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IN FUNZIONE DELLA LIBERAZIONE

1. Aldo Capitini: uomo della pace e della nonviolenza

Per Capitini la pace e la nonviolenza sono intimamente legate ad una rifondazione antropologica dell’uomo: non costituiscono un segmento o un semplice settore della cultura o della vita sociale e politica, ma una nuova dimensione esistenziale, un andare oltre da uno specifico modo di essere dell’uomo ad un altro, aperto e dinamico. La nonviolenza è infatti “apertura

all’esistenza, alla libertà e allo sviluppo di ogni essere ”1 e trova il suo

fondamento nell’Agape.

L’unità amore2 è un atto di vicinanza infinita, un vivere in sé l’essenza

dell’altro, puro dare e pura presenza, che vuole cogliere l’Altro e non scivolare su di lui, vuole viverlo in modo intero come persuasione e non come urto di atomi o come contratto, togliendo nell’intimo ogni residuo di separazione: “La

nonviolenza è, dunque, dire un tu ad un essere concreto e individuato; è avere interessamento, attenzione, rispetto, affetto per lui; è avere gioia che esso esista, che sia nato, e se non fosse nato, noi gli daremmo la nascita: assumiamo su di noi l’atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come madri ”. 3

La nonviolenza esige il fuoriuscire arrischiato dai territori protetti del sé, della norma e dell’utile, per gettarsi con l’altro e sulla traccia dell’altro,

1 Martini M. (a cura di), Aldo Capitini. Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, Pisa,

ETS, 2004, pp. 183-184

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Capitini A., Elementi di un’esperienza religiosa, Bari, Laterza, 1937

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spingendolo più innanzi e lontano in una Galilea incognita, terra non giurisdizionale, nella quale viga soltanto, pur nella torsione infinita e sofferta di una disperata resistenza all’omogenesi, l’imperativo morale di dissomigliare a chiunque altro per essere infine nella direzione insostenibile del proprio ed altrui altrimenti4: “L’altro uomo è a noi un’immagine di come siamo (...); se io, anche

nel silenzio e nella solitudine della mente, rispetto l’immagine di un uomo, affermo in quel momento stesso la mia dignità di uomo, rendo omaggio all’essere spirituale in lui e in me. Chi non rispetta un altro, in realtà non rispetta nemmeno se stesso”. 5

L’altro ci fa essere quello che siamo, nella relazione con l’alterità, come in un gioco di specchi mai concluso, assume e muta forma l’essere manifesto di ciascuno. Anche per Martin Buber senza il contatto con il tu non si può avviare un’autentica riflessione su se stessi: “Il rapporto al Tu è immediato: tra Io e Tu

non stanno concettualizzazioni, prenozioni e fantasie; (…) Tra Io e Tu non sta alcuno scopo, alcuna brama e alcuna anticipazione; anche la nostalgia si muta capovolgendosi da sogno in apparizione. Ogni mediazione è ostacolo: solamente dove ogni intermediazione è caduta, avviene l’incontro”.6

È dunque della massima importanza iniziare a vivere non per noi stessi, ma per gli altri. Così saremo capaci di guardare in faccia le nostre limitazioni e di

4 Pomi M., Nei luoghi non giurisdizionali. Inattualità dell’educare, in Erbetta A. (a cura di), Senso

della politica e fatica di pensare, Bologna, CLUEB, 2003, pp. 318-333

5 Capitini A., Elementi di un’esperienza religiosa, cit., p. 75

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accettarle. Fino a quando proveremo adorazione per noi stessi, tutte la nostre deficienze rimarranno a torturarci come una macchia che non si può nascondere.7

L’epifania dell’altro ha come presupposto la dissoluzione critica della soggettività dell’uomo moderno che fino ad oggi ha visitato ogni angolo del mondo senza mai incontrarvi altri che se stesso. 8

Per Kafka9 la via che arriva al prossimo è lunghissima, ed è un luogo

interiore di profondità dove l’altro, collocato sulla soglia di un’apertura o sul bordo di un confine, da principio di separazione si trasforma in soggetto da incontrare nella reciprocità.10

L’etica della nonviolenza fa propria la formula dell’imperativo categorico kantiano: Agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua persona che nella

persona di ogni altro sempre come fine e mai unicamente come mezzo.

L’unicità di ciascuno è un contributo, che non può essere negato, alla ricchezza incommensurabile di cui il genere umano può disporre. La presenza dell’altro da sé, del tu, esiste sempre; e, all’interno della dimensione dialogica, la distanza interpersonale e l’opposizione io-tu hanno una funzione propositiva ed educativa per il soggetto. La consapevolezza dell’unicità guida l’uomo nella direzione della sua vita e, nell’io-tu, autentica la sua esistenza. Ciò significa coscienza di sé e delle coordinate della situazione, ma anche, necessariamente,

7 Merton T. H., Nessun uomo è un’isola, tr. it., Milano, Garzanti, 1998 8

Balducci E., La pedagogia del tramonto. Saggio sulla transizione, Firenze, Giunti, 2005

9 Kafka F., Diari, tr.it., Milano, Mondadori, 1953 10 Ovadia M., Contro l’idolatria, Torino, Einaudi, 2005

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responsabilità: ascoltare e rispondere, con il coinvolgimento della propria totalità (tutto ciò di cui si è ora capaci), all’insopprimibile appello di ciascun istante. È nel

qui e ora, in quest’attimo dell’esistenza, offerto come un dono, che nasce la

responsabilità verso il mondo.

Per Capitini esiste un legame organico tra il fine e il mezzo, e l’averlo trascurato nell’azione politica, usando la guerra come via della pace, la dittatura come via della libertà, ha perpetuato e esacerbato la crudeltà e l’oppressione nel mondo. La coerenza tra il fine e il mezzo si pone come un’esigenza non soltanto della morale, ma anche della validità della stessa azione politica. Occorre ripensare, in una prospettiva autenticamente pedagogica, la relazione tra il fine e il mezzo, e superare, definitivamente, la tradizione realistica del pensiero e della prassi politica occidentale.

Già Gandhi aveva messo in guardia coloro che volevano raggiungere il bene con mezzi malvagi: “Si dice che “i mezzi in fin dei conti sono mezzi”. Io

vorrei dire “i mezzi in fin dei conti sono tutto”. Quali i mezzi, tale il fine. Non vi è muro di separazione tra mezzi e fine. (…) Il mezzo può essere paragonato ad un seme, il fine ad un albero; e tra il mezzo e il fine vi è appunto la stessa inviolabile relazione che vi è tra il seme e l’albero. È improbabile che io ottenga risultati derivanti dall’adorazione di Dio prosternandomi davanti a Satana. Se perciò qualcuno dicesse: “Voglio adorare Dio; non importa che lo faccia per mezzo di

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Satana”, queste parole verrebbero considerate la follia di un ignorante. Raccogliamo esattamente quello che seminiamo”.11

Lo stretto legame tra fine e mezzo conferisce alla nonviolenza, in Capitini come in Gandhi, un’origine e un carattere religiosi: “da un punto di vista religioso

importa sommamente non l’ottenere una cosa o un’altra, ma il modo di ottenerla. Perché il modo vuol dire l’ispirazione che vive in quel momento, il senso della vita, l’anima, il centro. Io accarezzo una bestia, ma posso far ciò per affetto e compiacenza della sua vita; e posso far ciò per abbonirla e menarle meglio un colpo mortale. La religione porta nel modo più risoluto l’attenzione sui mezzi: i mezzi religiosi della verità e della nonviolenza sono proprio l’atto religioso; che non vale nella sua essenza perché è vantaggioso, ma in senso assoluto, per un amore che è superiore ad ogni considerazione di utilità ”.12

Il dovere morale di Kant è, tuttavia, per Capitini solo un’anticipazione dell’aggiunta: “È noto quanto rilievo dette il Kant alla distinzione tra esistenze

che non debbono essere considerate semplicemente come mezzo, trovandosi in esse la razionalità, la spiritualità, l’umanità che è fine, ed esistenze che sono semplicemente mezzi, strumenti, tali da servire ad altro. Ma qui c’è subito da osservare questo: che la distinzione tra ciò che deve essere considerato come un fine, e ciò che non può essere considerato, che come un mezzo, non è per nulla

11 Gandhi M. K., Antiche come le montagne, tr. it., Milano, Edizioni di Comunità, 1963, pp. 115-

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una divisione fissa ed eterna, perché il progresso sta proprio nell’ampliare la sfera di ciò che è fine”. 13

Il regno kantiano dei fini è il regno degli esseri razionali, non di tutti gli esseri viventi, compresi gli esseri non razionali. Per Capitini, invece, la natura non è chiusa all’influenza del valore, ma è aperta alla compresenza, non esiste per il persuaso un dualismo insuperabile tra mondo fenomenico e mondo noumenico, che riproduce il vecchio dualismo teologico14: “Esiste un altro grado di amore,

che non toglie il primo, ma che si forma e si allena in esso, con il proposito tuttavia di aprirsi, ed è la disposizione alla benevolenza, oltre i concreti atti di affetto per gli esseri del mondo circostante. Si capisce che questa disposizione è sommamente importante per la nonviolenza, che specialmente qui si corrobora. Il primo amore può essere nonviolento per alcuni esseri, e violento contro altri. Il secondo amore, quello aperto, ha un principio a cui si riporta, talvolta anche uno sforzo, superando le scelte per gusto particolare, per interesse, per avversione verso alcuni”.15

Il vegetarianesimo di Capitini nasceva, infatti, da due principi di ordine etico: a) dal fatto che ogni essere vivente ha il diritto di perseguire e di raggiungere la felicità; b) dal fatto che nessun vivente animale può essere considerato un mezzo. Il suo però non fu un animalismo fanatico e ad oltranza, in

13 Capitini A., Aspetti dell’educazione alla nonviolenza, Pisa, Pacini-Mariotti, 1959, p. 4

14 Bobbio N., La filosofia di Aldo Capitini, in Bobbio N., Maestri e compagni, Firenze, Passigli,

1984, pp. 239-260

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quanto egli ebbe sempre ben chiara, su un piano gerarchico, la diversità e la superiorità dell’uomo nel mondo dei viventi. È proprio tale collocarsi su un gradino più elevato però che impone all’uomo l’obbligo etico di un rispetto assoluto della natura.

La compresenza, in tal senso, per Capitini è struttura e funzione antiegocentrica spinta e principio dinamico in direzione della solidarietà del soggetto con tutti gli esseri viventi del passato, del presente e del futuro, secondo e in prospettiva di un orizzonte valoriale inedito per liberare ogni singolo essere dalla finitudine del reale e dai limiti che lo determinano; è principio escatologico, spogliato dai vincoli del linguaggio della tradizione idealistica e della teologia; non ha carattere extratemporale né è volta al passato, bensì è nel tempo del presente/futuro come tensione etico-valoriale16: “La persuasione della

nonviolenza si rifiuta di accettare come insuperabile l’ordine della Natura, nel quale la vita dell’uno risulti dalla morte dell’altro, e sconnette quest’ordine imprimendo un moto verso un altro ordine, e cercando senza tregua nella Natura stessa esseri individui, da vedere collegati nel nesso della compresenza, allargando questa agli esseri detti “subumani”, portando l’amore e il rispetto della vita il più possibile nel profondo della stessa Natura, come esempio, orientamento e speranza che lo spazio e il tempo nulla tolgano al rapporto con

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ogni essere, che la malattia, la morte, la separazione, siano vinte dall’unità e interdipendenza di tutti”.17

Con Walter Benjamin18 possiamo dire che il compito di una critica alla

violenza si può definire come l’esposizione del suo rapporto con il diritto e con la giustizia, poiché una causa agente diventa violenza, nel senso pregnante della parola, solo quando incide in rapporti etici. La sfera di questi rapporti è definita dai concetti di diritto e di giustizia. Per quanto riguarda il primo, è chiaro che il rapporto fondamentale, fondativo e più elementare di ogni ordinamento giuridico è quello di fine e mezzo e che la violenza può essere cercata solo nel regno dei mezzi e non in quello dei fini. Tali considerazioni forniscono, per la critica della violenza, un principio da cui partire, poiché se la violenza è mezzo potrebbe sembrare che il criterio della sua critica sia dato senz’altro.

La nonviolenza assume in Capitini il valore ampiamente comprensivo e socialmente e culturalmente dirompente di un metodo generale, incentrato sulla virtuosità dell’apertura, dell’azione liberatrice ed emancipatrice, e della più ampia opera di tramutazione della realtà esistente in direzione dell’inedito. L’apertura ristrutturando l’esperienza del soggetto in un multiverso relazionale, anch’esso costitutivamente aperto e inconcludibile, desitua l’identità singolare in un terreno intersoggettivo di reciproca comunicazione. La nonviolenza come prassi dialogica omnincludente è, infatti, accoglienza in atto di quanto proviene dall’altro, anche

17 Capitini A., Il potere di tutti, cit., p. 180

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non umano, per assumerlo in un movimento di apertura continua dell’io, dell’altro e della realtà, nella tessitura infinita di relazioni simboliche in grado di crescere e di espandersi oltre se stesse, aggregando altre singolarità in espansione. 19

Per Capitini la speranza è nel noi e, se è vero che non si può vivere di sola speranza, è però altrettanto evidente che la speranza rappresenta la condizione necessaria perché il tu, un altro tu e ancora un tu possano effettivamente e concretamente trasformarsi in un noi. È soltanto nel noi che il singolo io-tu trova la spinta per andare oltre il limite e per costruire il dialogo e il riconoscimento, indispensabili per superare qualsiasi forma di cultura monocratica e/o autoreferenziale. Nel noi non c’è più diritto di cittadinanza per l’egoismo, per l’utile personale, per la prevaricazione, per la violenza. Il noi è quel regno dei fini kantiano, nel quale trionfa la pace perpetua, dove si ha il coraggio di usare il proprio intelletto e dove, soprattutto, nessun essere vivente e la natura nella sua totalità non sono mai mezzo, ma sempre fine. In un’ottica pedagogica e solidaristica, infatti, mezzi e fini si coimplicano e per nessuna ragione possono essere separati.

Il pensiero e la prassi nonviolenta di Capitini ridefiniscono il concetto stesso di trascendenza che, se posta storicamente come assoluta, stabilisce fonti di potere, ierocrazie e teocrazie, ma, se vissuta in termini orizzontali, prepara

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Pomi M., Al servizio dell’impossibile. Un profilo pedagogico di Aldo Capitini, Firenze-Milano, RCS- La Nuova Italia, 2005

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l’apertura religiosa come presupposto ineludibile dell’azione politico-sociale: l’io trascende nel tu e il tu nel tutti.

Etimologicamente la coscienza è un con-sapere, e perciò in sé contiene la pluralità del noi, l’apertura di un io che si fa trascendenza ed immanenza nella relazione, diventando un noi consapevole ed eticamente orientato. Il noi della comunità non è soltanto il risultato della comunione tra persone, ma esso si pone e si colloca prima, è un anterem: non solo trascende l’io sollevandolo nel libero gioco delle corrispondenze interpersonali, ma lo precede e lo costituisce come unità plurale. C’è un noi immanente all’io. C’è una struttura soggiacente alla mia soggettività, una struttura di comunione da cui emergo come veicolo cosciente di un noi che in me pensa, vuole e spera.

Del resto, solo la relazione etica di trascendenza del sé verso l’altro da sé può dar vita ad una società ispirata ai valori di un autentico pluralismo, che persegua concretamente, su questa terra, l’obiettivo della pace perpetua: che non è, come sottolinea Lévinas,20 la pace gravida di violenza e di morte imposta nel

corso del tempo dai protagonisti della storia, ma la pace di chi riconosce all’altro il diritto di essere tale.

Di fatto, quando i potenti impongono la loro legge, parlano sempre di pace per indicare al mondo che l’opposizione è finita. Se la minoranza accetta l’arroganza del vincitore, allora, i servi potranno sperare di diventare uguali ai

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padroni. Giungerà, comunque, un giorno in cui bisognerà rendere conto della diversità e la maggioranza, che non necessariamente sarà destinata a conservare il potere, cercherà di annientare la minoranza con tutti i mezzi possibili.21

Per Capitini il tu più dell’io fonda la persona, l’essere come atto, nella presenza il cui insieme è la compresenza: “La nonviolenza fa vivere l’Uno-Tutti;

e così salva due atteggiamenti scadenti: quello di chi vorrebbe arrivare individualisticamente alla unità, per suo conto, trascurando di aprirsi agli altri; quello di chi guarda all’Universo, l’Uno-Tutto, che non è altro che un’immagine, un’idea della mente, e trascura la concretezza dell’Uno-Tutti ”. 22

La trascendenza rispetto all’immanenza dei fatti è data, quindi, dagli “atti” degli individui che introducono il valore. Il fatto è ciò che troviamo nella nuda realtà, mentre il valore è ciò che muove da noi verso la realtà e, aggiungendosi ad essa, la cambia. 23

L’atteggiamento nonviolento al pari di quello religioso muove dall’insoddisfazione verso ciò che nella natura, nella società e nell’umanità intera si costituisce o si è costituito per mezzo della violenza. La nonviolenza è un metodo di superamento delle strutture di dominio e delle situazioni di conflitto dove vige l’uso della forza e della menzogna e si realizza con l’assunzione e la creazione di modi di agire e di rapportarsi agli altri assolutamente nuovi e diversi:

21 Bettini E., La pace armata. Lettere di un obiettore di coscienza, Milano, Selene Edizioni, 2000 22

Capitini A., Religione aperta, cit., p. 144

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“Se la profonda esigenza è quella di sentirci più vicini a tutti, ci asterremo da

quell’elemento di separazione somma che è l’odio; se vogliamo che la vita sia di tutti, non saremo noi i primi a negarla dando la morte; se sentiamo la verità come un patrimonio universale, non ne defrauderemo nessuno ricorrendo alla menzogna; non monopolizzeremo i beni materiali se vogliamo che essi affluiscano a tutti, né quelli culturali se tendiamo all’elevazione e all’arricchimento dell’animo altrui ”.24

La nonviolenza opera innanzitutto all’interno della coscienza umana e come un’onda si riversa nella realtà e la trasforma, essa ha un carattere di edificazione interiore ed è impegno alla trasformazione più profonda, dalla quale derivano tutte le altre: “Non basta polemizzare e lottare contro lo Stato, come se

esso sia la fonte di tutti i mali, e tolto quello non vi sia alcun timore che il bene trionferà. Lo Stato è in rapporto con l’uomo, e se l’uomo si fa il suo Stato e se lo alimenta e sostiene, è segno che esso non è un malvagio coperchio, ma un foggiato strumento. Io non sono così ottimista sull’uomo da credere che basti togliere lo Stato; perché l’uomo se resta tale e quale, lo Stato se lo rifarà uguale.

(…) Se tale l’uomo e tale lo Stato, è soprattutto agendo sull’uomo, tramutandolo

nei suoi rapporti essenziali con Dio, la realtà, la società, che potrà superarsi lo Stato così come si è attuato finora”.25

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Capitini A., Il potere di tutti, cit., p. 50

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La nonviolenza, che Capitini scrive in una sola parola per sottolinearne la struttura organica e il carattere positivo, è un metodo, che definisce un insieme di teorie e di prassi, e l’idea di un certo ordine nella messa in pratica di alcune tecniche, che Capitini distingue in individuali e collettive,26 mostrando

un’attenzione che si può definire, senz’altro, pedagogica.

Capitini ha assunto da Gandhi l’idea del metodo nonviolento impostato sulla noncollaborazione27 e, attraverso il suo insegnamento, è riuscito a superare

l’angusto etnocentrismo che coinvolgeva la massima parte della cultura italiana del suo tempo. Gandhi28 lo aiutò ad allargare il suo orizzonte da europeo a

26 Delle prime fanno parte: l’atto del tu, ossia il rivolgersi a un singolo individuo, tecnica

preliminare a tutte le altre, poiché rappresenta l’orientamento fondamentale dell’animo nonviolento che si apre verso l’altro; la zoofilia e il vegetarianesimo; il superamento della vendetta e del risentimento; le preghiere e gli atti di culto, quando tendono ad agire sugli altri per ottenere una cosa altamente giusta; la persuasione, quando non si traduce in coercizione; il dialogo e la non menzogna; il digiuno; la noncollaborazione, il cui principio si trova come termine di passaggio tra le tecniche individuali e quelle collettive, e che consiste, in particolare, nella scelta di non partecipare ad un’azione ritenuta ingiusta, può effettuarsi nei riguardi di una persona, di