• Non ci sono risultati.

3.1 Un’analisi storica delle criticità del mercato del lavoro italiano

Dal secondo dopoguerra fino all’inizio degli anni ’70, l’Italia visse un periodo di crescita che venne definito “un miracolo economico”. In due decenni lo stivale riuscì a completare la sua transizione dalla “periferia al centro” (Zamagni 1990), completando una transizione che portò la forza lavoro a spostarsi dalle aree rurali ai poli industriali. Alla fine degli anni ’60 l’industria italiana si era ampiamente diversificata, raggiungendo l’eccellenza in settori industriali come IT, automobilistico, chimico, degli elettrodomestici e aerospaziale. In quel periodo si sviluppa il concetto di “Made in Italy” come eccellenza nell’industria tessile, agroalimentare, calzaturiero strutturato su una fitta rete di piccole e medie imprese (Paris 2013).

In Italia il processo di riforme del mercato del lavoro in chiave liberista ha visto il suo esordio all’inizio degli anni ’90, sull’ondata di un generale clima riformista su tutto il continente europeo. Dall’accordo tripartito del luglio 1992 al Jobs Act del 2014 l’Italia ha vissuto un ventennio di politiche del lavoro orientate all’aumento della flessibilità lavorativa e alla decentralizzazione della contrattazione salariale (Battisti e Vallanti 2013).

Nello stesso periodo venne cambiato profondamente anche il sistema pensionistico, con la riforma Dini del 1995 (poi rivista tramite accordo tra Governo e sindacati nel 1997) ed in seguito con la Riforma Fornero del 2011. La crescita iniziò a rallentare dal primo shock petrolifero del 1973, che ebbe risvolti devastanti per l’economia di un Paese povero di risorse energetiche. Nello stesso periodo il sistema di partecipazioni statali, fortemente legato alla politica, divenne terreno fertile per clientelismi e ad una conseguente costruzione di impianti produttivi in posizioni poco strategiche. Ad ogni modo,

l’Italia vide il suo PIL crescere in maniera paragonabile a quella dei suoi principali competitori europei, grazie ad un export fiorente e all’evoluzione dei nuovi distretti industriali (Rinaldi e Vasta 2012). Una parte della letteratura ha però segnalato come la crescita di questo tessuto di piccole medie imprese, che ha caratterizzato l’economia italiana nei decenni successivi, sia stata fortemente aiutata dalla svalutazione della lira e da un certo lassismo nei controlli fiscali piuttosto che da una reale competenza imprenditoriale, visione confermata dai risultati piuttosto deludenti del periodo successivo (De Cecco 2000).

Infatti, a partire dal 1992 l’Italia ha visto la sua crescita economica dimezzarsi, a confronto della situazione del ventennio precedente, a causa della difficoltà del Paese ad adattarsi alle modifiche nel contesto economico globale date dalla crescita delle nuove tecnologie e al processo di globalizzazione.

Nell’evoluzione economia italiana non si può non considerare il ruolo della spaccatura tra Nord e Sud del Paese: già a cavallo tra il XIX e il XX secolo era possibile vedere una discrepanza del 25% nella quota di PIL pro capite tra i cittadini del settentrione e del meridione a favore dei primi, coerentemente con la distribuzione di infrastrutture per i trasporti e creditizie (Felice 2011). Il processo di industrializzazione andò ad acuire ulteriormente le differenze esistenti: il Nord Ovest del Paese beneficiò dello sforzo bellico della I Guerra Mondiale, che portò alla crescita del triangolo industriale tra Lombardia, Piemonte e Liguria. Il Nord beneficiò sia di misure di deflazione economica che della politica autarchica in difesa della produzione industriale, mentre il Sud mantenne una forte vocazione agricola che ne compromise lo sviluppo.

Il Mezzogiorno soffrì particolarmente a causa delle politiche demografiche del regime fascista e del tentativo correlato di raggiungere l’autonomia nell’approvvigionamento di prodotti agricoli per sostenere una popolazione in crescita: il divario crebbe sempre di più, e nel 1951 il PIL pro capite del Sud si

era ormai ridotto a meno della metà di quello delle regioni centrali e settentrionali.

Vi furono sforzi notevoli a livello statale per cercare di livellare le discrepanze regionali: nel 1950 venne istituita la Cassa per il Mezzogiorno, pensata per finanziare la costruzione di grandi opere infrastrutturali nelle regioni del Sud e per promuoverne l’imprenditoria, spesso collegata alle grandi aziende statali. Lo sforzo a livello di risorse in rapporto al PIL fu enorme, e tra il 1951 e il 1971 aiutò a riavvicinare le due parti del Paese (Lepore 2011).


Nonostante gli sforzi però non vi fu una continuità nella crescita del Sud Italia, e con la crisi petrolifera del 1973 le aziende del meridione vennero colpite in maniera particolarmente violenta. Gli interventi pubblici furono insufficienti e mal indirizzati, avviluppandosi in sistemi di welfare e supporto al reddito privi però di una pianificazione seria di sviluppo per l’area (Triglia 1992).

Dagli anni ’70 in poi, seppur lentamente, le regioni meridionali iniziarono nuovamente a rimanere indietro rispetto ad uno sviluppo che sempre più coinvolgeva il Nord-Est e il Centro dell’Italia, con regioni come Veneto e Friuli- Venezia Giulia che si distinsero per lo sviluppo di una rete capillare di aziende manifatturiere orientate all’export (Bagnasco 1977).

Gli indicatori statistici ci suggeriscono come l’Italia odierna sia ancora divisa a metà, tra un Centro/Nord ed un Mezzogiorno che presentano situazioni polarizzate: il Sud ha parzialmente ridotto il divario per quanto riguarda la produttività, ma non quello nel tasso di occupazione, che è aumentato dal 2009 ad oggi. Se nel 2016 la media del tasso di disoccupazione in Italia era all’11,68%, il Mezzogiorno segnava un 19,60% controbilanciato dal 7,56% del Nord (Dati Istat).

Dall’esplosione della crisi economico-finanziaria del 2008-2009, l’Italia ha subito una battuta d’arresto pesantissima, con una decrescita del PIL nel quadriennio 2008-2012 del 6,9%, che diventa 10,1% nel Mezzogiorno. Comparato alla decrescita media europea dello 0,7% è evidente che la spirale discendente Italiana è particolarmente grave (Giannola 2015).

Il PIL non è l'unica dimensione, tuttavia, in cui l'Italia ha progressivamente perso terreno. Da una quindicina d’anni, gli indicatori di povertà e di disuguaglianza economica hanno iniziato a muoversi nella direzione sbagliata e altrettanto allarmanti sono le recenti misurazioni sull’efficienza istituzionale e sulla libertà politica/personale delle persone, che rivela come l'Italia occupi l'ultimo posto tra i Paesi dell'Europa occidentale nel 2017 World Press Freedom Index (Index Reporters without Borders) e nell'Indice della Percezione della Corruzione (Index Transparency International).8

Sebbene sia necessario ricordare come questi indicatori siano soggetti a una serie di critiche metodologiche, poiché riflettono solo una parte di una storia molto più complessa, unitariamente sono un indicatore preoccupante.