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Alcuni dati

Secondo le cifre ufficiali, gli uomini arruolati nell’esercito regio tra il 1915 e il 1918 furono poco meno di 6 milioni, vale a dire un sesto della popolazione italiana censita nel 1911; di questi circa 600.000 non faranno ritorno a casa, mentre il numero degli invalidi arriverà a poco meno di 500.000, la metà circa dell’insieme complessivo dei feriti137. Le Marche, come le altre

regioni dell’Italia centrale, furono costrette a pagare un tributo decisamente alto all’insaziabile fame di uomini manifestata dall’esercito nel corso del periodo bellico. Alla conclusione del conflitto, il numero dei “tenuti alle armi”, di coloro dunque che andarono ad ingrossare le fila dell’esercito, ammonterà a 174.197 unità, quasi il 90 per cento dei “maschi in età militare” censiti nel 1911 (194.086)138, una percentuale alta per una

regione in cui i processi emigratori erano decisamente estesi. Considerando che le famiglie marchigiane censite al 1911 erano 213.905 (per una media di 5,1 membri)139, supponendo che i

reclutati si distribuissero uniformemente, si può affermare che 8

137 I dati ufficiali sulla consistenza dell’esercito negli anni di guerra sono

rintracciabili nella pubblicazione del Ministero della Guerra, Ufficio statistico, Statistica dello sforzo militare italiano nella prima guerra mondiale, vol. II, La forza dell’esercito, Roma 1927; mentre i dati ufficiali relativi alle perdite si trovano nei volumi del Ministero della Guerra, Militari caduti nella guerra nazionale 1915-1918. Albo d’oro, Roma 1924-1964.

138 I dati relativi ai “tenuti alle armi” e ai “maschi in età militare” marchigiani

sono tratti da Ministero della Guerra, Ufficio statistico, Statistica dello sforzo militare italiano nella prima guerra mondiale, cit.., tavola b) Militari del R. Esercito tenuti alle armi – Ripartizione per distretto e classe, s.p..

139 Ministero della Guerra, Ufficio statistico, Statistica dello sforzo militare

famiglie su 10 vennero coinvolte nella macchina della guerra con il reclutamento di uno dei membri. Fermo restando che la verità statistica non sempre è una verità di fatto – se alcune famiglie non avevano componenti in età militare, altre, come vedremo, ne contavano più di uno –, il calcolo conferma comunque quanto, anche in questo direzione, fu vasto e capillare il coinvolgimento della comunità regionale nell’esperienza della guerra.

Tra coloro che furono “inquadrati nei corpi”, i caduti saranno (entro il 1920) ben 19.449, l’11,2%, la percentuale maggiore di tutte le regioni del Centro-Nord. Undici soldati su cento non rientreranno a casa: un rapporto decisamente cruento se si pensa che una parte dei 174.197 soldati in realtà non partecipò ad azioni di guerra al fronte, ma rimase in loco, nei presidi o nei servizi e nelle produzioni direttamente connesse con la guerra. A pagare con la vita furono principalmente i giovani appartenenti alle classi di età comprese tra il 1889 e il 1897, coloro dunque che allo scoppio della guerra avevano tra i 18 e i 25 anni. Fra loro, i morti arrivarono – sempre entro il 1920 – al 13,6%, con un picco fra i nati nel triennio 1889-1891 che giunse al 15,8%. L’arma che sacrificò per la grandezza della patria il maggior numero di individui fu la fanteria, protagonista assoluta della guerra di trincea, a cui appartengono il 71% dei soldati marchigiani caduti, seguita a lunga distanza dall’artiglieria, 7,1% e dai bersaglieri, 6,1%. E, fatto altrettanto drammatico, a determinare tutte queste vittime non furono solamente bombe e granate, fucili e cannoni; di fronte a un 43,6% di morti sul campo o per ferite sta un 40,2% di caduti per malattie contratte sotto la guerra, causate dai disagi, dalle tribolazioni e dalle epidemie di cui essa fu dispensatrice. Relativamente ai morti per malattia, il picco lo si ha nel 1918 (4.522) a causa della diffusione della “spagnola”; mentre per quel che riguarda i caduti per ferita, l’anno più drammatico fu il 1917 (2.729), anche se il primato, tenendo conto del numero effettivo dei mesi di combattimento, spetta al 1915 (2.086). Rispetto al distretto di provenienza poi, il primato del maggior

numero di caduti in relazione al complesso dei giovani arruolati, spetta alla provincia di Ascoli Piceno, 11,5%, seguita dalla provincia pesarese-urbinate, 11,3% (Ancona e Macerata si fermano all’11%)140.

Se nel complesso, le quattro province presentano un rapporto morti/militari sostanzialmente coincidente, al loro interno il peso del dolore e del lutto per i familiari deceduti al fronte non si distribuì in modo omogeneo lungo tutto il territorio, ma incise in maniera più o meno profonda a seconda della struttura sociale delle singole comunità; il carico di morte pesò particolarmente là dove il tasso di ruralità era maggiore. Un aspetto questo che emerge dagli elenchi di caduti dei vari comuni via via pubblicati negli anni immediatamente successivi alla conclusione del conflitto ad opera di società ed istituzioni locali; benché in qualche caso risultino poco affidabili e non sempre tra loro comparabili, questi elenchi, riportati sui monumenti e sulle lapidi commemorative presenti in numerosi comuni, forniscono nel complesso indizi estremamente utili per la ricostruzione del fenomeno. I dati ricavati da uno studio141

che delinea la geografia dei monumenti delle guerre disseminati all’interno della provincia pesarese urbinate, testimoniano come i centri urbani maggiori o ancora le comunità che presentavano allora un assetto sociale più

140 I dati relativi al numero complessivo dei soldati marchigiani caduti in

guerra - distinti per anno e distretto di nascita, per classe d’età e per causa del decesso, per “corpo”, arma e grado -, si trovano in Ministero della Guerra, Militari caduti nella guerra nazionale 1915-1918. Albo d’oro, vol. XIII, Le Marche, Roma 1933, tabb. 1-4, pp. 651-653. Il confronto tra il contesto marchigiano e quello delle altre regioni si rifà alle elaborazioni di Simonetta Soldani, La grande guerra lontano dal fronte, in G. Mori (a cura di), La Toscana, “Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi”, Torino, Einaudi, 1986, tab. 1, p. 358.

141 M. Tenti, La memoria storica tra parola e immagine. I monumenti celebrativi

nella provincia di Pesaro e Urbino dal Risorgimento alla Liberazione, Urbino, QuattroVenti 1995. Il volume riporta in appendice i nomi dei caduti dal Risorgimento alla Liberazione attinti dalle epigrafi censite nel corso della ricerca distinti per comune.

articolato ebbero da piangere un numero di giovani proporzionalmente minore delle aree nettamente ed esclusivamente rurali: i due estremi sono rappresentati da Fano, dove i militari caduti risultano essere meno del 2 per cento della popolazione maschile censita nel 1911142, e Lunano, con l’8,6 per

cento. In mezzo, la schiera dei restanti comuni presi in esame, che presentano un aumento del peso percentuale dei caduti man mano che dalla costa si risale verso l’entroterra: se Saltara, Gradara e S. Giorgio di Pesaro si mantengono al di sotto del 4 per cento, alcuni dei comuni a ridosso degli Appennini, come Maiolo, S. Agata Feltria, Talamello, Piandimeleto e Cantiano presentano valori compresi tra il 5,8 e il 7 per cento; altri comuni dell’interno, come Fossombrone, Urbino e Macerata Feltria, dotati di una rete di servizi o di piccole industrie, presentano valori non distanti da quelli registrati nel primo gruppo di comuni. In sostanza, è possibile affermare che la prima guerra tecnologica del XX secolo pretese un tributo di vite maggiore tra coloro che erano più lontani da tale dimensione. I giovani contadini, abbandonato l’isolamento culturale in cui si trovavano immersi, vennero scaraventati in un universo di immagini, suoni ed emozioni, per intendere le quali mancava loro ogni parametro e punto di riferimento. Così, in alcune piccole comunità rurali dell’entroterra pesarese, ma il dato è estendibile anche al resto delle comunità rurali della regione, appena il fragore della guerra venne meno, la schiera degli uomini giovani e adulti si era sensibilmente assottigliata; in qualche caso l’incidenza del numero di caduti fu tale che un’intera generazione uscì dalla guerra pesantemente ridimensionata: nel caso del comune di Lunano, se si escludono i bambini e gli anziani, si vedrà che quasi due maschi su dieci censiti nel 1911, non saranno presenti alla conclusione del conflitto. La Grande guerra costituì per questa

142 Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Direzione generale della

statistica e del lavoro, Ufficio del Censimento, Censimento della popolazione del Regno d’Italia al 10 giugno 1911, Vol. III, L’alfabetismo della popolazione presente (tav. V), pp. 159-160.

massa di individui semianalfabeti spediti al fronte e per i loro familiari un evento fortemente traumatico che scosse equilibri e modelli di vita e incise pesantemente a livello psicologico, determinando, non senza traumi, l’emergere di comportamenti e modi di pensare del tutto inediti. Nelle testimonianze autobiografiche e nella corrispondenza tra il fronte e il territorio regionale, recuperate e qui proposte, emerge chiaramente l’intensità delle tensioni psicologiche che colpirono i giovani chiamati a sperimentare l’esperienza della prima linea - originando per alcuni l’emersione di vere e proprie patologie mentali - e i loro familiari, genitori e mogli, rimasti a casa, i più a lavorare la terra, tutti ad allevare i figli in una lotta continua al fine di garantire giorno dopo giorno la loro e la propria sopravvivenza.

L’impatto della guerra sulla comunità (civile) marchigiana fu tale da determinare una profonda lacerazione nel trend demografico. Mentre i dati del censimento del 1921 riflettono gli effetti di tale ferita solo in forma appannata e attutita, un’analisi del numero dei matrimoni, dei nati e dei morti143

registrati lungo gli anni del conflitto e in quelli immediatamente precedenti, mostrano come la partenza per il fronte di un numero così imponente di uomini, unitamente ad progressivo peggioramento della condizione di vita per una quota importante della popolazione civile, provocò un indebolimento dell’assetto demografico regionale. Accanto al calo del numero di matrimoni sceso vertiginosamente da una media annua di 8.059 per il triennio 1912-1914 ad una media annua di 4.175 per il quadriennio bellico, si assiste ad una forte contrazione delle nascite. Così il numero medio annuo dei nati passa da 38.275 a 27.941: sono oltre 41.000 i bambini che sarebbero dovuti nascere, che avrebbero visto la luce se non ci fosse stata la guerra, e che non nacquero mai; tanti da aprire un

143 Rielaborazioni dei dati contenuti in Ministero di Agricoltura, Industria e

Commercio, Movimento della popolazione secondo gli atti dello stato civile, anni 1912-1918.

vuoto profondo che modificò sensibilmente la struttura per età della popolazione marchigiana, la cui impronta appare nitida ancora nel momento della rilevazione del dicembre 1921: il numero di bambini sotto i cinque anni, che nel 1911 rappresentavano il 12,8% della popolazione, crollarono dieci anni dopo a quota 9,9%144. Una caduta da ricondursi ai richiami

in massa alle armi e al massiccio diradarsi dei matrimoni, ma anche ad altri fattori quali la quantità di cibo disponibile o prevedibile, lo stato di salute di una comunità, in qualche caso l’abbandono dei luoghi consueti di vita e di lavoro, la speranza nel domani: immerso in un’interminabile attesa di pace, il fronte interno sembrò sprofondare in un clima di severa compartecipazione ai lutti, individuali e collettivi, reali e potenziali, della guerra. Ma il dato più significativo sono i 18.542 morti in più che le Marche fanno registrare nei quattro anni di guerra rispetto alla media del triennio 1912-1914, di poco al di sotto del numero di persone decedute nel corso del 1912 (19.234). Già prima della grande epidemia influenzale del 1918 che causò solo nei primi dodici mesi oltre 8.000 morti145,

cominciarono a crescere le probabilità di morte, soprattutto ai due poli della piramide d’età, così come crebbero le malattie croniche, le fragilità infantili e senili146. Ne deriva che nel

periodo bellico, il saldo demografico si assottiglia sempre di più fino a diventare negativo nel corso del 1918 quando il numero dei morti supera di oltre 15.000 unità il numero dei nati. Mentre un raffronto tra i dati raccolti nei censimenti del 1911 e del 1921, testimoniano una crescita consistente della popolazione nelle

144 Ministero di Agricoltura, Industria, e Commercio, Censimento della

popolazione del Regno d’Italia al 10 giugno 1911, Roma, 1914; vol. II, Istituto Centrale di Statistica, Censimento della popolazione del Regno d’Italia al 1° dicembre 1921, Roma 1927, vol. XI, Marche.

145 G. Mortara, La salute pubblica in Italia durante e dopo la guerra, Bari, Laterza

1925, p. 260.

146 S. Soldani, Donne senza pace. Esperienze di lavoro, di lotta, di vita tra guerra e

dopoguerra (1915-1920), in “Annali dell’Istituto “Alcide Cervi”” n 13/1991, Il Mulino, Bologna 1991, p. 38.

Marche – crescita ascrivibile al blocco delle emigrazioni e ai diffusi fenomeni di rimpatrio147 – con un incremento medio

annuo, sia nel caso della popolazione residente sia nel caso della popolazione presente, sensibilmente superiore a quello registrato su scala nazionale, gli elementi appena ricordati manifestano con chiarezza come tutta la comunità regionale, civile e richiamata alle armi, “partecipi intensamente al dramma della nazione in armi”148.

L’impenetrabile isolamento in cui vive buona parte della popolazione, già scalfito dai precedenti flussi migratori, viene ora rotto dal prorogarsi della guerra che non coinvolge solo coloro che vennero inviati al fronte, ma anche coloro che rimasero a casa, in particolare le donne chiamate ora a prendere in mano la gestione del lavoro e della famiglia. Si tratta però, come vedremo, di un “ingresso nella collettività nazionale”149 che i protagonisti tutti subiscono, in buona

sostanza ignari e inconsapevoli del ruolo che sono chiamati ad assumere. Per molti, l’ingresso nella collettività nazionale, non fu altro che una parentesi vissuta come qualcosa di inevitabile, un ulteriore stato di difficoltà a cui bisognava fare fronte, in attesa che l’emergenza venga superata e che ogni cosa torni al suo posto: “Fatevi coraggio che tutto passa” scrive Fiorindo Quacquarini alla moglie, per poi aggiungere altrove “come fai tu mi sta bene, nel mio ritorno mi consegnerai il comando”150.

Così alcuni anni dopo la conclusione del conflitto, Francesco Coletti in un articolo apparso su “Il Corriere della Sera” nell’agosto del 1923 con il titolo eloquente Una regione equilibrata, sottolinea gli “elementi costitutivi delle Marche

147 P. Sabbatucci Severini, Evoluzione demografica ed economica delle Marche nel

periodo tra le due guerre, cit., pp. 16-17.

148 E. Sori, Prefazione a P. Gubinelli, Il paese più straziato. Storie di marchigiani

nella grande guerra, Ancona, Affinità Elettive, 2005, p. 8.

149 P. Magnarelli, Società e politica dal 1860 a oggi, cit., p. 181.

150 A. Palombarini, Cara consorte. L’epistolario di una famiglia marchigiana dalla

grande emigrazione alla grande guerra, Ancona, Il Lavoro Editoriale,1998, pp. 41-46.

sono così ben proporzionati fra loro che queste, dopo un po’ di oscillazioni attorno all’asse, si ricompongono assai facilmente nello stato primitivo”151. Si dovrà attendere la conclusione del

secondo conflitto mondiale affinché le “pulsioni” accumulate nella prima metà del secolo potessero manifestarsi con forza dando luogo ad un veloce processo di modernizzazione, i cui termini verranno chiariti in seguito, che avrebbe determinato una disarticolazione, senza possibilità di ritorno, dell’impianto economico e sociale regionale.

“Quest’orribile Carso”. I luoghi delle battaglie

Poche settimane dopo l’entrata in guerra, le considerazioni circa l’effettiva durata del conflitto, presentato per mezzo della propaganda interventista, come di breve durata e dall’esito vittorioso, vengono drammaticamente sconfessate dagli eventi che si susseguono sui campi di battaglia; la prospettiva di un conflitto di lunga durata si è ormai da tempo largamente delineata, soprattutto per effetto degli avvenimenti sul fronte occidentale dove si registrava una posizione di stallo. Il marchese Adriano Colocci di Jesi, colonnello degli Alpini e convinto irredentista, poche settimane dopo l’ingresso in guerra dell’Italia annota nel suo diario:

La guerra sarà lunga e sanguinosa; gli scopi nostri sono di non facile realizzazione. Il sacrificio che incombe alla nazione […] sarà certo assai maggiore di quanto la massa non creda152.

151 F. Coletti, La popolazione rurale in Italia e i suoi caratteri demografici,

psicologici e sociali, Federazione Italiana dei Consorzi Agrari, Piacenza 1925, p. 189.

152 D. Pela, La “grande guerra” nelle memorie autobiografiche di Adriano Colocci,

Nondimeno le illusioni di una guerra breve continuano per diverso tempo a sopravvivere nella fila dell’esercito, soprattutto perché corrispondevano a una speranza diffusa principalmente tra i soldati appartenenti ai ceti popolari, mandati a combattere un conflitto di cui faticano a riconoscere le motivazioni, i quali, spesso, nelle lettere inviate a casa, chiedono di sapere cosa si dice circa la fine della guerra: Cara Anna quando mi scrivi fammi sapere – la richiesta è avanzata da Augusto Della Martera, un giovane contadino di S. Pietro in Calibano (oggi Villa Fastiggi, quartiere di Pesaro) che si rivolge alla moglie nell’ottobre del 1915 – che cosa dicono di noi e se si sente nulla dire della pace che allora mi potresti dare qualche consolazione153. Sentimenti questi che, seppure in misura

minore, sono rilevabili anche tra le fila dei giovani ufficiali appartenenti alla classe borghese. Si veda in questo senso, il caso di Vincenzo Farina di Ascoli Piceno, il quale nelle numerose lettere inviate alla fidanzata, Jone, mentre si dichiara pienamente consapevole del dovere che è chiamato a compiere affinché “questa nostra patria torni forte e grande e sia vittoriosa”, chiede con insistenza conferma delle notizie che circolano al fronte e che vorrebbero come imminente la firma della pace, tradendo, come lui stesso scrive, un ottimismo non sempre giustificato e sollevando non di rado la reazione della censura:

Nell’ultima mia sarò parso, e credo di essere stato, realmente, troppo ottimista; ma ciò non toglie che la mia opinione resti fermissima, che la pace non si farà aspettare oltre l’inverno. [due righe di censura] … mai io spero che sia l’ipotesi buona a condurci, con un po’ di nostra [censura] alla pace154.

153 P. Sorcinelli (a cura di), Le pallottole sono matte e noi eravamo peggio degli

uccelli. La guerra di Augusto Della Martera 1915-1916, Bologna, Clueb 1990, p. 55.

154 Archivio Diaristico Nazionale di Pieve S. Stefano (d’ora in poi Adn),

Certo è che soldati semplici e ufficiali chiamati a combattere nelle linee avanzate, si rendono ben presto conto che la guerra reale era decisamente diversa da quella immaginata, che le sue caratteristiche non sono in alcun modo paragonabili a quelle delle guerre combattute in precedenza e che in essa non vi era nulla di esaltante. Nei diari e nelle lettere dei combattenti marchigiani chiamati al fronte e nelle stesse testimonianze dei volontari emergono chiaramente lo sgomento per l’impatto con una realtà completamente inaspettata o ancora una rassegnazione mista a rabbia per una guerra che si è chiamati a combattere ma di cui non si comprendono le motivazioni. Giuseppe Miconi di Camerino, radiotelegrafista, impegnato sul fronte macedone, scrive

Oh! Incomincio proprio a vedere con i miei occhi che cosa terribile sia la guerra! E pensare che un tempo quasi ne ero favorevole. Son certo che tutti coloro che restano indifferenti alla parola guerra è perché non l’hanno né vista né provata155.

Lo stesso colonnello Colocci che aveva preso parte convintamente alle manifestazioni interventiste, nell’estate del 1915, a poco più di due mesi dall’avvenuto ingresso dell’Italia nel conflitto bellico, di fronte ad una “mortalità impressionante” annota sul suo diario che “la guerra è in fondo una scena ripugnante e assurda!”156. Altri ancora come Eugenio

Lavatori, bracciante della provincia di Ancona, che dichiara il suo dissenso alla guerra in un diario che poi titolerà Diario di un soldato che non voleva fare la guerra, pensando “alle nostre famiglie care ai nostri vecchi genitori che piangono tanto la nostra disperazione e i nostri disagi di vita”, dichiara di volersi

155 Adn, Diario Miconi, p. 30.

156 D. Pela, La “grande guerra” nelle memorie autobiografiche di Adriano Colocci,

affidare a Dio “che lui è il nostro padrone lui puole fare ciò che vuole speriamo e preghiamo che presto finisca questa guerra che rovina giornalmente migliaia di famiglie ebbene sarà destinato così se dobbiamo morire moriremo”157.

Analogamente, Vitaliano Marchetti, classe 1892, di Ancona, appartenente al diffuso ceto urbano di artigiani e commercianti che caratterizzava l’attività produttiva del capoluogo regionale, si esprime polemicamente nei confronti di coloro che presero parte alle manifestazioni interventiste a sfondo irredentista che si erano svolte precedentemente nella sua città d’origine:

O’ il mezzo di potervi mandare questa – scrive al cognato in una lettera del dicembre 1916 – per potervi raccontare un po’ la vita che si fa fra queste terre redenti, che andavano a fare delle propagande, delle conferenze che facevano questi anconetani. Se avrò la fortuna sempre di poter ritornare fra voi tutti, che tutto al giorno il mio pensiero è sempre a voi

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