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TAB 7 DISAVANZO SUL PIL (%)

2.3 Altri cas

Ancor prima della Grecia altri due Paesi europei attraversarono una grande crisi economica interna, ovvero Irlanda ed Islanda, quest’ultima non facente parte dell’Unione Europea. Vediamo rapidamente come hanno gestito, o dovuto gestire, questa delicata fase le due nazioni.

L’Irlanda, in particolare, si trovò tutt’ad un tratto ad affrontare una crisi proprio nel momento di maggiore espansione economico-finanziaria del Paese. Come si evince dalla tabella n. 9, nel quinquennio antecedente lo scoppio della crisi il suo Pil era cresciuto con una media record del 5% annuo, paragonabile curiosamente proprio all’Islanda ed in parte anche alla Grecia, il che ha portato a forti investimenti (molti provenienti dall’estero) e quindi ad una larga concessione del credito che è andato a concentrarsi, come solitamente accade, nel settore immobiliare creando una bolla speculativa, la quale, insieme a quanto stava già avvenendo negli Usa, ha dato il la ad un fortissimo contraccolpo economico. (Napoleoni, 2011, pag. 78)

Fino a che i prezzi delle case hanno seguito lo sviluppo economico le cose sono andate migliorando, ma quando questi prezzi sono lievitati rispetto alla condizione reale dell’economia, senza che il governo intervenisse per mettere un freno a questa bolla speculativa, per l’Irlanda iniziarono i primi problemi che trovarono nell’imminente crisi finanziaria americana il terreno fertile per diffondersi senza controllo.

La politica non ha saputo efficacemente vigilare e delimitare la concessione del credito, divenuta troppo liberale da parte delle banche, che ben presto si ritrovarono con vaste perdite di bilancio, il sistema ha avuto perciò una visione economico-finanziaria troppo limitata al breve termine.

Il governo a quel punto prese una decisione forte per non veder perdere tutti i capitali esteri giunti in massa negli anni precedenti, garantì infatti tutti i depositi presenti negli istituti di credito irlandesi per 2 anni, nazionalizzando anche una tra i maggiori istituti finanziari del Paese. Questa iniziativa ebbe ovviamente ricadute pesanti sui cittadini, vista la portata economica dell’operazione, accompagnata da un contesto di forte recessione: la disoccupazione raddoppiò tra il 2008 e il 2009, la spesa pubblica arrivò quasi a raddoppiare tra il 2007 e il 2010 e il debito pubblico aumentò di quasi 4 volte

nello stesso arco temporale e i rendimenti dei titoli di stato a dieci anni, in costante ascesa, raggiunsero l’11% fino a fine 2011.

Se per l’Irlanda, facente parte anch’essa dell’Eurozona, valgono i discorsi fatti per la Grecia, ovvero dovette ricorrere a provvedimenti che richiedevano grossi sacrifici alla popolazione, necessari per riacquistare la fiducia dei mercati, rassicurando i creditori, con la speranza di riportare i conti pubblici a livelli più rassicuranti e allentare la morsa della crisi (a differenza degli ellenici i segnali su quest’ultimo punto sono positivi vista la ripresa del Pil nel 2011, anche se il deficit rimaneva elevatissimo), vale la pena analizzare il comportamento dell’Islanda, Paese non aderente alla moneta unica. Esso non essendo subordinato alle decisioni provenienti dalle istituzioni europee, ha potuto gestire la crisi in modo autonomo, non dando seguito alle proposte, o meglio, alle richieste del Fondo monetario.

Inizialmente l’Islanda, di fronte a quel quadro difficile che si stava prospettando, decise di nazionalizzare la banca più importante del Paese verso la fine del 2008, mentre la Borsa venne chiusa poco dopo a seguito del crollo della moneta. Il Parlamento, a quel punto, dopo le dimissioni del vecchio Governo, propose il rimborso del debito a Gran Bretagna e Olanda, detentrici dei fondi delle banche islandesi. La popolazione contraria a quanto prospettato, chiese il referendum, e lo ottenne, come in una vera democrazia. Anche il Presidente greco, come abbiamo visto, avrebbe scelto questa strada se non fossero arrivate le imposizioni di Bruxelles, ma questa è la faccia della medaglia in negativo tra chi è membro dell’Eurozona e chi invece è libero di decidere il proprio futuro come l’Islanda, i cui cittadini hanno così rifiutato il pagamento di 4 miliardi di euro al tasso del 5,5% mensile per 15 anni. (Napoleoni, 2011, pag. 76)

Il Paese ha continuato a far girare la propria economia svalutando la moneta e rendendo disponibili i risparmi a tutti i cittadini, ristrutturando il debito in breve tempo con i creditori che hanno nuovamente investito nel Paese, tornato solvibile e con un debito pubblico inferiore a Italia, Grecia e anche alla stessa Irlanda, con un Pil in crescita intorno al 3% dopo solo due anni di recessione.

Provvedimenti rapidi ed efficaci che l’UE non è riuscita né a prefiggersi né quindi ad imporre per tempo all’Irlanda in primis e successivamente alla Grecia, una lezione che paradossalmente ha dato anche Abu Dhabi in un contesto certamente diverso.

L’Emirato, infatti, si trovò pochi anni fa nella scelta di salvare o meno il “cugino” Dubai, il quale dopo aver sperperato denaro per creare una sorta di Las Vegas, non fu più in grado di pagare un debito da circa 30 miliardi di dollari. Abu Dhabi decise tempestivamente di garantire il debito, da qui iniziò la negoziazione per ristrutturarlo permettendo a Dubai, nell’arco di un anno, pagando circa il 60% del debito, di emettere nuove obbligazioni sottoscritte per intero. (Napoleoni, 2011, pag. 72)

Questi esempi ci fanno capire che il tempismo nella risposta ai problemi, evitando la chiusura dei bocchettoni della spesa pubblica, è la chiave per arrestare il proliferare della crisi e permettere una rapida ripresa economica, quello che è mancato nell’Eurozona.

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