Al momento dell’annuncio, nelle prime tre stele di confine, della fondazione di Akhetaten, le dottrine relative all’Aten avevano già attraversato diverse fasi: la coesistenza del nuovo culto solare con Amon e altri dei, la decisione di costruire templi in suo onore a Karnak, la definizione di un suo lungo nome didascalico, scritto poi all’interno di due cartigli, la creazione di una nuova iconografia di-vina e, infine, l’abbandono di Tebe, regno di Amon, e il cambiamento di buona parte dei nomi del “nuovo” re Akhenaten. Anche se non conosciamo l’anno preciso in cui il sovrano, la sua famiglia e la corte si trasferirono ad Akhetaten, una buona parte dell’élite tebana decise di seguire il faraone nella nuova città, ad esempio «il flabellifero alla destra del re, padre divino» Ay (TA 25), i generali May (TA 14) e Paatenemheb (TA 24), «l’intendente della casa di Akhenaten» Ahmes (TA 3), il «ciambellano» Tutu (TA 8), i sommi sacerdoti di Aten Meryra (I) (TA 4) e Panehsy (TA 6), il supervisore degli alloggi di Nefertiti Meryra (II) (TA 2), «l’intendente» della regina Tye Huya (TA 1), lo «scriba regale» Ramose (TA 11), il medico Pentju (TA 5), lo «scriba regale e sovrintendente del grande palazzo interno del faraone» Apy (TA 10), il tesoriere Setau (TA 19) e altri an-cora. Anche Parennefer, che si era già fatto preparare una tomba a Tebe, si fece costruire una nuova sepoltura ad Akhetaten (TA 7). Non sappiamo invece cosa decisero il visir Ramose, la cui tomba tebana contiene alcune immagini del re prima e dopo la sua riforma, e Kheruef, entrambi non attestati ad Amarna. È stato suggerito che i danni apportati intenzionalmente al nome e alle immagini
di Kheruef all’interno della sua tomba a Tebe potrebbero essere il risultato del suo rifiuto di seguire il sovrano nella nuova sede.
Nel corso dei primi anni tebani, il sovrano era riuscito a formare un gruppo di funzionari disposti a spingersi verso qualcosa di nuovo e ad abbracciare l’ado-razione esclusiva di un’unica divinità. Si trattava, di fatto, di un ristrettissimo gruppo di persone su cui poggiava il funzionamento del potere centrale, al cui vertice vi era, ovviamente, il faraone. I testi presenti all’interno delle loro tombe ad Amarna sono di primaria importanza per comprendere sia il tipo di relazione che univa questi dignitari al re, sia aspetti fondamentali dell’atenismo e come questa dottrina fu recepita e trasmessa dalla classe dirigente di Akhetaten. Spic-cano, in primo luogo, il “grande inno” all’Aten nella tomba di Ay (TA 25) e il cosiddetto “piccolo inno”, presente in ben cinque sepolture, ritenuti i principali manifesti delle credenze del dio sole; ma anche tutti gli altri testi – nei quali inni all’Aten, formule religiose e accenni autobiografici si mescolano tra loro – con-tribuiscono a rendere il quadro di questo breve periodo della storia dell’Egitto antico un po’ meno sfuocato.
Nel “grande inno” e nelle altre iscrizioni che vedremo sono illustrati i temi centrali delle dottrine dell’Aten. In primo luogo, la nuova iconografia del dio sole come un disco solare da cui dipartono sottili raggi trova un corrispettivo nelle descrizioni testuali. Come si vedrà, i testi insistono moltissimo sul «vedere» il sole/Aten nel cielo. La vista, di cui gli occhi sono lo strumento, è il primo mezzo di comunica-zione, il modo in cui gli esseri viventi possono percepire la presenza del divino e possono prendere consapevolezza di loro stessi grazie ai raggi e al loro calore, tanto da far proclamare al medico di corte Pentju: «quando appari, essi vedono e quando doni loro i tuoi raggi, essi diventano consapevoli di loro stessi».
L’idea che una divinità sia eterna sembra estranea al pensiero religioso egiziano. Tutto ha un inizio, pertanto anche Aten, al pari di altre divinità creatrici, si pre-senta come un principio supremo che si è auto-generato, anche se come ciò sia avvenuto rimane avvolto nel mistero. Così come ha creato se stesso, Aten crea tutto ciò che esiste, è il fondamento di ogni cosa ed essere vivente, un’energia allo stato puro in un perenne movimento ciclico fatto di albe e tramonti. Il dio «appare», «si manifesta», «sorge» e «tramonta» giorno dopo giorno. Quando egli sorge al mattino e risplende all’orizzonte, le sue creature – nessuna esclusa – si mettono in
movimento, riprendono a vivere la loro esistenza, dopo una notte trascorsa nell’in-certezza dell’oscurità. Ed è la luce irradiata quotidianamente dal disco a essere la fonte stessa della vita. Il tema della luce nell’atenismo è così importante da aver spinto Erik Hornung a equiparare Akhenaten a Albert Einstein, nel momento in cui il sovrano «ha intrapreso il tentativo di spiegare l’intero universo umano e na-turale a partire da un unico principio. Come Einstein, anche Akhenaton ha posto la luce come punto di partenza assoluto» (Hornung 1998, p. 118).
Come i raggi dell’Aten si estendono su tutto ciò che ha creato, anche la sua azione vivificatrice non si limita all’Egitto, ma coinvolge tutte le popolazioni, gli animali, uccelli e piante della terra intera. Il “grande inno” della tomba di Ay e i testi della tomba di May ben esprimono l’idea che Aten sia una divinità universale, che si prende cura di tutto e di tutti e che ogni essere vivente, in quanto sua creazione, può interagire con essa nel momento in cui si mostra all’orizzonte all’alba.
Oltre a «vedere» Aten, gli uomini hanno a disposizione un’altra via per entrare in contatto col dio, ossia adorandolo. Quando il ciambellano Tutu, nella sua tomba, dichiara «io sono venuto a te in adorazione dei tuoi raggi, O Aten vivente e uni-co. Tu sei l’eternità e il cielo è il tuo tempio…» chiarisce un importante aspetto teologico: Aten, rendendosi visibile a tutti attraverso la sua luce e i suoi raggi, non è nascosto, come le altre divinità del passato, nell’oscurità di un sancta sanctorum di un edificio sacro, bensì è visibile a tutti e il cielo è il luogo verso cui indirizzare le proprie preghiere, perché quella è la sede della divinità. I templi dell’epoca di Akhenaten non sono più come gli edifici precedenti – concepiti per custodire al loro interno le statue degli dei – bensì strutture a cielo aperto nelle quali Aten, alto nel cielo, è presente attraverso i suoi raggi e la sua luce. Questa scelta architettonica va di pari passo con l’abbandono della figura del dio solare a corpo umano e testa di falco a favore di un disco con raggi. Le immagini tradizionali e le statue – attor-no alle quali ruotava la vita cultuale del tempio – soattor-no ormai ritenute obsolete, attor-non più idonee a esprimere la natura della divinità. Ciò non implica che Aten sia una divinità più accessibile e comprensibile agli uomini rispetto agli altri dei. Anche se l’iconografia come disco – a differenza di quella antropomorfa e zoomorfa – mira-va a rappresentare la manifestazione divina visibile a tutti nel cielo diurno, la piena conoscenza dell’essenza divina rimane una prerogativa esclusiva del re e, a livello inferiore, della sua famiglia.
Il primo nome didascalico scelto da Akhenaten per il suo dio – «ankh Ra-Horakhty che gioisce all’orizzonte nel suo nome di luce [= shu] che è in Aten» – è un chiaro manifesto teologico, che riassume gran parte dei temi sviluppati nei testi religiosi dell’epoca. Il primo termine ankh, «vita, vivere», può essere inteso come un augurio: «Viva Ra-Horakhty!», ma evoca forse anche il tema della vita, generata dalla stessa divinità. Sin dall’inizio del regno, Akhenaten non rinuncia a presentare il suo dio come un aspetto di Ra-Horakhty, letteralmente «Ra-Horo-dei-due-orizzonti», an-tica divinità associata ai fenomeni divini collegati all’astro, che sorge dall’orizzonte orientale e tramonta nell’orizzonte occidentale. Ma la prima informazione offerta sulla divinità grazie al suo lungo nome didascalico, ben prima di specificare che si tratta di «luce» che è nel disco, è che essa «gioisce all’orizzonte», ossia si rallegra nel momento in cui si manifesta. Il tema della gioia è fondamentale per le dottrine legate all’Aten, poiché essa unisce il dio al suo creato. Se Aten gioisce all’orizzonte quando sorge, tutte le forme di vita sono animate da un sentimento analogo, sono pervase dalla contentezza, perché la contemplazione stessa della divinità, ossia della fonte della vita, il fatto di percepirne la luce e il calore e la consapevolezza di esistere grazie ad essa non possono far altro che rendere le sue creature felici: il dio «è con-tento ogni giorno in cielo», mentre il cuore del re esulta di gioia e tutte le sue creazio-ni giubilano. La dottrina dell’Aten insegna una gioiosa celebrazione dell’esistenza. Ma viene il dubbio che questo tema, su cui i testi tanto insistono, sia soprattutto uno strumento politico. Più che una condizione naturale dell’uomo, il vivere in gioia sembra possibile solo attraverso la contemplazione e l’adorazione dell’Aten. Il fedele è invitato a vivere in gioiosa sintonia col divino, fonte di vita, e tutti devono celebrare e gioire, in quanto parte di un’esistenza perennemente in festa.
Un altro aspetto primario dell’atenismo, e che lo differenzia di gran lunga dalle credenze conosciute in precedenza in Egitto, è il fatto di essere stato svuotato di qualunque elemento mitologico. Nei testi solari dei periodi precedenti, in partico-lare della XVIII dinastia, Amon-Ra appariva sì come un dio creatore, universale e responsabile dell’esistenza di tutte le creature, ma continuava a essere associato ed equiparato ad altri dei e a essere descritto mentre si sposta nel cielo sulle sue barche, una per le 12 ore diurne e una per le 12 ore della notte. Era il percorso notturno del sole a creare preoccupazione, in quanto qui il dio incontrava, tutte le notti, il serpente Apep, simbolo del male, che tentava di interrompere il viaggio del sole.
Benché Apep fosse sempre sconfitto e il suo corpo trafitto da un arpione o da col-telli, la sua stessa esistenza creava un tocco di incertezza al procedere del percorso del sole e rappresentava la minaccia, sempre latente, che il cosmo potesse essere rovesciato. L’interruzione dei viaggi della barca solare nel cielo avrebbe implicato la fine della vita così come era stata concepita e stabilita dal dio creatore. Nulla di tutto ciò è presente nell’atenismo. Non è fornita nessuna informazione su cosa accada ad Aten durante le ore notturne, se non il fatto che, quando tramonta nel suo orizzonte occidentale, egli riposa, mentre la terra, momentaneamente privata della presenza del dio, è avvolta nell’oscurità, con le sue creature gettate in uno stato equiparato alla morte. L’assenza di Apep o di nemici rese il dio Aten perfetto, il suo sorgere quotidiano inevitabile, così come la sua scomparsa inconcepibile.
Trascorsa la notte, tutti gli esseri viventi si rianimano, richiamati alle loro vite dall’apparire del disco in cielo e dalla sua luce. Le sue creature, tutte, lo adorano, gioiscono e sono di fatto invitate a vivere nella realtà sociale e naturale: gli animali si muovono – chi volando in cielo, chi spostandosi sulla terra sulle sue zampe o strisciando, chi guizzando nelle acque – mentre gli uomini si alzano e si vestono per mettersi al lavoro e intraprendere le loro attività.
Ma tutto ciò a che scopo? Il mondo non è il frutto di un’azione involontaria del suo creatore, bensì il risultato della volontà divina. Come si legge nel “grande inno”, il dio ha creato tutto ciò che esiste nella sua solitudine originaria proprio al fine di contemplare la sua stessa creazione dall’alto del cielo distante: «Tu ti sei messo in movimento perché ciascun occhio esista; tu hai creato i loro volti affinché tu non veda te stesso [come] unica [cosa] che tu hai fatto.» A loro volta, gli uomini vedono il dio in cielo e ne percepiscono la luce e il calore. L’impossibilità di vedere Aten equivale al morire, tanto che il sacerdote di Aten Panhesy dichiara: «[Quando] egli appare, ogni terra è in gioia e i suoi raggi sono sugli occhi di tutto ciò che ha creato. Si dice ‘vita’ quando lo si vede, [ma] si muore quando non lo si vede».
Tuttavia, se da un lato il «vedere» dio in cielo implica avere una testimonianza chiara della sua esistenza, dall’altro ne offre solo una conoscenza parziale, limitata alla sua manifestazione visibile. Secondo le parole di Ay, «sebbene egli [= Aten] sia davanti ai nostri volti, non conosciamo il suo corpo». Il dio trascende infatti la realtà da lui stesso creata; benché visibile, egli è «lontano», «alto» e «distante». La natura dell’Aten, ossia della fonte da cui proviene la vita, è inconoscibile ed è accessibile
solo al figlio della divinità, Akhenaten, come succintamente esprimono le parole del “grande inno”: «Tu sei nel mio cuore! Non c’è nessuno che ti conosca al di fuori di tuo figlio Neferkheperura Uaenra, che tu hai reso saggio nei tuoi consigli e nella tua forza». A questo proposito è interessante notare come il re e Nefertiti siano spesso ritratti mentre offrono, sollevandoli verso l’Aten, i due cartigli contenenti il nome didascalico. Il re stesso aveva modificato uno dei suoi nomi in «Colui che eleva (utjes) il nome di Aten». Il verbo utjes può significare “alzare” nel senso di spostare verso l’alto, ma anche in senso spirituale o “promuovere”. Attraverso questo tipo di rituale, così tipico del tempo di Akhenaten, il sovrano, accompagnato da Nefertiti, desiderava sottolineare l’importanza dei due cartigli divini, i quali – a differenza della sua immagine come disco nel cielo – comunicano un’idea più astratta della divinità, solo da lui stesso compresa appieno.
Anche i temi espressi dal termine Maat – ossia il principio che rappresenta tutto ciò che è giusto e che governa il mondo creato – sono fondamentali nell’atenismo. Per tradizione i re d’Egitto contribuivano al mantenimento della Maat in primo luogo attraverso la gratificazione degli dei presenti sul territorio nazionale. Abbia-mo visto come Amenhotep IV/Akhenaten avesse differenziato nettamente Aten da tutte le altre divinità del pantheon egiziano, le quali pian piano scomparvero dai monumenti ufficiali. Il fatto che Akhenaten non si preoccupi di ignorare le altre divinità conferma la novità delle dottrine da lui proposte. In maniera del tutto in-solita rispetto alla tradizione, già nei templi dell’Aten a Tebe e poi ad Akhetaten, il sovrano e Nefertiti appaiano intenti ad adorare, in maniera esclusiva, il dio sole e a praticare rituali in suo onore sotto i suoi raggi. Nessun altro dio o dea è ammesso alla presenza della coppia regale. In sintesi, non c’è più bisogno di appagare gli altri dei con la costruzione di templi in loro onore e l’organizzazione di offerte per il loro sostentamento, in quanto il dio sole è l’unico fondatore e garante del Giusto, dell’Armonia che governa sia le forze della natura sia le regole della società civile. A questo proposito, il sovrano non rinunciò mai all’epiteto «colui che vive di Maat», da intendere come «colui che vive di verità» o «[sulla] verità». Il re è anche il «signore di Maat», «che gioisce in Maat»; secondo le parole di Ay e May, Akhenaten è colui che offre Maat al bel volto dell’Aten, mentre per Tutu egli è equiparabile a Ra «che generò Maat». Akhetaten stessa è il «luogo di Maat». Si tratta di un’altra peculiarità di Akhenaten. Infatti, durante il Nuovo Regno, l’epiteto «colui che vive di Maat» fu
utilizzato soprattutto per le divinità solari, come Ra-Horakhty o Atum, piuttosto che dai sovrani. Benché sia stato sostenuto che la costante associazione di Akhe-naten con la Maat mirasse a sottolineare le superiori qualità morali del re e della sua dottrina, nei testi atenisti potrebbe essere intesa come l’elemento fondante del mondo creato, il «Giusto», la «Verità» e l’«Armonia» come condizione necessaria al benessere di tutto ciò che esiste e di cui il potere del sovrano è diretta emanazione. La Maat è anche un principio che unisce il re ai suoi sudditi. Se la Maat, fondata dal dio sole al momento della creazione, deve essere praticata, preservata e garantita dal sovrano, per i suoi funzionari è una virtù, uno strumento d’interazione sociale che regola i loro comportamenti come membri di una comunità.
Nell’Egitto antico, la dinastia aveva il controllo di buona parte delle risorse, le quali venivano redistribuite ai funzionari a seconda del loro livello di partecipazione al funzionamento dello stato. All’epoca di Akhenaten, la monopolizzazione delle ri-sorse da parte della corona aumentò drasticamente (Kemp 1991, p. 289; Laboury 2010, pp. 272-281). I testi presenti nelle tombe di questi dignitari rendono evidente come il rapporto tra sovrano e funzionario si basasse su un rapporto di dipendenza. Akhenaten instaurò un sistema il cui centro era occupato dall’Aten e dalla coppia regale, che controllava del tutto la sfera divina. Secondo i testi dell’epoca, a tutti gli esseri viventi – animali e uomini, fossero essi Egiziani o stranieri – era dato di contemplare la manifestazione dell’Aten nel cielo; solo per i più fortunati, però, l’esperienza visiva includeva la possibilità di ammirare in prima persona il sovrano, diventando una via per la realizzazione del proprio essere. L’affermazione di essere l’unico a conoscere la vera essenza dell’Aten permise ad Akhenaten di presentarsi come il vero e solo intermediario tra l’Aten, unico dio adorato, e gli uomini. Per i «favoriti», ossia coloro che sono al seguito del re e ai quali è stato concesso il privi-legio di far allestire una tomba nelle colline di Akhetaten, non è prevista nessuna forma di adorazione se non quella dell’Aten e del re stesso; ma la fedeltà nei con-fronti del sovrano e la fede nell’Aten convergono, sono l’uno un aspetto dell’altro. Ad esempio, Ay, Tutu e May definiscono Akhenaten il «mio dio». I funzionari di Amarna affermano di vivere in adorazione del re e di saziarsi vedendolo e seguen-dolo; allo stesso tempo essi adorano l’Aten, gli rivolgono preghiere non tanto a loro beneficio, ma a favore del re, affinché il dio contribuisca al benessere di suo «figlio» Akhenaten, il quale contribuirà a sua volta al benessere di loro stessi, in un processo
circolare fatto di preghiere, offerte e ricompense di cui tutti – dio, re e funzionari – traggono vantaggio. L’adorazione di Aten appare dunque come un utile strumento al proprio servizio, che permette il successo e l’affermazione personale.
A questo proposito, un elemento costante nei testi è l’immagine del re come un maestro che impartisce il suo insegnamento. Colui che entra in comunicazione con il maestro e con le sue parole non solo può sentire la presenza del divino, ma miglio-rare la propria posizione nella società. I membri dell’élite di Akhetaten, attraverso i testi delle loro tombe, si presentano come uomini intenti ad adorare il dio e il re, a gioire della visione dell’uno e dell’altro, ma anche individui capaci di godere dei beni materiali, estremamente consapevoli dei benefici derivati dalla loro posizione. Ad esempio, Ay dichiara: «il mio signore mi ha istruito, affinché io potessi mettere in pratica il suo insegnamento… Com’è fortunato colui che esalta il tuo insegna-mento di vita!»; May, invece, afferma: «il mio signore mi ha promosso affinché potessi eseguire i suoi insegnamenti [che] io ho udito dalla sua voce senza interru-zione». Ma in che cosa consiste la dottrina o l’insegnamento «di vita» impartito da Akhenaten? In uno dei testi della tomba di Tutu, Akhenaten in persona si rivolge al suo fidato dignitario: «tu sei il mio grande servo, che ascolta il mio insegnamento», mentre Tutu risponde invitando il sovrano, di fatto l’unico vero detentore della completa conoscenza della divinità, a diffondere il suo sapere: «O Uaenra, immagi-ne di Ra, che innalza Ra e soddisfa Aten, che fa sì che la terra conosca colui che l’ha