IV. La regola di giudizio elaborata dalle Sezioni Unite della Cassazione
4.3. Alcune sentenze successive alla pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione
Nonostante le critiche mosse da una parte della dottrina, le sentenze successive all’orientamento giurisprudenziale espresso nella sentenza n. 27918 del 2010, hanno tutte tendenzialmente accolto il principio, di derivazione convenzionale, da quest’ultima sancito: la responsabilità dell’imputato non può essere affermata basandosi unicamente o in misura significativa su dichiarazioni, pur legittimamente acquisite, rese non nel contraddittorio.
Sembra pertanto oggi non più utilmente prospettabile la tesi secondo la quale l’incidente costituzionale avrebbe rappresentato la via più appropriata da percorrere per rimuovere il contrasto del sistema processuale domestico rispetto alle prescrizioni pattizie, atteso che, oramai, il “diritto vivente”, nella materia che qui interessa, pare essersi consolidato nel senso della doverosità della applicazione da parte del giudice dello Stato della legge processuale interna alla luce delle disposizioni sovranazionali quali interpretate dalla Corte Europea.
Prenderemo in esame alcune delle sentenze successive alla pronuncia delle Sezioni Unite.
La sentenza n. 1945 del 22 dicembre 2014 (dep. il 16 gennaio 2015) è una delle tante sentenze in cui la Corte Suprema di Cassazione si è pronunciata in ordine alla utilizzabilità o meno, ai fini della decisione di merito, delle dichiarazioni unilateralmente assunte nelle fasi antecedenti il dibattimento.
In occasione di tale vicenda, la Corte – richiamando il principio secondo cui una sentenza di condanna che si basi unicamente o in misura determinante su una testimonianza resa in fase di indagini da un soggetto che l’imputato non sia stato in grado di interrogare o far interrogare nel corso del dibattimento integra una violazione dell’art. 6 CEDU – ha affermato che poiché nel caso di specie (reato di
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estorsione ascritto al ricorrente) l’affermazione di responsabilità dell’imputato in ordine alla condotta asseritamente estorsiva è derivata in via del tutto prevalente – secondo quanto puntualizzato dagli stessi giudici a quibus – dalle dichiarazioni della persona offesa non esaminata in dibattimento, e poiché le dichiarazioni fornite da due testimoni seppur reputate significative come elementi di conferma della attendibilità di quanto denunciato dalla persona offesa, non sono state vagliate con le opportune cautele, «la sentenza impugnata deve essere dunque annullata senza rinvio (...), non ravvisandosi i presupposti che legittimino un eventuale giudizio di rinvio».
In sostanza, nel caso in esame, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata essenzialmente per due motivi: 1) poiché la sentenza si era fondata unicamente sulle dichiarazioni rese fuori del contraddittorio dalla persona offesa; 2) perché, nonostante le dichiarazioni della persona offesa avessero trovato conferma nelle dichiarazioni dei due testimoni, quelle stesse dichiarazioni era state “prese per buone” senza effettuare alcuna accurata valutazione.
Ciò ha dato luogo, secondo la Corte, ad un processo complessivamente iniquo poiché il pregiudizio arrecato ai diritti di difesa non è stato controbilanciato da solide garanzie procedurali.
In base al medesimo principio, in occasione di una ulteriore e precedente vicenda, la Corte è arrivata a conclusioni diverse.
Il riferimento è alla sentenza n. 2296 del 20 gennaio 2014, con la quale la Corte ha statuito che il ricorso presentato dal ricorrente, che riteneva che la sentenza di condanna si era fondata esclusivamente su dichiarazioni di soggetti che non era stato possibile sentire in dibattimento, deve ritenersi infondata, «avendo la Corte d’appello chiaramente osservato che le dichiarazioni rese unilateralmente non hanno rappresentato un elemento indispensabile a sostegno della fondatezza del tema dell’accusa, in quanto la colpevolezza dell’imputato è state ritenuta provata con certezza alla luce delle
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ulteriori emergenze processuali compiutamente illustrate nella sentenza del Giudice di prime cure».
Detto diversamente, la Corte ha dichiarato il ricorso infondato, stante la non decisività dell’elemento di prova (le dichiarazioni rese dal correo e dal coimputato) formato fuori del contraddittorio; elemento di prova, infatti, supportato da ulteriori elementi di riscontro che hanno consentito di qualificare il processo come complessivamente equo, non essendosi, ripetiamo, la condanna fondata unicamente o in misura determinante sulle testimonianze rese precedentemente e non sottoposte a controinterrogatorio.
Ancor più di recente, la Corte, con sentenza del 21 gennaio 2016, n. 3660, ha rigettato il ricorso – presentato dall’imputato che lamentava il fatto che i giudici dell’appello non avevano effettuato il dovuto controllo di affidabilità delle dichiarazioni della persona offesa, acquisite ex art. 512 c.p.p. stante il suo decesso – in quanto, secondo la Corte, l’affermazione di responsabilità dell’imputato non è stata fondata soltanto sulle dichiarazioni rese nella fase delle indagini dalla persona offesa; la Corte, infatti, ha messo in evidenza la «sussistenza di robusti elementi di riscontro che si incastonano nella dichiarazione della persona offesa, rendendola inattaccabile.
Tali elementi, ha affermato la Corte, «sono idonei a controbilanciare il pregiudizio arrecato ai diritti della difesa dall’impossibilità di controinterrogare il dichiarante e ad assicuare l’equità del giudizio».
Le sentenze fin qui menzionate non hanno però aggiunto niente di nuovo rispetto al principio formulato dalla Corte a Sezioni Unite; risultano definitivamente superate quelle decisioni che avevano affermato che in caso di accertata impossibilità di natura oggettiva di garantire il contraddittorio (art. 111 coma 5 Cost.), le dichiarazioni costituivano prova di responsabilità altrui, in quando, in tal modo, l’art. 6 lett. d CEDU era in contrasto con tale principio costituzionale.
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Qualcosa in più è stato statuito dalla Corte con la sentenza n. 14807 del 18 aprile 2012, ove – accogliendo il ricorso presentato dall’imputato che lamentava la violazione dell’art. 526 c.p.p. in quanto ai fini della condanna si erano utilizzate in modo preponderante le dichiarazioni di coloro che non erano stati ascoltati in dibattimento – la Corte si è soffermata sulla necessità di applicazione del meccanismo della c.d. “prova di resistenza”, citato all’inizio della nostra indagine, in base al quale se, eliminando mentalmente le prove non assunte nel contraddittorio tra le parti, la condanna non può più essere pronunciata, significa che alle stesse debba attribuirsi la qualifica di “prove determinanti”, con la conseguenza che per sostenere l’accusa saranno necessari, in linea con quanto affermato dalle Sezioni Unite, ulteriori elementi di conforto.
Altra sentenza che merita citare è la n. 28988 del 20 giugno 2012. Con tale pronuncia, la Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile poiché la sentenza di condanna, seppur fondata in misura determinante sulle denunce effettuate dalle persone offese in sede di sommarie informazioni testimoniali ed acquisite ai sensi dell’art. 512 c.p.p., trovava conforto in ulteriori elementi probatori individuati dal giudice, idonei a confermare le conclusioni raggiunte.
In occasione di tale sentenza, la Corte ha avuto modo di precisare, in contrasto con quanto sul punto ritenuto dai giudici dell’appello, che non è possibile valorizzare come riscontro la sovrapponibilità delle dichiarazioni rese, in sede di sommarie informazioni testimoniali, dalle due persone offese, stante la regola secondo cui «la dichiarazione accusatoria della persona offesa acquisita ai sensi dell’art. 512 c.p.p. deve trovare conforto, per sostenere l’accusa, in ulteriori elementi individuati dal giudice, con doverosa disamina critica, nelle risultanze processuali224». E, tra tali ulteriori elementi, non pare possibile ricomprendere dichiarazioni che, poiché anch’esse acquisite ex art. 512
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c.p.p., presentano la stessa “debolezza intrinseca” delle dichiarazioni da riscontrare.
Occorre in proposito evidenziare che per i soggetti di cui all’art. 210 c.p.p. (e all’art. 197 bis c.p.p.) tale regola non vale. La chiamata in correità, perché possa assurgere al rango di prova posta a fondamento di un’affermazione di responsabilità necessita di riscontri estrinseci; questi, possono avere qualsiasi natura, sicché possono consistere anche in un’altra chiamata in correità, a condizione che questa sia totalmente autonoma rispetto alla prima.
Se si consolidasse questo indirizzo, pertanto, il c.d. riscontro incrociato sarebbe possibile per le chiamate in correità raccolte in sede dibattimentale, non anche per le dichiarazioni dei testi assunte fuori del dibattimento.
4.4. Il catalogo dei c.d. elementi compensativi, elaborati dalla