E’ l’avverarsi di due conflitti mondiali a cambiare il piano della percezione della guer- ra, delle sue dimensioni e delle sue cifre, nonché del suo terribile impatto sulla società civile, tradizionalmente lontana dai campi di battaglia. L’impatto della capacità distruttiva di nuovi armamenti, poi, muta i tradizionali equilibri e scacchieri sui quali la guerra ve- niva considerata: e gli scenari che si aprono alla percezione di un’umanità accecata dal lampo di Hiroshima sono tali da indurre nuove riflessioni. E’ in questo contesto che va letta la Pacem in terris di Giovanni XXIII, con quel suo perentorio rifiuto dello ius gladii nella soluzione delle controversie che lacerano l’umanità, con quel suo porsi al di fuori del solco tracciato nei secoli a delimitare i confini tra guerra giusta e guerra ingiusta, tra croce e spada. Questi echi e queste preoccupazioni percorrono ed innervano anche l’aula conciliare, allorquando si discute della guerra nella cornice segnata dalla Gaudium et Spes, dove il ragionamento intorno alle ragioni dei conflitti ed il richiamo al rispetto assoluto dell’essere umano recuperano però larghi margini delle elaborazioni legate alla tradizione canonistica. E se va “condannato con estremo rigore” l’orrendo delitto in cui si sostanziano “i metodi sistematici di sterminio di un intero popolo, di una nazione o di una minoranza etnica”, “deve invece essere sostenuto il coraggio di coloro che non temono di opporsi apertamente a quelli che ordinano tali azioni”. Rispetto all’intonazione utopica della Pacem in terris, il testo conciliare, nella sua altissima ispirazione, prende realistica- mente atto come “la guerra non è purtroppo estirpata dalla condizione umana”. Il Dio cristiano dunque vuole evitare la guerra ma non può rifuggire dal giustificare come legit- tima la difesa, sia pure con la forza militare: non potendo i fedeli rimanere indifferenti alle “azioni manifestamente contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali, non di- versamente dalle disposizioni che le impongono” e che sostanziano veri e propri crimini.
E’ questo, in buona sostanza e ridotto all’osso, il portato del Catechismo della Chiesa cattolica, edito nel 1992 e nel quale rifluisce il magistero sia di Paolo VI che di Giovanni Paolo II. Dunque il problema che il Concilio, e tutta l’elaborazione successiva, ponevano non era solo quello, genericamente pacifista, del rifiuto della guerra: ma quello, sem- mai, di legare in un unico ragionamento violenza e giustizia: non solo non vi può essere legittimazione per una guerra che non sia giusta, ma anche la pace deve essere giusta; ponendosi, questi due aspetti, come facce di una stessa medaglia. In questa prospettiva vanno collocati anche gli interventi di straordinario rilievo registrati durante il pontificato di Woijtyla sulla guerra del Golfo: dove, ben al di là delle ragioni contingenti che scate- navano del conflitto, si toccava il grande tema dello squilibrio non tollerabile sul quale il mondo post-moderno poggiava, ponendo in maniera profetica l’accento sulla necessità di perseguire la giustizia e sulle relative responsabilità del mondo occidentale avanzato.
assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere stabile l’equilibrio delle forze contrastanti, né è effetto di una dispotica dominazione, ma essa viene con tutta esattezza definita opera della giustizia». In termini più generali, è la stessa endiadi iustitia et pax a qualificarsi come sostegno dell’intero universo del diritto, compreso quello canonico: la scissione della prima dalla seconda rende quest’ultima ingiusta. E come non di rado il dato disincantato di realtà insegna, la vera pace deve essere restaurata attraverso una guerra riparatrice: solo in una società irenica ed utopica, dunque immaginaria, ogni pace - cioè il silenzio delle armi - è aprioristicamente giusta.
Ma nella geometrica accelerazione della storia, pur rimanendo la guerra un fatto pur- troppo reale, lo scontro tende a spostarsi nel regno della virtualità, introducendo, la ci- viltà della comunicazione, una moltiplicazione di modelli comportamentali eversiva della stessa antropologia che un passato connotato dal sacro ci ha consegnato. E’ sul crinale di questo conflitto (altro che villaggio!) globale, popolato, come in un video game, da nuovi idoli e divinità che il Dio della croce e della spada – sortito come altri dalla vertiginosa solitudine del deserto – rischia la propria stessa sopravvivenza.
2.Gli dei dell’immagine e l’immagine di Dio: i lineamenti di un’inedita guerra
In questo senso vanno colte le ansie crescenti della Chiesa, legate anche (e non se- condariamente) alla sua fragilità mass-mediale, al non essere, per propria natura, adat- tabile agli stilemi comunicativi invalsi nella contemporanea ‘babilonia’ dello show a tutti i costi che spiega ogni giorno di più la sua invincibile potenza. L’offensiva proveniente oggi dall’esterno alla compagine ecclesiastica non si situa più solo, come in passato, sul ver- sante ideologico: ma si sposta sul terreno della presenza virtuale nei circuiti della grande comunicazione, nei quali, d’altronde, lo sminuzzamento e la sconnessione di contenuti, immagini e parole - tanto più efficaci quanto più violente, massimaliste e irriflesse - di- ventano impraticabili e indicibili per la Chiesa, sia per ciò che riguarda la sostanza del suo messaggio sia per ciò che concerne uno stile ed un lessico adeguati
Vi è poi un modo ancora più micidiale per rendere più gracile l’auctoritas della Chiesa, la cifra della sua attuale incidenza tra gli uomini: esso è affidato semplicemente all’oblio, alla sparizione dai palinsesti che contano nelle programmazioni dei network radio-televi- sivi. Nell’odierna civiltà della telecomunicazione e della multimedialità ormai già tradot- tasi nella (in)civiltà dello spettacolo, non essere presenti equivale ad essere morti o, nel migliore dei casi, essere condannati all’impotenza prima e ad una liquidazione silenziosa poi.
La Chiesa, in tale contesto, deve affrontare un’ostilità diffusa per conquistare palmo a palmo un diritto di cittadinanza sinora indiscusso ed anzi privilegiario.
In questo declino essa registra una perdita di rilevanza tale da non qualificarla più, nei fatti se non nelle pretese giuridiche, come potenza internazionale in grado di benedire o meno la legittimità di un conflitto.
Il punto è che la stessa sopravvivenza del sacro rischia di essere avvertita come ele- mento di contrasto, se è vero, come è vero, che ormai niente può e deve frapporsi alla circolazione integrata e planetaria di immagini e merci, ormai non più scindibili. Come in una sorta di circuito elettrico nulla deve ostruire il passaggio della corrente, rallentando- ne la corsa, così nel circuito degli scambi sempre più spediti di informazioni e di prodotti di consumo bisogna assolutamente evitare che elementi spuri si collochino come luoghi di resistenza, creando isole di impermeabilità alla penetrazione di mercati sempre più sofisticati e di massa, nonché a basso costo.
La fede religiosa - almeno nelle grandi tradizioni monoteiste, le più strutturate dog- maticamente e forgiate nel crogiolo di una storia combattente di molti secoli – irriduci- bilmente pretende di tradursi in uno sguardo esigente, che ambisce ad abbracciare la totalità della vita individuale e collettiva, nelle sue pieghe più profonde, ma anche negli aspetti minuti scanditi dal trascorrere delle ore, dal momento che nulla sfugge all’occhio di dio ed al suo infallibile giudizio.
Viceversa, nella realtà nella quale siamo immersi, la moltiplicazione schizofrenica dei modelli comportamentali, il venir meno delle ragioni di un’etica condivisa, la leggerezza ondivaga con la quale è consentita la volubilità delle scelte e la loro bassa sostenibilità nello scorrere del tempo, aprono la strada ad un relativismo inconciliabile con un impian- to dogmatico rivelato e difficilmente modificabile.
La religione non è più utilizzabile come instrumentum regni, ma diviene ostruzione al transito di una civiltà dove ognuno deve trovare le ragioni del suo stesso esistere al di fuori di qualsiasi paradigma di condivisione. Anzi, l’atomizzazione e la parcellizzazio- ne individuale sono condizioni per un’ulteriore prosperare dell’età della tecnica che già trascolora nella civiltà dell’immagine. Questo tentativo (e questa impellenza trainata dal progresso tecno-economico) di svellere gli uomini dal proprio radicamento ad una terra e ad una etnia (migrazioni spontanee o coatte, internazionalizzazione, una sola lingua per tutti …) si rivela funzionale ad un processo di progressiva ma inesorabile concentrazione e pianificazione economica prima, politica poi: fenomeno inedito, potente ed inaudito nella storia umana, che sottende un vero e proprio mutamento antropologico.
La variante decisiva, infatti, è rappresentata dall’affermarsi di una capacità tecnica dell’uomo che ha tolto progressivamente spazio alle narrazioni tradizionali sulla propria genesi e sui propri destini, contendendo al sacro, per il tramite di una razionalità fattasi
dominio, il suo ruolo di mediazione tra il comprensibile ed il mistero, tra il cielo e la terra. Se ne vedono, proprio in questi giorni, gli sviluppi imponenti nelle rivolte che sconvolgono il mondo islamico, innescando probabilmente un processo di secolarizzazione fulmineo, inaspettato e, proprio per questo, dagli esiti incerti. Così come per il mondo cristiano, su questa frontiera si giocherà anche la sopravvivenza dell’Islam, soggetto ora al rischio (al di là dei rigurgiti sempre possibili di un neo-fondamentalismo) di perdere, nel suo evol- vere verso un processo di integrazione planetaria, il proprio principio di individuazione millenario, con il suo irrinunciabile ancoramento alla vita ed alla Parola del Profeta. Quel Profeta contro il quale, in altro tempo, un Dio guerriero muoveva, brandendo croce e spada, una guerra vera: ritenuta allora, certo con una colpevole ingenuità che la storia ha già riscattato, giusta e santa.
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A Fundação AIS é uma fundação pontifícia, que tem por missão apoiar os que são perseguidos, ameaçados ou refugiados por causa da fé. Somos uma instituição que sur- giu em 1947 no pós-guerra com o objectivo de apoiar os milhões de refugiados alemães. Desde então a nossa missão e actuação foi evoluindo e adaptando-se às necessidades do mundo. Hoje estamos presentes e apoiamos cerca de 140 países e anualmente financia- mos cerca de 5000 projectos.
Um dos pilares da nossa missão é a informação. E é por isso que regularmente elabo- ramos um relatório sobre liberdade religiosa no mundo, em que cada país é analisado em termos da Constituição e do que está inscrito na mesma relativamente à religião sendo depois analisada a situação real, da vida do dia-a-dia em termos de liberdade religiosa. Iremos fazer a apresentação do relatório de 2014 no próximo dia 4 de Novembro, em Lisboa, no auditório da Assembleia da República.
Embora a liberdade religiosa seja um dos direitos fundamentais do Homem, confor- me o artigo 18 da Declaração Universal dos Direitos Humanos (1948):
Todo o homem tem direito à liberdade de pensamento, consciência e religião; este direito inclui a liberdade de mudar de religião ou crença e a liberdade de manifes- tar essa religião ou crença, pelo ensino, pela prática, pelo culto e pela observância, isolada ou colectivamente, em público ou em particular,
Verificamos que este direito está ameaçado em praticamente todo o mundo.
É por isso que para nós, Fundação AIS, é muito importante dar a conhecer a situação actual no mundo e agirmos para ajudar os que vivem em países onde a liberdade religiosa está em causa.
1 Directora Nacional da Fundação AIS.