CAPITOLO 1 IL DOLORE
1.9. Le comorbilità nel dolore mentale
1.9.2. Alessitimia e dolore mentale
E’ necessario fare un’attenta disamina del costrutto di mentalizzazione così come concettualizzato da Bion al fine di fornire una più complessa valutazione degli aspetti che riguardano il dolore mentale. Secondo l’autore, l’incapacità di tollerare la frustrazione tipica degli individui con dolore mentale, si riflette in un’evidente deficit nel processo di mentalizzazione. Inoltre, la capacità di mentalizzare richiede un’alta tolleranza per l’ambiguità. La capacità di tollerare l’ambiguità tra gli individui con tendenze o comportamenti suicidari è compromessa, come descritto precedentemente a proposito della tunnel vision.
Attualmente, il concetto di mentalizzazione si è dimostrato essere in linea con il costrutto della teoria della mente (Premack e Woodruff, 1978) e con quello di metacognizione, questa condizione evolve attraverso la convergenza di contributi metodologici e teorici. Jost, Kruglanski e Nelson (1998) forniscono una visione della metacognizione estremamente ampia, tanto, da includere al suo interno non solo il pensare al pensiero ma anche il pensare alle emozioni e alle motivazioni sia proprie che altrui. Wells (2000) ha confermato la ricerca sulla metacognizione alla terapia cognitiva. Nonostante la maggior parte della ricerca sulla metacognizione si concentri sui processi cognitivi, la visione allargata della metacognizione proposta da Jost, Kruglanski e Nelson (1998), comprende anche l’aspetto emotivo, e le applicazioni cliniche di Wells, sono volte a facilitare la
53 regolazione delle emozioni (Allen, Fonagy e Bateman, 2008). Bjorgvinsson e Hart (2006), hanno sostenuto che la sovrapposizione concettuale con la mentalizzazione, è massima negli approcci di terza generazione della terapia cognitivo comportamentale, ovvero, le terapie metacognitive e la mindfulness (Allen, 2009).
Tuttavia, tra la mentalizzazione come definita da Fonagy (1991) e la metacognizione descritta da Semerari, c'è una differenza. Considerando la prima ipotesi, detta unitaria, questa valuta la conoscenza degli stati mentali come fossero un continuum che procede in un crescendo dal livello più semplice, a quello più sofisticato; la seconda ipotesi, nota come teoria modulare, ritiene, che nel caso di funzionamento normale, la conoscenza degli stati mentali è il risultato di una interazione tra sotto funzioni indipendenti. Numerose ricerche neuroscientifiche (Frith & Frith 1999; Vogeley et al., 2001; Ruby & Decety 2003; Saxe et al., 2004; Mitchell et al., 2006), e cliniche (Semerari et al., 2003;. Dimaggio et al., 2008; Prunetti et al., 2008) hanno dimostrano che ognuna di queste sotto funzioni che fanno parte della metacognizione (comprensione della propria e di stati mentali e la padronanza altre persone), sono composte da vari aspetti, e questi aspetti operano in maniera semiautomatica. Inoltre, alcune evidenze cliniche hanno fatto emergere come nello stesso paziente possano presentarsi allo stesso tempo, il deterioramento di una o più sottofunzioni mentre, altre funzioni mostrano di lavorare regolarmente. Anche all’interno di un gruppo di pazienti con quadri clinici analoghi tra loro potrebbero emergere discrepanze per quanto riguarda il tipo di funzionalità compromessa (Semerari et al., 2007).
Alla luce degli aspetti esposti sin qui, la metacognizione, può essere definita come un insieme di abilità cognitive e affettive che, permettono alle persone di pensare e regolare gli stati mentali personali e quelli di altre persone. Il fatto che la conoscenza della propria mente e quella degli altri costituiscano due sistemi distinti, solleva la questione di come questi interagiscono tra di loro e come questi processi siano resi possibili (Semerari et al., 2007).
Secondo la Simulation Theory (ST), il soggetto usa i suoi meccanismi mentali per percepire, calcolare e prevedere i processi mentali altrui (Gallese e Goldman, 1998). ST è stata sostenuta dalla scoperta di quelli, che sono stati chiamati neuroni specchio, si attivano sia quando vengono eseguite azioni finalizzate a uno scopo, sia quando si osservano le stesse azioni eseguite da altri (Rizzolatti et al., 1996; Gallese, 2001; Dimaggio et al., 2008). Gallese (2000) afferma che la capacità di simulare l’intenzione e la struttura motoria di una azione è la base neurale per lo sviluppo dell'empatia (Semerari et al., 2007). Tuttavia, in uno studio condotto utilizzando la tecnica dell’fMRI (Moriguchi et al., 2006) non viene confermata questa ipotesi. Gli individui con alessitimia mostrano una ridotta capacità di comprendere ed empatizzare con i sentimenti degli altri, e manifestano una maggiore inclinazione verso emozioni dolorose più di quanto non facciano
54 i soggetti del gruppo di controllo. A questo proposito, sarebbe importante tenere a mente che l'emisfero destro controlla la regolazione degli affetti, (Weinberg, 2000) ed è essenziale per la capacità di comprendere gli stati mentali altrui (Voeller, 1986; Baron-Cohen, 1997; Schore, 2000). La metacognizione include anche il concetto di alessitimia (Taylor et al., 1999; Vanheule, 2008; Semerari et al., 2008). Alessitimia descrive uno schema affettivo-cognitivo (Grandi et al., 2011) caratterizzato da difficoltà nell’ identificare i sentimenti e nel distinguerli dalle sensazioni somatiche; difficoltà nel descrivere e comunicare emozioni e sentimenti alle altre persone; processi immaginativi limitati; stile cognitivo orientato esternamente e aderente alla realtà (Sifneos, 1973; Taylor et al., 1999; Trombini e Baldoni, 1999).
Levi e colleghi (2008), analogamente a quanto riscontrato in un ulteriore studio di Gvion e colleghi (2014), hanno dimostrato che, i problemi di comunicazione, descritti attraverso le difficoltà nella self-disclosure, la presenza di alessitimia, di tratti schizoidi e della solitudine, permetto di riconoscere persone che presentano ideazioni o precedenti comportamenti suicidari. Inoltre, solamente questo aspetto è stato in grado di determinare la letalità del gesto suicida. Gli autori propongono un modello per spiegare i risultati del loro studio secondo il quale, nel caso una persona sia incapace di chiedere aiuto la situazione diventa insostenibile. Questa situazione unita alla presenza di ulteriori stressor, produce uno stato di potenziale minaccia alla vita del soggetto. In particolare, gli uomini e le persone appartenenti a culture individualiste sembrerebbero più soggette a questa problematica.
Per concludere, il lavoro di Bion sul rapporto negativo tra il dolore mentale e la mentalizzazione, darebbe un sostegno all’ipotesi di un deficit per quanto riguarda l’alessitimia. In particolare, le persone con un più alto livello di dolore mentale, presenterebbero una ridotta capacità di mentalizzare unita ad una forte alessitimia, mentre gli individui con basso livello di dolore mentale mostrerebbero una forte capacità di mentalizzare e uno scarso, se non assente, livello di alessitimia.