La lirica volgare delle Origini puntella, nell’ambito di un ricorrente modello sganciato da esigenze di storicità, i contorni di un Alessandro magnificente, simbolo di conquista e di gesta sovrumane; nel nostro regesto rinveniamo una figura caratterizzata da forza e liberalità, esaltata più che sottoposta a condanna.
Rimanendo nella produzione di Boccaccio, riscontriamo queste specifiche caratteristiche in alcuni versi dell’Amorosa visione:
[…] Risplendea quivi ancora cavalcando Alessandro, che ’l mondo assalì tutto, con forza lui a sé sotto recando; il qual con fretta voleva al postutto toccare il cerchio ove colei posava, cui questi disiavan per loro frutto. E ’l re Filippo e Nettabòr, gli andava ciascuno appresso rimirando quello, e nello aspetto se ne gloriava […].
[…] «Tu puoi», ricominciò la donna a dire, «veder qui Alessandro, ch’assalio
e non esser però il suo disio
pien, ma più che giammai esser ardente; e ’n tale ardor, come vedi, morio […]»196.
Mentre una delle prime attestazioni volgari della liberalità alessandrina è rinvenibile ne Il Tesoretto di Brunetto Latini:
Al valente segnore, di cui non so migliore sulla terra trovare […]. […] il vostro cuor valente poggia sì altamente in ogne benananza che tutta la sembianza d’Alesandro tenete, ché per neente avete
terra, oro ed argento […]197.
Il dedicatario dell’opera198 viene ‘elevato al rango’ del Macedone: termine di paragone assoluto per
quanto riguarda l’elargizione di benefici.
196 Giovanni Boccaccio, Amorosa visione, a cura di V. Branca, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, Milano, Mondadori, 1974, Canto VII, vv. 76-85, p. 43; Canto XXXV, vv. 1-6, p. 109.
197 Il Tesoretto, in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, cit., t. II, pp. 175-277, vv. 1-3, 25-31 (p. 176). Grandezza e ‘dominio sul mondo’ sono celebrati anche nel Roman de la Rose, ove viene descritto un Macedone «qui tant osa d’armes enprendre / et tant continua ses guerres / qu’il fu sires de toutes terres; / et puis que cil li obeïrent / qui contre lui se combatirent / et que cil li furent rendu / qui ne s’erent pas deffendu, / dist il, tant fu d’orgueill destroiz / que cist mondes ert trop estroiz / et k’enviz s’i pooit torner, / n’il ni voloit plus sejorner, / ainz pensoit d’autre monde querre / pour commencier novele guerre; / et s’en aloit enfer brisier / pour soi faire par tout prisier». Guillame de Lorris et Jean de Meun, Le Roman de la Rose, présentation, traduction et notes par A. Strubel, Paris, Librairie générale française, 1992, vv. 18768-18782, pp. 974-976.
198 Contini delinea più ipotesi: «Nel dedicatario lo Zannoni ravvisò, con qualche probabilità posto il contesto, Luigi IX il Santo, re di Francia dal 1226 al 1270, e dunque in particolare negli anni che Brunetto vi passò in esilio, fra Montaperti e Benevento. O forse si potrà pensare ad altro personaggio della dinastia capetingia, in particolare a Carlo d’Angiò, fratello di Luigi e sostegno dei guelfi fiorentini; ma non certo, come pur si è fatto, ad Alfonso X, e tanto meno a Rustico di Filippo (cui è indirizzato il Favolello). Il Carmody ritiene peraltro che si tratti di quello stesso potente concittadino per cui il Latini scrisse la Rettorica, il quale sarebbe poi lo sconosciuto amico a cui è offerto il Tresor». Il Tesoretto, cit., p. 175, n. al verso I e ss.
Gli fa da eco Guittone nel sonetto ‘ascetico e morale’ In amore anche il bene torna in gran male:
O tu, lass’omo, che ti dai per amore, come po tu sì ’l tuo danno abellire? Ché ben de’ altri sostener labore, pregio acquistando o riccor a piacire; e tu de tutto ciò metteti fore,
e nel contrar te peni di venire: legger de gioia e grave de dolore teneti sempre el tuo folle desire. E se valesse, a condizion d’amare, in ciascuna vertù compiutamente, quanto Alessandro re valse in donare, sì te despregierebbe el conoscente,
perch’è ’l mal troppo, e, s’alcun bene appare, veggio che torna a gran mal finalmente199.
Mentre il Pucci effettua un parallelismo tra Cangrande della Scala ed il Macedone, appoggiandosi ancora al terreno della liberalità:
Montar credeva il Mastin Veronese con quella scala che ’n superbia prese più che non fece Alessandro cortese in signoria,
che tutto ’l mondo tenne in sua balia per gran savere e sì per maestria200.
199 Guittone d’Arezzo, Le Rime, a cura di F. Egidi, Bari, Laterza, 1940, p. 230 (s. 165). Scrive il curatore nel suo commento, v. 9: «Il senso par questo: se, nella condizione di chi ama, tu valessi appieno in ciascuna virtù tanto quanto valse il re Alessandro nel donare, pure chi conosce bene le cose ti disprezzerebbe, perché in amore troppo è il male, e, se anche vi appare alcunché di bene, questo finisce col tornare in gran male. Ed è questo un concetto ripetuto a sazietà dal nostro». Ivi, pp. 364-365.
200 Cfr. Antonio Pucci, Al nome sia, in Rimatori del Trecento, a cura di G. Corsi, Torino, UTET, 1969, pp. 850-855 (vv. 93-98). Nell’ambito dei rimatori trecenteschi, Alessandro viene menzionato anche da Simone Serdini detto il Saviozzo: ««[…] Ricorditi di Iulio in la contrada / di Rubicon, che disse: / – Io te seguitarò, Fortuna lieta. – / Chi d’Alessandro mai tanto ne scrisse / quanto fu più nel seguitar vittoria? / Allor s’acquista gloria / quando il poter s’aggiunge a la stagione: / fiero Anibàl, ma vinse Scipione / per seguir sua vittoria e sua pianeta». Ivi, p. 607, (vv. 69-77). Nato a Siena
Cino da Pistoia, in L’alta vertù che si ritrasse al cielo, lo inserisce in un elenco di ‘altissimo rango’; si presenta come rafforzamento storiografico di un’iperbole:
[…] L’ardita morte non conobbe Nino, non teméo d’Alessandro né di Iulio, né del buon Carlo antico,
e mostrando nel Cesar il domino, di quel piuttosto accresce il suo peculio, ch’è di vertute amico […]201.
Mentre in Paolo dell’Aquila (ultimo quarto del XIV secolo), il Macedone compare insieme ad altri personaggi storici e letterari. Una rassegna che lo vede al pari degli altri, non più a primeggiare:
Qual mai Hectorre, Cesar né Pompeo, qual Alixandro mai, qual Costantino, qual re Artù omai, qual Saladino, qual Karlo Magno o Giuda Maccabeo, né qual Omonte omai o ver Teseo, Troiol, Orlando o alcun paladino, qual Anibal omai, qual fier Tarquino, o Hercol fort’ ch’uccise il grand’Anteo, né furon mai alcuni d’onor sì degni, quanto colui la cui gran voce e fama
nel 1360 e morto nel 1419-20, manda a Pandolfo III Malatesta una canzone che è indirizzata in realtà a Giangaleazzo Visconti, quand’ebbe occupato Bologna nel 1401. Il Pasquini lo ritenne privo della sincerità d’ispirazione; «alla mancanza di sentimento sopperiva con l’erudizione, i richiami mitologici, gli artifizi: da ciò la prolissità, la monotonia, il concettismo, il gonfio, il falso». Nella canzone, «s’introduce a parlare Roma per l’Italia al duca di Milano, quando ebbe Bologna, confortandolo che seguisse la sua vittoria» (ivi, p. 589). Cfr. Simone Serdini da Siena detto il Saviozzo, Rime, ed. critica a cura di E. Pasquini, Bologna, Commissione dei testi in lingua, 1965. Anche il Sacchetti lirico, in maniera meno stilizzata del Saviozzo, delinea la figura in questione nel suo ‘peso storico’ (riferimento alle campagne d’Oriente); riportiamo uno stralcio: «Morto costui, Dario incoronossi; / sconfitto da Allessandro fu più volte, / da Besso e Narbazzon<e> morto trovossi / con opere di tradimenti involte […] // Così finiron le potenze molte / De la Persa real<e> corona altera / e ’n Allessandro la Signoria venne, / che tutto il mondo ebbe a sua manera». Franco Sacchetti, Il Libro delle Rime, a cura di A. Chiari, Bari, Laterza, 1936 (197, vv. 124-127, 129-132).
vive beata nei celesti regni.
Questi nomati ognun per capo ’l chiama: Italia piange con pietoso sdegno
re Karlo, d’ognun fiore e rama202.