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Criminalità predatoria e decoro sociale ad Albenga: tra ordine pubblico e sicurezza urbana

6. Alcune considerazioni per progettare il futuro

Una fotografia in chiaro scuro, quella scattata a più riprese nella città di Albenga, che consente di dare forma ad una serie di spunti riflessivi con i quali si intende procedere alle conclusioni di questa analisi di caso.

6. Alcune considerazioni per progettare il futuro

L’analisi dell’andamento relativo allo stato della criminalità e della sicurezza urbana ad Albenga, riferito al quinquennio 2008-2012, ha dimostrato che la crescita di interesse per le questioni che gravitano intorno alla delittuosità e alla percezione degli allarmi sociali, oltre che del decoro urbano, richiedono l’adozione di una linea politica precisa e non di un punto di vista comune.

In gioco, infatti, e in particolare nella fase che ha preceduto le elezioni amministrative del 2010, la questione sicurezza ad Albenga non si è consumata tanto nello scontro tra una posizione progressista contro una conservatrice, una libertaria in opposizione ad una repressiva, quanto la rincorsa ad un atteggiamento che rinviava per lo più a cause ed effetti più generali, senza per questo entrare davvero in profondità nel merito delle questioni. Se la scelta della “politica”, e quindi anche degli amministratori locali, è quella di affrontare la “questione sicurezza” su un piano non ideologico e, possibilmente, non demagogico, il primo compito diventa allora quello di non trasformare le contingenze quotidiane in emergenze sicuritarie, ma di affrontarle con interventi e azioni di medio lungo termine, in grado di alleggerire gli effetti nocivi che ricadono sulla cittadinanza, senza aprire in essa un campo di aspettative che probabilmente rimarrebbero inevase. Da qui la rincorsa, effettuata da un lato, dall’allora amministrazione di centro-sinistra, ad invocare l’impiego dell’esercito italiano in ruoli e funzioni che le leggi nazionali attribuiscono chiaramente alle forze dell’ordine e, in misura ridotta, all’operato delle polizie locali; mentre dall’altro, su volontà della neo-eletta giunta di centro-destra, quella tesa al governo della città mediante la sola installazione di nuove videocamere (Albenga ne conta un centinaio) e a colpi di ordinanze sindacali. Nel caso delle prime, si pensi alla cattiva abitudine ad investire le già scarse risorse economiche dei bilanci comunali nell’esclusivo acquisto di sistemi tecnologici. L’utilizzo delle telecamere e di altri generi di “occhi” elettronici non è da considerarsi una scelta errata a priori. Anzi, una certa quantità di videocamere, se disposta all’interno di un progetto articolato da un mix di azioni integrate, può servire e pertanto non va esclusa. Ma è l’impiego, spesso repentino, cioè sull’onda di qualche problema contingente o per lungo tempo accantonato, che non convince operatori e cittadini.

campo di aspettative che rischia, sovente, di andare deluso. E con esso l’ipotesi, che da qualche tempo inizia a smentire le aspettative, secondo cui molti sindaci si illudono di accrescere il consenso politico spargendone, qua e la per la città, un numero crescente che in ultimo, per tutta verità, necessitano di una revisione poco garantita rivelandosi, pertanto, di scarsa utilità.

Ora, al di là del fatto, non meno importante, che l’impiego di telecamere necessita del monitoraggio visivo dell’uomo, poiché altrimenti sarebbe vano il loro impiego, va specificato che l’utilizzo della videosorveglianza non consente di dissuadere il perpetrarsi delle azioni criminose ma di agevolare soltanto la ricostruzione delle dinamiche che hanno delineato la scena del reato; nella speranza che le immagini risultino di buona qualità per individuare il presunto reo, divenendo un elemento di prova in sede di eventuale condanna penale.

In altre parole, non vi è analisi empirica che dimostri come l’installazione di videocamere scongiuri il cittadino dal ritenere l’area in cui sono impiegate (una piazza, un vicolo, ecc.) esente da crimini e atti incivili o più sicura di altre zone. Al contrario, nelle città in cui si apprende del loro impiego diffuso, non corrisponde una diminuzione del numero dei reati. In particolare, per contrastare quel genere di crimini che, nelle più buone intenzioni degli amministratori, sono state acquistate e impiegate (gli scippi e i borseggi di strada) i risultati non sono per nulla incoraggianti. Il punto, quindi, non è tanto schernirsi di fronte alla scelta dell’utilizzo della videosorveglianza in sé (in un contesto, quello contemporaneo, in cui siamo ben più controllati di quanto si possa immaginare), ma piuttosto interrogarsi sul genere di risposta che questi strumenti restituiscono allo standard del benessere collettivo. Parallelamente, nell’ottica delle competenze di “sicurezza urbana integrata”, sarebbe buona cosa non dimenticare che il compito della politica locale – quella dei sindaci, degli assessori - non consiste nel rincorrere sul piano dell’ordine pubblico gli organi deputati a ricoprirne ruoli e funzioni (Polizia, Carabinieri, ecc.), ma di coadiuvarne le azioni nel rispetto delle competenze attribuite ad ognuno come previsto dalla legge. E cioè in un’ottica di complementarietà. Nel secondo caso, le medesime considerazioni valgono per l’applicazione di quei provvedimenti che mirano a restringere, se non proprio a delimitare, l’uso pubblico degli spazi urbani o la regolamentazione di usi e abitudini sociali mediante la “produzione” normativa delle ordinanze sindacali. La formulazione di un provvedimento teso a ridurre l’apertura delle sale d’aspetto di una stazione ferroviaria - ammesso e non concesso che tale ordinanza si renda applicabile - oltre che spostare il problema (la presenza di siringhe abbandonate dai tossicodipendenti locali), crea i supposti per costruire un “dentro insano” separandolo illusoriamente da un “fuori decoroso”. Per di più, l’esperienza insegna che nel campo della sicurezza urbana, il loro utilizzo strumentale in funzione del raggiungimento di un maggiore consenso politico non trova sbocchi positivi. Inoltre, occorre non scordare che la recinzione di spazi pubblici, la limitazione dell’accesso in giorni e orari prestabiliti a danno di alcuni (e a beneficio di altri), o l’impossibilità (quanto meno sulla carta) che alcuni possano sedere sulle panchine di una città, oltre a rappresentare delle soluzioni infelici per quelle amministrazioni che le adottano (poiché virano verso la costruzione di una città strutturata sulle “differenze”), costituiscono un passo all’indietro (se non un ritorno al passato), più per quelle minoranze che le subiscono, che non per il campo visivo del cittadino comune, protetto da qualche forma di garanzia e di tutela pubblica.

Dunque, che la sicurezza e il decoro si coniughino e si confondano tra loro non dovrebbe destare né stupore, né condanna; poiché si è avuto modo di constatare quanto entrambe rappresentino le facce della stessa medaglia. Il problema consiste, piuttosto, nel fatto che a fronte di una incompleta definizione di ciò che si intende con “comportamenti indecorosi” o di “pubblica indecenza”, l’applicazione per così dire “a maglie larghe” della normativa in vigore ha visto sbizzarrire gran parte dei Sindaci nella promulgazione di ordinanze, non a caso definite “creative”, che hanno elevato fuori misura le aspettative dei cittadini in tema di polizia urbana, lasciando però disattese gran parte delle aspettative generate. La questione, però, ancora una volta, sembra un'altra.

Non tutte le ordinanze sono da gettare nel medesimo calderone. E soprattutto, non tutte hanno origine dai “pruriti” sicuritari degli amministratori. Talvolta sono la risposta sbagliata, se non al peggio inapplicabile, a questioni di ordinaria amministrazione che per troppo tempo sono state

accantonate dall’agenda politica e che, prima o poi, quando risalgono la china, esplodono come una bomba a cielo aperto; comparendo sotto la voce distorta delle “emergenze”.

A fronte delle considerazioni elaborate fino a qui, un dato inequivocabile, al pari degli altri, di certo non smentisce quanto osservato girando per la città e successivamente incrociato con le fonti delle forze dell’ordine, e cioè la distribuzione dei fatti criminosi riepilogati nelle statistiche sulla delittuosità. Il dato più “sorprendente” emerso dall’andamento dei reati ad Albenga dimostra che nello spazio di cinque anni, in tema di criminalità e devianze urbane, in città, è obiettivamente cambiato poco. Se si guarda alla commissione di gran parte dei reati predatori, in barba a proclami di militarizzazione urbana e minacce di coprifuoco, gli andamenti hanno dimostrato di non allentare la presa su alcuni bersagli della città (umani e immobili), ma in taluni casi hanno accentuato la spinta verso derive che ad oggi, hanno rivelato decisamente ininfluenti le politiche fino a qui adottate.

In tal senso, gli incessanti commenti apparsi sulla stampa locale sui fatti di cronaca che coinvolgevano devianze e crimini a ridosso della campagna elettorale, così come il loro lento ma progressivo attenuarsi a partire dall’insediamento della nuova giunta, la dicono lunga rispetto al fatto che il governo della sicurezza urbana, se privo di politiche di programmazione incisive e articolate, nel lungo periodo non riserva riscontri tra i cittadini e consensi politici tra gli amministratori. Di questa realtà ligure, come di altre in Italia, gli anni recenti ne sono stati testimoni. Non resta che augurarsi un’inversione di tendenza e, con essa, una migliore percezione della qualità della vita dei cittadini, anche in realtà territoriali che non si prestano ad essere (ne a divenire) dei piccoli Bronx locali.

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