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AFFONDO PIANO PIANO, NELL’ABBRACCIO DEI TUOI OCCH

La teogonia capovolta creata da Tozzi si segnala per la coazione a una visione anomala e perturbata del reale, infatti gli elementi che la compongono conservano un’irriducibile opacitè

descriptive1, sottraendosi a qualsivoglia tentativo di descrizione naturalistica e organizzazione gerarchica, entrambi funzionali all’economia narrativa.

Gli oggetti, sottoposti a distorsioni ottiche, perdono le loro qualità precipue, a detrimento della stessa identità e riconoscibilità. M. Fratnik, in Paysages2, osserva infatti come la realtà, nella narrativa del senese, spesso non sia contraddistinta dalla tridimensionalità: abolendo la profondità, i piani si confondono e gli elementi del paesaggio si riducono a silhouttes disposte su una superficie piana. Gli oggetti tendono inoltre a frantumarsi: la densità materica si sgrana e questi, sottoposti a

transmutations mètaphoriques3, si riducono ad apparences transitoires4.

L’eccentricità patologica che sostanzia l’estetica della visione tozziana risiede, credo, non soltanto nella giustapposizione di figure piane su una superficie bidimensionale e nella cangiante rarefazione degli elementi, ma anche nella «impossibilitè d’ouvrir les yeux sur le monde extèrieur»5, proiezione, al contempo, di un’ alterazione violenta, ora inferta, ora subita.

Si assuma, a titolo esemplificativo, il topos dell’osservatore posto al balcone, variante dell’imagerie impressionista dello spettatore alla finestra. Il motivo, da sempre interpretato come occasione privilegiata per uno scandaglio intimistico e varco possibile verso l’altrove, nell’intero

corpus tozziano figura in tutt’altra accezione. Il voyeurismo, infatti, nell’universo dello scrittore

senese, nega la possibilità stessa della visione e della conoscenza sia di sé che del mondo. I personaggi che per ore, senza una ragione apparente, contemplano la realtà a distanza, rivelano la propria cecità nei rapporti comunicativi, incapaci di istituire un vitale rapporto con il reale. Inoltre la

finestra, restringendo il campo visivo, consente una percezione che pare mediata da filtri ottici che confondono e feriscono lo sguardo. L’esteriorità si dissolve nelle soglie del fantasmatiquement6 di illusioni che obnubilano il paesaggio con paurosa fissità e intensità ipnotica. Lo sguardo liberamente divaga su oggetti e dettagli che si impongono in modo fortuito, non sistematico, alle disattenzioni ottiche dei personaggi e l’osservazione diviene così il pretesto per smarrirsi ed evadere. Maxia osserva, a questo proposito: «i personaggi tozziani distolgono continuamente lo sguardo da quanto accade intorno a loro e lo fissano, allucinati, su un particolare, qualsiasi, assolutamente […] cercandovi non so quale salvezza, pensando forse di stornare da sé la maledizione che li opprime, o almeno di sospenderne, per qualche lungo attimo, il corso»7.

La poetica tozziana del regard si nutre, inoltre, della coazione alla deformazione espressionistica del singolo dettaglio che si impone, mostruosamente, allo sguardo dell’osservatore con crudele precisione incisiva. Il procedimento, simile alla zoomata, nega la relazione concettuale istituita dalla sineddoche: la parte non rimanda più al tutto e non esiste l’unicità complessiva del corpo, ma solo membra disiecta scarnificate. L’underlying horror si rivela compiutamente nella coazione allo sparagmos e nella perturbante rivelazione di un singolo elemento che, pur essendo familiare, si configura come sinistro totem del male.

Credo dunque si possa assumere a paradigma interpretativo la ossessiva tematizzazione, nella produzione poetica del Nostro, della fabula di Marsia scorticato, non riconducibile alle sterili suggestioni dell’antiquario erudito. Il mito, che figura anche nel sonetto A Edgardo Allan Poe8, viene iperconnotato espressionisticamente: la notomizzazione del corpo diviene una struttura di senso che sostanzia l’orrore latente come cifra di modernità.

Il progressivo restringimento del campo visuale raggiunge l’acme nella parossistica focalizzazione dell’occhio, «une des figures les plus suggestives d’une relation au monde tout à fait caractéristique de Tozzi, qui va par ailleurs bien audelà des modes d’appréhension de la réalité sensibile»9. Nella derealizzazione del mondo l’intensità diairetica dello sguardo si impone, l’occhio è

enormemente dilatato e luccicante, e la sua estensione ipertrofica è determinata dalla musa inquietante dell’orrore. Luperini, a questo proposito, osserva: «Pensate agli occhi, cosa c’è di più bello degli occhi? Ma se voi isolate un occhio e lo mettete sulla prua di una nave fa paura, come ben sapevano gli antichi o come ben sanno i registi dei film del terrore, quando lo rappresentano in primo piano»10.

Non meno agghiacciante dell’abnorme estensione dell’occhio è la sua assenza nei volti oscurati da una cecità nient’affatto iperdeterminata come visione in assenza. In ambito critico si attribuisce alla mutezza dello sguardo una valenza predittiva, collegando il topos dell’accecamento alla tragedia sofoclea e fornendone una lettura psicoanalitica. L’ambiguità irrisolta di tale approccio ne rivela tutta la fragilità: la cecità del re di Tebe non può certo collimare con il dono profetico dell’occhio poiché Edipo, nel condurre la propria detection, si rivelerà il più cieco tra gli uomini.

Se ancora Maupassant11 rappresenta il dramma dell’oscurità della visione come causa di emarginazione sociale, Tozzi, invece, interpreta il vuoto dello sguardo nella sua perturbante funzione di agente fobogeno, calato in una disadorna quotidianità. Si pensi, a questo proposito, alla novella Il

cieco12, testo che trascende la mera funzione di documento sociale, rivelando la tenebra dell’orrore e della follia. Nell’articolo del 1918, pubblicato su Realtà di ieri e di oggi13 e dedicato all’arte di Gino

Barbieri, Tozzi interpreta, accanto alle xilografie del cesenate, il dipinto Cieco, rivelando, ancora una volta, la padronanza sicura di raffinati strumenti critici per l’interpretazione di opere d’arte. Lo scrittore, definendo il lavoro come opera di «modernità risoluta»14, così annota: «è una realtà quasi esasperata; e il vecchio, che non ha occhi, sembra sperso e più solo in tanta luce che crudelmente lo circonda e gli batte su gli abiti. Ma non è una cecità tragica o umiliante: è piuttosto abitudinaria; e il vecchio par quasi insensibile a quella luce, che, se fosse vista da lui, gli aprirebbe l’anima a una meraviglia inattesa e impensata»15 . Tozzi rinuncia dunque alla rappresentazione della cecità intesa come tragedia oracolare o abnegazione sociale, recidendo sia i legami con la tradizione sofoclea, sia i rapporti con le catene evenemenziali del naturalismo e verismo letterario.

Senza ricondurre la tozziana fascinazione dell’imagerie a ragioni biografiche, in riferimento alla malattia agli occhi, forse di origine venerea, contratta dal Nostro, mi pare, tuttavia, che si possa a buon diritto istituire una corrispondenza tra l’autore e la ricorrente immagine del cieco che costella la sua narrativa. In particolare, in Persone, un vecchio cieco, strascicando le scarpe ormai ridotte a brandelli, rasenta il Nostro. Tozzi, abilmente, evita qualsiasi lacrimosa concessione a certo paternalismo estetizzante ed annota: «m’avvedo di essere come lui, che passa e non vede niente»16 . L’analogia istituita dallo scrittore esula dalle morbide raffinatezze di maniera e assume una valenza conoscitiva, in relazione alla sua complessa mitologia dell’anima e alla peculiare concezione della creazione artistica che coincide, sempre più, con la precarietà percettiva.

Il motiv della cecità si nutre di specifiche istanze culturali, magari antinomiche, le quali convergono, tuttavia, alla peculiare formulazione tozziana. In ambito critico si tende a porre l’accento sulle rifrazioni poetiche esercitate dalla profonda conoscenza della letteratura mistica da parte del Nostro, tesa ad esaltare la potenza rivelatrice del fotismo allucinato. Certamente la formazione culturale di Tozzi risente dell’estatico deliquio che anima i trasalimenti di Angela da Foligno, Santa Caterina e Santa Teresa, ma egli abdica alla potenza rivelatrice dell’occhio chiuso che, invece, informa l’itineraium mentis in deum del misticismo religioso. I critici riconducono inoltre il mitologema alle indagini scientifiche condotte dal prefreudiano W. James, interprete del nero schermo delle palpebre e delle visioni ad occhi chiusi. La compresenza di siffatti modelli, profondamente divergenti, viene giustificata adducendo, come motivazione, il presunto autodidattismo e intuizionismo rabdomantico del Nostro, ma bene si evince la natura contraddittoria di siffatti riferimenti culturali. Il misticismo seduce Tozzi anche per il brivido voluttuoso che permea la vis sanguigna dei rapimenti estatici e la letteratura scientifica lo interessa altresì per l’analisi di patologie psichiche specifiche.

La fantasmagoria eidetica di Tozzi attinge alle «splendide e atroci meraviglie»17 di Poe, «inventore d’incubi»18, autore definito dalla Bonaparte un «feticista degli occhi»19. L’intero corpus

del bostoniano si configura, infatti, come un’immensa crittografica mappatura dello sguardo, concepito, al contempo, come sinistra fascinazione del male e agnizione patologica, strumento per un’acuta indagine del mistero e come intensa attrazione erotica.

NOTE AL PARAGRAFO PRIMO

1 M. Fratnik, Paysages, Essai sur la description de Federigo Tozzi, Città di Castello, Leo S. Olschki editore, 2002, pag. 1. 2 Ivi, pag. 83. 3 Ivi, pag. 87. 4 Ivi, pag. 87. 5 Ivi, pag. 131 6 Ivi, pag. 151.

7 S. Maxia, Uomini e bestie nella narrativa di Federigo Tozzi, Padova, Liviana, 1972, pag. 72. 8 F. Tozzi, A Edgardo Allan Poe, in Le poesie, Firenze, Vallecchi, 1981, pag. 58

9 M. Fratnik, cit., pag. 125.

10 R. Luperini, Federigo Tozzi, Frammentazione espressionista e ricostruzione romanzesca, Modena, Mucchi, 1992, pp. 33-34.

11 G.De Maupassant, La mano, in Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1993. 12 F. Tozzi, Il cieco, in Le Novelle, Firenze, Vallecchi, 1963. pag. 709. 13 F. Tozzi, Realtà di ieri e di oggi, Milano, Alpes, 1928.

14 Ivi, pag. 330. 15 Ivi, pag. 330.

16 F. Tozzi, Cose e Persone, Inediti e altre prose, Vallecchi, Firenze, 1981, pag. 240.

17 J.L. Borges, Edgar Allan Poe, in Tutte le opere, vol. 2, Milano, Mondadori, 1985, pag.123. 18 Ivi, pag. 123.

19 M. Bonaparte, Edgar Allan Poe, Uno studio psicanalitico, Roma, Newton, 1976, pag. 137.