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L’accento del capocannoniere

Gustavo Hector Basz Argentina

Settima edizione del Premio letterario per migranti Eks&Tra 2001

dalle vicende del connazionale Jorge Garcìa, anni ventidue, sorto nel Ferrocarril Oeste. Dal debutto nella massima cate-goria Garcìa ebbe la fortuna di segnare in tutte le prime quat-tro partite di campionato. Si mossero i procuratori, la stampa gridò alla nuova rivelazione del calcio argentino, le video-cassette con le quattro performance viaggiarono da un capo all’altro del mondo e fu rapidamente ingaggiato dalla Roma. E vero che la sua carriera di calciatore da quel momento in poi si sviluppò tra la panchina e la tribù (negli allenamenti non si era confermato il lampo di velocità che tutti si aspettavano) ma comunque questo non gli impediva di godersi la villa messa a disposizione dalla società nella zona residenziale dell’Eur e di uno stipendio per campare tranquillamente per un po’ di tem-po. E nel suo sguardo poteva entrare di tutto, dalla preghiera alla sfida.

«Ti do cinquemila lire», disse un po’ barcollando. «E meglio che me ne vada a casa», dissi. Lui continuò a guardarmi.

«Sei calabrese?», domandò. «No», risposi, «non sono cala-brese». «Sei calabrese», affermò convinto. «Hai parlato nel dialetto della mia zona. Hai detto…». E pronunciò una frase che nel suono rispecchiava vagamente la mia. L’amico, quello un po’ più moro, lo corresse: «Ha detto che se ne va a casa».

«E perché mai? Mi deve vendere l’orecchino. Dai amico, fai il bravo! Non ce l’ho più di cinquemila lire!». «O Dio, ma tu lo sai quanto costano i piercing?». «Lo so. Ma a te quanto costa?».

«Cinquemila lire». «Allora me lo puoi dare». «Certo. E faccio un affarone». «Ma senti», disse il ragazzo sforzandosi di es-sere convincente, «tu non devi guadagnare con i locali. Devi fregare i turisti, gli americani, i giapponesi». «E l’affitto di casa mia lo paghi te?». «Ha ragione!», esclamò il suo amico met-tendosi dalla mia parte, «anche lui deve guadagnare!». Senza dubbio, quella sera l’avevo allungata fin troppo. Come per re-cuperare il tempo perduto, cominciai a rimettere le collane e

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i bracciali nelle rispettive bustine trasparenti. A quest’ora, mi dicevo, avrei già dovuto chiudere, essere in cammino verso casa. «Cinquemila lire e una canna», offrì. «Non fumo», dissi.

Il ragazzo mi guardò con diffidenza. «Bè, allora fai finta che ti ho offerto la cena». «Non ci riuscirei. Non ho mangiato niente, sento proprio un buco nello stomaco e non sarei in grado di immaginare che qualcuno mi abbia offerto una cena». Il ra-gazzo sembrò arrendersi. «Ma di dove sei allora?». «Sono un cittadino del mondo», dissi più che altro per troncare la con-versazione, senza neanche guardarlo, continuando a mettere le cose al loro posto.

Forse mi fraintese, o fece una strana associazione di idee.

«Abiti a Monaco?». Spensi la luce. L’amico fu costretto a in-tervenire: «Ha detto che è cittadino del mondo». «Ah! citta-dino del mondo… ma me lo dai questo orecchino?». Per tutta risposta chiusi anche la scatola dei piercing e cominciai a met-tere le buste trasparenti in una busta di plastica più grande, bianca. Ma il ragazzo, non capiva questo genere di messaggi?

No, il ragazzo non si rassegnava ad andarsene così, a vuoto.

«Me lo dici almeno di dove sei». «Indovina». «Parla un po’…».

Dissi qualche frase senza importanza mentre lui contrasse i muscoli, fece uno sforzo di concentrazione socchiudendo gli occhi. «Parli spagnolo…», disse lentamente, «sei sudameri-cano». «Bravo». «Brasile!». «Parlo spagnolo!». «Argentina».

«Eh si. Finalmente!». «Lo sapevo. Lo sapevo. Parli uguale a Batistuta». «È vero», dissi con una certa rassegnazione. Or-mai era la quarta volta che mi riconoscevano grazie al trasfe-rimento del bomber della Fiorentina nella capitale. Il ragazzo rimase a guardare mentre finivo di mettere tutto nello zaino.

«Comunque hai della bella roba», mi disse con tono affezio-nato, «complimenti». «Grazie», risposi.

Poi allontanandosi con il suo amico mi salutò con la mano al-zata: «Ciao secco!». «Ciao», risposi, mentre caricavo lo zaino sulla spalla e guardando l’orologio mi apprestavo a

raggiun-gere l’autobus che da lì a poco mi avrebbe portato, come un meteorite nella notte, o un centravanti spedito con la palla al piede, ma verso la porta sbagliata, in direzione quartieri del sud, a Primavalle.

Tratto da: Il Doppio sguardo, autori vari, AdnKronos Libri 2002 © Eks&Tra

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E

ra sempre il tramonto quando la mia bisnonna Dana mi chiamava dentro le sue stanze. Mi bastava un segno della mano per avvicinarmi al suo letto altissimo e robusto.

– È da tempo che voglio raccontarti una storia… – cominciava, mentre mi immergevo tra le morbide onde del suo piumone az-zurro.

– … la storia di questo lettone… La sua vita comincia tanti anni fa, molto prima della mia nascita, quando il mio bisnonno marinaio tornando da un lunghissimo viaggio piantò un ulivo per l’ultimo fi-glio nato; mio nonno. Una settantina d’anni dopo, dall’albero del vecchio ulivo nascerà il mio letto.

Furono anni di grande povertà quando, dopo un lungo fidanza-mento e un’interminabile attesa per il ritorno dalla guerra e dalla prigionia del mio amato, in una calda giornata di settembre an-dammo felici davanti all’altare.

Era la stagione della vendemmia, e l’aria era impregnata dall’odore di mosto. Solo qualche tinozza era ancora dentro il mare. Ci siamo presi per mano e correndo, ci siamo immersi tra le onde per festeg-giare con il mare la nostra vera unione.

Sul portone della casa ci aspettava mio nonno:

– Ho qualcosa per voi – disse, e mi prese per mano mentre il mio sposo ci seguiva. Ci condusse verso la nostra camera e si fermò davanti alla porta.

– Questo letto è il mio regalo di nozze. Ti, ricordi Dana, del vecchio ulivo della mia corte? Adesso è qui per augurarvi una lunga vita da trascorrere con amore, saggezza e pazienza.

Così parlò il nonno e poi ci baciò entrambi in fronte.

Ormai sono giunta alla fine della mia strada. Non so se per buon