atti a garantire la sopravvivenza di un’entità statale che fin dalle origini si era profilata come unitaria, anche se non ancora

‘mondiale’ come sarebbe avvenuto in seguito. E il fatto di essere ‘ogget-ti cadu‘ogget-ti dal cielo’ si spiega semplicemente con la loro an‘ogget-tichità, che aveva fatto smarrire la nozione della loro origine storica: tali furono, in particolare, le caratteristiche sia dell’ancile (scudo) al tempo leggenda-rio di Numa, sia del Palladio o simulacro arcaico di Pallade Atena (quanto meno nella sua interpretazione romana). Si tratta dei due casi senz’altro più celebri e a noi meglio testimoniati in numerose varianti.

Un aspetto comune a entrambi (e che sembra trovare pochi riscontri in altre religioni al di fuori del paganesimo e del cristianesimo, per ra-gioni diverse ma comprensibili) fu l’esistenza di numerose copie identi-che, onde evitare sottrazioni sacrileghe, consentendo nel contempo di poter sempre mettere in dubbio eventuali traslazioni di oggetti che si le-gavano alla sopravvivenza stessa dell’imperium e proprio per questo considerati segni del consenso divino4.

Nel cristianesimo, così come presso altre religioni, le ‘Sacre Impron-te’ rivestirono significati e finalità differenti: teologici innanzi tutto (con formulazioni diverse a seconda dei contesti), che la pubblica auto-rità concorse tutt’al più a garantire, pur non avendo partecipato alla lo-ro ‘invenzione’ (inventio). E questo era evidentemente frutto di

situazio-3Sette, enumerati anche dal SERVIUSAUCTUS(o DANIELINUS), Ad Vergilii Ae-neidem, VII,18, in G. THILO - H. HAGEN(edd.), Servii grammatici qui feruntur in Vergilii Carmina Commentarii, Leipzig 1884 (rist. anast. Hildesheim 1961), II, 141; A. PELLIZZARI, Servio. Storia, cultura e istituzioni nell’opera di un grammatico tardoantico, Firenze 2003, 51-52, n. 90: “†aius matris deum, quadriga fictilis Veientanorum, cineres Orestis, sceptrum Priami, velum Ilionae, palladium, anci-lia”; sul Servio Danielino più in generale vd. ibid., 12-15, con bibliografia.

4Per il paganesimo vd. oltre (esistettero ovviamente anche altri oggetti creduti

‘caduti dal cielo’ per via dello loro alta antichità: tale venne ritenuto ad esempio il simulacro di Artemide a Efeso, il cui culto, assimilato con quello della Gran Ma-dre, risaliva almeno all’VIIIsecolo a.C., allorché venne eretto il primo tempio – al suo carattere «celeste» accennano Acta Apostolorum 19,35 –; ma esso ebbe un va-lore soprattutto religioso e regionale). Per il cristianesimo si conoscono due copie del mandilion di Edessa nel IXsecolo, sempre in Oriente: vd. B. FLUSIN, L’image d’Édesse, Romain et Constantin, in questa stessa sede.

ni capovolte rispetto alla precedente fase romana (meno, forse, rispetto al periodo greco arcaico, per quanto è dato saperne; e pour cause), al-lorché per la prima volta si era verificata la convergenza tra portentum (evento di per sé religioso) e vocazione politica ‘ecumenica’. Le entità statali in cui il fenomeno religioso in seguito si inscrisse furono invece sempre meno forti e unitarie delle Chiese che via via se ne eressero a cu-stodi. Caso mai – ma non è certo mio compito occuparmene qui – sa-rebbe interessante investigare le ragioni a monte del comparire, persi-stere ovvero scomparire di queste devozioni in determinati periodi sto-rici e non in altri: è per esempio significativa, nel cristianesimo, la com-parsa d’immagini ‘acheropite’ non solo in contesti iconoduli, ma anche per un rilancio del culto di Cristo attraverso mandilia, Veroniche, Sin-doni, a fronte di una devozione mariana sempre più forte.

Ma torniamo all’ancile e al Palladio, ossia ai due pignora imperii che, in età pagana antica e tardoantica, ebbero entrambi valenze in so-stanza politiche, ma fortune in parte diverse sul finire della loro vicenda fra IVe VIsecolo, per la natura stessa dei messaggi di cui entrambi gli oggetti erano portatori.

Lo scudo ebbe infatti una sopravvivenza ‘popolare’ e folklorica di lunga durata, specialmente in quanto connesso con festività della cui origine si era ormai persa la nozione, ma che rimasero a lungo un pun-to di riferimenpun-to importante nel calendario romano. Dell’ancile e delle sue vicende un funzionario palatino come Giovanni Lido, nell’Oriente greco dell’età giustinianea (VI secolo d.C.) – o la fonte antiquaria che certo gli sottostava – poteva ormai dare una spiegazione in parte oppo-sta a quella tradizionale: liberamente fantasiosa, ma certo più adatta alla mentalità prevalente nei nuovi tempi cristiani, come si vedrà me-glio in seguito.

Il secondo oggetto – il Palladio – conobbe invece una fortuna legata soprattutto all’idea di sopravvivenza dell’imperium ecumenico di Ro-ma; e quindi tramontò in Occidente con la conquista visigota dell’Urbe nel 4105, lasciando dietro di sé imbarazzo e reticenze non casuali presso gli stessi Romani ormai fatti cristiani; mentre in Oriente tale fortuna si protrasse a lungo sul piano erudito e antiquario grazie a un’idea di translatio imperii il cui primo atto risaliva allo stesso fondatore

‘cristia-5Vd. da ultimo L. CRACCORUGGINI, I barbari e l’impero prima e dopo il 410, in Ambrogio e i Barbari (Accademia Ambrosiana - Classe di Studi Ambrosiani.

Dies Academicus 2010, Milano, 26-27 aprile 2010), 21-28, in corso di stampa.

no’ di Costantinopoli, Costantino il Grande. Per quanto si riferisce ai pontifices in quanto custodi del Palladio, il pontificato massimo impe-riale, benché ormai cristianizzato, si conservò per salvaguardare certe funzioni pubbliche ancora attive e connesse con l’istituzione pontificale6; ma esse risultano del tutto assenti dalla tradizione antica degli ‘oggetti caduti dal cielo’.

Incominciamo dunque dall’ancile7. Ne parlano diffusamente soprat-tutto i Fasti di Ovidio in età augustea8e, circa un secolo dopo, Plutarco nella Vita di Numa9. Si favoleggiava infatti che questo re – cui si attri-buivano del resto tutte le istituzioni religiose più antiche – durante una pestilenza che incrudelì in Italia e a Roma stessa nell’ottavo anno del suo regno si rivolgesse supplice agli dei; e ricevesse dal cielo uno scudo in bronzo di forma particolare, piccolo e oblungo (breve et rotundum, dirà ancora Isidoro di Siviglia fra VI e VII secolo, riferendo autori più antichi)10, per confortare i cittadini scoraggiati con questa garanzia di protezione divina, accompagnata da un oracolo delle Muse secondo il quale Roma avrebbe perdurato nella sua grandezza finché l’ancile fos se rimasto in città (si trattava di un’arma di sola difesa, si badi, comparsa sotto il regno di un sovrano simbolo di pietà e di pace). Numa, per -tanto, ne fece tosto costruire altre undici copie, onde confondere even-tuali ladri; e per custodire i dodici ancilia creò anche una confraternita

6L. CRACCORUGGINI, “Pontifices”: un caso di osmosi linguistica, Cristianesi-mo nella storia 31 (2009) 363-384 = ora anche in P. BROWN- R. LIZZI(edd.), Paga-ni e cristiaPaga-ni in dialogo. Tempi e limiti della cristiaPaga-nizzazione dell’impero romano (IV-V secolo d.C.). Atti del Convegno Internazionale (Bose, 20-22 ottobre 2008), Berlin 2011, 403-423, in corso di stampa.

7Oltre a PELLIZZARI, Servio cit., 49-60, vd. specialmente P. HABEL, s.v. «Anci-le», Realencyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, I/2, Stuttgart 1894, 2112-2113; Thesaurus linguae Latinae, II, Leipzig 1900-1906, s.v. «Ancile», 26-27;

Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, VIII, Paris 1909, s.v. «Salii», 1014-1022; G. GIANNELLI, Enciclopedia Italiana, III, Roma 1929, s.v. «Ancili», 148-149, e XXX, Roma 1936, s.v. «Salî», 526-527.

8OVIDIUS, Fasti, Libro III (marzo), vv. 1-398.

913.

10Forma e dimensioni corrispondevano a quelle dello scudo arcaico, arronda-to sopra e sotarronda-to e più stretarronda-to nel mezzo (amb(i) e caelo: ‘incavaarronda-to da due parti’):

VARRO, De lingua Latina, VII,43: “ancilia dicta ab ambecisu, quod ea arma ab utraque parte, ut T<h>racum, incisa”; SERVIUS, Ad Vergilii Aeneidem, VIII, 664;

ISIDORUSHISPALENSIS, Etymologiae, XVIII,12.

di dodici patrizî (che non potevano cumulare tale carica con nessun altro ufficio religioso): il collegio sacerdotale dei Salii Palatini (cui Tullo Ostilio avrebbe poi aggiunto altri dodici Salii Collini, con sede sul Quirinale). L’esistenza di Salii Palatini e Collini riporta in ogni caso a un’età molto antica, in cui il sinecismo dei villaggi sui colli di Roma ancora non aveva avuto luogo (già Ovidio, con ragione, pensava che il culto di Marte in varî centri italici riportasse a un’età anteriore alla fondazione di Roma). Sembra esserne conferma anche la raffigurazio-ne più antica degli ancilia – quattro, portati da due Salii che reggevano le due estremità di un bastone – su di una gemma etrusca di età ar -caica11.

Il nome dei Salii, dice Plutarco con comprensibile sciovinismo filo-greco, derivava da Salius, un uomo di Samotracia12o di Mantinea che per primo avrebbe insegnato a tali sacerdoti le loro danze (è comunque chiaro che il termine deriva piuttosto da salire, saltare, ossia ‘danzare’:

a saltando, dice infatti Varrone)13. L’artigiano romano che invece, con

11Sardonica – ora a Firenze – riprodotta in Dictionnaire des antiquités grec-ques et romaines cit., VIII, 1020, fig. 6045; esiste poi un timbro in cornalina, meno arcaico, con scena analoga (ibid. 1020, fig. 6046); per attestazioni di ancilia e di Salii presso altre popolazioni dell’Italia centrale, vd. per esempio ibid. 1020, figg.

6043-6044 (denarî della gens Procilia e della gens Cornificia a Lanuvio in età re-pubblicana; collegi sacerdotali di Salii sono noti anche ad Alba, Lavinio, Ariccia, Anagni, Tuscolo, Tivoli, oltre il Po a Pavia, Brescia, Verona, Padova, Oderzo, ecc.

e fuori d’Italia per esempio a Sagunto durante il dominio romano. A Tibur i Salii erano il collegio sacerdotale di Ercole; ma al principio del secolo Vd.C. Macrobio (Saturnalia, III,12) metteva in bocca a Vettio Agorio Prestato (defunto nel dicem-bre 384: L. CRACCORUGGINI, Il paganesimo romano tra religione e politica [384-394 d. C.]: per una reinterpretazione del “Carmen contra paganos”, Memorie del-l’Accademia Nazionale dei Lincei, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologi-che, s. VIII 23/1 [1979] 1-144) repliche a Evangelos – che accusava Virgilio di con-traddizione –, asserendo fra l’altro che, un tempo, Marte si era identificato con Ercole (ibid., § 5). La rappresentazione di due ancilia si trova ancora in età impe-riale su di un nummo di Antonino Pio: Thesaurus linguae Latinae cit. (sopra, nota 7).

12Non sembra casuale che proprio a Samotracia – oltre che presso gli Etruschi e altri popoli – avessero luogo danze di guerra di origine arcaica: GIANNELLI, s.v.

«Salî» cit. (sopra, nota 7).

13VARRO, De lingua Latina, V,85. Anche Dionigi di Alicarnasso (II,70), nell’af-fermare che, se avesse dovuto rendere in greco il termine Salii, lo avrebbe tradotto con Cureti, mostra come in età augustea si sapesse ormai ben poco circa le loro

grande abilità, aveva fabbricato le undici copie dello scudo piovuto dal cielo si sarebbe chiamato Mamurio Veturio, e in luogo di qualsiasi altro premio avrebbe chiesto di essere ricordato nei carmina dei Salii Palatini, i sacerdoti di Marte Gradivo custodi dei dodici ancilia (forse nel sacra-rium di Marte nella Regia). E, in effetti, tale nome ricorre più volte nei canti dei Salii assieme con quello di altre divinità14. Mamers, però, era anche la forma osca di Mars, Marte; e gli stessi eruditi antichi, pur fa-cendo assai per tempo oggetto dei loro studî i canti dei Salii (uno dei più antichi monumenti della loro lingua nazionale), già li comprende-vano soltanto in parte: sicché è ben possibile che quella di Mamurio Veturio sia soltanto un’invenzione dovuta all’incomprensione del testo originario15.

Nel mese di marzo i Salii recavano gli scudi in processione per la città16, appesi al collo, danzando e cantando i loro carmina e

fermanorigini, e l’unico aspetto sicuro fosse costituito dalle loro danze. Sulle varie eti -mologie di ancilia correnti nel mondo greco del IIsecolo d.C. vd. ad esempio l’e-lenco che ne dà Plutarco, rifacendosi a Giuba IIdi Mauretania (Isecolo a.C.) e ad altre fonti (Numa, 13,9-10): «Quanto agli scudi – pevltai –, li chiamano ancilia per via della loro figura: essa non è un cerchio, né presenta la forma di un arco di cer-chio come i soliti scudi, ma ha un intaglio sinuoso, le cui estremità si piegano al-l’indietro e si congiungono fra loro nello spessore dello scudo, rendendo ricurva la figura – ajgkuvlon to; sch'ma poiou'sin –; oppure a causa del gomito – dia; to;n ajgkw'-na– intorno al quale si portano. Queste etimologie le dà Giuba, che tende a con -siderare greco il nome. Ma esso potrebbe essere derivato anche dall’originaria ca-duta dall’alto – dΔ a]n th'" ajnevkaqen fora'" –, o dalla guarigione degli appestati – th'" ajkevsew" tw'n nosouvntwn –, o ancora dall’arresto delle sventure – th'" tw'n aujcmw'n luvsew"–, come gli Ateniesi chiamano “Anake" i Dioscuri, se proprio si deve ricondurre il nome alla lingua greca» (trad. di Mario Mafredini, in M. MAN

-FREDINI– L. PICCIRILLI[edd.], Plutarco, Vite di Licurgo e di Numa, Milano 1980, 119). Sulle fonti di Plutarco quivi, vd. spec. PICCIRILLI, Introduzione, ibid. XLII-XLIV.

14 Agli inizî del V secolo Macrobio (Saturnalia, I,12,12) osservava l’assenza soltanto di Venere fra gli dei menzionati negli antichi carmi dei Salii (ov’erano in-vece sicuramente ricordati Marte Gradivo e Quirino, Giano Quirino, Giove Luce-zio, Saturno, Minerva, Giunone, Diana, Libero, Salus, Concordia, Pax, cui in se-guito si affiancarono alcuni divi a incominciare da Augusto e alcuni Principi della famiglia imperiale).

15 Varrone, per esempio (De lingua Latina, VI,49), interpretava l’espressione come memoria vetus.

16POLYBIUS, Historiae, XXI,13. Le feste primaverili si consideravano concluse il 24 marzo.

dosi ogni sera in varie stationes per rinfrescarsi, banchettare e riposa-re17. I giorni più importanti, ancora secondo i Fasti di Filocalo attorno alla metà del IV secolo, sembra fossero il 9 marzo (arm[a] ancilia mo-vent)18, il 14/15 marzo (Mamuralia) e il 19 marzo (Quinquatria)19. Il 19 ottobre, invece, le cerimonie si ripetevano, ma per un giorno soltanto.

Nel tempo restante gli scudi venivano conservati sul Palatino; e, secon-do una tradizione ancora menzionata nella prima età imperiale, costi-tuiva un presagio infausto intraprendere un atto pubblico riguardante la guerra quando gli ancilia non erano ancora tornati al loro posto20. Talora – in circostanze di particolare minaccia – gli scudi furono uditi rumoreggiare e muoversi spontaneamente, quasi fossero impazienti di essere rimessi in uso (ad esempio prima della guerra di Roma con i Cimbri): ancora ne fa menzione il De prodigiis di Giulio Ossequente, probabilmente nel IVsecolo d.C.21.

In ogni caso, sono soprattutto due gli aspetti che meritano di essere messi in luce. Uno è ben noto e tuttora discusso, e riguarda il carattere di Marte: precipuamente agricolo, oppure guerriero? Per solito si suole insistere soprattutto sul secondo aspetto, certo prevalente in età stori-ca; e si ricorda come le feste dei Salii coincidessero con la stagione di

17 Oggi non è più possibile identificarle nella maggior parte, a differenza di quelle di altre processioni (ad esempio quella degli Argei). È tuttavia certa una statio presso il ponte Sublicio ligneo, il più antico costruito dai Romani sulla via che portava al Gianicolo, che allora rappresentava la città ostile (Antipolis); per l’iscrizione tarda di Roma (forse dell’avanzato IVsecolo d.C.) menzionante le sta-tiones degli ancilia, vd. oltre, nota 35. IUVENALIS, Saturae, II, v. 126, parla degli ancilia come di un «sacro peso»; Luciano da parte sua, nonostante la consueta ir-riverenza in materia religiosa, arrivò ad affermare che le danze dei Salii erano da considerare la più santa delle arti perché in onore del Dio guerriero.

18Corpus inscriptionum Latinarum, I (Fasti di Filocalo nel 354 d.C. e Latercu-lus di Polemio Silvio nel 448/449).

19I Mamuralia vengono collocati il 14 marzo dal calendario di Filocalo (per il quale vd. sopra, nota 18), e il 15 marzo da Giovanni Lido (III,29 e IV,36, Corpus Scriptorum Historiae Byzantinae, 44 e 71).

20SUETONIUS, Otho, 8; TACITUS, Historiae, I,89 ss.

21Le tavole dei prodigi dal 249 al 12 a.C. (la cui la prima parte – la più antica – è oggi perduta) si fondano sulla tradizione liviana epitomata e ulteriormente con-taminata, nonché sulle liste consolari; Giulio Ossequente viene per lo più ritenuto un autore pagano tardo, che giustificò il proprio credo nelle forme dell’antica fe-de; ma vi è anche chi lo ha collocato nel IIsecolo d.C.: The Prosopography of the Later Roman Empire, I, Cambridge 1971, s.v. «Iulius Obsequens», 636.

apertura e di chiusura delle operazioni belliche, quando si purificavano le armi. Anche le loro danze sacre e altri gesti rituali svolgevano proba-bilmente un ruolo di propiziazione guerresca, come presso i Feziali22. Sembra tuttavia certo, per quanto ne sappiamo, che mai i Salii furono portati in battaglia dagli eserciti; che, secondo Catone il Vecchio, Mar-te-Silvano veniva invocato soprattutto per tenere lontani dalle fattorie il cattivo tempo, le malattie e altre calamità; e che proprio per questo tale divinità fu la prima ad essere portata in processione attraverso i campi. Vi è quindi chi – come l’antropologo James George Frazer nel-l’edizione dei Fasti ovidiani – ha pensato soprattutto a primitive com-petenze agricole di Marte, in una età in cui coltivare i campi, in Italia, significava anche difenderli con le armi dalle minacce dei vicini. Ed egli ha ritenuto che fosse molto vicino al vero William Ramsay nel pensarla proprio a questo modo. Con il supporto d’esempi moderni di varî po-poli primitivi (in regioni dell’Africa, dell’India, ecc.)23, congiunto alle testimonianze di Ovidio e di Varrone, Frazer ha pertanto ipotizzato che le cerimonie dei Salii avessero all’origine un carattere precipuamente agricolo, che mimava la cacciata dei demonî dell’infertilità e del vecchio Marte che li personificava, per far posto al Marte del nuovo anno; mar-zo e ottobre segnavano infatti anche l’inizio e la fine della stagione agri-cola. Propendo io pure, tutto sommato, per questa soluzione.

Il secondo aspetto è invece stato fino ad oggi trascurato, ma nel con-testo attuale mi sembra di particolare importanza, e vorrei quindi sot-tolinearlo in modo speciale: cioè la fortuna che le festività dei Salii tor-narono a godere nel Tardoantico. Proprio le fonti di tale epoca, infatti, vi insistono, con particolari di comodo per lo più inventati vuoi per ignoranza storica vuoi per ragioni ideologiche (fino al IV/Vsecolo), ma sulla base di date che ancora vengono registrate nei calendarî di Filoca-lo (345 d.C.) e di Polemio Silvio (circa un secoFiloca-lo dopo), indirettamente mostrando quindi come a quest’epoca tali feste avessero ancora un qualche significato. Un’iscrizione romana del IVsecolo d.C. ricorda, da parte sua, il restauro delle stationes processionali a private spese dei pontifices Vestae, dopo un lungo periodo di trascuratezza24.

22Vd. in generale la bibliografia citata a nota 7.

23J.G. FRAZER– G.P. GOOD(edd.), Ovidius, Fasti, Cambridge 19392, Appen-dix, 385-421 e partic. 397-403.

24Per i calendarî di Filocalo e di Polemio Silvio vd. sopra, note 18-19 e oltre, nota 3; per l’iscrizione romana vd. sopra, nota 17, e oltre, nota 35.

Probabilmente sul finire del IV secolo d.C. la Historia Augusta25 ri-corda come il giovane e corrotto imperatore Elagabalo, che veniva dal-la Siria, appena entrato in Roma (luglio 219) si sarebbe preoccupato di trasferire quivi il culto solare di Baal – venerato a Emesa e omonimo del nuovo imperatore (Helagabal) –, portando nell’Urbe la sua pietra sacra (un aerolito aniconico o pietra nera caduta dal cielo come quella della Mecca, già esistente nell’età preislamica politeista, sebbene la Ka’ba e i pellegrinaggi rituali venissero istituiti soltanto più tardi, quando gli Arabi, con Maometto, si convertirono all’unico Dio)26. Ela-gabalo costruì per il dio siriaco un tempio sul Palatino presso il palazzo imperiale27, con l’intenzione (studens) di portare in esso anche il si -mulacro della Gran Madre Cibele, il fuoco di Vesta (presagio funesto per la città qualora si fosse spento)28, il Palladio, gli ancilia29e tutti gli altri oggetti sacri ai Romani, «in modo che a Roma fosse venerato sol-tanto Elagabalo». Egli aveva pure in animo di trasferire nel medesimo luogo i culti degli Ebrei, dei Samaritani e dei Cristiani, affinché «i sa-cerdoti di Helagabal divenissero i depositarî dei misteri di ogni altra re-ligione»30.

Ciò trova una conferma almeno parziale in Erodiano (molto più vi-cino a Elagabalo nel tempo, dal momento che scrisse la sua opera stori-ca al tempo di Filippo l’Arabo, là dove questi afferma che l’imperatore avrebbe fatto trasferire a palazzo, nella propria camera da letto, il Pal-ladio o antica statua di Pallade, per unirla in ierogamia al dio orientale

Ciò trova una conferma almeno parziale in Erodiano (molto più vi-cino a Elagabalo nel tempo, dal momento che scrisse la sua opera stori-ca al tempo di Filippo l’Arabo, là dove questi afferma che l’imperatore avrebbe fatto trasferire a palazzo, nella propria camera da letto, il Pal-ladio o antica statua di Pallade, per unirla in ierogamia al dio orientale

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